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IMPRENDITORE - CRITERIO DI ECONOMICITA' - REQUISITO DELL'ORGANIZZAZIONE

giurisprudenza



IMPRENDITORE


ART. 2082 c.c. = E' imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.


L'attività imprenditoriale è tale se è svolta con caratteri di sistematicità e di continuità nel tempo.


SCOPO DI LUCRO = tale problema può dirsi superato, oggi, dagli orientamenti che si sono venuti consolidando in dottrina e in giurisprudenza, orientamenti che conducono ad affermare che lo scopo lucrativo non è un elemento essenziale perché si abbia attività di impresa. L'attività di impresa non richiede necessariamente lo scopo di profitto, come dimostra il fatto che il nostro codice colloca nell'ambito dei soggetti imprenditori anche le imprese mutualistiche, le società cooperative, le imprese pubbliche, che non hanno finalità di lucro.



Occorre, però, fare subito una precisazione: una volta detto che non è necessario lo scopo lucrativo, occorre fare i conti con l'espressione che il legislatore utilizza quando parla di "attività economica organizzata ai fini della produzione e dello scambio di beni o di servizi".



CRITERIO DI ECONOMICITA'


Cosa si intende per attività economica? Che significato deve essere attribuito a questa attività economica?

E' chiaro che attività economica non può essere intesa nel senso di attività di produzione o di ricchezza, perché già che si debba trattare di un'attività di produzione o di ricchezza lo si ricava altrimenti. Quindi, al termine "economica" va dato un significato diverso.

L'interpretazione, mai affermata, è nel senso che a questa espressione va attribuito il significato che l'attività dell'imprenditore deve essere svolta secondo criteri di economicità, che impongono che l'attività sia quantomeno rivolta alla copertura dei costi di produzione.

Quando si dice che l'attività deve essere svolta secondo criteri di economicità, si vuole affermare che l'attività può qualificarsi come imprenditoriale se è volta almeno a coprire con i ricavi i costi produttivi: non è essenziale lo scopo di profitto, ma è essenziale che vi sia l'intento di realizzare almeno un pareggio di bilancio (coprire, almeno, i costi di produzione con i ricavi).

Non possono considerarsi imprese quelle attività che non si propongono la copertura dei costi produttivi, cioè le attività di semplice erogazione (aziende di erogazione) - ESEMPIO: una mensa per i poveri che fornisca questo servizio mensa senza corrispettivo: in questo caso abbiamo un'attività di produzione di un servizio, del tutto simile a quella di un ristorante, ma non è un'attività di impresa, perché programmaticamente non si propone di coprire con i ricavi i costi di produzione = è un'azienda di pura erogazione (eroga le proprie risorse economiche, senza corrispettivo o con un corrispettivo magari se simbolico che non si propone la copertura dei costi produttivi). In questi casi siamo al di fuori dell'attività imprenditoriale.

Lo stesso discorso si dovrebbe fare anche per attività di produzione di servizi a prezzo politico: un'azienda di trasporti che applichi tariffe talmente basse da essere assolutamente incapaci di coprire i costi produttivi, non è un'impresa, perché non segue il criterio di economicità.

Questo non significa che non sono imprese quelle che non riescono a coprire i costi di produzione: non sono imprese solo quelle che programmaticamente non intendono coprire tali costi. Se un'impresa ha dei costi talmente elevati per cui non riesce a coprire tali costi con i ricavi, resta un'impresa.

Se la finalità dell'attività è rivolta alla copertura dei costi e può, quantomeno, realizzare un profitto, allora siamo nell'ambito dell'attività imprenditoriale, sia che questo fine venga raggiunto, sia che per ragioni di mercato questo fine non venga raggiunto.

Cosa ben diversa è il caso delle aziende di erogazione dove l'attività è intenzionalmente non rivolta alla copertura dei costi di produzione, ma alla erogazione diretta del patrimonio.



Ultimo elemento della nozione di imprenditore: REQUISITO DELL'ORGANIZZAZIONE - si parla di ATTIVITA' ECONOMICA ORGANIZZATA ai fini della produzione e dello scambio di beni o di servizi.

Su questo requisito dell'organizzazione e sulla sua essenzialità, le opinioni degli interpreti sono decisamente diverse.

E' assolutamente normale che l'esercizio di un'attività imprenditoriale avvenga con l'utilizzo di una struttura organizzativa.

Quando parliamo di organizzazione ci riferiamo, da un lato, all'ORGANIZZAZIONE DI PERSONE, quindi alla struttura organizzativa rappresentata dal personale dipendente, da un altro lato ci riferiamo all'ORGANIZZAZIONE MATERIALE, cioè quella costituita dagli impianti, macchinari, capannoni industriali, ecc.

Nella nozione economica tradizionale si individua l'imprenditore proprio in colui che organizza i mezzi di produzione (capitale e lavoro), quindi la funzione dell'imprenditore e che ne giustifica, da un lato, l'assunzione dei rischi, dall'altro, il diritto a percepire il profitto, è proprio il fatto di organizzare e mettere insieme i fattori produttivi.


Perché vi sia imprenditore è necessario che vi sia una organizzazione sia di mezzi che di persone?

Certamente, quello che si può affermare è che non è affatto necessario che vi sia un'organizzazione di persone: è imprenditore anche colui che esercita l'attività direttamente con il proprio lavoro e utilizzando beni strumentali (es.: piccolo commerciante che ha un negozio, dove l'elemento materiale è rappresentato dal negozio, dal bancone e dalle merci, mentre l'elemento lavoro è rappresentato esclusivamente dal suo lavoro, se non ha altri che lavorano nell'impresa). Anche se manca un'organizzazione di persone, ci troviamo ugualmente di fronte ad un imprenditore. Abbiamo conferma di questo nell'ART. 2083 c.c. - PICCOLO IMPRENDITORE - Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e tutti coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente (ma anche esclusivamente) con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia.

Quindi, ci troviamo di fronte ad un imprenditore anche quando manca un'organizzazione di persone.


Abbiamo lo stesso la figura dell'imprenditore anche quando manca sia l'organizzazione di persone, sia l'organizzazione di mezzi? Cioè, si ha lo stesso imprenditore quando manca una organizzazione?

L'opinione che sostiene l'irrilevanza dell'organizzazione si basa sull'articolo 2083 c.c.: è sicuramente imprenditore colui che svolge l'attività esclusivamente con il proprio lavoro. Nello stesso tempo, però, la norma non richiama l'esistenza di un'organizzazione strumentale, pertanto dal mancato richiamo di un'organizzazione strumentale e dal fatto che si possa fare a meno anche dell'organizzazione di persone, si è arrivati a concludere che allora anche quando manca organizzazione c'è lo stesso la figura dell'imprenditore.

A questa tesi se ne contrappone un'altra (più convincente - quella accettabile). Il nostro codice, all'ART. 2222 si occupa del LAVORATORE AUTONOMO. Il titolo che si occupa del lavoro autonomo, in realtà, si divide in due capi:

LAVORO AUTONOMO MANUALE - ART. 2222 - Contratto d'opera: Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo. Da questo si ricava che il lavoratore autonomo non intellettuale è un soggetto che si obbliga verso un corrispettivo a compiere un'opera o un servizio, con un lavoro prevalentemente (ma anche esclusivamente) proprio e senza vincolo di subordinazione, e di carattere manuale. L'articolo 2222 tende ad identificare quei soggetti che svolgono un'attività che può essere anche del tutto priva di organizzazione, svolgendola con la propria attività lavorativa, di carattere manuale. Il fatto che il legislatore individui questo soggetto e lo individui separatamente dalla figura del piccolo imprenditore ci offre un elemento di interpretazione: coloro che svolgono un'attività di carattere autonomo, attraverso essenzialmente il proprio lavoro e senza una struttura organizzativa, non sono imprenditori, ma sono lavoratori autonomi, proprio manca il requisito dell'organizzazione che consente di identificare la figura dell'imprenditore, anche quando questo sia di piccole dimensioni. Questo sta a significare che non tutte le attività di produzione di beni o di servizi danno luogo ad attività imprenditoriale, anche quando siano fatte con criteri di economicità, cioè con l'intento della copertura dei costi produttivi. Ci sono attività economicamente marginali in cui la produzione di servizi viene effettuata senza organizzazione: in questo caso siamo al di fuori della figura dell'imprenditore, quindi, non si può applicare a chi svolge questa attività di lavoro autonomo senza una struttura organizzativa, la disciplina propria dell'imprenditore.

LAVORO AUTONOMO INTELLETTUALE = i professionisti intellettuali sono coloro che svolgono un'attività che abbia un contenuto prevalentemente intellettuale (cioè, i liberi professionisti, sia quelli la cui attività è protetta e richiede l'iscrizione ad albi, come avvocati, notai, ecc., sia quelli la cui attività non è protetta e non richiede nessuna iscrizione ad albi, come ad esempio il consulente informatico). Quando parliamo dei professionisti intellettuali a cui si riferisce il codice civile, agli articoli 2229 e seguenti, dobbiamo pensare a tutti i tipi di professione che abbiano un contenuto di natura intellettuale. Il professionista intellettuale è senz'altro un soggetto che svolge attività di produzione di servizi. E' un'attività economica, perché viene fatta con l'intento di coprire i costi produttivi. E' un'attività organizzata, almeno nella maggior parte dei casi. E' un'attività svolta in maniera continuativa e sistematica. Se dovessimo basarci su tutto questo, dovremmo concludere dicendo che anche il professionista intellettuale è un imprenditore, perché si configurano gli stessi elementi e gli stessi requisiti che sono previsti dall'articolo 2082. Ma non è così: il professionista intellettuale non è un imprenditore - ART. 2238 - se l'esercizio della professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma di impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II, cioè si applicano anche le norme che regolano l'imprenditore. Questo sta a significare che, normalmente, al libero professionista non si applicano le norme dell'imprenditore. Quindi, il libero professionista, ad esempio, se diventa insolvente non fallisce; non è tenuto all'iscrizione nel registro delle imprese (a cui è obbligato l'imprenditore) - a meno che la sua attività non costituisca un elemento di un'attività organizzata in forma di impresa. Quando la prestazione professionale è solo l'elemento di una più complessa prestazione di servizio, allora il professionista intellettuale diventa imprenditore (questo è quello che ci dice l'articolo 2238).Quindi, dall'articolo 2238 si ricava che il libero professionista che si limiti solo ad effettuare la sua prestazione professionale non è un imprenditore, neanche se ha un'organizzazione molto complessa, neanche se nella sua attività ha investito largamente beni strumentali.


La disciplina dell'impresa è pensata dal nostro legislatore essenzialmente per offrire una tutela ai creditori: le norme particolari che regolano l'imprenditore sono norme che tengono conto del fatto che l'imprenditore intrattiene delle relazioni economiche con una pluralità di soggetti e sono volte fondamentalmente a tutelare coloro che entrano in contatto con l'imprenditore.

Ecco che si spiega la "pubblicità legale", cioè imporre all'imprenditore l'iscrizione nel registro delle imprese, in modo da fare conoscere ai terzi le caratteristiche dell'impresa; si spiega l'obbligo delle scritture contabili (altro requisito fondamentale); si spiega l'assoggettamento a fallimento in caso di insolvenza.


Perché allora questa disciplina non viene estesa anche al professionista intellettuale?

C'è chi ha tentato di fornire una spiegazione giuridico-economica. Ad esempio, c'è chi ha detto che il professionista intellettuale non è come l'imprenditore, perché l'obbligazione che assume nei confronti del cliente è un'obbligazione di mezzi e non un'obbligazione di risultato.

