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RENE' DESCARTES (1596-1650) - ITER BIOGRAFICO E INTELLETTUALE

filosofia



RENE' DESCARTES (1596-1650)

1. ITER BIOGRAFICO E INTELLETTUALE

1.1. La formazione giovanile e la prima fase di ricerca

Descartes ha delineato le tappe della sua formazione intellettuale nel Discours de la méthode (1637), lungo un periodo di circa vent'anni, attraverso il quale è divenuto "cartesiano". Una visione retrospettiva non esente certo dal condizionamento della riflessione matura in un tempo in cui, in possesso di risultati ormai raggiunti, si cerca di definire una linea giustificativa di sviluppo e di approdo.

Dal confronto tra l'excursus autobiografico del Discours de la méthode (1637) e le altre fonti documentarie, risulta che l'attendibilità storica del primo soffre più di omissione e reticenza, che di ricostruzione ideale.

Le tappe rilevabili dalla ricostruzione autobiografica possono ridursi alle seguenti:



1) formazione al collegio di La Fléche;

2) periodo dei viaggi;

3) soggiorno definitivo in Olanda.

René Descartes (Cartesius) nasce a La Haye in Turenna da un consigliere al parlamento di Bretagna.

1.2. Formazione al collegio dei gesuiti di La Fleche(1606/7-1614/15).

Secondo la testimonianza di Descartes i suoi studi al collegio dei gesuiti si svolsero nell'arco di "quasi" nove anni, e nove anni in effetti duravano complessivamente i corsi: sei di umanità (grammatica e retorica) e tre di filosofia.

Il collegio di La Fléche era "una delle più celebri scuole d'Europa", come dice Cartesio stesso.

I corsi di filosofia (che comprendevano anche l'insegnamento della matematica e della fisica) seguivano in linea di massima Aristotele nella interpretazione tomistica. Cartesio non studiò mai la scolastica sui testi dei grandi autori, ma sempre sui manuali e i commenti.

Descartes include nel resoconto critico della sua formazione giovanile anche gli studi di diritto all'Università di Poitiers.

La rievocazione cartesiana ha un'impostazione critica e si svolge in due tempi, secondo lo schema premesso al brano autobiografico.

Prima passando in rassegna le singole discipline, Cartesio ne rileva gli aspetti positivi che potevano giustificare il desiderio di apprenderle e l'interesse di applicarvisi. Poi riesaminandole nello stesso ordine, adduce le ragioni per cui il loro studio ingenerò invece insoddisfazione e delusione.

Le considerazioni critiche sono di ordine generale ed alludono ad un tipo di impostazione didattica che mira più a procurare una cultura nozionale (eruditio) che a formare un atteggiamento critico e soprattutto a promuovere l'iniziativa personale nella ricerca.

Queste sono le istanze che che Cartesio sottolinea anche nel suo diario:

+ non solo sapere, ma trovare (invenire);

+ l'invenzione si oppone a erudizione;

+ esercitandosi a trovare da sé ci si accorge che certe regole dirigono lo spirito,, per cui la ricerca non introduce affatto casualità nella vita del pensiero.

Dalla formazione collegiale Cartesio deriva soprattutto una buona formazione matematica, che deve presumersi anteriore alle iniziali ricerche fisico-matematiche nel primo soggiorno in Olanda (1618-19).

1616 Consegue i titoli accademici in diritto canonico e diritto civile all'Università di Poitiers.

1.3. Periodo dei viaggi (1618-28)

+ primo soggiorno in Olanda (1618-19): si arruola nell'esercito di Maurizio di Nassau nella guerra contro la Spagna e stringe amicizia con l'olandese Isaac Beeckman che avrà un ruolo di grande rilievo sia nella formazione del pensiero scientifico di Cartesio sia più in generale nello sviluppo della ricerca nella prima metà del XVII sec..

Da questa amicizia nacque una intensa collaborazione nella discussione e nella ricerca, che per la sua impostazione si può ricondurre ad un orientamento di massima, ossia il ricorso alla matematica, che ha caratterizzato queste ricerche come "fisico-matematiche". Cartesio volgerà di preferenza la sua attenzione alla matematica e alla sua utilizzazione, sia nella soluzione dei problemi fisici che in generale nell'esame delle questioni metodologiche ed epistemologiche.

Inverno 1619-20

Nell'excursus autobiografico Descartes ci riporta all'inverno 1619-20, che segnerebbe secondo la sua r 929c25j icostruzione un momento decisivo nello sviluppo della ricerca e della riflessione filosofica.

È a questo periodo che Cartesio fa risalire la decisione di mettere in atto la revisione critica radicale delle sue opinioni. Tuttavia, prima volle dedicarsi "a fare il progetto dell'opera che intraprendeva e a cercare il vero metodo per pervenire alla conoscenza di tutte le cose di cui sarebbe stata capace la sua mente". Questo progetto doveva superare i limiti della matematica e della meccanica, di cui si era fin allora maggiormente, se non esclusivamente, interessato, per estendersi all'intero campo della filosofia.

All'inverno 1619-20 nell'excursus autobiografico si riporta anche la formulazione delle massime della morale provvisoria, formulazione che sembra modellarsi quanto alla ricostruzione storica cartesiana su quella dei precetti del metodo.

Dal 1620 al 1628 Cartesio dimorò quasi sempre in Francia, spesso a Parigi, salvo il viaggio in Italia del 1623-24. In questi anni conobbe il P. Marino Mersenne, che diventerà suo amico fidatissimo e suo intermediario con i dotti francesi quando Cartesio si sarà ritirato in Olanda. Sotto le sue sollecitazioni, Cartesio, in questo periodo parigino si dedicò particolarmente all'ottica, ambito di ricerca al centro di interesse nei circoli culturali dell'epoca.

Nell'inverno 1627-8, ritiratosi in Bretagna, attese alla stesura delle Regulae ad directionem ingenii, che furono pubblicate postume nel 1701 e che rappresentano lo scritto più notevole tra quelli anteriori alla prima pubblicazione di Cartesio con il Discours de la méthode e i tre Essais nel 1637.

Questo trattato si compone di 21 enunciati o regole, di cui solo le prime 18 sono commentate. Queste ultime vertono senz'altro e in prevalenza su argomenti metodologici, ma non esclusivamente: non sono di minor conto le numerose considerazioni che attengono più direttamente alla gnoseologia e alla epistemologia e certe impostazioni tematiche che implicano un orientamento filosofico più in generale.

1.4. Soggiorno definitivo in Olanda (marzo 1629).

Nel periodo che va dal 1630 al 1633 Cartesio si dedicherà alla stesura della prima esposizione sistematica di filosofia naturalistica su basi meccanicistiche, dal titolo Il mondo o Trattato della luce e L'Uomo. La parte sull'uomo doveva entrare nel grande trattato sul mondo: il che vuol dire che Cartesio si proponeva di scrivere un intero sistema del sapere. Cartesio rinuncerà a proseguire e pubblicare quest'opera, nonostante l'attesa in particolare dell'ambiente culturale parigino, in seguito della notizia della condanna romana del 22 giugno 1633 del Dialogo sui due massimi sistemi di Galilei.

Infatti, nel Mondo anche Cartesio sosteneva apertamente la teoria copernicana di un movimento della terra attorno al sole (sia Le Monde che L'Homme saranno pubblicati postumi).

Molto del materiale di quei trattati, tuttavia, con in più altre dottrine scientifiche che Cartesio aveva elaborato in quegli anni, fu pubblicato nei Saggi del 1637: La Diottrica, Le Meteore e La Geometria, preceduti dal Discorso sul metodo per ben guidare la propria ragione e cercare la verità nelle scienze. Più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono saggi di questo Metodo, che doveva servire come introduzione filosofica-metodologica. Quest'opera, che dona all'autore immediatamente un'enorme fama, suscita anche violente polemiche.

L'opera non reca sul frontespizio il nome dell'autore. Doveva originariamente portare questo titolo: Il progetto di una scienza universale che possa elevare la nostra natura al suo massimo grado di perfezione. Più la Diottrica, le Meteore e la Geometria, dove le materie più curiose che l'autore abbia potuto scegliere, per dar prova della scienza universale che egli propone, sono spiegate in modo tale che anche quelli che non hanno studiato possano intenderle.

Era, come si vede, un manifesto indirizzato non ai dotti, ma a chi si serve soltanto della propria ragione. E appunto per questo la lingua usata era il francese, non il latino.

La parola Discorso nel titolo, come lo stesso Cartesio ebbe a spiegare, aveva lo steso valore di "Prefazione" o "Avviso", in quanto in questo scritto egli non aveva intenzione di insegnare tutto il Metodo, ma solo di parlarne. "Perché, come si può vedere da ciò che ne dico, esso consiste più in una pratica che in una teoria".

Come risulta dal titolo (che, in seguito diverrà il seguente: Discorso sul metodo, per ben guidare la propria ragione e cercare la verità nelle scienze), l'opera è una specie di preparazione a tre "saggi". Infatti Cartesio dice al riguardo: "chiamo i trattati che seguono Saggi di questo metodo, perché credo che le cose che essi contengono non avrebbero potuto essere trovate senza di questo: si può conoscere per mezzo loro ciò che esso vale".

Il Discorso si divide in sei parti:

1) nella prima Cartesio passa in rassegna le scienze e le arti che si insegnano al suo tempo, basate sulla filosofia scolastica. Esse non sono tali da poter assolvere al loro vero compito, quello di "distinguere il vero dal falso";

2) nella seconda parte si elencano le quattro regole fondamentali di un metodo che potrà permettere di superare i dubbi e le incertezze:

a) dubbio metodico

b) analisi

c) sintesi

d) enumerazione e controllo

3) nella terza parte Cartesio affronta i problemi della morale, che egli definisce "provvisoria" perché deve immediatamente servire a dirigere le nostre azioni dall'istante stesso in cui, secondo la prima regola del metodo, porremo tutto in dubbio e andremo all ricerca della verità;

4) nella quarta parte , lo scrittore affronta finalmente la realtà con le leggi del suo metodo. A questo punto si concretizza l'impegno programmatico della ricerca di una prima certezza e delle altre che da essa logicamente conseguono, che possano rendere "vero" l'uomo e la realtà che lo circonda.

a) "Io penso, dunque sono"

b) Dio esiste

c) Il mondo esterno esiste.

La quarta parte del Discorso, dunque, dedicata all metafisica (e che tratta anche dell'immortalità dell'anima), ha un'importanza fondamentale nell'opera e in tutto lo sviluppo della filosofia cartesiana (Cartesio ritornerà ampiamente sulla materia nelle sue successive Meditazioni);

5) nella quinta parte D affronta alcuni problemi di applicazione del proprio metodo a questioni di fisica, in particolare al funzionamento del cuore e alla circolazione del sangue. Tutto il mondo materiale è retto da pure leggi meccaniche, che si svolgono parallelamente a quelle del pensiero, ma che sono completamente indipendenti da esso. Il corpo umano è, in questo senso, per Cartesio, una macchina;

6) nella sesta parte, infine, Cartesio spiega di non aver pubblicato una sua opera precedente (Il Mondo o Trattato sulla luce) per timore di provocare scandalo, mostrandosi favorevole alle teorie copernicane (come Galileo) e di avere esitato, per le medesime ragioni, nel pubblicare il Discorso.

Dopo la pubblicazione del Discorso, che già conteneva nella quarta parte una breve esposizione della metafisica, Cartesio ne scrisse una più ampia esposizione nelle Meditazioni, da lui redatte tra il 1639 e il 1640, ma pubblicate solo nel 1641.

Quest'opera ha due parti ben distinte. La prima comprende il corpo vero e proprio dello scritto cartesiano e si intitola: Meditazioni riguardanti la Filosofia prima in cui si prova chiaramente l'esistenza di Dio e la distinzione reale fra l'anima e il corpo. La seconda parte comprende alcune "obiezioni", espressamente richieste dall'autore, raccolte dall'amico Marsenne e scritte da filosofi illustri e da scienziati dell'epoca, come l'Arnauld, il Gassendi, Hobbes ed altri (con le "risposte" che Cartesio fornisce, quale approfondimento e arricchimento del proprio pensiero filosofico). Essa si intitola: Obiezioni fatte da persone dottissime contro le precedenti meditazioni, con le risposte dell'autore.

