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I gruppi nella prospettiva della psicologia sociale

storia



I gruppi nella prospettiva della psicologia sociale


1. L'interesse per i gruppi nella psicologia sociale: rapida cronistoria critica

L'interesse per i gruppi da parte della psicologia sociale ha avuto oscillamenti storici.

Il funzionamento dei gruppi diviene oggetto d'interesse scientifico negli Stati Uniti intorno agli anni '30 sotto l'azione d'eventi storici, quali la grande crisi economica della fine degli anni '20, fino agli anni del New Deal di Roosevelt.

Per la psicologia sociale, gli eventi storici che andarono dalla grande depressione di fine degli anni '20 alla fine della seconda guerra mondiale provocarono, secondo la ricostruzione che ne fa McGuire, uno spostamento dell'interesse per la misurazione degli atteggiamenti allo studio dei processi di gruppo, che con tutta evidenza avevano avuto un ruolo negli eventi successivi. Gli psicologi sociali si sentirono chi 949e48j amati al compito «più urgente e dinamico di scoprire in che modo l'azione sociale possa essere controllata e manipolata per cambiare gli atteggiamenti e il comportamento, invece di limitarsi a misurarlo». Tale bisogno di comprensione non si manifesta solo nella psicologia sociale.

Oltre agli eventi storici, altre pressioni di natura scientifica avevano cominciato a porre in evidenza, alla fine degli anni '20, l'importanza dello studio dei gruppi ristretti: ci riferiamo alle ricerche condotte presso gli stabilimenti Hawthorne della Western Electric Company, in cui Elton Mayo mise in evidenza l'incidenza dei «fattori umani» sulla produzione e del gruppo come forte organizzatore del comportamento degli individui. «In generale, si determinò che la produttività del gruppo era funzione della soddisfazione lavorativa dei suoi membri, soddisfazione che a sua volta dipendeva dalla struttura sociale che il gruppo si dava in maniera informale».



Secondo la ricostruzione svolta da McGuire a proposito dei centri d'interesse della psicologia sociale, i processi di gruppo sono stati vigorosi negli Stati Uniti nel periodo all'incirca compreso fra la metà degli anni '30 e la metà degli anni '50, dopodiché la ricerca sui gruppi si spostò in Europa, spostamento in cui non fu estranea la preoccupazione americana d'incentivare finanziariamente gli studi sociali in un area geopoliticamente ritenuta delicata per la temuta espansione dell'ideologia marxista. Negli anni '60 col tracciarsi di una psicologia sociale europea, desiderosa d'autonomizzarsi da quell'americana, i temi sulle ragioni di gruppo dal punto di vista lewiniano subirono un declino, per quanto si continuò, seppure da prospettive diverse, ad occuparsi di fenomeni di gruppo.

Gli psicologi sociali si differenziarono fra chi adottò una prospettiva individualistica e una collettivistica. Nella prospettiva individualistica si ritiene che la gente nei gruppi si comporti suppergiù come farebbe in una diade o da sola e i processi di gruppo non sono niente di sostanzialmente diverso da processi interpersonali fra un certo numero d'individui. Nella prospettiva collettivistica (o sociale) si ritiene che il comportamento della gente nei gruppi sia influenzato da processi sociali particolari e da rappresentazioni cognitive che possono emergere solo in gruppo e solo da questo originarsi.


2. Il gruppo in psicologia sociale fra luci e ombre

Secondo Tajfel esiste un pregiudizio epistemologico per cui l'uomo considerato singolarmente è un essere che procede nella conoscenza del mondo in modo razionale, mentre quando si trova in gruppo, piccolo o grande che sia, perde la propria razionalità e si comporta in modi prerazionali, quando non francamente «primitivi». L'autore appena citato sostiene che per quanto riguarda la conoscenza del mondo naturale è utilizzato un modello razionale d'uomo, che usa le proprie capacità d'indagine, di comprensione, di ricerca attiva verso il significato allo scopo di adattarsi all'ambiente, mentre per quanto riguarda i fenomeni sociali è impiegato più che altro un modello istintivo- viscerale di uomo, come se nella vita collettiva gli individui perdessero le proprie capacità razionali e fossero guidati da istinti radicati nel proprio passato filogenetico o da tendenze inconsce.