(Chi assume un'obbligazione di risultato è inadempiente se non riesce a conseguire il risultato; chi assume un'obbligazione di mezzi è inadempiente solo se non presta la necessaria diligenza per il compimento dell'opera o del servizio, però non risponde del mancato conseguimento del risultato).

Ci sono attività di impresa che non si traducono affatto nell'assunzione di obbligazioni di risultato.

Non è possibile dire che il professionista intellettuale non è un imprenditore perché la sua è un'obbligazione di mezzi e non un'obbligazione di risultato, perché ci sono professionisti intellettuali che assumono obbligazioni di risultato, come ci sono imprenditori che assumono obbligazioni di mezzi.

Allora la risposta è che si tratta di una scelta politico-legislativa che ha una sua ragione di carattere storico, perché storicamente il professionista intellettuale è sempre stato considerato qualcosa di diverso rispetto al commerciante. E, volendo, è anche un privilegio che viene accordato al professionista intellettuale, anche se è un privilegio con aspetti negativi. E' un privilegio, perché il professionista intellettuale che diventa insolvente non fallisce; però, il fatto di non essere imprenditore comporta anche conseguenze negative, perché, ad esempio, il professionista intellettuale non può avvalersi della disciplina che regola la concorrenza sleale ( = attività scorretta compiuta da un concorrente), perché tale disciplina presuppone la qualifica imprenditoriale.

Quindi, si tratta solo di una scelta politico legislativa che, tra l'altro, non può nemmeno trovare conferma in altri ordinamenti, perché magari in altri ordinamenti il professionista intellettuale fallisce come fallisce l'imprenditore.


C'è qualcosa di nuovo che sta maturando, legato in qualche modo all'evoluzione dell'attività professionale, che pone sempre più di fr 333g67d equente il ricorso a forme associate di esercizio dell'attività e, dall'altra parte, dalla normativa comunitaria che prevede l'esercizio in forma associata della attività professionali.

Questo ha comportato che anche il nostro legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento LE SOCIETA' TRA PROFESSIONISTI, il cui unico tipo, con propria disciplina, è quella della SOCIETA' DI AVVOCATI, introdotte con DECRETO N. 96/2001 che istituisce, appunto, le società di avvocati che, prima di questa legge, erano proibite.


Per ora, comunque, resta la situazione appena descritta: la professione intellettuale comporta l'esenzione dall'applicazione della disciplina dell'impresa, salvo l'ipotesi in cui si costituisca in una complessa organizzazione in forma di impresa.









Dal punto di vista dell'ATTIVITA' occorre operare una distinzione fondamentale tra:


   IMPRESA AGRICOLA

   IMPRESA COMMERCIALE


Perché bisogna operare questa distinzione?

Perché all'imprenditore agricolo non si applica lo statuto dell'imprenditore commerciale, cioè non si applicano una serie di disposizioni che invece trovano applicazione nei confronti dell'imprenditore commerciale.


In cosa consiste questa disciplina speciale dell'imprenditore commerciale?

  Obbligo di iscrizione nel registro delle imprese.

  Obbligo della tenuta di determinate scritture contabili.

  Assoggettamento, in caso di insolvenza, alle procedure concorsuali (fallimento, amministrazione controllata, concordato preventivo, amministrazione straordinaria delle grandi imprese).


Talune di questi aspetti che giustificano la distinzione tra impresa agricola ed impresa commerciale sono stati poi successivamente superati, soprattutto in questi ultimi tempi, nel senso che quell'elemento distintivo rappresentato dal fatto che l'imprenditore commerciale è soggetto ad iscrizione nel registro delle imprese, mentre l'imprenditore agricolo non era soggetto all'iscrizione nel registro delle imprese, è stato recentemente superato: la nuova disciplina sul registro delle imprese prevede l'obbligo di iscrizione anche a carico delle imprese agricole e prevede anche che questa pubblicità abbia oggi gli stessi effetti di pubblicità dichiarativa che ha per l'imprenditore commerciale.

Quindi, alcuni aspetti di differenziazione sono spariti di recente con DECRETO LEGISLATIVO 18 MAGGIO 2001 N. 228 che ha ridisciplinato l'imprenditore agricolo.

Questa distinzione serve per capire che la distinzione tra impresa agricola ed impresa commerciale non ha finalità classificatorie, ma è funzionale all'applicazione di una diversa disciplina. In sostanza, all'imprenditore agricolo si applicano tutte le norme di carattere generale che si applicano all'imprenditore, ma non si applicano talune norme che sono previste solo per l'imprenditore commerciale, che oggi sono rimaste, l'obbligo della tenuta delle scritture contabili e l'assoggettamento a procedure concorsuali: l'imprenditore agricolo non fallisce, mentre l'imprenditore commerciale fallisce.

La nozione di imprenditore agricolo è contenuta nell' ART. 2135 (ora sostituito dal D. LGS. 228/2001), mentre la nozione di imprenditore commerciale è contenuta nell' ART. 2195.




IMPRENDITORE AGRICOLO ART. 2135 - E' imprenditore agricolo colui che esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura.

In sostanza, questa nozione di impresa agricola si fondava sull'individuazione di attività agricole principali (o attività essenzialmente agricole) e attività agricole per connessione.

Coltivazione del fondo.

ATTIVITA' AGRICOLE PRINCIPALI =  Silvicoltura (coltivazione del bosco).

Allevamento del bestiame (qualsiasi animali da carne, da latte e da

lavoro che potesse essere oggetto di allevamento).

Qualsiasi forma di coltivazione o qualsiasi forma di allevamento, anche intensivo, da luogo ad impresa agricola o dobbiamo qualificare questa attività come commerciale?

L'interpretazione che viene data dall'articolo 2135, nel punto in cui individua le attività essenzialmente agricole, è che queste attività devono essere attività che sfruttano le radici genetiche della terra: se non c'è il fattore produttivo terra, allora non c'è impresa agricola. Le coltivazioni artificiali non sfruttano il fattore produttivo terra. L'allevamento del pollo in batteria non sfrutta il fattore produttivo terra. Quindi, questi non sono imprenditori agricoli, pur svolgendo un'attività di coltivazione, pur svolgendo un'attività di allevamento.

Quando possiamo dire che un allevamento sfrutta il fattore produttivo terra?

Quando utilizza per l'alimentazione prodotti che provengono dalla terra, o quando è svolto in forma fortemente intensiva. Applicando un criterio di questo genere, dato che da noi degli allevamenti intensivi ce ne sono pochissimi, tutte le volte che si doveva andare a stabilire se un imprenditore era da considerare agricolo o meno, bisognava andare a verificare se comunque c'era un collegamento con lo sfruttamento della terra tale da poter ritenere che l'allevamento si svolgesse quanto meno in collegamento con l'attività di coltivatore del fondo.

A volte poi bastava che l'allevatore possedesse un terreno la cui entità fosse tale da essere paragonabile con il numero di capi che si trovava ad allevare.


Problemi agricoli non meno seri erano posti dalle attività agricole per connessione.

Cosa sono le attività agricole per connessione?

Il secondo comma dell'articolo 2135 ne individuava due fondamentalmente: attività di trasformazione e vendita del prodotto agricolo.

ESEMPIO: trasformazione dell'uva in vino.

Quando parliamo di connessione dobbiamo pensare ad un duplice tipo di connessione:

   CONNESSIONE OGGETTIVA

   CONNESSIONE SOGGETTIVA

L'attività agricola per connessione presuppone che si tratti di attività svolta dallo stesso soggetto che svolge l'attività principale e utilizzando quantomeno prevalentemente il prodotto dell'attività principale.

Quando queste attività si possono considerare connesse (connessione soggettiva e oggettiva) allora, diceva l'articolo l'ART. 2135, si considerano attività agricole e non attività commerciali quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura.

In sostanza, quello che il legislatore voleva dire è che l'attività connessa con l'attività agricola rimane attività agricola quando risponde, nelle modalità con cui viene effettuata, ad un criterio di normalità, rispetto ad un momento storico e al luogo con cui l'attività viene svolta.

Il fatto che si vendano direttamente prodotti agricoli è considerato normale se la modalità non è quella di aprire catene di negozi alimentari.

Quindi, il criterio di normalità è un modo per dire che l'attività connessa è attività agricola, ma solo se rientra in modalità che siano modalità, rispetto a quanto avviene in quel momento storico e in quella zona, possano ritenersi normali.

Quindi, nella precedente versione dell'articolo 2135, se la connessione rispondeva ai criteri di connessione soggettiva e oggettiva ed al criterio di normalità, allora il suo compimento non trasformava l'imprenditore agricolo in un imprenditore commerciale.


Questo quadro di problematiche varie nell'applicazione di questi principi, veniva poi complicato da un altro fenomeno, quello delle COOPERATIVE AGRICOLE DI TRASFORMAZIONE, fenomeno molto diffuso nelle nostre zone.

Cosa sono le cooperative agricole di trasformazione?

Il coltivatore diretto del fondo, l'imprenditore agricolo, invece di trasformare direttamente il proprio prodotto in un prodotto finito (uva in vino; latte in formaggio; ecc.), conferisce questo prodotto ad una società cooperativa di cui è socio. La società cooperativa svolge questa attività di trasformazione e vendita del prodotto per conto di tutti i suoi associati.

ESEMPIO: il caseificio sociale; l'oleificio sociale; le cantine sociali.

Che problemi si ponevano per le cooperative agricole di trasformazione?

In primo luogo si poteva mettere in discussione il fatto che vi fosse l'elemento della connessione oggettiva: la cooperativa agricola è un soggetto terzo rispetto ai suoi soci che acquista il prodotto dai soci ed effettua l'attività di trasformazione. Quindi, la cooperativa non svolge l'attività agricola principale, la quale è svolta, invece, dai soci. E qui si poteva mettere in discussione il fatto le cooperative agricole di trasformazione fossero imprenditori agricoli.

ESEMPIO: la "Cirio" che compra pomodori dai soci delle campagne.

Secondo altri la situazione doveva essere valutata in termini diversi: è vero che la cooperativa è una persona giuridica formalmente distinta dai soci che la compongono, però è altrettanto vero che se la cooperativa si limita a trasformare il prodotto conferito dai soci, di fatto non fa che consentire al socio di svolgere quell'attività tradizionale di trasformazione del prodotto agricolo che avrebbe potuto svolgere direttamente con modalità che consentono di ottenere un risultato più soddisfacente.

Quindi, si era aperta una discussione se le cooperative agricole dovessero considerarsi imprenditori agricoli o se dovessero considerarsi imprenditori commerciali.

La giurisprudenza prevalente era nel senso di negare la qualifica di imprenditore agricolo: proprio in base al ragionamento formalistico, la cooperativa in quanto tale non svolge attività agricola principale, quindi manca l'elemento della connessione soggettiva.


Detto questo, possiamo vedere se questi problemi sono stati risolti dalla nuova disciplina e in che modo sono stati risolti.

Il nuovo ART. 2135 definisce l'imprenditore agricolo: D. LGS. 18 MAGGIO 2001 N. 228 - ART. 1 - E' imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.



Fin qui, le uniche modifiche riguardano:

   uso del termine "selvicoltura", invece di "silvicoltura" (modifica solo lessicale e del tutto priva di significato giuridico);

   il fatto che si parli di "allevamento di animali" e non di "allevamento di bestiame": si parla di "animali", perché il termine "bestiame" aveva dato luogo a problemi di interpretazione e, ormai, il termine "bestiame" veniva interpretato proprio come riferito ad "animali".

L'articolo prosegue, poi, dicendo:

Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali, si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso di carattere vegetale o animale che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine

Qui la novità è consistente, nel senso che si è tentato di dettare un criterio di identificazione dell'attività agricola.

L'attività agricola è solo quella che si caratterizza per essere diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico, o ad una fase del ciclo biologico, di carattere vegetale o animale.