Ma, mentre scriveva le Meditazioni e le risposte, Cartesio continuava ad occuparsi di questioni scientifiche, come attestano le lettere, e nel 1644 pubblicò i Principi di filosofia che nella prima parte trattano di filosofia, ma nelle altre parti contengono la sua "fisica" e la sua biologia e fisiologia, ampliata poi nel Trattato delle Passioni, del 1649.

Accusato di ateismo dai teologi protestanti olandesi, viene allontanato dall'Università di Utrecht e condannato all'espulsione dal Consiglio municipale di quella città, che si proponeva anche di far bruciare tutti i suoi scritti. Viene salvato, unitamente alla sua opera, per l'intervento del principe d'Orange e dell'ambasciatore francese. Anche a Leyda, dove si trasferisce, viene duramente e pubblicamente attaccato.

Nel 1649, stanco di queste persecuzioni, decide di accettare l'invito della regina Cristina di Svezia e si reca a Stoccolma, per assumere a corte la carica di insegnante privato di filosofia. Ma nell'inverno del 1650 si ammala di una grave congestione polmonare e muore a soli 54 anni.

Occorre distinguere l'istanza di una morale provvisoria dalla formulazione di determinate norme, quali quelle che vengono presentate nella III parte del Discours.

Cartesio quindi avanza ragionevoli norme di comportamento da proporsi "per non restare irrisoluto nelle azioni durante il tempo in cui la ragione l'avrebbe obbligato a esserlo nei suoi giudizi".

Essa è una "morale par provision" (una morale "di attesa") resa necessaria dalle esigenze della vita pratica, indilazionabili, in attesa dei risultati di una ricerca filosofica alla cui luce queste massime possono risultare fondatamente valide.

1) "La prima massima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, continuando ad aderire saldamente alla religione nella quale Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dalla mia infanzia, e orientandomi in ogni altra cosa secondo le opinioni più moderate e più lontane dall'eccesso, che fossero seguite in pratica dalle persone più sensibili fra quelle con cui avrei dovuto vivere";

2) La seconda massima prescrive di "essere il più fermo e il più risoluto possibile nelle azioni di seguire le azioni più dubbie, una volta determinatisi per esse, con non minore risolutezza che se fossero certe".

3) La terza massima, che risente chiaramente dell'influenza stoica, così recita: "cercare sempre di vincere me piuttosto che la fortuna e di mutare i miei desideri piuttosto che l'ordine del mondo, e in generale di abituarmi a credere che non vi è nulla che sia interamente in nostro potere oltre ai nostri pensieri, di modo che dopo aver fatto del nostro meglio riguardo alle cose a noi esterne, quanto non riusciamo a fare esorbita del tutto dalle nostre possibilità".

2. ASPETTO ANALITICO E SISTEMATICO

2.1. Il metodo cartesiano

Che cosa si intende con metodo cartesiano?

La tradizione critica ha stilizzato questa espressione modellandola sul criterio dell'"idea chiara e distinta" e sul normale procedimento deduttivo a partire dai primi principi di per sé evidenti in una connessione ininterrotta di ragioni o motivazioni.

D'altra parte non disponiamo di alcun testo in cui Cartesio abbia dato una esposizione sistematica e organica di un metodo che possa definirsi in base a connotazioni complete e inequivocabili come cartesiano.

Quanto poi al Discours de la méthode i quattro precetti sono piuttosto una decantazione di norme metodologiche e lo stesso Cartesio dichiarava apertamente i limiti di questo scritto.

Tuttavia, al di là di queste riserve, le Regulae ad directionem ingenii e la seconda parte del Discorso sono i testi più significativi per tracciare le linee portanti del pensiero metodologico cartesiano.

La prima delle Regulae dice che il fine degli studi deve essere quello di orientare l'intelligenza a pronunciare giudizi solidi e veri. Ma i "veri e solidi giudizi" si ottengono non rivolgendosi alle diverse cose conoscibili, ma rafforzando lo strumento del conoscere, il lume della ragione. La metodologia deve precedere la conoscenza dell'oggetto. Quindi lo spirito (mens) deve rivolgersi innanzitutto verso se stesso: il metodo è la prima condizione per conoscere la verità.

Nelle Regulae ricorrono due definizioni di metodo, l'una impostata sul concetto di regola e norma, l'altra sul concetto di ordine.

1) "per metodo intendo delle regole certe e facili, osservando le quali fedelmente non si supporrà mai come vero ciò che è falso, e senza inutili sforzi da parte della mente, ma con graduale e continuo progresso della scienza si perverrà alla vera conoscenza di tutte le cose di cui si è capaci";

2) "tutto il metodo consiste nell'ordine e nella disposizione di quelle cose cui deve rivolgersi l'attenzione della mente per trovare qualche verità".

Le due definizioni si completano a vicenda: l'ordine prescritto nella seconda esplicita la natura del graduale procedere secondo regole della prima.

Questa insistenza sulla necessità di instaurare un nuovo metodo nasce, come in Bacone e Galileo, dalla constatazione della cattiva riuscita della filosofia. Nella Lettera al traduttore francese dei Principi di filosofia Cartesio chiarisce le ragioni del fallimento della filosofia: la verità di una scienza dipende dal valore dei principi sui quali essa si fonda; ora quelli che si chiamano filosofi si sono sforzati di trovare i veri principi, ma hanno in realtà assunto solo principi non evidenti e "tutte le conclusioni che si deducono da un principio non evidente non possono essere evidenti, ancorché dedotte correttamente".

I presupposti della metodologia cartesiana:

l'indagine sulla natura della conoscenza umana parte dai due poli in essa implicati: il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto.

Per quanto riguarda il primo, "solo l'intelletto è capace di scienza"; e per il corrispettivo: le cose conosciute, esse "devono essere considerate solo in quanto vengono attinte dall'intelletto".

Il vero ed unico soggetto della conoscenza umana è quindi la mente nettamente distinta dai sensi. Da questa distinzione reale tra mens e corpus si svilupperà la distinzione reale tra res cogitans e res extensa.

La mente umana è per natura predisposta ad avviare il processo di conoscenza - "ha qualcosa di divino, in cui i primi semi di pensieri utili sono stati immessi in modo tale che spesso, per quanto trascurati e soffocati da applicazioni disordinate, producono messi spontanee".

Questo coincide con le osservazioni iniziali del Discorso sulla uguaglianza naturale del "bon sens ou raison" negli uomini e sulla esigenza del metodo per applicarlo rettamente; "non basta infatti essere dotati di ragioni; la cosa principale è applicarla bene".

Come abbiamo già detto in precedenza, due sono le fonti principali per un apprezzamento del pensiero metodologico cartesiano: le Regulae e l'excursus autobiografico della seconda parte del Discorso.

L'evidenza

Secondo l'excursus i risultati dell'indagine metodologica si riducevano alla formulazione dei seguenti quattro precetti.

1) "Il primo era quello di non accogliere mai alcuna cosa per vera, senza conoscerla con evidenza come tale, vale a dire di evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non includere nei miei giudizi se non ciò che si presentasse alla mia mente con tale chiarezza e distinzione, da non avere motivo alcuno di metterlo in dubbio.

2) Il secondo, di dividere ogni problema da esaminare in tante parti possibili per meglio risolverlo.

3) Il terzo, di condurre con ordine i miei pensieri cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi e supponendo un ordine anche tra quegli oggetti che non hanno alcun rapporto di dipendenza naturale.

4) E l'ultimo, di fare ovunque enumerazioni così complete e rassegne così generali, da essere sicuro di non aver omesso nulla".

La formulazione di questi precetti deve ritenersi senz'altro posteriore e la loro introduzione storica nel Discours è l'opera del filosofo di quarant'anni, tuttavia essa rispecchia piuttosto in sintesi le indicazioni metodologiche esperite nei primi anni di ricerca e sviluppate negli anni succesivi. Cartesio tenterà di raccoglierle organicamente, utilizzando annotazioni ed abbozzi redazionali, nelle incompiute Regulae ad directionem ingenii.



Il primo precetto converge con la II Regola nella limitazione dell'ambito della conoscenza scientifica a quegli oggetti di cui possiamo avere una conoscenza "certa e indubitata". "Ogni scienza è conoscenza certa ed evidente".

Il primo criterio è quindi il criterio dell'evidenza, raggiunta attraverso il dubbio. Lo si potrebbe quindi anche definire come il criterio della resistenza al dubbio.

L'evidenza contrassegna la presenza intenzionale dell'oggetto nell'atto conoscitivo, la certezza, invece la consapevolezza soggettiva di tale presenza.

Sul criterio della resistenza al dubbio si baserà tutta l'impostazione del procedimento deduttivo della I meditazione, sotto la denominazione di dubbio metodico, ossia di procedimento intenzionalmente programmato e disposto ad arte alla ricerca dell'evidenza autentica.

Connotazione fondamentale del conoscere scientifico non è l'apprendimento mnemonico di un ordine di conoscenza già costituito, ma il disimpegno consapevole del proprio potere conoscitivo a conseguire la verità come conquista personale.

Tra le discipline tradizionali considerate scienze, solo due verificano effettivamente la definizione data di scienza come conoscenza certa ed evidente: l'aritmetica e la geometria, perché solo queste scienze hanno a che fare con un oggetto così "puro e semplice" che non possono essere rese incerte dall'esperienza (commento alla II Regola). Quindi esse si pongono come paradigma, dalla cui analisi si può risalire agli elementi costitutivi e alle condizioni della scienza come tale.

Le suddette scienze, inoltre si svolgono con i soli due atti dell'intelletto "per mezzo dei quali possiamo pervenire alla conoscenza delle cose senza timore alcuno di sbagliare": l'intuizione (intuitus e la deduzione.

La chiarezza e l'evidenza, dice la II Regola, si ha nelle proposizioni che sono oggetto di intuizione o di deduzione. Le attività che ci portano alla conoscenza sicura sono dunque solo due: intuitus e deductio.

L'intuizione è l'atto istantaneo e semplice con cui l'intelletto preso a sé nella sua natura di facoltà conoscitiva distinta dai sensi coglie qualcosa che è di per sé evidente.

In opposizione all gnoseologia aristotelico tomistica viene negata la continuità o derivazione della conoscenza intellettiva da quella sensitiva attraverso l'illuminazione dell'intelletto agente e dell'astrazione della forma intellegibile dai fantasmi o rappresentazioni dell'immaginazione.

La deduzione invece è l'atto con cui si conosce con certezza qualcosa, di per sé non immediatamente evidente, a partire da altre conoscenze.

Nella deduzione si intuisce non solo ciascuna delle conoscenze o proposizioni che si succedono nel processo, ma anche il nesso che lega l'una all'altra. Si direbbe che la deduzione è intuizione in movimento. Ciò spiega il duplice orientamento dell'analisi cartesiana: per un verso diretta a caratterizzare e distinguere la deduzione dall'intuizione, per l'altro a rilevare lo stretto rapporto e a suggerire espedienti metodologici atti a ridurre la deduzione all'intuizione. In fondo la differenza tra le due è solo di grado: si tratta sempre di un vedere, ma quando i passaggi sono molti, non si riesce ad averli tutti presenti e bisogna fidarsi della memoria. La deduzione dunque differisce dall'intuizione, perché implica un passaggio (motus) e una successione, mentre nell'intuito l'oggetto è tutto presente. Per Cartesio, in sostanza il sapere si riduce al vedere.

Analisi e sintesi

Se veniamo al secondo a terzo precetto del Discorso, vediamo che qui Cartesio ci illustra che cosa egli intenda per analisi e sintesi.