Moscovici e Doise si associano nel denunciare questa visione pessimistica dell'uomo sociale come di un individuo che appena si riunisce ad altri perde le proprie capacità, come se fosse più difficile adattarsi ai propri simili che all'ambiente fisico. Gli esempi di ricerca che sottendono questa concezione sono numerosi.

«È diventata una prassi spiegare con l'individuo ciò che funziona e con il gruppo ciò che non funziona».

L'essere umano è per sua natura sociale, in quanto predisposto geneticamente al rapporto con gli altri, senza i quali la sua sopravvivenza sarebbe impossibile. La socialità umana si svolge in parte non irrilevante nei gruppi, da quello della famiglia, a quello dei compagni di gioco, delle aule scolastiche, delle squadre sportive, dei gruppi di lavoro, delle associazioni. Il comportamento sociale non si svolge solo nell'ambito di queste appartenenze dirette, faccia a faccia, ma anche in più ampie appartenenze che lo connotano, com'è il caso delle appartenenze religiose, politiche, nazionali, etniche e così via.

Queste considerazioni così generali da apparire ovvie hanno lo scopo di rilevare che di là del loro «destino scientifico», i gruppi costituiscono una «inevitabile esperienza sociale» per la totalità degli esseri umani, in una permanente dialettica per cui gli individui influenzano il gruppo e da questo sono influenzati, dialettica non priva di tensioni e conflitti, tanto che in un modo piuttosto provocatorio Moscovici afferma che il rapporto individuo- società, che è al cuore della psicologia sociale, è difficilmente un rapporto pacifico e armonioso, essendo più frequentemente di tipo conflittuale, per cui si potrebbe sostenere che «la psicologia sociale è la scienza del conflitto fra individuo e società».

Studiare i gruppi dal punto di vista della psicologia sociale significa occuparsi sia dell'individuo che si rapporta nei modi più svariati con le realtà gruppali, sia dei modi di funzionare del gruppo stesso, modi che non sono una semplice addizione delle individualità che lo compongono, sia dei rapporti fra i gruppi. Non tutte le ricerche psicosociali arrivano a risultati penalizzanti per i gruppi: all'immagine della folla come gruppo depersonalizzante e irrazionale si oppone quella di un gruppo in cui l'identità sociale degli individui diviene basilare e i bersagli d'azione non sono irrazionali, ma sono scelti in funzione d'obiettivi precisi.

Il sociologo Elias rileva che molti aspetti delle società umane non possono essere spiegati in termini di contributi e d'idee individuali, «neppure pensando in termini di un'accumulazione di quelle idee», ma devono essere spiegati in termini di «sviluppo sociale», espressione che si riferisce al continuo intrecciarsi «dei piani e delle azioni degli esseri umani che agiscono in gruppo». In realtà, tutto ciò che è descritto come «processo sociale», con i suoi sviluppi e innovazioni, sono il prodotto unico e originale dell'interdipendenza funzionale d'individui e gruppi.

Lewin è stato il primo autore che ha mostrato come le decisioni di gruppo possono essere tecniche di mutamento di costumi consolidati.

L'idea innovativa di Lewin fu quella di non ricorrere a tecniche di persuasione individuale, ma di tentare di mutare delle norme di gruppo, più potenti poiché potevano determinare cambiamenti individuali.

È importante rilevare che per Lewin una conferenza e una discussione possono essere efficaci nel suscitare motivazioni nella direzione voluta, ma quest'ultima da sola non è in grado di produrre il mutamento, che presuppone un legame fra motivazione e azione. Tale legame è fornito dalla decisione di gruppo, che sembra avere, come dice l'autore, un «effetto consolidante», dovuto alla tendenza dell'individuo ad essere da un lato coerente con la decisione presa, dall'altro a restare fedele all'impegno preso nei confronti del gruppo.