Ma questo non basta: occorre anche identificare la modalità con cui modificare e curare il ciclo biologico.

Il difetto di questa formula è che si è proposta di dettare una formula che ricomprendesse un po' tutto il panorama di attività sulla cui natura agricola si stava discutendo (acquacultura, coltivazione dei funghi, ecc.), ma in realtà non individua una modalità sicura e certa attraverso la quale il ciclo biologico si deve realizzare, con il risultato di lasciare aperti una serie di interrogativi.

Con sicurezza, oggi, possiamo dire che sono imprenditori agricoli gli allevatori di qualsiasi tipo, perché "utilizzano o possono utilizzare" (quindi vuole dire che possono anche non utilizzare) il fondo, quindi anche gli allevatori che non utilizzano il fondo. Sono imprenditori agricoli tutti quelli che utilizzano il fondo oppure si servono delle acque sia dolci che salmastre.

Però, secondo questa definizione, sono imprenditori agricoli anche coloro che realizzano il ciclo biologico attraverso un uso artificiale (es.: allevatori di lombrichi; culture artificiali), su cui l'orientamento precedente era nel senso prevalentemente negativo.

Questa formula non sembra avere risolto tutti i problemi della formula precedente.

Vediamo se questo nuovo articolo è più chiaro per quanto riguarda le attività connesse:

Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo (connessione soggettiva), dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotto ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento degli animali.

Fin qui si può dire che siamo nell'ambito di quella che era l'interpretazione precedente dell'attività di connessione.

Dopodiché aggiunge:

. nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata.

Se l'attrezzatura viene utilizzata per prestare servizi a terzi, ma si tratta dell'attrezzatura che viene utilizzata per svolgere attività agricola, questa prestazione di servizi non da luogo a impresa commerciale, cioè lascia l'imprenditore un imprenditore agricolo.

Successivamente vengono ricompresse nelle attività agricole:

. le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge

Questi sono gli AGRITURISMI = attività di tipo sostanzialmente alberghiero. Il collegamento con l'attività agricola è dato dal fatto che l'ospitalità viene data negli stessi luoghi in cui svolge l'attività agricola e, per lo meno si presume, che l'alimentazione che viene fornita all'ospite provenga fondamentalmente dall'attività agricola.

Queste attività agrituristiche sono attività agricole per connessione.


Il secondo comma del nuovo articolo si ricollega al problema delle cooperative agricole di trasformazione:

Si considerano imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli ed i loro consorti quando utilizzano per lo svolgimento dell'attività prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico

Quando parliamo delle cooperative agricole di trasformazione abbiamo di fronte a noi delle realtà molto diverse: abbiamo le grandi cooperative agricole di trasformazione (es.: grandi cantine sociali - CIV & CIV; oppure, ancora più grandi, le "cooperative riunite reggiane"), le quali, in base a questo criterio, queste cooperative non sono imprenditori agricoli, perché pur svolgendo un'attività di trasformazione di prodotti agricoli che gli vengono conferiti dai soci, però non c'è il criterio di prevalenza. In realtà, molte di queste grandi cooperative comprano il vino, o comprano il latte, da altre parti, venendo meno il criterio di prevalenza.

Se viene meno il criterio di prevalenza, rispetto al conferimento effettuato dai soci, non sono imprenditori agricoli, ma sono imprenditori commerciali.

Il che sta a significare che sono imprenditori agricoli solo quelle cooperative agricole di trasformazione che, fondamentalmente, utilizzano per l'attività di trasformazione il prodotto che viene conferito dai soci. Sono, di solito, le realtà più piccole: i piccoli caseifici sociali, le piccole cantine, ecc.

Le grandi cooperative, invece, utilizzano sì anche il prodotto conferito dai soci, ma in larga misura acquistano da terzi il prodotto per la realizzazione del prodotto finale.

In ogni caso la norma detta un criterio: non tutte le cooperative agricole di trasformazione sono imprenditori agricoli, ma solo quelle che utilizzano nel ciclo di produzione prevalentemente il prodotto conferito dagli imprenditori agricoli soci.

A queste si aggiungono le cooperative agricole che svolgono prevalentemente un'attività di trasformazione di beni o di servizi a favore dei soci e volte a realizzare il ciclo biologico. La norma si riferisce alle cooperative per l'acquisto collettivo, a favore di tutti gli imprenditori agricoli soci, delle materie prime occorrenti per lo svolgimento dell'attività agricola (es.: i concimi; le sementi), oppure a quelle cooperative che svolgono un'attività di servizio, sempre rivolto alla coltivazione del fondo, che è la fornitura del servizio del movimento terra (es.: distribuzione delle sementi per conto degli imprenditori soci).

Quindi, in questo modo, con questa norma, si è fatto rientrare la cooperativa agricola che svolge questo tipo di attività nella figura dell'imprenditore agricolo, attraverso il profilo della connessione, ma solo quando vi sia questo criterio della prevalenza.



Infine, sempre questo decreto legislativo prevede che gli imprenditori agricoli siano soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese, in una sezione speciale. Tale iscrizione ha, però, gli stessi effetti di pubblicità dichiarativa che ha per le imprese commerciali.

Quindi, dal punto di vista della pubblicità legale, le imprese agricole hanno gli stessi obblighi delle imprese commerciali.







































La necessità di identificare l'imprenditore agricolo e di distinguerlo dall'imprenditore commerciale, deriva dalla diversa disciplina che trova applicazione per le due categorie di imprenditori.

In verità le innovazioni più recenti relative alla disciplina dell'impresa agricola hanno fortemente attenuato questa differenza di disciplina: oggi la differenza consiste essenzialmente nel fatto che l'impresa agricola non è assoggettata a procedure concorsuali in caso di insolvenza, quindi, l'impresa agricola non fallisce.

Originariamente, nella logica del codice del 1942, le differenze erano anche altre:

L'impresa agricola non doveva essere soggetta ad obblighi di pubblicità legale (iscrizione nel registro delle imprese)

L'impresa non era soggetta all'obbligo della tenuta delle scritture contabili obbligatorie

Queste differenze di disciplina sono, in parte venute meno, in parte sono state attenuate, perché per quanto riguarda la pubblicità legale, il D.LGS. 228/2001 che ha modificato la nozione di impresa agricola, prevede che anche le imprese agricole siano soggette ad iscrizione nel registro delle imprese, seppure in una sezione speciale di questo registro e che l'iscrizione nel registro delle imprese abbia la stessa efficacia di pubblicità dichiarativa che ha per le imprese commerciali.

Quindi, sotto questo profilo la ragione di distinguere tra imprese commerciali ed imprese agricole è sostanzialmente venuta meno.

Sotto il profilo della tenuta della contabilità, è vero che le imprese agricole non sono soggette agli obblighi di tenuta della contabilità così come sono prescritti dal codice civile, però sono comunque tenute all'obbligo della tenuta della contabilità fiscale: quindi, anche sotto questo profilo, sostanzialmente non ci sono grosse differenze - un'impresa agricola è comunque soggetta ad un obbligo di tenuta della contabilità, perché questa è imposta dalle norme tributarie.

L'unica vera distinzione che rimane sotto il profilo della disciplina e che spiega la ragione per cui le due categorie vanno tenute separate, è il fatto che l'impresa agricola gode del BENEFICIO DELL'ESONERO DALLE PROCEDURE CONCORSUALI (fallimento, concordato preventivo e amministrazione controllata): le imprese agricole non falliscono, se insolventi, sono comunque soggette alla disciplina generale dell'esecuzione individuale (sono trattate un qualsiasi soggetto che non sia imprenditore e che non faccia fronte ai propri debiti).




La recente riforma della nozione di impresa agricola contiene un notevole allargamento della nozione di impresa agricola, rispetto alla precedente, basta considerare il fatto che la nozione di impresa agricola viene imperniata esclusivamente sull'attività diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico, o a una fase necessaria di un ciclo biologico, di carattere vegetale o animale. Non assume rilievo determinante e caratterizzante, invece, il collegamento fra questa attività e lo sfruttamento del fattore produttivo terra (sfruttamento del fondo), che invece era il criterio di identificazione dell'imprenditore, che veniva utilizzato in via interpretativa, alla luce della precedente nozione di imprenditore agricolo (art. 2135 c.c.).

Questo ampliamento delle attività agricole non lo si registra solo sul versante delle attività essenzialmente agricole, ma anche sul versante delle attività agricole per connessione (attività che di per sé sarebbero attività non agricole, ma che restano agricole se vengono svolte dal soggetto che svolge l'attività agricola principale e se esiste una connessione oggettiva fra l'attività connessa e l'attività principale).

Questa nozione tradizionale di impresa agricola veniva interpretata precedentemente in senso restrittivo: la nuova legge ricomprende nell'ambito delle attività agricole per connessione anche tutte quelle attività di cui vi erano dubbi in precedenza (società cooperative, ecc.).


C'è un altro aspetto di allargamento: la vecchia definizione del nostro codice civile diceva che si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione e all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura = questo era un criterio molto restrittivo, volto a far sì che potessero considerarsi agricole le attività connesse soltanto quando rispondevano ad una prassi abituale nell'ambito di una determinata zona e di un determinato periodo di tempo (es.: coltivatore diretto che ha l'abitudine di vendere il proprio prodotto mettendo punti vendita all'ingresso del podere o sulla strada principale). Inoltre, in base a questo criterio non sarebbe stata considerata attività agricola per connessione l'apertura di punti vendita in città, in cui vendere i propri prodotti.

Invece, il D. LGS. 228/2001 non parla di "esercizio normale dell'agricoltura" : quindi, è sufficiente l'esistenza della connessione oggettiva e soggettiva, perché l'imprenditore mantenga la qualifica di imprenditore agricolo, qualunque sia la modalità che viene utilizzata per svolgere l'attività. C'è anche una prova di questo nel decreto, che è quello che riguarda l'esercizio delle attività di vendita: nel regolare l'esercizio delle attività di vendita del proprio prodotto da parte dell'imprenditore agricolo, sostanzialmente si ammette che la vendita diretta al dettaglio possa essere effettuata con qualsiasi mezzo, addirittura anche mediante commercio elettronico (vendita mediante internet).

Con questo decreto legislativo intervenuto quest'anno, l'impresa agricola è stata definita con criteri molto più estensivi, rispetto a come era definita in precedenza: quali conseguenze comporta questo?

Al momento nessuna, nel senso che questa è la nuova nozione a cui occorre fare riferimento e che sostituisce quella contenuta nell'articolo 2135 c.c. Però l'avere accolto una nozione così ampia di impresa agricola non è privo di conseguenze in una prospettiva futura: avendo dato questa caratterizzazione all'impresa agricola, risulta ancora meno giustificata l'esenzione dalle procedure concorsuali. Non si capisce perché l'impresa agricola, così come viene configurata dalla nuova disciplina, possa continuare a mantenere l'esenzione dalle procedura concorsuali.

Infatti, i progetti di riforma della legge fallimentare, che sono attualmente in preparazione in sede parlamentare, prevedono che anche le imprese agricole debbano essere assoggettate alle procedure concorsuali (come avviene in quasi tutti gli altri Paese nel mondo).
























































IMPRESA COMMERCIALE


Nel codice civile non c'è nessun articolo che definisca l'impresa commerciale. C'è, però, un articolo che individua le imprese che sono soggette all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese: allora, dato che nella logica del nostro codice nel registro delle imprese si iscrivono le imprese commerciali, questo articolo dovrebbe essere quello che identifica l'impresa commerciale.