Infatti, se confrontiamo il secondo e terzo precetto del metodo con quello che Cartesio dice nelle Risposte alle Seconde Obiezioni mosse alle sue Meditazioni sull'analisi e sulla sintesi, vediamo che Cartesio chiama sintesi il metodo dei "geometri antichi", cioè quello che parte dal semplice (definizioni, assiomi, postulati) per arrivare al complesso e analisi quello che risale dal complesso al semplice.

Il vero metodo per Cartesio, tuttavia, non è quello che parte dall'assioma per arrivare al teorema, che parte dal più semplice per arrivare al complesso (vedi gli Elementi di Euclide e i Secondi Analitici di Aristotele): è invece quello che, nella ricerca della soluzione di un problema complesso, scopre il principio più universale, la verità più semplice che permette di risolvere il problema.

Quando poi il principio maxime simplex è scoperto mediante l'analisi, allora, come dice il terzo precetto del Discorso, si può e si deve cercare quali ne siano tutte le possibili applicazioni.

La sintesi è l'ordine con cui ricostruiamo il processo, dopo che abbiamo scoperto una verità, ma non è l'ordine in cui si scopre effettivamente la verità.

L'analisi invece è quella che mostra la via per la quale la verità è stata effettivamente scoperta.

3. LA FILOSOFIA NATURALE. IL MECCANICISMO CARTESIANO

La concezione cartesiana della natura è una concezione meccanicistica, definibile essenzialmente nella duplice riduzione della materia ad estensione e dei fenomeni naturali a movimenti locali.

Essa si inquadra in un vasto orientamento di pensiero che si delinea e si sviluppa nella prima metà del XVII sec., nell'ambito di un diffuso atteggiamento critico-negativo nei riguardi della filosofia naturale della scolastica di ispirazione aristotelica. Ma la concezione meccanicistica cartesiana assume una sua fisionomia particolare, partendo non da motivi empirici ma da una rigida impostazione razionalistico-deduttiva e sulla base di tesi metafisiche, riassumibili nella "dottrina della creazione delle verità eterne". Inoltre si estende a tutti gli esseri e fenomeni che nella filosofia scolastica costituivano o caratterizzavano il mondo organico vegetale e animale, omologandoli nell'indistinta categoria di sostanza corporea estesa.

A una prima esposizione sistematica della sua filosofia naturale Cartesio attese tra il 1630 e il 1633 componendo il trattato Il Mondo o trattato della luce, trattato che lasciò incompleto.

D'altra parte anche i primi due Saggi allegati al Discorso trattavano argomenti che rientravano nel campo della filosofia naturale. Pure incompleta rimase l'esposizione più ampia e sistematica che rese pubblica nel 1644 con i Principia philosophiae.

Già nelle Regulae (1627-8) la dottrina della conoscenza è orientata in senso meccanicistico. Tutti i sensi sono "parti del corpo" e le sensazioni modificazioni della loro forma esterna o "figura".

In un contesto ugualmente gnoseologico prende avvio il trattato Il Mondo, redatto qualche anno dopo la stesura definitiva delle Regulae. Cartesio non pone in dubbio l'esistenza di una realtà esterna al soggetto senziente, ma solo la corrispondenza "oggettiva" tra sensazione e realtà esterna: se la luce nella sua realtà è quale la vediamo. E dall'idea della luce passa senz'altro ad un ordine di considerazioni più generale: il problema della corrispondenza oggettiva si generalizza ed investe tutte le rappresentazioni sensoriali.

Cartesio si inserisce tra i primi, con Galilei e Hobbes, nella complessa questione della distinzione delle qualità sensoriali, che impegnerà filosofi e scienziati dalla prima metà del XVII sec.. In linea di massima si distingueranno le qualità che rispecchiano le proprietà oggettive della realtà corporea da quelle che sono semplici risultanze oggettive in seguito alla stimolazione degli organi sensoriali da parte degli oggetti esterni, secondo la terminologia adottata poi da Boyle e Locke le qualità primarie dalle qualità secondarie, salvo poi a identificare in concreto quali delle qualità sensoriali sono da riportare al primo e quali al secondo gruppo.

Per Cartesio le sensazioni sono il linguaggio della natura, il mezzo con cui si comunica a noi agendo sugli organi sensoriali, ma, come le parole del linguaggio umano rispetto alle cose che significano, non sono in un rapporto di somiglianza con la natura e pertanto non ce la rappresentano quale è in se stessa; la natura quale è in sé non ci è manifestata dalle sensazioni - modificazioni soggettive a stimoli esterni -, ma dall'intuizione dell'intelletto, e nell'intelletto ci appare come pura estensione divisibile all'infinito e suscettibile di movimento locale nelle parti che ne risultano.

Per comprendere come Cartesio giunga a livello concettuale all'identificazione della materia con l'estensione, è necessario far riferimento alla discussione che fa dei concetti di sostanza, attributo e modo nei Principi di filosofia.

A proposito del rapporto tra sostanza e attributo Cartesio al §53 sostiene che vi è una proprietà fondamentale - alla quale riserva il nome di attributo - che costituisce la natura e l'essenza di una sostanza, e questo è per i corpi l'estensione, per le sostanze spirituali il pensiero. Avendo detto che l'attributo costituisce l'essenza di una sostanza, egli lo ha già identificato con la sostanza stessa, ma ribadisce questa identificazione affermando che fra sostanza e attributo c'è solo una distinzione di ragione e che il pensiero è la sostanza pensante e l'estensione è la sostanza estesa. Galileo aveva detto "Il tentar l'essenza l'ho per impresa ... impossibile..." e aveva affermato che ci si doveva limitare a cogliere "alcune affezioni"; Cartesio invece afferma che una di quelle che Galileo chiamava affezioni -l'estensione- costituisce l'essenza dei corpi, e di qui tenta di dedurre tutte le loro proprietà. Cartesio fa non solo una fisica come scienza, ma una filosofia della natura, poiché si propone di stabilire qual è il costitutivo fondamentale della corporeità, e, facendo questo, si oppone non solo a determinate teorie della fisica aristotelica, ma anche alla teoria che caratterizza la concezione aristotelica del mondo corporeo: la teoria ilemorfica (della materia e della forma).

Secondo la teoria ilemorfica non c'è una eterogeneità radicale fra mondo corporeo e mondo spirituale, poiché in ogni ente c'è un principio di unità, di determinazione, di intellegibilità, che è la forma sostanziale. L'anima umana non è che una forma sostanziale più perfetta delle altre. Per Cartesio invece il corpo è soltanto estensione, ed ogni principio di determinazione, di unità, di attività è spirituale e comincia solo là dove c'è spirito, dove c'è res cogitans.

[L'estensione come essenza dei corpi]

Poiché il mondo corporeo si riduce ad estensione, le qualità non gli appartengono, e quindi non possono neppure appartenere al "corpo sensitivo", come diceva Galileo, non possono neppure essere realtà fisiologiche: sono realtà psichiche, modi della res cogitans. Il motivo per cui Cartesio nega realtà extramentale alle qualità è che noi non sappiamo che cosa siano, se "considerate come cose esistenti fuori della nostra mente". Non ne abbiamo una "notizia intrinseca", diceva Galileo, quindi eliminiamole dalla fisica. Cartesio aggiunge: eliminiamole dal mondo corporeo, e siccome colori, suoni, ecc:, ci sono tuttavia presenti e non li possiamo eliminare del tutto, trasferiamoli nel mondo dello spirito.

La materia, quindi, non può essere se non lo stesso oggetto formale della geometria, ossia l'estensione a tre dimensioni, le cui parti sono tra loro impenetrabili. La materia intesa come pura e semplice estensione ha le stesse proprietà dell'estensione: di essere divisibile all'infinito e di conseguenza di assumere tutte le figure che si possono immaginare. Le parti che ne risultano, di per sé inerti, sono suscettibili di movimenti locali, ossia di disporsi diversamente tra loro nello spazio. Dalla divisione e dalla ricomposizione in atto delle parti estese solide si originano in natura i singoli corpi, i cui rapporti vengono a definirsi in base allo spazio e al luogo (interno ed esterno). Tra estensione, spazio e luogo non vi è distinzione reale, ma solo distinzione di ragione (vedi la II parte dei Principia philosophiae). Lo spazio infatti non è altro che l'idea generica dell'estensione e il luogo non è altro che lo spazio occupato dal corpo.

Altra caratteristica fondamentale della concezione meccanicistica cartesiana è la negazione del vuoto, identificato con il nulla, il non-essere. Con questa assunzione critica Cartesio si pone in contrasto non più con la filosofia tradizionale di ispirazione aristotelica, ma con le nuove correnti di ispirazione democritea.

Infatti anche Aristotele negava il vuoto perché incompatibile con la sua concezione del cosmo e in particolare con la dinamica del movimento locale: nel vuoto non vi sono "luoghi naturali" e quindi "moti naturali" - i moti naturali si effettuerebbero con velocità infinita, sarebbero istantanei e quindi si annullerebbero (il vuoto viene quindi inteso come assenza di resistenza) - i "moti violenti" non potrebbero aver luogo, venendo meno l'ambiente circostante propulsore al cessare della causa motrice iniziale.

L'identificazione reale di sostanza corporea ed estensione , la cui proprietà principale è la divisibilità all'infinito, comportava il rifiuto dell'atomismo, altro aspetto fondamentale a differenziare il meccanicismo cartesiano. Per Cartesio, tuttavia, la divisibilità all'infinito della materia esclude gli atomi, ma non il darsi in atto di particelle corporee estremamente piccole, ulteriormente riducibili in seguito all'urto reciproco, prospettando così in definitiva una concezione "corpuscolare" (non atomistica) della natura materiale. Per questo aspetto corpuscolare il meccanicismo cartesiano non mancò di essere frainteso e confuso con l'atomismo democriteo.

[Il moto]

Esclusa dalla natura ogni determinazione qualitativa, si capisce che l'unico tipo di mutamento sia il moto locale, e questo si riduce ad una pura variazione di distanza, quindi a qualcosa di relativo.

Le parti della materia, quali che ne siano la forma e le dimensioni, sono suscettibili di movimento locale, e il movimento locale è l'unico cambiamento reale che si verifica in natura, oltre alle modificazioni di figura e dimensioni, derivanti dall'urto reciproco delle parti e dalla conseguente loro frantumazione. La materia è estensione e l'estensione è sempre omogenea a se stessa, anche se si frantuma in parti più minute. Non più quindi mutamenti sostanziali, quali la generatio e la corruptio, e modificazioni accidentali, quali le alterazioni qualitative della cosmologia scolastica.

Il movimento locale, "trasporto o traslazione di una parte della materia, o di un corpo, dalla vicinanza di quelli che lo toccano immediatamente, e che noi consideriamo in quiete, nella vicinanza di altri" e la quiete (assenza o cessazione di movimento) non sono che due diversi modi d'essere o stati della materia estesa. Ora, dato che non vi è spazio vuoto in natura, il movimento di una parte della materia comporta il movimento di altre parti, di quelle di cui viene ad occupare il luogo esterno o sito e di quelle che succedono nel posto che lascia. Quindi "in ogni movimento deve verificarsi un circolo, o anello, di corpi che si muovono insieme". Lo sviluppo di questa tesi darà origine alla teoria dei "vortici" o movimento in circolo di particelle della materia, che diverrà una caratteristica fondamentale della filosofia naturale cartesiana al punto di figurare nella stessa denominazione come "filosofia dei vortici".

La materia in quanto estensione è inerte: il movimento delle sue parti all'origine è dovuto all'atto creativo di Dio, che inoltre conserva nell'universo l'uguale quantità di moto che aveva all'istante della creazione. Questo sarebbe dovuto, per Cartesio, all'immutabilità della volontà divina.