Le ricerche di Lewin sui gruppi non sono finalizzate solo a conoscerne i fenomeni dinamici, ma anche a mettere a fuoco il problema del cambiamento sociale. In questa logica nascono l'action- research (ricerca- azione) e il T- group. L'action- research è una ricerca in cui sono attivi sia i soggetti- oggetti della medesima, sia i ricercatori in lei impegnati. Con l'action- research Lewin proponeva alla psicologia sociale una metodologia di ricerca che consentiva da un lato di intervenire sulla realtà sociale, dall'altro di trarre dalle esperienze concrete nuovi elementi di conoscenza, in un vitale e dinamico rapporto fra teoria e pratica sociale. Il T- group (training group, gruppo di formazione) è un metodo di formazione attiva di gruppo, in cui i principi nascono in modo quasi casuale nell'estate del 1946 da una sperimentazione formativa di animatori, presieduta da Lewin e da Lippitt. Nel 1947 a Bethel nel Maine nasceva ufficialmente il metodo del T- group, che aveva lo scopo di permettere l'acquisizione di conoscenze su tre livelli di comportamento sociale: quello interpersonale (le relazioni degli individui fra loro), quello di gruppo (il funzionamento gruppale e il suo sviluppo), quello fra gruppi. La novità di questo metodo consiste nella necessità, per ciascun partecipante, di diventare responsabile attivo del proprio apprendimento e cambiamento, poiché l'animatore o conduttore del gruppo ha un ruolo diverso da quello d'insegnante in quanto lui non trasmette le sue conoscenze come nella situazione abituale di una lezione, ma piuttosto ha il ruolo di facilitare e incoraggiare la presa di coscienza dei partecipanti su quanto avviene nel «qui ed ora» del gruppo, cui egli stesso partecipa in modo attivo.

D'altra parte i gruppi non sono solo motori di cambiamento, ma anche situazioni di resistenza al mutamento, di conservazione dello status quo. Un programma di mutamento sociale doveva essere concepito come un processo a tre fasi: il disgelamento del livello precedente, il suo mutamento e, infine, il consolidamento del nuovo livello.

Per quanto riguarda la psicologia dei gruppi, riteniamo che sia assolutamente indispensabile l'alternarsi del campo e del laboratorio e per quanto riguarda il campo, inteso nell'accezione più ampia del termine, rileviamo l'importanza delle inchieste, quanto di studi di tipo osservativo riguardanti lo sviluppo e i fenomeni dei gruppi o movimenti sociali «reali» svolti da osservatori partecipanti, quanto dei quasi- esperimenti cioè le sperimentazioni svolte in contesti reali.

Oltre a queste nozioni di carattere metodologico, crediamo opportuno rilevare come lo studio dei gruppi deve uscire dagli steccati disciplinari, e avvalersi degli apporti conoscitivi d'altre discipline, che si occupano di gruppo: sociologia, antropologia, storia delle idee e dei movimenti sociali, storia delle religioni, economia e altro. Sherif sostiene ugualmente che per studiare i «problemi inerenti alle relazioni umane» è necessario giocare su di un'ampia tastiera interdisciplinare, per quanto egli ammonisca gli psicologi a non improvvisare sociologie personali, e ai sociologi a non impegnarsi in improvvisazioni psicologiche. La necessità interdisciplinare, che chiama a raccolta i contributi conoscitivi di varie specializzazioni, è dovuta al fatto che sui problemi delle relazioni umane esistono vari livelli di analisi, macro e micro, per cui «il controllo incrociato delle osservazioni ottenute ad un livello, con quelle di un altro livello sempre in funzione dello stesso argomento farà si che la cooperazione interdisciplinare divenga quel terreno d'incontro integrativo che dovrebbe essere».


3. Definizioni di gruppo

3.1 Definizioni e tipi di gruppo: alcune notazioni generali

McGrath parte dall'affermazione che se è vero che ogni gruppo è un'aggregazione di individui, ogni aggregazione di individui non è necessariamente un gruppo. Quindi prima di arrivare alla definizione di gruppo, egli stende questa tipologia d'aggregazioni sociali:

aggregazioni artificiali, quali i gruppi fissi o le categorie sociali, i cui componenti sono classificati insieme in base a qualche caratteristica comune, ma che non sono necessariamente implicati in qualche tipo di relazione;

aggregazioni non organizzate, che Giddens chiama semplicemente «aggregati», che sono degli insiemi di individui che si trovano nello stesso luogo e nello stesso momento senza altro tipo di legame;

unità sociali con modelli di relazione, sono insiemi di individui che condividono un set di valori, costumi, abitudini, un linguaggio comune, come le culture, le subculture, le parentele;

unità sociali strutturate, in cui diviene più forte il carattere di interdipendenza e di relazioni strutturate, come una società, una comunità, una famiglia;

unità sociali meno intenzionalmente progettate, come un'associazione o un'organizzazione volontaria o un gruppi di amici.