ART. 2195 c.c. - Sono soggette all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, gli imprenditori che esercitano:

Un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi

Un'attività intermediaria nella circolazione dei beni

Attività di trasporto per terra, per acqua o per aria

Attività bancaria o assicurativa

Altre attività ausiliarie delle precedenti



NATURA DELL'ATTIVITA'



ATTIVITA' INDUSTRIALE DIRETTA ALLA PRODUZIONE DI BENI O DI SERVIZI Il termine "industriale" sta ad indicare un'attività di trasformazione, per esempio da una materia prima ad un semilavorato, o da un semilavorato ad un prodotto finito, che è diretta alla produzione di beni o di servizi. Se noi, però, interpretiamo così questa formula (attività industriale = attività di trasformazione di beni o di servizi) ci rendiamo conto che ci sono delle attività di produzione di beni o di servizi che sfuggono a questa definizione, per esempio, l'attività mineraria (attività estrattiva), o la produzione di servizi in una rete televisiva.

Queste attività, che non sono ricomprese nell'attività industriale, cosa sono? Sono imprese commerciali o sono qualcosa di diverso?

Negli altri punti dell'articolo 2195 si parla di "attività di intermediazione nella circolazione dei beni", e con questa espressione si intende un'attività di scambio, di commercio. Poi si individuano alcune attività di produzione di servizi, quali l'attività di trasporto, l'attività bancaria, l'attività assicurativa, che però non esauriscono le attività di produzione di beni o di servizi. Inoltre, si aggiunge, che sono attività commerciali le altre attività ausiliarie delle precedenti: le attività ausiliarie sono le attività che svolgono una funzione strumentale, rispetto alle attività indicate in precedenza. Per esempio, l'attività del commissionario, dell'agente, del mediatore: sono tutte attività ausiliarie rispetto alle precedenti. Però, anche nell'ambito di queste attività di produzione di servizi con funzione ausiliaria, vi sono alcune attività di produzione di beni o di servizi che non rientrano in questa definizione, perché non sono ausiliarie di quelle precedentemente elencate dall'articolo 2195: esempio, un'agenzia matrimoniale - non è un'attività ausiliaria rispetto ad un'attività di scambio o di produzione di beni o di servizi.

Perché accenniamo ai problemi che questa definizione pone?

Perché analizzando questa definizione e rilevando come questa definizione non sia comprensiva di tutti i tipi di attività imprenditoriale che non hanno carattere commerciale, giunge alla conclusione che le categorie di imprenditori non sono due, ma sono tre. Cioè, accanto alle imprese agricole e alle imprese commerciali, ci sarebbe una terza categoria di imprenditori, che vengono chiamati "imprenditori civili". A questa categoria apparterebbero: imprese minerarie, agenzie matrimoniali, imprese di pubblico spettacolo, imprese di produzione di reti televisive, ecc.

Se noi partiamo da un'esegesi letterale dell'articolo 2195, questa interpretazione mostra di avere un certo fondamento, nel senso che è vero che il nostro legislatore, in questo elenco, ha tralasciato qualcosa.

Questa interpretazione, però, si presta ad una considerazione critica e dalla maggioranza degli autori viene ritenuta decisiva: se noi ammettiamo che esiste una terza categoria di imprenditori, che non sono né commerciali né agricoli, noi finiamo per allargare ulteriormente l'area di esenzione dalla disciplina prevista per le imprese commerciali, in particolare, dalla disciplina fallimentare. Dato che le procedure concorsuali e il fallimento si applicano solo alle imprese commerciali, se diciamo che esiste una terza categoria di imprenditori ("civili"), questi imprenditori civili, una volta identificati, li dovremmo anche esentare dal fallimento.

A quale conclusione si perviene oggi?

Si perviene alla conclusione che, in realtà, l'articolo 2195 non da una definizione esaustiva di imprenditore commerciale e che, da una lettura sistematica della disciplina che regola l'esercizio delle attività imprenditoriali, contenuta nel nostro codice, si ricava che imprenditore commerciale è qualsiasi imprenditore che non sia agricolo.

Cioè, la definizione di impresa commerciale è da ricavare in negativo dalla definizione di impresa agricola: tutte le attività che non sono qualificabili come agricole, ai sensi della nuova definizione di impresa agricola, deve considerarsi come attività commerciale.

La tesi dominante, oggi, sia in dottrina che in giurisprudenza, rifiuta un terzo genere di imprenditori e ritiene che le categorie siano soltanto due e che l'imprenditore commerciale sia definito in negativo rispetto all'imprenditore agricolo: tutto ciò che non è agricolo da luogo ad attività commerciale, e all'applicazione della disciplina specifica prevista per l'impresa commerciale.




PROFILO DIMENSIONALE PICCOLO IMPRENDITORE E IMPRENDITORE NON PICCOLO


La valenza applicativa di questa distinzione si ricollega, anche in questo caso, al fatto che al piccolo imprenditore, anche se è un imprenditore commerciale, non si applicano talune disposizioni previste in generale per l'imprenditore commerciale: in particolare, il piccolo imprenditore non è soggetto a procedure concorsuali, a fallimento, all'obbligo della tenuta delle scritture contabili previste dal codice civile, né all'iscrizione nel registro delle imprese (oggi è tenuto a tale iscrizione, ma non ha efficacia di pubblicità dichiarativa).


Perché nel nostro codice il piccolo imprenditore viene esentato dalle procedure concorsuali?

Perché si ritiene che al di sotto di certe soglie dimensionali l'apertura di una procedura concorsuale non abbia effetti positivi, cioè finisca per essere troppo costosa rispetto alla tutela che può offrire ai creditori.

Ecco allora che il nostro legislatore ha preferito esentare il piccolo imprenditore dalle procedure concorsuali e dagli altri oneri e ha tentato di darne una definizione:

ART. 2083 - Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti, e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e con i componenti della famiglia. = CRITERIO DI PREVALENZA DEL LAVORO DEL TITOLARE E DEI SUOI FAMILIARI.

Prevalenza rispetto a che cosa?

Con il termine "prevalenza" si introduce una valutazione di tipo comparativo e bisogna trovare l'altro termine di comparazione. L'altro termine di comparazione non può che essere, in primo luogo, il lavoro altrui, cioè il lavoro prestato da dipendenti che non siano familiari o il titolare. Quindi, primo concetto che enucleiamo è che "il lavoro del titolare dell'impresa e dei suoi familiari deve comunque prevalere sull'attività lavorativa prestata eventualmente da terzi".

Però, il criterio di prevalenza induce a considerare anche un secondo aspetto, che è quello del capitale investito nell'impresa. Quando si dice che il lavoro del titolare e dei suoi familiari deve essere prevalente, si intende anche dire che nel risultato dell'attività, cioè il prodotto che si realizza, l'impronta deve venire fondamentalmente da un'attività lavorativa prestata dal titolare e dai suoi familiari.

ESEMPIO: chi ha un negozio di oreficeria, in cui l'attività è svolta prevalentemente dal titolare o dai suoi familiari, ha comunque un negozio in cui l'aspetto strumentale rappresentato dall'investimento che deve essere effettuato in relazione al tipo di bene che viene commercializzato è tale da prevalere sull'attività lavorativa.

Ecco allora che la nozione di prevalenza, di cui all'articolo 2083, va intesa non solo nel senso di prevalenza del lavoro del titolare e dei familiari sul lavoro altrui, ma anche come prevalenza sul capitale investito: non c'è piccola impresa laddove il capitale investito è prevalente rispetto all'apporto di lavoro.

Sulla base di questa conclusione interpretativa si evidenzia un problema di applicazione, perché la prevalenza del lavoro del titolare e dei familiari rispetto al lavoro altrui, mette in comparazione delle entità che sono tra loro comparabili (sempre attività lavorative); invece, quando andiamo a comparare l'attività di lavoro del titolare e dei familiari con il capitale investito, compariamo delle realtà che non sono facilmente comparabili.

E questo da luogo ad un primo problema di applicazione: quando il capitale investito nell'azienda è di tale entità da prevalere sul lavoro del titolare?

Si tratta di un criterio che non fornisce elementi di certezza. Bisogna andare a vedere se l'attività che viene realizzata ha un più elevato contenuto di lavoro rispetto all'apporto di capitale, ma non è sempre facile, soprattutto per le attività di produzione di beni, individuare questo elemento di prevalenza.

E questo è il primo elemento di forte incertezza interpretativa ed applicativa.

Nell'identificare questo criterio di prevalenza è possibile trovare che di fronte ad una situazione del tutto simile, un tribunale ritenga che ci troviamo di fronte ad un piccolo imprenditore, mentre un altro tribunale ritenga che non ci troviamo di fronte ad un piccolo imprenditore, proprio perché esiste un problema di incertezza interpretativa, legata all'adozione di un criterio che non è un criterio matematico.

In relazione proprio a questa incertezza nell'individuazione del criterio, la legge fallimentare aveva provato, quantomeno ai fini della sola applicazione della disciplina del fallimento, ad introdurre una nozione di piccolo imprenditore meno controvertibile.

ART. 1 L.F. - 2° comma = Sono  considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento, ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a £. 900.000. = CRITERIO DI NATURA FISCALE.

Cosa è successo, però, a questo articolo 1 della legge fallimentare?

In primo luogo, nel 1973 è stata abolita l'imposta di ricchezza mobile: è stato riformato tutto l'ordinamento tributario, adottando un criterio di carattere soggettivo (e non di carattere oggettivo) nella determinazione del tributo e l'imposta di ricchezza mobile è stata abolita.

A quel punto quel criterio diventava inapplicabile: di fatto, l'abolizione dell'imposta di ricchezza mobile ha determinato l'implicita abrogazione del criterio che era fondato su quell'imposta.

Rimaneva il criterio sussidiario delle 900.000 lire, che peraltro era abbastanza limitativo. E' intervenuta, allora, la corte costituzionale che ha affermato l'abrogazione anche del criterio del capitale investito fissato nelle 900.000 lire della legge fallimentare.

In sostanza, tutto questo secondo comma della legge fallimentare (ancora inserito nella stessa legge) è oggi abrogato, quindi non più vigente.

L'unico punto che è rimasto in vigore dell'articolo 1 della legge fallimentare, nel momento in cui identifica il piccolo imprenditore, è l'ultimo capoverso dello stesso articolo, in cui si dice: In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali, anche se l'attività che svolge è molto modesta, anche se è svolta con il lavoro prevalente dei titolari della società e dei familiari, non può considerarsi piccolo imprenditore.

Quindi, oggi, bisogna comunque fare i conti con il principio di prevalenza stabilito dall'articolo 2083 c.c.



Bisogna ora prendere in considerazione un altro aspetto, che è il problema dell' ARTIGIANO

Chi è l'artigiano?

(nel nostro codice non si parla di artigiano o di artigianato al di fuori della previsione contenuta nell'articolo 2083).

L'artigiano è un soggetto che svolge un'attività di produzione di beni o di servizi, di dimensioni contenute. Nel linguaggio comune l'artigiano viene contrapposto, in qualche modo, all'industriale.

Come è definito attualmente l'artigiano nel nostro ordinamento giuridico?

C'è una legge speciale che si occupa dell'artigiano: LEGGE 8 AGOSTO 1985 N. 443 - legge quadro per l'artigianato.