Cartesio ha formulato tre leggi della natura, sia nel trattato Il Mondo che nei Principi di filosofia; le prime due contengono il principio di inerzia e la terza il principio di conservazione del moto:

1) "La prima è che ogni cosa in particolare continua ad essere, per quanto può, nello stesso stato e non lo cambia mai se non per l'incontro delle altre"; sia che si tratti di quiete che di moto: i due stati sono equivalenti da questo punto di vista. Il movimento di un corpo diminuisce e in definitiva cessa non per natura, come se tendesse alla quiete - "la quiete è infatti contraria al movimento, e nulla si porta per istinto della sua natura al suo contrario, o alla distruzione di se stesso" -, ma per l'attrito con gli altri corpi, anche se noi non ce ne avvediamo.

2) "La seconda legge che osservo nella natura è che ogni parte della materia presa singolarmente non tende mai a muoversi secondo linee curve, ma secondo linee rette, per quanto molte di queste parti siano spesso costrette a deviare, poiché ne incontrano altre nel loro cammino e poiché, quando un corpo si muove, si determina sempre un circolo o anello di tutta la materia che viene mossa insieme" (vedi la pietra liberata dal movimento forzato di una fionda, che tende a muoversi lungo la tangente).

3) "La terza legge che osservo nella natura è che un corpo che si muove e ne incontra un altro, se ha meno forza per continuare a muoversi in linea retta di quanta ne ha quest'altro per resistergli, perde la sua determinazione senza nulla perdere del suo movimento; se invece ha più forza, muove con sé quest'altro corpo e perde del suo movimento tanto quanto gliene dà". In questa terza legge rientrano tutte le cause particolari di natura corporea che determina mutamenti nei corpi.

Queste tre leggi naturali sono state istituite da Dio stesso come cause seconde dei movimenti particolari.

LA "MACCHINA DEL CORPO UMANO" E LO STUDIO DELLA MEDICINA

Cartesio mostrò interesse per la medicina sin dagli anni giovanili della sua formazione. Un suo giudizio valutativo sulla medicina già ricorre nel resoconto autobiografico del Discours. Alle dissezioni anatomiche attese, secondo la sua stessa testimonianza, sin dal suo stabilirsi definitivamente in Olanda e la sua corrispondenza è ricca delle osservazioni e dei risultati raggiunti in questo campo di ricerche, che utilizzerà non solo nelle opere maggiori, ma anche in scritti specifici.

Alla base delle sue considerazioni vi è la tesi tradizionale - ma al di fuori dell'impostazione di forme sostanziali e accidentali - della composizione unitaria di anima e corpo, pur realmente distinti nella diversa natura. Quanto al corpo l'uomo fa parte della realtà materiale intesa come estensione. Il corpo umano è una macchina come tutti i corpi organizzati dell'universo, anche se macchina più complessa e più perfetta, e coma tale ha funzioni proprie, distinte dalle operazioni dell'anima razionale, e le svolge indipendentemente da questa e da ogni forma sostanziale, come l'anima vegetativa e l'anima sensitiva della psicologia scolastica. Le operazioni o funzioni del corpo umano, di cui alcune possono essere determinate anche dall'anima razionale con un atto volontario, si svolgono in virtù della conformazione e disposizione degli organi secondo le leggi della natura, come ogni altro fenomeno naturale.

Come in tutta la filosofia naturale cartesiana anche nella spiegazione dei fenomeni della vita animale l'"agitazione" delle particelle svolge un ruolo di primaria importanza. Ma la sua dinamica assume una configurazione particolare per la rilevanza primaria del principio di ogni movimento: il calore. Per dare vita al corpo umano Dio non ha dovuto aggiungergli un'anima vegetativa o sensitiva, ma semplicemente provocare all'interno del cuore questo calore che è all'origine di tutte le funzioni del corpo umano.

Nella concezione meccanicistica cartesiana la distinzione tra vita vegetativa e sensitiva perde ogni carattere di specificità che implichi una distinzione di valore in correlazione a due principi formali, l'uno subordinato all'altro: una sensazione o una passione, a parte l'esserne coscienti che comporta l'unione dell'anima razionale, si spiega con gli stessi principi meccanici che rendono ragione della fisiologia.

Se l'uomo per la componente del corpo rientra nell'ambito della natura materiale, ne è una parte e soggiace alle stesse leggi meccaniche, tuttavia il suo comportamento è irriducibile al comportamento degli animali, anche di quelli più perfetti, mostrandosi non limitato e condizionato come questo dalla conformazione degli organi. Vie è in esso un aspetto innovatore che trascende i quadri di ogni predeterminazione meccanica. Se si costruisse un automa che riproducesse le stesse fattezze e la stessa struttura di una scimmia e ne imitasse le stesse operazioni, non avremmo alcun modo per distinguere l'animale dalla macchina che lo imita. Non così invece per un automa che fosse imitazione, per quanto perfetta, di un essere umano. Avremmo sempre due criteri per riconoscere che non siamo in presenza di un vero essere umano.

Il primo criterio è il linguaggio umano, non costretto nei limiti di una rispondenza fissa fra segni articolati e stimoli esterni o stati fisiologici, senza possibilità di adattamento a situazioni nuove non previste, ma volto a significare atteggiamenti che si adeguano di volta in volta al mutare delle circostanze.

Il secondo criterio è l'agire umano in cui si riscontra la stessa varietà e disponibilità del linguaggio al variare delle situazioni. Il linguaggio e in generale il comportamento umano suppongono un principio di azione non meccanico, di cui gli animali mostrano di essere privi, ossia la ragione.

Riducendo l'essere animale ad una macchina Cartesio venne a trovarsi suo malgrado in una situazione paradossale. L'immaterialità dell'anima è una delle tesi fondamentali del suo pensiero filosofico e come tale costituì un argomento costante delle sue riflessioni metafisiche, a partire dal "piccolo trattato" del 1629. Questo interesse, unitamente a quello per la dimostrazione dell'esistenza di Dio, conferiva per altro al suo sistema - tenuto anche conto dello stretti legame delle due tesi: immaterialità e immortalità - una valenza apologetica e in più di un'occasione venne esplicitamente sollecitato il suo intervento, quando non fu lui a prendere l'iniziativa, a rispondere a libelli che screditavano o negavano punti fondamentali della dottrina cristiana come questi. Ma la sua concezione meccanicistica sembrava aprire un varco alle posizioni divulgate dai "libertini": Cartesio rischiava l'accusa di favorire l'ateismo o il sospetto di essere lui stesso ateo per il fatto di mettere in evidenza argomentazioni contrarie alle tesi in questione senza poi darne una valida confutazione.

Le prime contestazioni si presenteranno in forma amichevole a breve distanza dalla pubblicazione del Discours de la méthode, ma le obiezioni assumeranno un tono violento e astioso qualche anno dopo da parte di alcuni teologi calvinisti delle università olandesi, in difesa dei fondamenti della filosofia scolastica che vedevano sovvertiti dalla "nuova filosofia".

4. LA METAFISICA

Cartesio era persuaso che "tutta la filosofia [ossia tutto il sapere] sia come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che procedono dal tronco sono tutte le altre scienze ..." e questo lo portò a costruire una metafisica che potesse rispondere alle esigenze della sua fisica.

Cartesio espose il suo pensiero metafisico in quattro opere diverse nel giro di quindici anni circa:

+ nel "piccolo trattato di metafisica", redatto in latino nel 1629 ma non portato a termine, e comunque non pervenutoci,

+ nella IV parte del Discours de la méthode (1637, vers. lat. 1644),

+ nelle Meditationes de prima philosophia (1641-2, trad. fr. 1647),

+ nella I parte dei Principia philosophiae (1644, trad. fr. 1647).



Stando alle sue esplicite dichiarazioni, uno stretto rapporto lega fra loro queste successive esposizioni, con una posizione preminente delle Meditationes.

Negli anni 1628-29, che segnano il passaggio dal soggiorno parigino al definitivo stabilirsi in Olanda, matura l'interesse di Cartesio per i problemi fondamentali della metafisica. Negli ultimi anni trascorsi a Parigi, frequentando il circolo di Mersenne e mantenendosi in rapporto con personalità religiose, come i padri dell'Oratorio, dovette interessarsi al movimento apologetico che cercava di contrastare il diffondersi di quella cultura libertina, dalla complessa e non sempre definibile caratterizzazione.

A questo riguardo è importante il gruppo di lettere che Cartesio scambiò con Mersenne nel 1630 sul tema della "creazione delle verità eterne": coinvolto dal religioso parigino nella confutazione di certa libellistica libertina, chiarisce la sua concezione della "Divinità" nei limiti dei poteri della conoscenza umana e nel contempo definisce i fondamenti della concezione meccanicistica della natura, che veniva assumendo un rilievo preminente nella sua riflessione filosofica.

Da rilevare innanzi tutto l'incerta determinazione dell'ambito di queste verità eterne: da una accezione lata, comprensive di ogni verità necessaria che non si identifichi o faccia riferimento all'essenza divina (si tratti di principi razionali o di essenze o proprietà di sostanze create), ad una accezione restrittiva, in cui verità eterne e verità matematiche diventano equivalenti. Nel definire lo statuto di queste verità Cartesio deve conciliare l'onnipotenza di Dio con le proprietà che derivano dalla caratterizzazione essenziale di queste verità, come la necessità, l'immutabilità. La soluzione cartesiana è rapportare tutte le verità eterne all'atto creativo di Dio. "È certo che Dio è autore tanto dell'essenza che dell'esistenza delle creature. Ora quest'essenza non è altro che le verità eterne di cui discutiamo". "Le verità matematiche, da voi chiamate eterne, sono state stabilite da Dio e ne dipendono interamente, come tutte le altre creature". Le verità eterne in quanto create sono contingenti, ma se rapportate all'immutabilità della volontà divina di Dio che le ha volute tali possono dirsi eterne. Come conciliare la libertà della volontà divina con la sua immutabilità e la conseguente eternità di queste verità La mente umana è ora ai limiti delle sue capacità, non le rimane che costatarli.

La teoria della creazione delle verità eterne avrà un suo sviluppo nella filosofia naturale. Ma ad essa si richiamerà una delle interpretazioni circa l'origine dell'ipotesi del genio maligno nell'iter del dubbio metodico delle Meditationes.

Nel Discorso Cartesio riprendeva a trattare le tesi fondamentali del "piccolo trattato di metafisica", propriamente nella parte IV, nella quale, come egli stesso dichiara nel preambolo dell'opuscolo, "si troveranno le ragioni con le quali si prova l'esistenza di Dio e dell'anima umana, che sono i fondamenti della mia metafisica". Se la redazione del Discorso fu posteriore a quella dei tre Saggi, questa IV parte, che pur riteneva "la più importante", fu "la meno elaborata di tutta l'opera", essendosi deciso ad aggiungerla solo all'ultimo, dietro sollecitazione dell'editore a finire l'opera. Ciò aveva contribuito a renderla "oscura", oscurità che gli verrà contestata dalle prime conoscenze del testo manoscritto.

Una esposizione più analitica dell'iter delle riflessioni metafisiche maturate nel corso di un decennio fu la soluzione definitiva con la redazione delle Meditationes de prima philosophia, cui attese tra il 1639 e il 1640. I progetti editoriali dell'opera vennero a modificarsi nel tempo, soprattutto in dipendenza dal fatto che Cartesio volle sottoporre all'esame di alcuni studiosi il testo manoscritto e pubblicare unitamente alle sei meditazioni anche le obiezioni avanzate e le sue risposte.

Cartesio così esponeva l'ordine da lui seguito nelle sue opere, e in particolare nelle Meditationes: "Si deve notare, in tutto ciò che scrivo, che io non seguo l'ordine delle materie, ma solo quello delle ragioni: vale a dire, io non intraprendo a dire in uno stesso luogo tutto ciò che attiene ad una materia, per la ragione che mi sarebbe impossibile provarlo a dovere, dato che alcune ragioni devono essere dedotte molto più lontanamente di altre", ossia dato che le motivazioni di quanto si afferma di un determinato argomento si riportano a procedimenti dimostrativi diversi, o le cui premesse nelle serie deduttive sono tra loro dislocate a distanze diverse. "Ragionando invece per ordine dalle cose più facili alle più difficili, deduco ciò che posso ora per una materia ora per un'altra; è questo secondo me il vero cammino per trovare ed esporre debitamente la verità".