Queste aggregazioni non sono reciprocamente esclusive, e un individuo partecipa normalmente a più di una di esse. Nella tipologia presentata, esse differiscono su due ampie dimensioni: la base su cui si fondano le relazioni fra i membri, il grado di strutturazione di tali relazioni e l'intenzionalità dello sviluppo di tali strutture; la grandezza dell'aggregato, nei termini del numero d'individui coinvolti. Proprio questi due elementi, secondo McGrath, differenziano fra aggregazioni e gruppi; i gruppi sono per questo autore dei gruppi sociali che implicano reciproca consapevolezza e una potenziale reciproca interazione e che in base a questa definizione sono relativamente piccoli e relativamente strutturati e organizzati.

DeGrada rileva che non è sempre favorevole una netta differenziazione fra gruppo e non- gruppo, dato che fra il gruppo sociale vero e proprio, l'aggregato sociale e la situazione collettiva sono tutt'altro che infrequenti dei casi intermedi; per quanto nei gruppi umani l'interrelazione fra i membri sia una caratteristica di base, quest'interrelazione può manifestarsi «in modi e gradi differenti sempre però, almeno in teoria, rilevabili a livello della condotta manifesta e/o dell'esperienza soggettiva dei membri stessi».

La definizione di McGrath, per quanto limitativa, ci porta al cuore di uno dei principali problemi concernenti i gruppi, vale a dire la grandezza e l'interazione diretta, elementi che distinguono i piccoli gruppi (detti anche «ristretti») e i grandi gruppi (detti anche «estesi»). Come nota opportunamente DeGrada, si deve operare una distinzione fra «piccolo gruppo» e «gruppo faccia a faccia», per quanto entrambi si caratterizzino per il numero limitato dei loro membri: nei piccoli gruppi i comportamenti si conoscono e s'influenzano reciprocamente, per quanto l'interazione diretta e continuativa di tutti i membri non sia una conditio sine qua non (esempi: un piccolo villaggio, una classe scolastica, ecc.); il gruppo faccia a faccia è un gruppo ristretto nel quale tutti i membri interagiscono direttamente, hanno riunioni frequenti anche per un lungo periodo, hanno diversi livelli di strutturazione e ufficialità (ad esempio: piccoli team di lavoro sono gruppi «ufficiali» e «strutturati»).

Bales quando parla di «gruppo» si riferisce indubitabilmente ai piccoli gruppi ad interazione diretta; infatti, per quest'autore la caratteristica di base di un gruppo è costituita dalle relazioni faccia a faccia, mentre la sua ragion d'essere è il perseguimento di un obiettivo comune. Secondo Bales i comportamenti diretti allo scopo o strumentali, che sono messi in atto per il raggiungimento dello scopo comune, determinano nella vita del gruppo tensioni inevitabili che devono essere allentate con comportamenti di tipo socioemozionale o espressivi, in pratica, comportamenti che esprimono direttamente le emozioni degli individui o che riguardano i sentimenti degli altri. Naturalmente, la dimensione comportamentale di tipo socioemozionale può essere sia positiva che negativa, ossia non sono contemplate solo attività come scherzare, lodare ed aiutare gli altri, dare prova di accettazione (area socioemozionale positiva), ma anche mostrare rifiuto ed opposizione, disapprovare, astenersi dall'aiutare, esibire varie forme di antagonismo (area socioemozionale negativa), anche se è prevedibile che la centralità del raggiungimento dello scopo, ragion d'essere del gruppo, implicherà tendenzialmente una maggiore quantità di comportamenti socioemozionali positivi, che servono come allentatori della tensione e facilitano il raggiungimento della meta, al contrario dei comportamenti socioemozionali negativi che lo bloccano.