Questa legge ha sostituito integralmente una precedente legge sull'impresa artigiana, del 1956, introducendo una nozione di imprenditore artigiano che si basa su questi elementi di identificazione:


  l'artigiano deve essere un soggetto che produce beni o servizi (non è artigiano chi svolge un'attività di commercio);

  l'artigiano deve essere un soggetto che deve dedicare all'attività di direzione e di gestione dell'impresa il proprio lavoro, prevalente (la prevalenza, qui, non è intesa come nell'articolo 2083): l'artigiano, per essere tale, deve dedicare prevalentemente il proprio lavoro all'attività artigiana (ma questo lavoro non deve essere prevalente rispetto agli altri fattori di produzione);

  l'utilizzo di beni strumentali non è ostativo all'acquisizione della qualifica di artigiano;

  la dimensione massima dell'impresa artigiana è individuata prendendo a riferimento i dipendenti: ART. 4 - stabilisce una regola secondo cui per le imprese che non lavorano in serie, il massimo dei dipendenti non può superare i 18, a cui si possono aggiungere anche apprendisti, fino ad arrivare a 22; se invece si tratta di un'impresa che lavora in serie, allora i dipendenti non possono essere più di 9; se si tratta di attività di trasporto, non possono essere più di 8; se si tratta di imprese di costruzione, non possono essere più di 10; ecc.


Allora ci si chiede: l'artigiano di cui parla la legge quadro per l'artigianato, è l'artigiano di cui all'articolo 2083 del codice civile?

La legge quadro per l'artigianato, del 1985, detta una nozione di artigiano che è funzionale a tante cose, in particolare all'identificazione dei soggetti che possono essere iscritti ad un albo particolare che si chiama "albo delle imprese  artigiane" e come tali godono di una serie di benefici sul piano fiscale, sul piano previdenziale e sul piano finanziario.

Allora il dubbio che viene è se la nozione di artigiano data da questa legge è anche la nozione di artigiano che noi dobbiamo assumere ai fini dell'applicazione della disciplina del piccolo imprenditore.

L'articolo 2083 dice che è piccolo imprenditore colui che esercita un'attività prevalentemente con il lavoro proprio o dei suoi familiari, ove la prevalenza del lavoro proprio e dei familiari deve essere sia sul lavoro altrui che sul capitale investito.

La nozione di artigiano che è contenuta nella legge quadro per l'artigianato del 1985, estende i limiti dimensionali della figura dell'artigiano in modo tale da renderli difficilmente compatibili con la previsione del codice civile.

Quindi, per l'artigiano si è posto il problema se si debba, ai fini della sua qualifica come piccolo imprenditore, prendere per buono la nozione contenuta nella legge speciale, oppure applicare sempre e comunque il criterio dell'articolo 2083.

CONSEGUENZA: nel primo caso, qualsiasi impresa che, rispettando i requisiti della legge quadro, sia iscritta all'albo delle imprese artigiane, va considerata piccolo imprenditore ed esentata dal fallimento e dalle procedure concorsuali; se, invece, si adotta il secondo criterio, il giudice caso per caso dovrà stabilire se quell'imprenditore, che pure viene considerato artigiano ai fini della legge speciale, sia da considerare piccolo imprenditore ai fini del codice civile.

Nonostante l'articolo 2083 identifichi tra i piccoli imprenditori, gli artigiani, per stabilire se un artigiano, che sia tale secondo la legge speciale, sia anche piccolo imprenditore, bisogna fare applicazione del criterio di prevalenza: se non c'è la prevalenza del lavoro del titolare e dei suoi familiari, rispetto agli altri fattori produttivi, allora l'imprenditore, che pure è qualificato artigiano, non va considerato piccolo imprenditore e va assoggettato a procedure concorsuali. ( = orientamento prevalente).

Questo sta a significare che vi sono, tra gli artigiani considerati tali ai sensi della legge del 1985, alcuni che sono piccoli imprenditori, quindi non falliscono in caso di insolvenza, altri che invece non sono piccoli imprenditori e in caso di insolvenza sono assoggettati a procedure concorsuali.




NATURA DEL SOGGETTO TITOLARE DELL'IMPRESA


Quando parliamo di imprenditore, cioè del soggetto titolare dell'impresa, possiamo distinguere situazioni diverse.

Il titolare dell'impresa può essere:


  una persona fisica (impresa individuale

  un gruppo di persone (impresa collettiva che a sua volta si manifesta sotto forma di società, associazioni, consorzi: si tratta, in tutti i casi, di strutture di carattere collettivo di gruppi organizzati che sono assoggettati a discipline diverse).

Abbiamo ricompreso anche le associazioni, perché anche le associazioni, che non hanno finalità di profitto, ma hanno finalità altruistiche, possono essere titolari di impresa (v. parte relativa allo "scopo di lucro"), quando svolgano professionalmente un'attività economica, volta alla produzione di beni o di servizi, secondo il criterio della economicità ( = copertura di costi).

Consorzi = struttura di carattere collettivo che si caratterizza per il fatto di associare imprenditori con una funzione particolarissima, che è quella di svolgere una determinata fase dell'attività di impresa: ad esempio, svolge la fase di acquisizione del prodotto, nell'interesse dei consorziati, per consentire a questi di risparmiare sui costi di acquisto della merce.

Società = (v. più avanti).

  imprese pubbliche




IMPRESE PUBBLICHE

Cosa si intende quando si parla di imprese pubbliche?

L'impresa pubblica si ha in tutti i casi in cui il titolare di un'impresa è un ente pubblico, territoriale (stato, regione, provincia o comune), o non territoriale.

Quando parliamo di impresa pubblica in generale, usiamo questa espressione per identificare fenomeni che in realtà sono tra loro diversi e che è bene tenere distinti.

Il primo fenomeno è quello delle imprese direttamente gestite da enti pubblici territoriali come attività accessoria rispetto ai loro fini istituzionali (es.: le aziende municipalizzate, cioè le aziende che gestiscono l'erogazione di alcuni servizi essenziali, le quali erano prima un pezzo di patrimonio del comune; stesso discorso per lo Stato, riguardo alle ferrovie dello Stato). In questo caso si usa parlare di IMPRESE ORGANO.

Accanto a queste, c'è un altro tipo di impresa pubblica che è quella esercitata da enti pubblici economici. La nozione di ente pubblico economico la rileviamo dall'ART. 2201 del c.c. = si parla di enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale.

Cosa sono gli enti pubblici economici e in che cosa si differenziano dalle imprese organo?

Nelle imprese organo l'attività imprenditoriale ha natura accessoria rispetto ai fini istituzionali dell'ente.

Nell'ente pubblico economico l'attività imprenditoriale costituisce l'attività principale, o addirittura esclusiva, dell'ente pubblico: l'ente pubblico si costituisce per svolgere una certa attività imprenditoriale.

Questo era un fenomeno molto diffuso nel nostro Paese: molti enti pubblici erano presenti nel settore bancario (es.: istituto S. Paolo di Torino, tutte le casse di risparmio, banco di Napoli, banco di Sicilia, Monte dei Paschi di Siena, ecc.); lo stesso avveniva nel settore delle assicurazioni (es.: INA); oppure, anche alcuni grossi enti che si occupavano dell'energia (es.: ENI).

Ciò che caratterizza questo tipo di imprese è il fatto che siano costituite, seppure con finalità di interesse generale, ma per esercitare in via esclusiva o prevalente, un'attività imprenditoriale.

Terzo fenomeno, sempre nell'ambito delle imprese pubbliche, anche se ha forti elementi di distinzione rispetto a quelli visti in precedenza - SOCIETA' A PREVALENTE PARTECIPAZIONE PUBBLICA.

In cosa si distingue la società a prevalente partecipazione pubblica, dall'ente pubblico economico?

L'ente pubblico economico è un ente che esercita in via prevalente un'attività economica.

La società a prevalente partecipazione pubblica è una società che ha la natura di una società privata, in genere di una società per azioni: formalmente è una s.p.a., però il capitale di controllo della società è detenuto dallo stato, o da altri enti pubblici territoriali, o da altri enti pubblici.

Anche questo era un fenomeno diffusissimo nel nostro Paese, per ragioni di carattere storico. Per esempio lo stato è diventato azionista di controllo di molte imprese, originariamente private. Questo è avvenuto negli anni che vanno dal 1931 al 1934, perché il 1931 è il periodo in cui in Italia si fa sentire la grande crisi (del 1929): questa crisi comportò il dissesto di alcuni ampi e fondamentali settori dell'economia italiana, in primo luogo di alcune grandi banche che avevano sostenuto l'industria italiana acquisendo quote di partecipazione (azioni) nelle più grosse industrie italiane. A quel punto lo Stato ha ritenuto di dover intervenire a sostegno di quei settori finanziari e industriali in crisi. Questo lo ha fatto facendo "batter moneta" alla banca d'Italia, la quale ha finanziato un ente pubblico  ("istituto di ricostruzione industriale - IRI") con il quale si sono acquisite partecipazioni rilevanti in settori finanziari ed industriali del nostro Paese.

Questo ha fatto sì che negli anni che vanno dal 1931 al 1934 si crea un sistema di partecipazione dello stato nelle imprese formalmente private, con il quale lo Stato finisce per avere una sorta di "leva di Governo" dell'impero economico.

Nel 1931 questo venne fatto con l'idea di farne un'operazione transitoria: il salvataggio delle imprese in crisi doveva consentire il risanamento delle imprese sotto l'ombrello pubblico, per poi restituire queste imprese alla gestione privata.

E' successo, poi, che l'IRI è diventato un grandissimo centro di potere, con cui si governava una buona parte dell'economia italiana, quindi è prevalsa, rispetto all'idea di restituire ai privati, l'idea di mantenere sotto l'ombrello pubblico il controllo di buona parte dell'economia.

Dopo la seconda guerra mondiale, il sistema delle partecipazioni statali, invece di ridursi, ha continuato a crescere, attraverso un'operazione di continuo sostegno alle imprese in crisi e salvataggio delle imprese in crisi, che ha fatto sì che venissero acquisite ulteriori partecipazioni importanti e strategiche (es.: settore alimentare; settore automobilistico).


Fino a non molto tempo fa, il nostro Paese, rispetto alla maggior parte dei Paesi europei, aveva una presenza pubblica dello Stato, fortissima nell'economia, sia attraverso gli enti pubblici economici, sia attraverso il sistema delle partecipazioni statali. Questa anomalia portava a distorsioni sotto il profilo della corretta amministrazione dello Stato, ma soprattutto finiva per caricare lo Stato di una serie di costi impropri.

Questo ha fatto sì che, nell'ultimo decennio, si è avviato un processo di forte privatizzazione delle imprese pubbliche, cioè ci si è resi conto della necessità di restituire alla gestione privata una larga parte delle attività economiche che venivano gestite con risultati non soddisfacenti dallo Stato, o comunque dalla mano pubblico.

Questo ha fatto gradualmente attenuare, quasi addirittura fatto sparire, il sistema delle imprese pubbliche (così come descritto): oggi, il fenomeno dell'impresa pubblica, nelle sue tre manifestazioni, è un fenomeno che è tendenzialmente recessivo. Rimangono alcune società a partecipazioni pubblica, ma si sono notevolmente ridimensionate rispetto ad una volta.

In che modo è avvenuta questa privatizzazione delle imprese pubbliche?

Per le imprese organo - aziende municipalizzate: il processo che si è realizzato per queste imprese è stato quello, prima, di privatizzarle sul piano formale per vedere, poi, di privatizzarle su quello sostanziale. La privatizzazione sul piano formale è avvenuta trasformandole in S.p.A., addirittura con norme speciali (perché le norme ordinarie non avevano consentito la trasformazione di un'impresa pubblica in una società privata): queste S.p.A., ancora in molti casi rimangono in mano all'ente pubblico territoriale (nella META, il socio di maggioranza è il comune di Modena, mentre gli altri soci sono i comuni limitrofi), per poi realizzare il secondo tipo di passaggio, cioè quello di collocare il capitale azionario presso i privati (investitori, risparmiatori, ecc.).

Questo tipo di operazione è stato seguito anche per gli enti pubblici economici: ad esempio, la maggior parte delle banche che era sotto forma di ente pubblico, si sono prima trasformate in S.p.A., poi il loro capitale è stato attribuito a privati (privatizzato).