L'ordine irreversibile delle ragioni è l'ordine del nostro conoscere razionale, è l'ordine che si stabilisce nella ricerca umana della verità, nelle conoscenze che si succedono razionalmente dal più semplice al più difficile (ordo cognoscendi), non l'ordine che rispecchia la realtà delle cose quali sono in se stesse, indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere (ordo essendi). Tuttavia l'ordine del nostro conoscere non è svincolato dal reale stesso, per cui rappresenta anche un iter metafisico, è un disvelamento graduale e parziale dell'essere le cui tappe sono segnate dalle esigenze consequenziali della natura razionale del soggetto.

"Meditationes de prima philosophia" (Ia ed.:1641 e 2a ed.:1642)

I meditazione: Atteggiamento critico e dubbio metodico

Il riassunto (Synopsis) premesso da Cartesio stesso alle Meditazioni dice che nella I meditazione sono esposte "le ragioni che abbiamo di dubitare generalmente di ogni cosa e particolarmente delle cose materiali, almeno finché non avremo altri fondamenti del sapere, diversi da quelli che abbiamo avuto finora". E aggiunge che il dubbio è utile per allontanare o distaccare lo spirito dai sensi. Si badi a quell' e particolarmente delle cose materiali e alla necessità del distacco dai sensi. Sappiamo infatti che l'esperienza sensibile è apparsa a Cartesio - fin dalle Regulae - la fonte più infida del sapere.

Il dubbio nasce dall'esperienza dell'errore. Più volte Cartesio si è soffermato ad analizzare i riflessi negativi della humana conditio nella formazione del conoscere, e in generale del comportamento, a partire dalla prima infanzia.

Tutta una serie di opinioni si è venuta formando senza il controllo della ragione; l'assuefazione e l'abitudine non solo hanno loro assicurato una parvenza di evidenza ma hanno ingenerato una persuasione difficile da rimuovere, al punto che la conclusione certa ed evidente di una dimostrazione razionale in contrasto con un'opinione radicata può indurre assenso ma non convincere ipso facto, ossia modificare l'atteggiamento complessivo del soggetto nell'adesione alla nuova idea.

Il superamento delle idee dubbie o solo probabili, si effettua gradualmente al confronto delle idee evidenti che emergono nel maturarsi della riflessione critica e segnano le tappe di uno sviluppo non sempre databili. Da questa evoluzione distesa nel tempo viene a distinguersi un momento cruciale, episodio emblematico nell'iter metafisico, insieme riassuntivo rispetto all'atteggiamento critico del passato e di svolta radicale rispetto al sapere tradizionale: l'instaurazione del dubbio metodico, che adombrato all'inizio dell'esposizione delle tesi metafisiche nella IV parte del Discorso, viene sviluppato nelle Meditationes (I Meditazione e inizio della seconda), in un contesto programmato che richiama quello delle riflessioni, nella solitudine della "stanza riscaldata" di Neuburg, sulle norme del metodo da seguire nella ricerca della verità e della morale provvisoria.

Il rovesciamento delle opinioni acquisite si effettua con un procedimento disposto ad arte, o dubbio metodico, che si basa sulla resistenza al dubbio nella ricerca dell'evidenza autentica, secondo la prima regola del metodo: "non includere nei miei giudizi se non ciò che si presenti nella mia mente con tale chiarezza e distinzione, da non avere motivo alcuno di metterlo in dubbio". Il dubbio metodico è radicale in quanto risale alle radici o fonti del conoscere, ed universale per la sua estensione. Un'altra nota lo contrassegna sin dall'inizio, anche se verrà accentuandosi: l'essere iperbolico, ossia l'eccedere nella valutazione delle ragioni del dubitare, nel ritenere che un errore sia sufficiente a screditare tutto un ordine di conoscenza, ma soprattutto nell'assimilare nel secondo tempo del procedimento dubitativo il dubbio al falso.

Questa impostazione del dubbio metodico, che nella IV parte del Discorso è drasticamente iperbolica sin dall'inizio, verrà contestata particolarmente da Gassendi e Leibniz.

Da rilevare inoltre un duplice cambiamento lungo il decorso del dubbio metodico. Il problema della verità subisce una modifica d'impostazione: nella fase relativa alle rappresentazioni sensoriali è in questione la loro corrispondenza alla realtà esterna, in quella riguardante le conoscenze di ordine intellettivo, come quelle matematiche, è in gioco la loro validità oggettiva, a prescindere da alcun riscontro in natura. Inoltre si passa dalle ragioni di dubbio di ordine naturale, in cui si considerano direttamente le capacità conoscitive quali si rivelano nella loro attività, a quelle di ordine metafisico, sull'origine della natura umana e sul suo autore; questo passaggio consente di distinguere due momenti nel procedimento dubitativo considerato nel suo insieme.

1) Le ragioni di dubbio che Cartesio adduce nel primo tempo sono desunte dai testi classici dello scetticismo, ma con diversa impostazione e con diversa finalità: "non che con questo imitassi gli scettici che non dubitano che per dubitare ed ostentano di essere sempre irresoluti; al contrario, tutto il mio disegno non tendeva che ad essere certo". Cartesio non intende affidarsi ad una certezza, senza esigerne i titoli di credito.

Cartesio non prende ad esaminare singolarmente ciascuna opinione, ma inizia con l'indagare "i principi sui quali si fondano tutte le opinioni ricevute", ossia le fonti del conoscere: "tutto ciò che finora ho ammesso per estremamente vero l'ho ricevuto dai sensi; ma ho costatato che talora i sensi mi ingannano, e la prudenza insegna a non fidarsi mai interamente di coloro che ci hanno ingannati sia pure una volta". Il dubbio esteso a tutte le rappresentazioni di ordine sensoriale, sia dei sensi esterni che dell'immaginazione che ne dipende, viene confermato dalla mancanza di "indizi sicuri per distinguere la veglia dal sonno", le rappresentazioni che riteniamo provocate dall'esterno dalle rappresentazioni oniriche o in generale dalle allucinazioni, e coinvolge in conseguenza tutte le scienze che si basano sulle rappresentazioni sensoriali che si presumono reali, come la fisica, l'astronomia, la medicina. E non si arresta neppure dinanzi alle rappresentazioni semplici, non soggette a indebita composizione dell'immaginazione, né alle proposizioni generali, come quelle dell'aritmetica e della geometria, non legate all'esistenza o meno di oggetti che le verifichino, per il porsi di una estrema ragione di dubbio, il dubbio sulla stessa origine sull'autore della natura umana, che l'avrebbe conformata in modo tale da ingannarsi anche rispetto a ciò che appare certo ed evidente. Quest'ultima istanza dubitativa, che riassume per la sua radicale impostazione tutti i dubbi precedenti, comporta una riformulazione del dubbio metodico con accentuazione del carattere iperbolico (si rigetta "tutto ciò che comporta il minimo dubbio come se [...] fosse risultato completamente falso") a partire dall'esistenza del mondo esterno e del proprio corpo fino all'evidenza intrinseca delle proposizioni matematiche.

2) In questo secondo momento del procedimento dubitativo che prende in considerazione l'autore della natura umana, Cartesio si richiama per prima a una vetus opinio: "ho impressa nella mente un'antica opinione, secondo la quale esiste un Dio che può tutto e dal quale sono stato creato così come sono". Nell'esposizione di questa opinione si sottolinea l'attributo della potenza illimitata, che comporterebbe anche il potere di ingannare. Alla vetus opinio Cartesio sostituisce l'ipotesi del "genio maligno": "supporrò [...] che non l'ottimo Dio, fonte di verità, ma un genio maligno, e per giunta estremamente potente e astuto, abbia posto in atto tutta la sua abilità nell'ingannarmi". Nel corso del dubbio iperbolico si deve quindi tener conto di tre figure: la vetus opinio di un Dio onnipotente, l'idea dell'ottimo Dio e l'ipotesi del genio maligno.

Il dubbio metodico trova il suo limite proprio nell'accentuazione massima del suo carattere iperbolico con il conseguimento della prima verità incontrovertibile, ossia di una verità che gli resiste incondizionatamente: "[...] vi è un impostore estremamente potente, estremamente astuto, che si adopera ad ingannarmi sempre. Dunque non vi è dubbio che anch'io esisto, se egli mi inganna; e mi inganni quanto può, tuttavia non sarà mai in grado di far sì che io non sia nulla, finché penserò di essere qualcosa. Di modo che, esaminata attentamente ogni cosa più del dovuto, in definitiva si deve ritenere saldamente che questa proposizione io penso, io esisto è necessariamente vera ogniqualvolta viene da me espressa o concepita con la mente".

II meditazione: "Cogito" e "regola generale" dell'evidenza

Spazzato così il terreno da ogni residuo di sapere tradizionale, Cartesio, nella II meditazione, comincia a costruire il nuovo edificio del sapere. Anche nell'ipotesi che vi sia "non so quale ingannatore, sommamente potente e astuto", non posso dubitare della mia esistenza.

Lo statuto dell'affermazione: io penso, io esisto, che emerge dal dubbio metodico come prima verità assoluta irrefutabile, è quello di pura intuizione e non di conclusione di un ragionamento. In altre parole: nella coscienza del pensare è implicita la coscienza d'essere. "Quando qualcuno - osserva Cartesio agli autori delle II Objectiones - dice: "io penso, dunque sono o esisto", non conclude la sua esistenza dal suo pensiero come in virtù di un sillogismo, ma l'apprende come una cosa di per sé nota con la semplice intuizione della mente". Se così non fosse, se si trattasse invece di sillogismo, allora presupporrebbe, contrariamente all'impostazione del dubbio universale, delle premesse valide.

Pertanto le locuzioni donc, ergo che ricorrono in alcune formulazioni del cogito non possono avere valore illativo, ma essere segni di una presa di coscienza del nesso necessario tra il mio pensare e il mio esistere attuale, non in una considerazione astratta, ma nella mia esperienza diretta.

L'incidenza nel cogito della dimensione ontologica, per lo stretto connubio tra pensiero ed essere, comporta non una sua semplice analisi formale, ma il suo configurarsi in una realtà sostanziale. "Ora io non ammetto altro se non ciò che è necessariamente vero; sono quindi precisamente soltanto una cosa pensante, cioè una mente o animo o intelletto o ragione [...] E che cos'è una cosa pensante? È una cosa che dubita, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente".

[Che cosa sono io]

A questo punto si tratta di vedere che cosa sono, o meglio, che cosa sono certo di essere. È necessario vedere innanzitutto di che cosa io possa o meno dubitare in me stesso.

Il secondo tema prende l'avvio dal persistere della persuasione che le cose corporee, ossia ciò che cade sotto i sensi si conosca più distintamente della parte di me stesso che non cade sotto l'immaginazione. Cartesio svolge una serie di considerazioni in cui mette in evidenza la possibilità di dubitare di tutto il dominio del sensibile, giungendo però a distinguere tra il carattere dubbio del sentito dall'evidenza in atto del sentire: anche se ciò che sento non esiste, è pur vero che mi par di vedere, udire, sentir caldo. Ma in questo senso il sentire si riduce al pensare. Cartesio quindi ritorna a ribadire l'originaria affermazione del cogito. Il percepire qualsiasi corpo conferma l'esistenza del soggetto che la percepisce, ma comporta anche e soprattutto un'affermazione di principio: se "i corpi vengono percepiti non per la ragione che si tocchino o si vedano ma soltanto perché vengono colti dall'intelletto (intelligantur) [...] nulla può essere percepito da me più facilmente o più evidentemente della mia mente". "Sono certo di essere una cosa pensante". Questa conoscenza che si sottrae ad ogni possibilità di dubbio mi consente a sua volta di conoscere cosa si richieda perché io sia altrettanto certo di altre conoscenze. "In questa prima conoscenza non si riscontra altro che una percezione chiara e distinta di ciò che affermo; ora, questa percezione non sarebbe sufficiente a rendermi certo della verità della cosa, se si potesse dare che fosse falso ciò che venissi a percepire così chiaramente e distintamente. Pertanto mi sembra di poter stabilire come regola generale che è vero tutto ciò che percepisco molto chiaramente e distintamente".