Oltre alla distinzione fra piccoli e grandi gruppi, un'altra differenziazione riguarda i gruppi primari e secondari. I gruppi primari sono insiemi di persone che interagiscono direttamente, sono legati da vincoli di tipo affettivo, sentono un forte senso d'appartenenza e lealtà nei confronti del gruppo. I gruppi secondari sono insiemi di persone che hanno scopi da raggiungere, ruoli diversi in funzione del raggiungimento degli obiettivi, relazioni di tipo piuttosto interpersonale perché basate su fini pratiche e sul contributo, in termini di ruolo, che ciascun membro può offrire. Questa opposizione fra gruppi primari e secondari non è così radicale, dato che nella realtà non è facile operare delle distinzioni così nette; come giustamente suggerisce DeGrada, è meglio parlare di primarietà e secondarietà per riferirsi al modo d'essere nel gruppo, modalità che possono alternarsi nella vita di uno stesso gruppo.

Tra le differenziazioni terminologiche, compare di frequente, e soprattutto nella letteratura dell'adolescenza, la distinzione fra gruppi formali e informali. I gruppi formali sono quelli che si formano sotto un'egida istituzionale, che ne detta gli obiettivi principali nell'ambito d'attività specifiche, come succede in associazioni sportive, politiche, religiose, culturali, socioeducative. I gruppi informali sono raggruppamenti spontanei, naturali, il cui scopo non consiste nel perseguimento di attività specifiche, ma nell'intensità delle relazioni fra i membri.

Il termine «naturali» che è utilizzato a proposito dei gruppi informali per rilevarne la loro origine spontanea e non istituzionale, è utilizzato anche negli ambiti di ricerca per distinguere i gruppi reali dai gruppi sperimentali. Secondo McGrath, le tipologie dei gruppi usati nella ricerca sono tre: 1) i gruppi naturali, che esistono indipendentemente dalle attività e dai proposti della ricerca (ad esempio: commissioni di studio, squadre sportive, ecc.); 2) i gruppi inventati (concocted), che sono creati come mezzi per la ricerca (ad esempio: giurie simulate, famiglie artificiali, ecc.); 3) i quasi- gruppi, che sono, come i precedenti, creati a scopi di ricerca, ma non sono completamente dei gruppi, poiché hanno modelli d'attività molto artificiali e costrittivi, nel senso tanto dei compiti che sono imposti, quanto nel tipo d'interazioni permesse.

Nella letteratura psicosociale compare anche il concetto di gruppi di riferimento, che sono quelli con cui l'individuo s'identifica o ai quali aspira di appartenere.

3.2 Il gruppo nelle teorie di Lewin, Sherif e Tajfel

Il gruppo per Lewin è innanzi tutto una totalità dinamica, le cui proprietà strutturali sono diverse dalle proprietà strutturali delle sottoparti. Ci si può occupare di entrambe secondo l'interrogativo che ci si pone.

Una totalità dinamica è caratterizzata dalla stessa interdipendenza delle sue parti. «Le proprietà strutturali sono caratterizzate da rapporti fra le parti piuttosto che dalle parti o dagli elementi stessi».

Per quanto riguarda l'interdipendenza delle parti che compongono il gruppo, Lewin parla di due tipi di questo fenomeno: l'interdipendenza del destino e del compito. L'interdipendenza del destino costituisce un elemento evidente d'unificazione, nel senso che qualunque raggruppamento casuale d'individui può divenire un gruppo, se le circostanze ambientali attivano la sensazione di essere improvvisamente nella stessa barca, come ad esempio un insieme casuale di clienti di una banca che sono presi in ostaggio da una banda di rapinatori allo scopo di preparare una via di fuga sicura o per ottenere altri vantaggi e libertà può divenire un gruppo, che sperimenta un forte senso di unione per il solo fatto di condividere un destino comune. Insiemi casuali d'individui possono divenire improvvisamente, sotto l'azione d'eventi imprevedibili e stressanti, un gruppo che costituisce nelle ore e nei giorni di convivenza forzata una specie di solidarietà interna, un senso del «noi» distinto dagli «altri», un'idea di destino comune, che nel caso appena citato può sembrare assurdo e irrealistico, ma di cui esistono numerosi esempi nella cronaca.