Per le società a prevalente partecipazione pubblica, l'operazione è stata più semplice, perché lo strumento privato esisteva già (S.p.A. a controllo pubblico): in questo caso bastava semplicemente dismettere il controllo, cioè trovare i privati disposti ad acquisire quel capitale azionario (es.: TELECOM, Credito Italiano, Banca di Roma, ecc.).



Dalla disciplina dell'impresa pubblica si desumono alcuni principi che riguardano, in primo luogo, l'applicazione alle imprese pubbliche dello statuto dell'imprenditore commerciale, cioè quel complesso di norme speciali che si applicano agli imprenditori commerciali e che comprendono, l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili e l'assoggettamento alle procedure concorsuali, in particolare al fallimento.

Il nostro codice, a proposito delle imprese pubbliche, stabilisce alcuni principi: in particolare, stabilisce - ART. 2201 - sono soggette all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese solo gli entri pubblici economici, cioè gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di un'attività commerciale. Quindi, non sono soggette ad iscrizione nel registro delle imprese le imprese organo e le imprese gestite da enti pubblici territoriali, come attività di carattere accessorio rispetto ai fini istituzionali dell'ente.

ART. 2221 - esclude gli enti pubblici dall'applicazione della disciplina del fallimento, del concordato preventivo e dell'amministrazione controllata.

In realtà, per taluni di questi enti pubblici economici trova applicazione, una procedura concorsuale diversa dal fallimento, che è la LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA: in ogni caso, gli enti pubblici economici non sono soggetti alle normali procedure concorsuali previste per le normali imprese commerciali.






































STATUTO DELL'IMPRENDITORE COMMERCIALE


Il primo aspetto di questa disciplina speciale è quello costituito dalla PUBBLICITA': le imprese commerciali, che non siano piccoli imprenditori, sono soggette all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese.

Perché si prevede un obbligo di pubblicità per le imprese commerciali?

Innanzitutto, cosa costituisce oggetto di pubblicità?

L'iscrizione nel registro delle imprese è diretta a fornire ai terzi una serie di informazioni in merito alla titolarità dell'impresa, al luogo in cui si svolge l'attività, al contenuto dell'attività (oggetto dell'impresa), ai soggetti ai quali è attribuito il potere di impegnare l'impresa nei confronti dei terzi.

Queste sono le informazioni di carattere essenziale, che sono richieste per qualsiasi tipo di impresa commerciale non piccola.

A queste informazioni se ne aggiungono altre, più complesse, che trovano applicazione in particolare per le imprese commerciali con titolarità collettiva, cioè per le società, perché a quel punto la pubblicità coinvolge anche diversi aspetti della disciplina organizzativa interna della società, che possono avere rilevanza nei confronti dei terzi.

Ulteriore fatto che occorre da rendere pubblico, attraverso l'iscrizione nel registro delle imprese, è la cessazione dell'attività d'impresa.

Qual è la ragione che ha indotto il legislatore a prevedere per le imprese commerciali questa forma di pubblicità obbligatoria?

La pubblicità commerciale risponde, in primo luogo, ad un'esigenza di tutela dei terzi: è un modo per fare circolare una serie di informazioni che sono essenziali per i terzi, per comprendere con chi si possono trovare ad intrattenere affari. Quindi, quella che sta alla base della pubblicità commerciale, è un'esigenza di consentire ai terzi di acquisire una serie di informazioni che sono funzionali allo sviluppo dei traffici.

La pubblicità commerciale realizza, in questo modo, anche un interesse degli stessi imprenditori: è interesse degli stessi imprenditori che vi sia questa circolazione di informazioni, perché la circolazione delle informazioni rende più agevoli i traffici commerciali.

Qual è l'efficacia giuridica della pubblicità?

Innanzitutto vediamo che vi sono diversi tipi di pubblicità, ciascuna delle quali indica un diverso tipo di effetto che la realizzazione della pubblicità consente di conseguire:


   Pubblicità costitutiva: un determinato atto giuridico viene ad esistenza solo nel momento in cui la pubblicità viene realizzata (es.: l'iscrizione ipotecaria: l'ipoteca prende effetto dal momento della sua iscrizione. Se non c'è iscrizione ipotecaria, l'ipoteca non esiste).

   Pubblicità dichiarativa: la sua funzione è duplice = è quella di rendere opponibile ai terzi l'atto che è stato assoggettato a pubblicità, con la conseguenza di dare luogo ad una sorta di conoscenza legale dell'atto (una volta realizzata la pubblicità non è possibile ad un terzo disconoscere l'esistenza dell'atto) = inoltre, non consentire l'opponibilità ai terzi di un atto quando questo era soggetto a pubblicità legale, dichiarativa, e tale pubblicità non è stata realizzata: quindi, l'atto oggetto di pubblicità è in sé valido ed esistente, ma non produce effetti nei confronti dei terzi se non è realizzata la pubblicità dichiarativa (la pubblicità commerciale).

   Pubblicità notizia

   Pubblicità con efficacia normativa o con effetto di regolarità


ART. 2193 - I fatti dei quali la legge prescrive l'iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l'iscrizione, a meno che non si dimostri che i terzi ne erano effettivamente a conoscenza.

L'ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l'iscrizione non può essere opposta dai terzi, dal momento in cui l'iscrizione è avvenuta.

La pubblicità commerciale svolge una duplice funzione: da un lato, tutela l'interesse dei terzi, dall'altro lato tutela contemporaneamente l'interesse dell'imprenditore. Tutela l'interesse dei terzi, perché non consente all'imprenditore di opporre ai terzi fatti che dovevano essere oggetto di pubblicità, se la pubblicità non è stata realizzata, a meno che non ne dimostri l'effettiva conoscenza; nello stesso tempo giova a favore dell'imprenditore, perché gli consente di rendere opponibili ai terzi fatti che siano oggetto di pubblicità legale,  una volta che la pubblicità sia stata realizzata, a prescindere dal fatto che il terzo ne sia effettivamente venuto a conoscenza.

Quindi, il grande vantaggio che la pubblicità legale offre all'imprenditore è quello di far sorgere questa presunzione assoluta di conoscenza di ciò che costituisce oggetto di pubblicità. Il terzo non può opporre l'ignoranza di un fatto quando questo è stato assoggettato alla pubblicità legale.


Tutta la disciplina dello statuto dell'imprenditore commerciale ha questa duplice valenza: si tratta di una disciplina dettata a tutela di un interesse collettivo (si tratta di norme di ordine pubblico-economico): l'interesse che viene, in primo luogo, preso in considerazione è quello di coloro che entrano in contatto con le imprese commerciali (interessi dei creditori). Però, nello stesso tempo, questa disciplina si traduce in un vantaggio per l'intera categoria degli imprenditori.



DISCIPLINA DEL REGISTRO DELLE IMPRESE

Il registro delle imprese è stato previsto dal codice del 1942, ma è stato istituito formalmente soltanto nel 1993 e, in realtà, ha iniziato a funzionare solo dal 1997.

Fino al 1997 quello che era previsto dal nostro codice non ha avuto attuazione: il registro delle imprese non è stato istituito e, nel frattempo, è stato istituito da un'altra forma di pubblicità, cioè il deposito degli atti presso la cancelleria del tribunale.

Il registro delle imprese è tenuto presso la camera di commercio.

Come funziona attualmente il registro delle imprese?

La legge impone agli imprenditori commerciali non piccoli di assoggettare a pubblicità legale (iscrizione) determinati fatti o atti relativi all'impresa.

Quando questi fatti o atti si verificano, l'imprenditore deposita presso l'ufficio del registro delle imprese la documentazione relativa al fatto o atto soggetto a pubblicità; dopodiché il conservatore del registro delle imprese provvede alla iscrizione nel registro delle imprese.

Nel provvedere all'iscrizione nel registro delle imprese, il conservatore del registro delle imprese deve fare alcune verifiche, previste dall'ART. 2189 - Prima di procedere all'iscrizione, l'ufficio del registro deve accertare l'autenticità della sottoscrizione ed il concorso delle condizioni richieste dalla legge per l'iscrizione.

Al termine di questa verifica, egli può: ordinare l'iscrizione nel registro delle imprese, oppure rifiutare l'iscrizione nel registro delle imprese, qualora ravvisi, da questo esame di regolarità, la mancanza dei requisiti per l'iscrizione.

Qualora vi sia rifiuto dell'iscrizione nel registro delle imprese, il soggetto a cui la pubblicità sia stata negata, può ricorrere al giudice, al quale sia stata attribuita la funzione di giudice di quel registro.

La decisione definitiva viene, poi, presa dal giudice del registro: il magistrato verifica se l'atto possiede o meno i requisiti che ne consentono l'iscrizione.


Dalla lettura di questo articolo sembra che il conservatore sia tenuto ad effettuare un controllo sulla regolarità formale dell'atto. Ma il fatto che l'articolo 2189 parli anche del "concorso delle condizioni richieste dalla legge per l'iscrizione", ha fatto emergere un problema: il potere di controllo del conservatore del registro delle imprese può estendersi anche ad una verifica di regolarità sostanziale dell'atto, cioè ad una verifica sulla validità dell'atto che viene depositato?

Questo problema ha assunto, negli ultimi tempi, un'importanza enorme a seguito del fatto che è stato abolito il PROCEDIMENTO DI OMOLOGAZIONE DEGLI ATTI SOCIETARI. La maggior parte degli atti più significativi che sono soggetti a pubblicità, nelle società di capitali, sono atti che sono legati a modificazioni dell'atto costitutivo o a operazioni, quali l'emissione di obbligazioni, che fino a non molto tempo fa venivano assoggettati ad un controllo preventivo, di legittimità, da parte del tribunale. Questo controllo di legittimità era rivolto a verificare che gli atti non contenessero violazioni di legge: non era un controllo di mera regolarità formale dell'atto, ma era un controllo volto ad accertare se vi fossero violazioni di legge tali da determinare l'invalidità dell'atto.

Il procedimento di omologazione è stato recentemente abolito. Essendo stato abolito questo procedimento di omologazione, che costituiva il filtro attraverso il quale l'autorità giudiziaria andava a verificare se questi atti avessero vizi di legittimità che ne potessero compromettere la validità, l'atto che viene assoggettato a pubblicità legale (es.: l'atto costitutivo della S.p.A.) viene depositato per l'iscrizione nel registro delle imprese, senza che vi sia sullo stesso alcun controllo di legittimità.

A questo punto vediamo quanto sia importante stabilire quali siano i poteri del conservatore che riceve l'atto. Se i poteri del conservatore sono solo poteri di mera verifica della regolarità formale dell'atto, il conservatore non potrà rifiutare l'iscrizione nel registro delle imprese anche qualora l'atto contenga vizi che ne determinano la totale o imparziale invalidità. Se, invece, si ritiene che nei poteri del conservatore, e del giudice del registro, rientri anche la possibilità di verificare la validità sostanziale dell'atto che viene depositato, allora potrà essere rifiutata l'iscrizione in presenza di violazioni di legge che determinano la totale o imparziale invalidità dell'atto depositato.

E' una questione non risolta, nel senso che vi sono orientamenti, sia dottrinali che giurisprudenziali, molto diversi in merito al modo in cui va interpretato l'articolo 2189 e quindi, al contenuto della verifica che il conservatore, prima, poi il giudice, sono tenuti ad effettuare.



Abbiamo detto che l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, nel nostro codice civile, con la relativa efficacia di pubblicità dichiarativa, grava soltanto sulle imprese commerciali non piccole: ne sono, quindi, esclusi gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori.