III meditazione: Dimostrazione dell'esistenza di Dio "ab effectibus"

[Il criterio di verità]

Nella terza meditazione, prima di procedere ad indagare se esistano altre realtà, oltre a me come soggetto pensante, Cartesio si domanda perché è certo di essere una cosa pensante. E risponde: perché percepisco chiaramente e distintamente quello che affermo.

Dunque posso assumere come regola generale che tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente è vero.

Ma anche le verità matematiche sono chiare e distinte, eppure Cartesio le ha sottoposte al dubbio. Perché? Per quell'ipotesi del Dio onnipotente e ingannatore. Certo, un tale Dio o genio, non potrebbe mai "fare in modo che io non sia mentre penso", ma sulla possibilità di estendere la regola generale o principio dell'evidenza oltre la certezza dell'io pensante grava tuttavia l'ipotesi, non ancora dissolta, di un dio ingannatore. Per quanto possa essere tenue la ragione di dubbio che poggia su questa ipotesi, non si potrà essere certi di alcun'altra conoscenza se non si avrà risposto a questi interrogativi fondamentali: esiste Dio? ammesso che esista, può ingannare e ingannarmi?.

Due sono in definitiva le prove con cui Cartesio dimostra l'esistenza di Dio:

1) la prima viene da lui denominata ab effectibus ed esposta nella III meditazione,

2) la seconda, abitualmente detta ontologica, nella V meditazione. Entrambe partono dalla considerazione dell'idea di Dio presente insieme ad altre idee nella res cogitans. Ma mentre la prima si basa sul raffronto dell'idea di Dio con quella della res cogitans e sul ricorso al principio di causalità, nella seconda si considera l'idea di Dio in se stessa e si tien conto delle due categorie: essenza ed esistenza.

[L'esistenza di Dio - Primo argomento]

Il punto di partenza non potrà essere che l'io con le sue cogitationes, poiché il resto non si sa ancora se esista.

L'indagine su Dio, sulla sua esistenza e la sua natura, si inquadra quindi in un contesto più generale di ricerca: "esistono fuori di me" - cosa pensante che ha delle idee - "alcune delle cose di cui ho in me le idee?", e costituisce la tappa ulteriore dell'iter metafisico cartesiano, in cui si tende al superamento della barriera del solipsismo e ad affermare una realtà transubiettiva, che trascenda l'io pensante, partendo dall'esame delle idee stesse, non in quanto sono puri e semplici "modi di pensare", ma quanto al loro contenuto o alla loro apparente origine.

Delle idee che sono in me alcune si presentano come immagini o rappresentazioni di cose e sono esse a doversi chiamare propriamente idee. Altre invece esprimono un modo d'essere od operare dell'io, quali sono le idee di passioni, volizioni, giudizi.

Delle idee propriamente dette alcune sembrano essere innate, ossia provenire dalla mia stessa natura, come l'idea di verità, quella di pensiero; altre sembrano derivate dal di fuori; altre sembrano essere fatte o formate da me stesso. Queste tre categorie di idee vengono chiamate rispettivamente idee innate, idee avventizie, idee fattizie. Cartesio individua nell'esame delle idee, se si prescinde da quelle che sono palesemente formate o inventate dall'io, le idee fattizie, la "via per indagare se esistono altre cose fuori di me". E le esamina dal punto di vista del loro contenuto, ricorrendo - con un procedimento innovativo - a due categorie scolastiche ma con accezione diversa: realitas objectiva e realitas formalis, e al principio di causalità, che estende ed applica in contrasto con il pensiero tradizionale.

Tutte le idee possono essere considerate o in quanto sono "modi di pensiero" o in quanto mi rappresentano qualche cosa. Cartesio, seguendo la terminologia scolastica, chiama realtà formale quella delle idee come modi cogitandi e realtà oggettiva quella delle idee in quanto rappresentano un oggetto. In altri termini: se la "realtà formale" di un'idea è quella di essere un modus cogitandi, la sua "realtà oggettiva" è quella di essere un cogitatum. Ora, in quanto modi cogitandi, le idee sono tutte della medesima stoffa; nella loro realtà oggettiva, invece, sono molto diverse fra loro: quelle che mi rappresentano sostanze hanno più "realtà oggettiva" di quelle che mi rappresentano modificazioni; l'idea di Dio ha più realtà oggettiva dell'idea di una sostanza finita.

Ora Cartesio applica alle idee un principio che ritiene evidente, e cioè che la causa deve contenere in sé almeno tanta realtà quanta ne contiene l'effetto, e argomenta così: la causa di una idea deve contenere in sé almeno tanta realtà formale quanta è la realtà oggettiva dell'idea. Ora io, che sono una sostanza pensante, contengo in me tanta realtà quanta è quella contenuta in tutte le cose delle quali ho idee - all'infuori di una: l'idea di Dio.

L'estensione del principio di causalità alla realtà oggettiva delle idee postula cause che siano ad essa adeguate. - Potrei quindi essere io stesso la causa delle idee dei corpi, degli altri uomini, degli angeli; ma non posso essere io la causa dell'idea di Dio che è l'idea di una sostanza infinita, mentre io sono finito. Dunque deve esistere una sostanza infinita sommamente intelligente e potente, come causa dell'idea che ne ho.

L'idea di Dio che sottende alla dimostrazione dell'esistenza di Dio non è da confondersi con quell'"antica opinione, secondo la quale esiste un Dio che può tutto e dal quale sono stato creato così come sono". Questa opinione sarebbe, nella terminologia cartesiana, un'idea avventizia, acquisita "solo per il fatto che abbiamo udito enunciare su Di alcuni attributi", ma essa rimanda inevitabilmente ad una idea innata che mi si rivela nell'esperienza della mia imperfezione e finitezza, quale è attestata dal mio dubitare. Per Cartesio la consapevolezza della propria finitezza e imperfezione è riflesso della stessa idea innata di Dio. L'idea di Dio, non avventizia, né fatta da me, è nata con me, è innata, come l'idea di me stesso, non nel senso che sia una rappresentazione chiaramente formulata sin dall'inizio del mio essere come pensiero e sempre presente come tale alla mente, ma nel senso che "abbiamo in noi stessi la facoltà di produrla". Non si tratta certo del produrre arbitrario, e quindi intenzionale, che caratterizza la formazione dell'idea fattizia avvalendosi di elementi precostituiti, ma dell'attività, direi spontanea, della res cogitans conforme alla sua natura come creata da Dio a sua somiglianza.

[Rilievi critici]

A questa prova cartesiana dell'esistenza di Dio, muove obiezioni il teologo olandese Johan de Kater (Caterus), l'autore delle Prime obiezioni. Catero domanda: che cos'è la realtà oggettiva di una idea? cosa vuol dire essere oggettivamente nell'intelletto? Per Catero non è altro che l'essere pensato di una cosa, l'essere termine, a modo di oggetto, di un atto di intellezione. - Ora l'essere pensato non aggiunge nulla alla cosa pensata, non è un ente reale, q quindi non ha causa. Cartesio risponde: se si presuppone già l'esistenza di cose distinte da me che le penso, si potrà dire che la loro presenza nel pensiero non aggiunge loro nulla, che è una denominatio estrinseca alle cose stesse; ma se si parte dalle idee, si deve ammettere che il loro "essere oggettivamente" è qualche cosa; è un "modo di essere molto più imperfetto di quello per cui le cose esistono al di fuori dell'intelletto, ma tuttavia non è un nulla". Dice inoltre Cartesio: se uno pensa questo piuttosto che quest'altro, se uno pensa, ad es., una macchina molto ingegnosa, debbo chiedermi perché la pensa, e non sarei soddisfatto se uno mi rispondesse: siccome l'esser pensato non è un essere reale, non c'è una causa, un perché di esso. Dovrei invece dare una di queste risposte: o perché ha visto la macchina reale, o perché ne ha vista una simile, o perché l'ha inventata con le sue conoscenze di meccanica; ossia perché l'ha prodotta o è capace di produrla. Ora io pensante, imperfetto, non posso produrre Dio.

IV meditazione: Del vero e del falso

Riflettendo sulla certezza della propria esistenza come res cogitans, Cartesio ha ricavato il criterio di verità (chiarezza e distinzione); adoperando questo criterio ha formulato un principio (l'effetto non può contenere più realtà di quanta ne contenga la causa), e, applicando tale principio all'idea che abbiamo dell'essere infinito, ha dimostrato l'esistenza di un tale Essere, cioè di Dio. Ora dall'esistenza di Dio cercherà di inferire altre verità.

Ma prima ancora di inferire altre verità indaga nella IV meditazione, sulla conoscenza della verità in generale e sul motivo dell'errore.

Il dubbio metodico con le acquisizioni delle prime verità fondamentali sull'io pensante e su Dio ha perduto gradualmente il suo carattere di universalità, di estendersi a tutte le opinioni. Il dubbio comunque persiste, anche se non più radicale ed iperbolico nella formulazione imposta dall'ipotesi del genio maligno, almeno finché non si risolve il problema della natura e dell'origine dell'errore nella conoscenza con il quale il dubbio è strettamente connesso. La soluzione va cercata nell'analisi delle conoscenze certe già conseguite nell'iter che riguardano l'io e il suo creatore.



Dio, infinitamente perfetto, non può ingannarci; dunque quando adoperiamo la facoltà di giudicare - che ci è data da Dio come tutto il nostro essere - non possiamo ingannarci, se la adoperiamo bene.

E allora come mai qualche volta sbagliamo?

Un primo tentativo di risposta è che noi siamo realtà finite, ed essere finiti vuol dir essere, in certo modo, fra Dio e il nulla; ora in quanto abbiamo l'essere, abbiamo solo qualità positive, ma in quanto partecipiamo del nulla possiamo cadere in errore. Ma questa risposta non soddisfa, perché l'errore non è una semplice negazione, ma una privazione; ossia: il mio essere limitato può spiegare la mia ignoranza, ma non spiega l'errore, che è l'assenso dato a ciò che non è "chiaro" (non è dato, non è presente).

Allora, dice Cartesio, riflettendo meglio su me stesso mi accorgo che l'errore dipende da due cause: dalla facoltà di conoscere e dal libero arbitrio: dall'intelletto e dalla volontà.

L'intelletto presenta soltanto idee, quindi non può sbagliare. Con il solo intelletto percepisco le idee con cui posso formare un giudizio, le idee che posso affermare e negare. In esso in quanto tale non può riscontrarsi in quanto tale alcun errore. L'intelletto percepisce o no, ha delle idee o non ne ha. Che la realtà sia immensamente più ampia delle mie idee, che io ne abbia quindi pochissime rispetto alla realtà, non è un errore, ma solo un limite della mia conoscenza. La mia libertà, invece, in certo senso, non ha limiti: la libertà non è maggiore in Dio che in me, "poiché consiste solo in questo: nel poter fare o non fare una cosa (cioè nel poter affermare o negare, perseguire o fuggire un oggetto) ... sì da non sentirci determinati da nessuna forza esterna". Quello che è essenziale alla libertà è il non essere determinati da una forza esterna; una propensione che venga da me, dall'interno, non toglie la libertà: anzi, una conoscenza evidente che mi determini all'assenso o una grazia divina che mi disponga a voler non tolgono la libertà, ma la rafforzano. Quanto più la libertà è decisa, tanto più è libera; l'indifferenza (cioè l'esitazione) è l'infimo grado di libertà.

Ora, proprio perché la volontà ha una sfera più ampia dell'intelletto, essa può assentire anche a ciò che l'intelletto non vede: posso voler affermare più di quello che vedo. L'errore è dovuto, dunque, da una trasgressione della volontà: è un fatto ateoretico.