L'interdipendenza del compito costituisce un elemento più forte e diretto dell'interdipendenza del destino, poiché fa sì che lo scopo del gruppo determini un legame fra i membri tali che i risultati delle azioni di ciascuno abbiano delle implicazioni sui risultati degli altri. La natura di queste implicazioni può essere positiva o negativa; l'interdipendenza positiva (o collaborazione) si ha nel caso in cui il risultato positivo di ognuno comporta il successo del gruppo (come avviene ad esempio nelle squadre sportive), l'interdipendenza negativa (o competizione) quando il successo di un membro costituisce l'insuccesso di un altro o degli altri membri (come può avvenire in un gruppo di lavoro, in cui vengono attribuiti ad personam incentivi o promozioni). È ovvio che questi due tipi d'interdipendenza creano svolgimenti sostanzialmente diversi, che si specchiano sia sulla produttività di gruppo sia sul suo clima interno.

Sherif, i cui stati sulla formazione dei gruppi e sulle relazioni fra i gruppi sono stati iniziati nel 1948 e hanno dato luogo ad un corpus d'osservazione e dati che costituisce ormai un capitolo classico della psicologia sociale, ha una concezione «architetturale» di gruppo, nel senso che egli è volto a considerarlo come una struttura in cui i membri sono legati da rapporti di status e ruoli e in cui si evidenziano norme e valori comuni.

In altri termini, la condizione essenziale per la formazione di un gruppo è l'interazione nel corso del tempo d'individui che hanno motivazioni, interessi, problemi comuni «gente che è tutta nella stessa barca»; la ripetuta interazione in nome di un interesse comune non significa, tuttavia, che i vari membri svolgono nelle varie attività le stesse funzioni, anzi nel corso del tempo esse si differenziano e specializzano, dando luogo alla differenziazione di ruoli che, a loro volta, sono contrassegnati da uno status diverso, da un potere differente. Infatti, nelle attività di gruppo non tutti i membri sperimentano lo stesso livello d'efficacia delle proprie iniziative, nel senso che alcuni di loro ne vedono sistematicamente più spesso di altri il successo. Le proprietà minime ed essenziali di gruppo sono rappresentati, quindi, da: 1) una struttura e organizzazione dei ruoli dei membri, diversa per funzioni e per potere o posizione sociale; 2) una serie di norme o valori che regolano il comportamento dei membri almeno nei settori d'attività in cui il gruppo è più di frequente impegnato.

Il gruppo definito in questo modo è per forza di cose di natura «longitudinale», come dice lo stesso Sherif, nel senso che le relazioni di ruolo e di status, ivi compresa la relazione fra leader e membri, e le norme si sviluppano nel corso del tempo. I raggruppamenti temporanei d'individui, ad esempio «un insieme arbitrario di individui tenuti insieme intorno a un tavolo a discutere di qualcosa e a passarsi note in una specifica rete di comunicazione non costituiscono necessariamente un gruppo, ma soltanto situazioni di unione».

L'autore aggiunge che per studiare i gruppi, come qualsiasi altro complesso fenomeno sociale, è necessario utilizzare varie metodologie di ricerca, da quelle osservative e d'inchiesta a quelle sperimentali. Secondo Sherif il metodo di laboratorio deve divenire l'«ultimo tocco» della ricerca sui gruppi.

Il concetto di gruppo utilizzato da Tajfel e dai suoi allievi tra la teoria dell'identità sociale e delle relazioni intergruppi è mutato dalla definizione di «nazione» proposta dallo storico Emerson: «l'affermazione più semplice che si può fare a proposito da una nazione è che si tratta di un corpo di persone che sentono di essere una nazione». Ciò che costituisce una nazione o un gruppo è, dunque, il fatto che l'individuo si sente parte di loro; questa definizione di gruppo, basata sul sentimento d'appartenenza, include tre elementi: una parte cognitiva (conoscere di appartenere ad un gruppo), una parte valutativa (il gruppo e/o la propria appartenenza a lui può essere connotata positivamente o negativamente), una parte emozionale (gli aspetti cognitivi e valutativi del gruppo e della propria appartenenza a lui sono accompagnati da sentimenti ed emozioni). Questi aspetti dell'appartenenza ad un gruppo sono applicabili sia a piccoli gruppi faccia a faccia, sia a grandi categorie sociali.