Quando è stato istituito il registro delle imprese nel 1993, il legislatore ha pensato di introdurre una prima modifica a questa regola generale: ha stabilito che, fermo restando che nel registro delle imprese, l'obbligo di iscrizione con efficacia dichiarativa, era limitato alle sole imprese commerciali non piccole, si è prevista l'istituzione di una sezione speciale del registro delle imprese nella quale si iscrivono anche gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori, stabilendo però che l'efficacia di questa iscrizione fosse esclusivamente quella della "pubblicità notizia", cioè una funzione di informazione dei terzi, senza che da questa informazione derivino conseguenze sul piano giuridico. A questa si aggiungeva anche una "funzione di certificazione anagrafica", cioè in questo modo si poteva costituire una sorta di anagrafe degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori che consentisse allo stesso imprenditore di presentarsi nei confronti dei terzi.

Il D. LGS. 228/2001 che ha dettato la nozione di imprenditore agricolo ha anche modificato la disciplina della pubblicità, stabilendo che per gli imprenditori agricoli, che sono soggetti all'iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese, l'iscrizione abbia la stessa efficacia di cui all'articolo 2193, prevista per le imprese commerciali, cioè efficacia dichiarativa.



La pubblicità che si realizza nel registro delle imprese non è l'unica forma di pubblicità che opera all'interno delle imprese. Per le imprese più complesse (società di capitali) si prevedono ulteriori forme di pubblicità, che si pongono in relazione ad ulteriori necessità di informazione dei terzi e del pubblico (v. più avanti).




OBBLIGO DI TENUTA DELLA CONTABILITA'

L'imprenditore commerciale non piccolo è tenuto ad una contabilità obbligatoria (secondo il codice civile); c'è poi un obbligo di tenuta della contabilità ai fini fiscali che viene previsto, però, per tutte le attività imprenditoriali e non imprenditoriali.

Parliamo qui della contabilità obbligatoria prevista dal codice civile (detta anche "contabilità civilistica").

Perché il legislatore impone alle imprese commerciali la tenuta di una forma minima di contabilità?

La ragione fondamentale è quella di poter ricostruire la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell'impresa, soprattutto in occasione del dissesto dell'impresa.

Perché si è arrivati ad affermare questo tipo di ragione?

Perché le uniche sanzioni che sono previste in caso di mancata o non corretta tenuta della contabilità si hanno soltanto quando si verifica un dissesto dell'impresa.

La "stranezza" di questa disciplina è che si impone un obbligo di tenuta di determinate scritture contabili, però se i libri contabili non vengono tenuti, non c'è nessuna sanzione, salvo che nell'ipotesi in cui si verifichi insolvenza dell'impresa.

In cosa consiste questa sanzione?

Se l'impresa viene dichiarata fallita, la mancata o non corretta tenuta della contabilità civilisticamente obbligatoria, comporta l'applicazione all'imprenditore di una sanzione penale, che è quella della BANCAROTTA SEMPLICE.

Se poi, addirittura, l'imprenditore ha falsificato la contabilità per fornire una rappresentazione della sua situazione patrimoniale, economica e finanziaria volutamente diversa dal vero, allora si applica una sanzione penale più grave che è quella della BANCAROTTA FRAUDOLENTA.

Ma una sanzione, in termini indiretti, si ha anche in assenza di una dichiarazione di fallimento, ma comunque in presenza di una situazione di dissesto o di insolvenza dell'impresa, perché la legge fallimentare stabilisce che la mancata o non regolare tenuta della contabilità impedisce all'imprenditore di accedere alle procedure concorsuali alternative rispetto al fallimento (cioè il concordato preventivo e l'amministrazione controllata).

Questa procedure alternative vengono considerate una sorta di beneficio a favore dell'imprenditore nella legge fallimentare, condizionato però al fatto che l'imprenditore abbia tenuto una contabilità regolare, altrimenti non può accedere a questo beneficio.

Queste sono le uniche sanzioni che derivano dalla mancata o non corretta tenuta della contabilità civilistica.

E' proprio in considerazione di questo fatto che si è arrivati a sostenere la tesi per cui questa disciplina che prevede obblighi di contabilità è stata essenzialmente prevista proprio al fine di ricostruire la situazione patrimoniale dell'imprenditore nell'ipotesi di dissesto.

Detto questo, però, occorre subito chiarire che questo ragionamento si riferisce agli obblighi minimi di contabilità che sono previsti per tutti i tipi di impresa, anche per le imprese individuali, dagli ARTT. 2214 e seguenti.

Esiste, poi, una disciplina particolare della contabilità d'impresa che trova applicazione per le società, in particolare per le società di capitali. Qui troviamo una complessa disciplina che regola la formazione del bilancio d'esercizio, la cui funzione non è quella che viene attribuita dalle norme generali in tema di contabilità, ma è una funzione fondamentalmente di tutela dell'interesse collettivo alla corretta rappresentazione delle situazioni patrimoniali, economiche e finanziarie dell'impresa: quindi, si tutela l'interesse dei terzi ad una corretta informazione.


Quali sono le scritture contabili che deve tenere l'imprenditore?

Questo obbligo si traduce nella previsione del dovere di tenuta di due libri contabili obbligatori per tutti:


  LIBRO GIORNALE = scrittura contabile di natura cronologica e analitica in cui vengono annotate, giorno per giorno, le operazioni che l'impresa compie. Attraverso il libro giornale si può ricostruire l'andamento giornaliero, cronologico, delle operazioni che l'impresa pone in essere.

  LIBRO DEGLI INVENTARI = è un libro che ha natura sintetica, la cui funzione è quella di fornire una rappresentazione della situazione patrimoniale dell'imprenditore e del risultato economico dell'attività d'impresa. L'inventario viene redatto all'inizio dell'attività imprenditoriale e deve contenere l'indicazione quantitativa, in termini monetari, delle attività e delle passività relative all'impresa (se si tratta di impresa individuale, anche le attività e passività relative all'imprenditore) e viene chiuso al termine di ogni anno (esercizio annuale).








ATTIVITA' PASSIVITA'

rappresentate da rappresentate da





strumenti materiali passività reali = debiti

che vengono acquisiti e patrimonio netto.

per l'esercizio della

attività d'impresa =

immobilizzazioni

materiali (impianti,

macchinari, ecc.) =

immobilizzazioni

immateriali (diritti

di brevetto, ecc.) =

attivo circolante

(crediti, magazzino).



Questi sono gli unici due libri contabili che sono obbligatori per tutte le imprese. Però, l' ART. 2214 stabilisce una regola di carattere generale, da cui si capisce che queste non sono le uniche scritture contabili che l'imprenditore è obbligato a tenere - (2° comma) - L'imprenditore deve altresì tenere le altre scritture contabili che sono richieste dalla natura dell'attività e dalle dimensioni dell'impresa.

ESEMPIO = un negozio di vendita di generi alimentari e un grande produttore industriale di generi alimentari: la tenuta della contabilità in questa due realtà imprenditoriali è diversa. Per quello che riguarda il negozio, è sufficiente il rispetto dell'obbligo di tenuta del libro giornale e del libro degli inventari, per esaurire le necessità di ricostruzione del patrimonio dell'imprenditore; mentre in una grande S.p.A., in cui si svolge un'attività di produzione in serie, inevitabilmente occorre una contabilità molto più articolata, perché se non c'è una contabilità molto più articolata non si riesce a fare il libro degli inventari.


EFFICACIA PROBATORIA DELLE SCRITTURE CONTABILI (LIBRO VI del codice civile) - I libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l'imprenditore

La contabilità d'impresa viene individuata come uno strumento di acquisizione di prova a favore di colui che agisce contro l'imprenditore: quindi, se un soggetto pretende di avere un credito nei confronti dell'imprenditore, può chiedere l'esibizione in giudizio delle scritture contabili dell'imprenditore per provare l'esistenza del proprio credito.

Inoltre, queste scritture, quando sono regolarmente tenute, possono fare prova anche a favore dell'imprenditore, ma solo in rapporti con altri imprenditori che interagiscono all'esercizio dell'impresa.

Quando il rapporto è tra due imprenditori, possono fare prova anche a favore dell'imprenditore, perché è possibile per l'altro imprenditore, con la propria contabilità, provare il contrario, cioè esiste la possibilità di un riscontro tra le due contabilità: in questo caso si ammette l'utilizzo delle scritture contabili anche come prova a favore dell'imprenditore.

Infine, si regolano le modalità di utilizzo in giudizio delle scritture contabili, attraverso l'esibizione e la comunicazione integrale, stabilendo quando il giudice può ordinare la comunicazione integrale della contabilità e quando invece può ordinare solo l'esibizione parziale della contabilità.




RAPPRESENTANZA COMMERCIALE

Tra le disposizioni particolari previste per l'impresa commerciale, c'è anche una peculiare disciplina che regola il potere di rappresentanza di determinati soggetti che svolgono un'attività ausiliaria dell'imprenditore.

Perché è prevista questa disciplina?

Quando parliamo di rappresentanza volontaria, parliamo della rappresentanza conferita con procura: un soggetto conferisce ad un altro soggetto il potere di agire in suo nome e per suo conto nel compimento di determinati atti giuridici. La procura è un atto unilaterale con cui viene conferito il potere rappresentativo, che si differenzia dal mandato, che è un contratto con cui un soggetto (mandatario) si obbliga nei confronti di un altro soggetto (mandante) a compiere per suo conto una determinata attività giuridica: per suo conto, ma non necessariamente in suo nome, perché esiste il mandato senza rappresentanza, in cui il mandatario agisce in proprio nome, ma ha l'obbligo di trasferire al mandante l'effetto utile dell'attività svolta; ed esiste un mandato con rappresentanza, all'interno del quale si inserisce una procura.

Le norme generali che regolano la rappresentanza volontaria sono norme molto severe per i terzi e sono norme che tutelano fondamentalmente l'interesse del rappresentato. Il primo principio generale, ad esempio, è che se il rappresentante compie un atto che non rientra nei suoi poteri rappresentativi o spende il nome del rappresentato senza averne i poteri, l'atto compiuto non vincola il rappresentato (è inefficace nei suoi confronti), ma non vincola neanche il rappresentante, che ha agito in nome e per conto di un altro soggetto: il rappresentante senza poteri è tenuto tutt'al più a risarcire il danno che il terzo contraente abbia subito per avere senza colpa contato sull'esecuzione del contratto.

Questa norma viene parzialmente mitigata a fronte di determinati fatti estintivi del potere rappresentativo: per esempio, se viene conferita la rappresentanza mediante una regolare procura, ma nel frattempo muore il rappresentato, la morte determina l'estinzione della procura e il rappresentante non può più compiere nessun atto in nome e per conto del rappresentato. Qui, però, troviamo una regola più favorevole ai terzi, perché si dice che qualora si verifichi una causa di estinzione della procura (il caso classico è la morte), l'atto produce ugualmente i suoi effetti se il terzo ha ignorato senza colpa la intervenuta causa di estinzione.

Anche nel caso di revoca della procura, si è stabilito un principio più favorevole al terzo, dicendo che la revoca della procura ha efficacia nei confronti dei terzi, se viene portata a conoscenza di questi con messi idonei.

Nel complesso, si tratta di una disciplina in cui la preoccupazione maggiore è la tutela del rappresentato e dove gli interessi dei terzi vengono fondamentalmente sacrificati.

Quindi, vediamo che le norme che regolano la rappresentanza volontaria, male si prestano a regolare i rapporti con i terzi, quando il protagonista di questi rapporti è colui che istituzionalmente svolge un'attività di rappresentanza dell'imprenditore.

Perché ci vuole una disciplina particolare che regoli la rappresentanza dell'imprenditore?

Perché bisogna tutelare i terzi, cioè coloro che entrano in contatto con i rappresentanti dell'imprenditore, che svolgono normalmente questa attività di rappresentanza dell'imprenditore, rispetto all'affidamento che hanno in ordine all'esistenza dei poteri rappresentativi.