La causa dell'errore non può risiedere nelle facoltà per sé considerate che hanno Dio per autore: ciascuna esplica una attività specifica, nella quale non può errare, se debitamente svolta, ossia in conformità alla sua natura. Atteso che "come sappiamo per luce naturale la percezione dell'intelletto deve sempre precedere la determinazione della volontà", la causa dell'errore è nel modo indebito da parte mia di usare le due facoltà nel giudizio, nel non contenere la volontà che è più ampia dell'intelletto nei limiti delle percezioni chiare e distinte presentate dall'intelletto, nell'estenderla anche alle cose che non intendo o che percepisco confusamente e rispetto alle quali non dovrei non essere che indifferente. Da questa analisi dell'origine e della causa dell'errore segue una indicazione metodologica fondamentale. Quando non percepisco chiaramente e distintamente qualcosa, se mi astengo dal giudicare agisco rettamente e non corro alcun rischio di sbagliare.

V meditazione: Dell'essenza delle cose materiali e della dimostrazione dell'esistenza di Dio "a priori"

Dopo aver indicato la causa dell'errore, Cartesio si domanda nella V meditazione cosa possiamo sapere con certezza delle cose materiali.

Chiara e distinta è l'idea dell'estensione, delle sue parti, figure, posizioni; del moto locale, della durata. Su queste idee posso formulare proposizioni evidenti, posso dedurre da queste altre proposizioni particolari e conoscere quindi moltissime verità che sono indipendenti dall'esistenza di oggetti fuori di me: anche se, infatti, non esistesse nulla fuori di me, sarebbero sempre validi i teoremi della geometria. Queste verità dipendono dalla natura di certe idee, le quali non sono foggiate da me, ma hanno "vere ed immutabili nature".

In questa meditazione appare riformulata schematicamente la concezione meccanicistica della natura corporea, ma questa volta sulle basi ontologiche dell'evidenza - "ho già dimostrato ampiamente che tutte le cose che conosco chiaramente [e distintamente] sono vere" -. Qui occorre tener presente la dimensione ontologica che Cartesio attribuisce all'idea chiara e distinta e che ribadisce nella conclusione della IV meditazione: "ogni percezione chiara e distinta è senza dubbio qualcosa [di reale e di positivo] e perciò non può essere dal nulla, ma necessariamente ha Dio come autore - quel Dio, dico, sommamente perfetto, che ripugna che possa ingannare -, e perciò è senza dubbio vera".

Questo sviluppo di considerazioni sulla natura o essenza delle "cose materiali" sulla base dell'evidenza delle loro idee, occasiona un'altra possibilità di dimostrare l'esistenza di Dio. "Ora, se per il solo fatto che io posso tirar fuori dal mio pensiero l'idea di una cosa, ne segue che tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente appartenere a quella cosa le appartiene in realtà, potrò desumere di qui un altro argomento per dimostrare l'esistenza di Dio. Ho infatti l'idea di Dio, cioè dell'essere perfettissimo, non meno di quanto abbia l'idea di una qualsiasi figura o numero, e vedo non meno chiaramente e distintamente che alla sua natura compete l'esistere sempre"; dunque l'esistenza di Dio è evidente come sono evidenti le verità geometriche.

A prima vista questo argomento sembra un sofisma, dice Cartesio, perché in tutte le altre cose l'essenza si distingue dall'esistenza; ma in Dio no; l'essenza di Dio implica l'esistenza come l'essenza del triangolo implica un certo rapporto tra gli angoli. L'esistenza è una perfezione; ora Dio ha tutte le perfezioni, dunque Dio esiste. E questa comprensione di tutte le perfezioni nell'idea di Dio non è un'idea fattizia, ma è un'idea innata.

L'argomento, che si basa in generale sulla considerazione dell'essenza di Dio, viene denominato, da Kant in poi, ontologico. Ebbe una sua prima formulazione nel II cap. del Proslogion di S. Anselmo, partendo dall'idea: "l'Essere del quale non si può pensare nulla di più grande", argomentazione già contestata dai suoi contemporanei, in particolare dal monaco Gaunilone nel Liber pro insipiente. Nello scritto precritico L'unico fondamento possibile di una dimostrazione dell'esistenza di Dio (1763) Kant nel confutare il tipo di argomentazione "in cui si conclude dal possibile come principio all'esistenza di Dio come conseguenza" si richiama "a una celebre prova che è costituita su questo principio, cioè la cosiddetta prova cartesiana", ma nella Critica della ragion pura (II. Dialettica trascendentale), nella ripresa della confutazione del procedimento dimostrativo che denomina ontologico, cade ogni riferimento esplicito a Cartesio.

Nella V meditazione Cartesio non si è limitato a proporre una nuova dimostrazione dell'esistenza di Dio, ma si è soffermato a rilevare l'incidenza fondamentale che la certezza della sua conoscenza ha in tutto l'ambito della scienza, ossia della conoscenza chiara e distinta con cui attingiamo ala realtà: "non solo sono certo di essa come di ogni altra cosa che mi sembra certissima, ma rilevo inoltre che proprio da essa dipende la certezza delle altre cose così, che senza questa non si può saper nulla perfettamente [...] Vedo chiaramente che la certezza e la verità di ogni scienza dipende unicamente dalla conoscenza del vero Dio, di modo che prima di conoscere Dio, non avrei potuto sapere nulla perfettamente di alcuna cosa".

In questo sviluppo di considerazioni si è ravvisato un circolo vizioso: la "regola generale" dell'evidenza preordina e legittima le successive illazioni dell'iter metafisico e quindi della dimostrazione dell'esistenza di Dio, ora nella conoscenza certa dell'esistenza di Dio si riconosce il fondamento di ogni altra certezza, circolo vizioso contestatogli dai sui critici.

Per Cartesio il circolo vizioso non sussiste se si tiene conto dell'ordine analitico da lui seguito nell'iter metafisico. Il ricorso a Dio, una volta dimostrata la sua esistenza nella III meditazione attraverso il principio dell'evidenza, interviene in un secondo momento per garantire le deduzioni o conclusioni la cui evidenza non è più in atto, perché passate nel dominio della memoria. A tale ricorso si sottrae il principio dell'evidenza e ancora prima il cogito, non solo perché raggiunto prima che risultasse l'esistenza di Dio, ma perché non è conclusione di una dimostrazione, ma una intuizione. Dio allora si rende garante non del retto funzionamento del conoscere, in quanto legato alla responsabilità ed accortezza dell'io nell'uso delle norme metodologiche, ma dell'evidenza che anche se memorizzata conserva la sua connotazione ontologica: Dio che ha creato e conformato la mente umana non può deluderla o ingannarla e quindi "anche se non penso più alle ragioni per cui ho giudicato che ciò è vero, purché mi ricordi di averne avuto una percezione chiara e distinta non si può addurre alcuna ragione contraria che mi induca a dubitarne, ma ne ho una scienza vera e certa".

Quando ho presente una verità evidente non posso non dare l'assenso ed essere convinto che in realtà è così - dice Cartesio -; ma poiché non posso sempre aver presenti tutte le verità che ho conosciute con evidenza; siccome per la maggior parte di esse debbo affidarmi alla memoria, potrei essere fuorviato da obiezioni contro tali verità, quando non ho attualmente presente la verità conosciuta, se non sapessi che esiste Dio, dal quale dipende ogni cosa e che egli non mi può ingannare, perché è infinitamente perfetto.

VI meditazione: Della esistenza delle cose materiali e della distinzione reale della mente dal corpo

"Resta da esaminare se le cose materiali esistano", così comincia la VI meditazione.

La dimostrazione cartesiana dell'esistenza dei corpi è assai laboriosa.

Le tappe di questa ricerca sono le seguenti:

1) Le cose materiali, nei limiti e sotto gli aspetti in cui sono oggetto della matematica pura, sono possibili, perché le loro idee sono chiare e distinte. Tali aspetti sono: numero, estensione, figura, moto locale (tutto ciò che Cartesio ha ritenuto oggetto di autentico sapere fin dalle Regulae)

2) L'immaginazione dimostra che l'esistenza di cose materiali è probabile. È probabile almeno l'esistenza di una cosa materiale: il mio corpo. E questo a) perché l'immaginazione è diversa dal pensiero, b) e perché le caratteristiche dell'immaginazione rimandano, almeno con probabilità, all'esistenza, in me, di qualcosa che non sono io, ma appartiene a me, cioè il mio corpo.

a) Altro è pensare, altro immaginare. Pensare un triangolo vuol dire definirlo esattamente, immaginarlo vuol dire aver presente una figura che non è mai esattamente triangolare. La differenza fra pensare e immaginare si coglie bene a proposito di realtà che non riusciamo a immaginare: p. es. il chiliogono, che pure posso definire esattamente e del quale posso dimostrare tanti teoremi.

b) Ora si tratta di interpretare questa differenza fra immaginazione e pensiero. Io sono pensante, sono res cogitans, ma non sono necessariamente dotato di immaginazione: potrei essere io anche se non sapessi immaginare; dunque l'immaginazione non appartiene alla mia essenza. Ora se l'immaginazione è in me, ma non appartiene alla mia essenza, non le è costitutiva, vuol dire che è l'effetto in me di qualche cosa che è diverso da me. Ora può darsi che questo qualche cosa sia il corpo. Posso dunque congetturare che esista il mio corpo.

3) Poiché siamo arrivati ad una conclusione soltanto probabile, proviamo a rivolgerci altrove: alle qualità sensibili, che percepisco non così distintamente come percepisco l'oggetto della matematica, ma li percepisco con quel modus cogitandi che chiamo senso.

Prima di mettermi a filosofare ritenevo vero (ossia esistente indipendentemente da me) quello che percepivo sensibilmente.

Ora, per vero so solo di essere pensante - e poiché so che Dio può fare tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente così come io lo percepisco, ed io mi percepisco pensante senza percepire in me altri attributi, concludo che la mia essenza consiste soltanto nell'essere una cosa pensante. Anche se sono unito a un corpo, questo corpo è distinto da me, è qualcosa senza cui posso esistere, perché l'idea della sostanza corporea, che è pura estensione, è distinta dall'idea di sostanza pensante, che è puro pensiero.

Trovo in me le facoltà di immaginare e di sentire che implicano il pensare, che sono un certo modo di avere coscienza. E poiché il modo fondamentale di aver coscienza, quello che mi definisce, quello che è il mio "attributo", è il pensare, dirò che immaginare e sentire sono i miei "modi", come la facoltà di mutar luogo, di assumere figure diverse ecc., sono "modi" della sostanza estesa.

Ora questi "modi" dell'attributo pensiero, che sono l'immaginare e il sentire, implicano una certa passività. Non sono io, dunque, la causa di ciò che è sentito. La causa deve essere distinta dall'io e non potrebbe contenere in sé in modo soltanto virtuale la realtà dei corpi (ossia non può essere Dio stesso, o uno spirito creato) perché, se così fosse, Dio mi ingannerebbe. Non mi ha dato infatti nessuna facoltà per conoscere che la causa delle mie idee dei corpi sia una causa di natura spirituale; anzi mi ha dato una grande inclinazione a credere che le idee delle cose corporee siano prodotte in me da corpi realmente esistenti. "E perciò, le cose corporee esistono".

Ma non esistono così come le sentiamo, perché la percezione sensibile è in molti casi oscura e confusa; esistono con quelle proprietà che conosco chiaramente e distintamente, cioè con quelle che sono oggetto della matematica. La percezione sensibile non ha, secondo Cartesio, una funzione conoscitiva, ma una funzione pratica: quella di dirigerci verso la conservazione e il benessere del nostro corpo: ci fa conoscere gli aspetti per cui i corpi ci possono essere utili o nocivi. Le idee delle qualità sensibili non hanno dunque un corrispondente nella realtà corporea, ma sono soltanto modi cogitandi.