La categorizzazione sociale è un processo cognitivo che divide il mondo sociale in categorie cui si appartiene o no; tale processo rafforza la percezione di somiglianze intracategoriali e differenze intercategoriali e produce differenziazioni sul piano valutativo e comportamentale. Il paradigma sperimentale che si basa sulla categorizzazione sociale dimostra che l'attrazione e l'interdipendenza fra individui non sono condizioni necessarie per la formazione psicologica del gruppo, in quanto è sufficiente imporre a soggetti sperimentali un'appartenenza condivisa di gruppo per produrre una certa identificazione fra i membri pur in assenza di contatto interpersonale e d'interdipendenza sociale.

Il primo dei tre elementi dell'appartenenza di gruppo non è da definirsi solo «cognitiva», ma sociocognitiva, in quanto il cognitivo individuale è accompagnato dall'aspetto sociale, cioè «dal consenso a proposito dell'appartenenza di gruppo che è necessario affinché tale esperienza risulti efficace nel determinare le parità sociali del comportamento sociale nei confronti dell'ingroup e degli outgroups». In generale vi è corrispondenza fra la consensualità interna ed esterna al gruppo a proposito dello stabilire a quale gruppo appartiene un determinato individuo.

La lezione Lewiniana d'origine gestaltica che rileva nel gruppo l'aspetto di «totalità» e la fonte ispiratrice del concetto di «entitatività» (entitativity) introdotto nel 1958 da Campbell, un concetto che sta avendo una certa popolarità proprio in questi ultimi anni. Il concetto d'entitatività si riferisce al grado in cui un aggregato sociale è percepito dagli osservatori come avente la natura di un'entità, dotata di un'esistenza reale; i principi gestaltici di somiglianza, vicinanza, destino comune e organizzazione permettono di far emergere una percezione per cui un insieme di persone diventa un'unità, un'«entità», proprio perché i suoi componenti sono percepiti come simili, vicini, legati ad un destino comune (cioè interdipendenti). Secondo Campbell, i gruppi sociali variano lungo un continuum d'entitatività appresa, quindi alcuni si caratterizzano per un'alta entitatività, altri per una bassa, secondo il variare delle situazioni.

Secondo Asch, nella percezione sociale gli individui sono visti come unità e come entità dotate di logicità interna; in altre parole, la nostra percezione degli altri si fonda sull'attesa che essi siano delle entità organizzate: ciascuno di loro è la stessa persona, con dei tratti personali che durano nel tempo («consistenza»). Hamilton e Sherman terminano che sulla base dei dati a loro disposizione, la percezione d'entitatività degli individui appare più alta di quella dei gruppi, per quanto si può ammettere che l'entitatività sia degli individui sia dei gruppi cambiano lungo un continuum, per cui è possibile che vi siano situazioni in cui l'entitatività dei gruppi divenga più elevata di quella degli individui.

Gaertner e Schopler ritengono che il concetto d'entitatività giochi un ruolo centrale nei fenomeni di gruppo, in particolare nei bias intergruppi, per quanto sia stato spesso operazionalizzato in una prospettiva di categoria, perdendosi in tal modo il suo potenziale d'entità dinamica. Gli altri suggeriscono che l'entitatività può essere concettualizzata come una percezione d'interconnessione, di legame fra i membri di un gruppo e di conseguenza come l'interconnessione fra sé e gli altri. Nella ricerca da loro svolta, Gaertner e Schopler non credono che la competizione intergruppi aumenti la percezione di entitatività di gruppo, mentre quest'ultima è incrementata da un aumento delle relazioni intragruppo, che provocano «bias» intergruppi anche in assenza di confronto sociale. L'entitatività costituisce, per questi autori, una variabile causale precedente ai fenomeni di gruppo, e può avere origine sia in contesti intragruppo che in contesti intergruppi.





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