5. LA MORALE. LE PASSIONI DELL'ANIMA.

Cartesio non compose alcuno scritto organico o trattato di morale, per quanto gli argomenti afferenti a questo campo di ricerca lo abbiano interessato sin dalle prime fasi della sua ricerca filosofica e la stessa impostazione di indagine sin dall'inizio sia stata caratterizzata da un atteggiamento pratico, dall'esigenza di definire criteri e norme di orientamento nella vita. Non vi è dubbio che il progetto di una esposizione sistematica di questa parte del suo pensiero che doveva costituirne il coronamento rientrava nelle intenzioni programmatiche di una visione filosofica integrale. Più di un motivo comunque lo rese incerto e perplesso a tradurlo in atto o lo indusse a rinviarne la realizzazione, e la morte che lo colse prematuramente nel periodo in cui più direttamente era impegnato nella trattazione di argomenti morali dovette troncare ogni eventuale progettazione in corso.

Nel 1647, in una lettera, adduceva i seguenti motivi, per cui era venuto nella determinazione di non scrivere, ossia di rendere pubblica ragione i suoi pensieri sulla morale: il timore di calunnie e la convinzione che fosse compito dei sovrani regolare i costumi. Questo secondo motivo rifletteva una considerazione già avanzata nel Discorso.

Nella riflessione filosofica di Cartesio si delineano sostanzialmente tre prospettive morali, l'una come superamento o soluzione succedanea dell'altra.

1) Una prima "idea di morale" è concepita come scienza deduttiva, ultimo sviluppo della fisica e della medicina concepite meccanicisticamente. È la morale delineata nella Lettera-prefazione dei Principi della Filosofia (1647) con cui si consegue il più alto grado di saggezza. Essendo l'ultima nella catena delle scienze, poiché la volontà non può astenersi dall'agire, per sottrarci da un atteggiamento di irresolutezza che è il peggiore dei mali dell'intelletto deve proporsi una "morale par provision", destinata ad essere accantonata non appena raggiunta la morale definitiva. Ma questa morale esatta e perfetta Cartesio non l'ha mai scritta. Invece della cosiddetta "morale provvisoria" ci restano solo alcune norme, come quelle che vengono presentate nella III parte del Discours.

Negli intenti di Cartesio esse rappresentano ragionevoli norme di comportamento da proporsi "per non restare irrisoluto nelle azioni durante il tempo in cui la ragione l'avrebbe obbligato a esserlo nei suoi giudizi" e vanno a costituire il nucleo di quella "morale par provision" (una morale "di attesa") resa necessaria dalle esigenze della vita pratica, indilazionabili, in attesa dei risultati di una ricerca filosofica alla cui luce queste massime possono risultare fondatamente valide.

a) "La prima massima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, continuando ad aderire saldamente alla religione nella quale Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dalla mia infanzia, e orientandomi in ogni altra cosa secondo le opinioni più moderate e più lontane dall'eccesso, che fossero seguite in pratica dalle persone più sensibili fra quelle con cui avrei dovuto vivere";

b) La seconda massima prescrive di "essere il più fermo e il più risoluto possibile nelle azioni di seguire le azioni più dubbie, una volta determinatisi per esse, con non minore risolutezza che se fossero certe".

c) La terza massima, che risente chiaramente dell'influenza stoica, così recita: "cercare sempre di vincere me piuttosto che la fortuna e di mutare i miei desideri piuttosto che l'ordine del mondo, e in generale di abituarmi a credere che non vi è nulla che sia interamente in nostro potere oltre ai nostri pensieri, di modo che dopo aver fatto del nostro meglio riguardo alle cose a noi esterne, quanto non riusciamo a fare esorbita del tutto dalle nostre possibilità".

2) La seconda idea di morale rimanda al Trattato delle passioni dell'anima, dal quale risulta una morale tratta dalla conoscenza di fatti essenzialmente psicofisici: le passioni. Qui si rimane ancora nell'ambito di una ricerca strettamente razionale, perseguendo una conoscenza chiara e distinta, la cui certezza è interamente assicurata, "dal momento che si distingue accuratamente fra i tre elementi della natura umana [la sostanza nella sua composizione unitaria, l'intelletto e l'estensione ciascuno dei due presi a sé] e ciò che proviene da ognuno di essi"; tuttavia questa scienza delle passioni "viene così a mettere insieme evidenze di ordine diverso, le une puramente razionali relative sia alla sola estensione (meccanismi fisiologici) sia alla sola anima (diverse funzioni dell'anima, emozioni che derivano dalla sola anima, come la contentezza di sé di origine puramente interna, etc.), le altre soprattutto sensibili, che riguardano il sentimento stesso della passione".

Il trattato Le passioni dell'anima, la cui stesura iniziata nell'inverno 1645-6 si accompagna alla corrispondenza epistolare sulla morale scambiata con la principessa Elisabetta, l'amico Chanut e Cristina di Svezia, affronta "questioni particolari della morale", legate alla problematica dell'unione dell'anima con il corpo, nel contesto dello sviluppo della filosofia naturale dalla pura e semplice concezione meccanicistica ad una più attenta considerazione delle complesse interazioni delle due parti del composto umano. Si deve alle istanze delle principessa Elisabetta, perplessa sulla possibilità dell'unione di una sostanza immateriale con il corpo, e soprattutto per il condizionamento che l'anima subisce nelle sue operazioni dalle disposizioni organiche, se Cartesio, dopo aver risposto occasionalmente a vari quesiti che gli venivano proposti, si risolse a dare una esposizione sistematica delle passioni, che sono espressione diretta dell'unione sostanziale e parte fondamentale del comportamento umano ("sono principalmente le passioni a doversi conoscere per conseguire il sommo bene".

Giova, a questo punto, prima di intraprendere una analisi del trattato, riepilogare i punti salienti del dibattito epistolare tra Cartesio e la principessa Elisabetta, figlia dell'elettore palatino Federico V. Un primo scambio epistolare diretto si ebbe nel maggio 1643, relativamente a un tema cruciale - per il nostro trattato e per l'intera metafisica cartesiana - dell'unione delle due sostanze, la res cogitans e la res extensa, argomento peraltro basilare nelle definizione delle natura del soggetto della morale. Elisabetta non si limitava a proporre il quesito seguente: "come l'anima dell'uomo può determinare gli spiriti del corpo per compiere le azioni volontarie, non essendo che una sostanza pensante", ma adduceva un'argomentazione contro la possibilità dell'azione dell'anima sul corpo, tenendo conto delle proprietà essenziali delle due sostanze, come erano state definite da Cartesio

Nella sua risposta Cartesio riconosceva che, mentre si era impegnato "a far bene intendere la distinzione tra l'anima e il corpo", non aveva detto quasi nulla sulla loro unione. Cercando ora "di esporre come concepiva tale unione e come l'anima ha la forza di muovere il corpo", ricorreva all'esistenza di "certe nozioni primitive, che sono come degli originali, sul cui modello formiamo tutte le nostre conoscenze". Sono ben poche: oltre le più generali che convengono a tutto ciò che possiamo concepire, come quelle dell'essere, del numero, della durata, per il corpo non si ha che la nozione di estensione, da cui seguono quelle della figura e del movimento, per l'anima quella del pensiero, nella quale sono comprese le percezioni dell'intelletto e le inclinazioni della volontà, in fine per l'anima e per il corpo insieme "non abbiamo che quella della loro unione, dalla quale dipende la nozione della forza che ha l'anima di muovere il corpo e il corpo di agire sull'anima causando le sue sensazioni e le sue passioni". Cartesio, replicando ancora ad Elisabetta, non convinta delle argomentazioni del filosofo, continua col rilevare con quali "operazioni dell'anima" si conseguono le tre nozioni primitive e come vengono rese familiari ed accessibili. L'anima la si conosce unicamente con l'intelletto puro; "il corpo, ossia l'estensione, le figure e i movimenti si possono anche conoscere con il solo intelletto, ma molto meglio con l'intelletto aiutato dall'immaginazione; e in fine le cose che appartengono all'unione dell'anima e del corpo non si conoscono che oscuramente con il solo intelletto, o con l'intelletto aiutato dall'immaginazione, ma si conoscono molto chiaramente con i sensi", per cui chi non filosofa e non si serve se non dei propri sensi non dubita minimamente dell'azione reciproca tra anima e corpo e della loro unione.

Il trattato Le passioni dell'anima fu pubblicato nel 1649, mentre Cartesio si trovava alla corte della regina di Svezia a Stoccolma. Si compone di tre parti. Nella prima parte si tratta delle passioni in generale e si riassumono le tesi sull'anatomia e la fisiologia umana; nella seconda parte della classificazione delle passioni e dell'esposizione delle sei passioni primitive; nella terza delle passioni particolari.

Cartesio classifica le passioni fra le percezioni e le definisce come percezioni che si riferiscono all'anima stessa. Le passioni sono "percezioni, o sentimenti o emozioni dell'anima che is riferiscono particolarmente all'anima stessa e che sono causate, mantenute e rafforzate da qualche movimento degli spiriti". Sono percezioni perché sono subite, a differenza degli atti di volontà; ma non sono percezioni chiare e distinte, sono sentimenti, perché sono "ricevute nell'anima nel medesimo modo degli oggetti esterni"; sono emozioni perché muovono, ossia turbano l'anima. A differenza delle idee, non rappresentano oggetti esterni; a differenza di altri modi di sentire, come la fame e la sete, non sono da noi riferite al corpo: ecco perché Cartesio dice che "si riferiscono particolarmente all'anima" - ossia ne abbiamo coscienza come modi di essere dell'io -, e tuttavia non sono causate dall'io, come gli atti della volontà, e perciò Cartesio dice che sono causate dagli "spiriti" ossia dal corpo.

Poiché l'origine delle passioni è nel corpo, l'anima non ne è padrona; può tuttavia agire sulle passioni mediante la rappresentazione delle cose che suscitano le passioni. Le "armi dell'anima", o la forza d'animo, sono i "giudizi fermi e determinati" su ciò che è bene e male, giudizi sui quali l'anima può decidere di condurre le azioni. Con questi si può reagire alla forza delle passioni.

Alla teoria generale delle passioni segue una descrizione delle varie passioni. Respinta la distinzione scolastica in concupiscibile e irascibile - in nome della semplicità dell'anima - Cartesio distingue sei passioni originarie, dalle quali dipendono le altre: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza.

Tutte le passioni sono reazioni dell'anima a ciò che giova o nuoce; ma, prima ancora di queste reazioni, Cartesio mette l'ammirazione, suscitata da ciò che è nuovo o inconsueto negli oggetti. È una passione che ha per oggetto la conoscenza, quindi i suoi moti restano nel cervello. L'ammirazione suscita il desiderio di conoscere, rinforza l'attenzione, è madre del sapere, ma anch'essa va moderata, perché potrebbe portarci a voler conoscere anche ciò che non ne vale la pena.

Le passioni sarebbero sufficienti a regolare la nostra vita se fossimo puri animali (ossia puri corpi, per Cartesio); ma in noi la parte migliore è l'anima: di qui la necessità di giudicare con la ragione in base ad un determinato concetto di uomo, il valore degli oggetti ai quali ci porta la passione.

3) Nella riflessione di Cartesio si profila inoltre una terza idea di morale, basata sul principio del meglio. Questo principio non ci prescrive più di cercare di conoscere il vero, in un modo o nell'altro, per agir bene, ma di contentarci di ciò che sembra vi si approssimi il meglio possibile. Per questa concezione della morale Cartesio risente dell'influsso della morale stoica diffusa dai primi decenni del XVI sec. Lo stoicismo conosciuto in quest'epoca è quello moralizzante dei primi due secoli d.Cartesio, di Seneca, Epitteto e Marc'Aurelio. È principalmente attraverso le numerose edizioni in latino e in volgare di Seneca che si era andato delineando uno stoicismo cristiano, differenziandosi in più orientamenti e versioni, nel tentativo di superare l'antinomia di fondo delle due concezioni.








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