Se non si opera una tutela dei terzi, rispetto ai poteri rappresentativi di coloro che istituzionalmente svolgono questa attività di rappresentanza dell'imprenditore, si creano una serie di inconvenienti, perché da un lato si scarica sui terzi il rischio di contrattare con un soggetto che non è investito del potere, ma se è così il terzo dovrà, allora, assumere una serie di precauzioni prima di stipulare il contratto: tutto questo pesa notevolmente sulla sicurezza e sulla rapidità dei traffici.

Le norme contenute negli ARTT. 2203/SS. sono norme che stabiliscono ex lege il contenuto dei poteri rappresentativi di determinati soggetti che svolgono istituzionalmente, per conto dell'imprenditore, mansioni che impongono il contatto con i terzi.

Le figure di ausiliari dell'imprenditore che vengono individuate da queste disposizioni sono tre:


  INSTITORE

  PROCURATORE

  COMMESSO


INSTITORE ART. 2203 - E' institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa commerciale.

La preposizione può essere limitata all'esercizio di una sede secondaria o di un ramo particolare dell'impresa.

Chi sono gli institori?

Fondamentalmente sono dei dipendenti dell'imprenditore, che però si trovano al massimo livello della gerarchia di impresa: direttore generale, direttore di sede secondaria, direttore di un ramo particolare dell'impresa.

All'individuazione di questo ausiliario dell'imprenditore, corrisponde anche la definizione ex lege dei poteri rappresentativi che spettano all'institore - ART. 2204 - L'institore può compiere tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa a cui è preposto, salve le limitazioni contenute nella procura. Tuttavia non può alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non è stato a ciò espressamente autorizzato.

Non c'è bisogno di una procura, perché questi poteri sono attribuiti all'institore ex lege. Una procura occorre soltanto se l'imprenditore vuole limitare questi poteri, oppure se li vuole ampliare, autorizzando l'institore anche alla vendita di immobili o alla concessione di ipoteche immobiliari.

ART. 2206 - La procura con sottoscrizione del preponente autenticata deve essere depositata per l'iscrizione presso il competente ufficio del registro delle imprese.

Qualora l'imprenditore intenda limitare i poteri dell'institore con apposita procura, la procura deve essere iscritta nel registro delle imprese: in mancanza dell'iscrizione, la rappresentanza dell'institore si reputa generale e le limitazioni non sono opponibili ai terzi, a meno che non si dimostri che i terzi ne erano a conoscenza (classico effetto della pubblicità dichiarativa).

In questo modo si opera una mediazione tra gli interessi dei terzi, di avere sicurezza in merito ai poteri rappresentativi dell'ausiliario dell'imprenditore, e l'esigenza dell'imprenditore di operare una limitazione dei poteri rappresentativi. In sostanza, quando il terzo opera con l'institore, presume che questo abbia una rappresentanza di carattere generale, salvo che non sia stato limitato questo potere da un'apposita procura pubblicata.

Qualora i poteri siano stati limitati da un'apposita procura, la quale venga successivamente modificata o revocata, la modifica o la revoca della procura non è opponibile ai terzi, salvo che non sia stata iscritta nel registro delle imprese, o salvo che non si provi che i terzi ne erano a conoscenza.

Ultimo aspetto è il caso in cui l'institore operi senza spendere il nome dell'imprenditore: se l'institore omette di spendere il nome dell'imprenditore, è personalmente obbligato all'esecuzione del contratto stipulato. E questo è pienamente conforme al principio generale: ma quello che costituisce eccezione al principio generale è che il terzo, in questo caso, è legittimato ad agire anche contro l'imprenditore qualora l'atto compiuto rientri nell'esercizio dell'impresa.



PROCURATORE ART. 2209 - Sono procuratori coloro che, in base ad un rapporto continuativo, hanno il potere di compiere per conto dell'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa, pur non essendo preposti ad essa.

Secondo la ricostruzione che viene fatta dalla dottrina, il nostro codice intende per procuratore quell'ausiliario dell'imprenditore, anch'esso normalmente dipendente con qualifica dirigenziale, a cui è assegnato il compito di presiedere ad un settore operativo dell'impresa, che presuppone contatti continuativi con i terzi: ad esempio, il direttore commerciale, il direttore di produzione, il direttore degli acquisti, il direttore del personale, ecc. Ciascuno di questi soggetti, nell'ambito delle mansioni che gli sono attribuite e del settore operativo in cui si trova a svolgere la sua attività compie atti in nome e per conto dell'imprenditore.

A questi soggetti la legge attribuisce un potere di rappresentanza dell'imprenditore che è commisurato alle mansioni che gli sono lo stesso attribuite nell'organizzazione dell'impresa.

Anche per i procuratori vale la stessa disciplina della rappresentanza che vale per gli institori, per quanto riguarda il limite all'opponibilità ai terzi delle limitazioni del potere rappresentativo.

Premesso che il procuratore ha, per legge, un potere rappresentativo che si estende al compimento di tutti gli atti che attengono al settore operativo in cui svolge la sua attività, questo potere rappresentativo può essere limitato, con limitazione opponibile ai terzi, soltanto se viene rilasciata dall'imprenditore una procura limitativa e questa viene iscritta nel registro delle imprese. Qualora la procura non sia iscritta nel registro delle imprese, la limitazione posta al potere di rappresentanza del procuratore non è opponibile ai terzi, salvo che non si dimostri che questi ne erano effettivamente a conoscenza.

Differenza tra institore e procuratore = l'institore ha una rappresentanza di carattere generale, che deriva ex lege; il procuratore ha una rappresentanza che attiene soltanto agli atti che riguardano il settore operativo a cui è preposto.



COMMESSO Nel linguaggio comune, il termine commesso individua il collaboratore del negoziante o del titolare del negozio, che ha rapporti con il pubblico.

Nel nostro codice, vengono definiti commessi, tutti i collaboratori dell'imprenditore con funzioni di carattere esecutivo, che li pongono costantemente a contatto con il pubblico.

Quindi, il nostro codice non si riferisce solo al commesso di negozio, ma anche, per esempio all'impiegato di banca che sta allo sportello, all'impiegato della compagnia di assicurazione che sta allo sportello, ecc.

Con riferimento a questa figura, la legge detta un principio di carattere generale, che definisce i poteri rappresentativi - ART. 2210 - I commessi dell'imprenditore possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni di cui sono incaricati. I commessi non possono tuttavia esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o sconti che non sono d'uso, salvo che siano a ciò espressamente autorizzati.

I commessi non hanno una rappresentanza di tipo processuale dell'imprenditore: hanno una rappresentanza di tipo sostanziale, però sono abilitati a ricevere anche i reclami da parte dei clienti - ART. 2212 - Per gli affari da essi conclusi, i commessi dell'imprenditore sono autorizzati a ricevere per conto di questo le dichiarazioni che riguardano l'esecuzione del contratto e i reclami relativi alle inadempienze contrattuali.

Ultimo aspetto di maggiore rilievo attiene al fatto che i commessi, anche se autorizzati a concludere contratti in nome dell'imprenditore, non hanno il potere di derogare alle condizioni generali di contratto, o alle clausole stampate sui moduli dell'impresa: ci si riferisce ai contratti che vengono stipulati sulla base di condizioni generali o di moduli predisposti dall'imprenditore.

Queste norme definiscono il potere di rappresentanza che la legge attribuisce a queste figure: è sempre possibile, però, all'imprenditore limitare anche il potere rappresentativo del commesso, ma perché questa limitazione sia opponibile ai terzi (pubblico) che entra in contatto con il commesso, occorre che sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Non ci si avvale, qui, delle regole della pubblicità legale: la legge si limita a prevedere la possibilità per l'imprenditore di limitare questi poteri, senza specificare quali sono le modalità per rendere opponibili le limitazioni di tali poteri ai terzi, e i terzi fanno applicazione, in questo caso, di una disposizione contenuta in tema di modifica dei poteri rappresentativi nella rappresentanza volontaria, che prevede che le limitazioni possono essere opposte soltanto se portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. In questo caso l'idoneità del mezzo è quello di mettere un cartello nei locali in cui il commesso opera e in cui è specificamente indicato il limite al suo potere di impegnare l'imprenditore.

A questi principi che si ricavano dalla legge, la giurisprudenza ne ha aggiunto un altro, di particolare importanza sotto il profilo della tutela di coloro che entrano in contatto con questi ausiliari dell'imprenditore che hanno una funzione di contatto continuativo con il pubblico. Questa disciplina trova applicazione in tutti quei casi in cui il soggetto che si trova a contatto con il pubblico con una veste apparente di commesso, crei una situazione di legittimo affidamento da parte dei terzi, conseguenza di un comportamento negligente da parte dell'imprenditore che ha consentito che questo soggetto, pur non essendo autorizzato, operasse come se avesse la veste di commesso.






























LE PROCEDURE CONCORSUALI

Quando il soggetto che ha assunto delle obbligazioni, non faccia fronte alle sue obbligazioni, è tenuto a rispondere del debito che ha assunto con tutto il patrimonio e ciò da luogo ad un potere, da parte dei creditori, di soddisfarsi in forma coattiva sul suo patrimonio - esecuzione individuale che il creditore può compiere sui beni del suo debitore.

Le regole dell'esecuzione individuale non si prestano ad una corretta composizione del dissesto di una impresa, perché innanzitutto, quando un'impresa diventa insolvente occorre fare i conti con una pluralità di creditori: c'è un concorso dei creditori sul patrimonio dell'imprenditore insolvente.

Il primo principio che si vuole salvaguardare, attraverso l'esecuzione concorsuale che si realizza in sede fallimentare, è quello di operare una parità di trattamento tra tutti i creditori, facendo in modo che se il patrimonio dell'imprenditore è insufficiente al soddisfacimento di tutti i creditori, la perdita, che deriva da questa incapienza, si ripartisca tra tutti i creditori in modo eguale.

Questa è la regola della parità di trattamento, che anche in sede fallimentare ha tutta una serie di eccezioni, perché ci sono creditori privilegiati, che hanno la possibilità di rivalersi anche integralmente, nei limiti di ciò che si ricava, dei beni su cui grava il privilegio.

In ogni caso, la regola è quella di realizzare una procedura che consenta un concorso paritario di tutti i creditori nell'esecuzione sul patrimonio dell'imprenditore dissestato.

Può succedere che prima che venga dichiarata l'insolvenza (l'insolvenza è uno stato), l'imprenditore è insolvente, però cerca di mascherare questa sua insolvenza, per cercare di tenere in piedi l'impresa, facendo una serie di operazioni, che finiscono però per danneggiare, nel complesso, i creditori: pone cioè in essere, prima della dichiarazione di fallimento, una serie di atti che costituiscono già una violazione della par condicio creditorum. Ecco allora che occorre prevedere che la procedura concorsuale con cui si va a comporre il dissesto di impresa, non solo realizzi all'interno della procedura la parità di trattamento, ma faccia in modo che venga ristabilita la parità di trattamento, che è stata lesa da atti compiuti prima della dichiarazione di fallimento.

Quindi, si rileva come l'applicazione delle norme in tema di esecuzione individuale non consenta di realizzare in modo efficace questo obiettivo.

Da queste prime considerazioni si può desumere che, attraverso l'esecuzione concorsuale si dovrebbe ottenere di liquidare l'impresa e farla uscire dal mercato, con il minor sacrificio possibile per i creditori.

La disciplina delle procedure concorsuali, però, non si pone soltanto il problema dell'eliminazione dal mercato dell'impresa in crisi, ma si pone anche un altro problema, cioè quello di prevedere procedure che consentano all'impresa in crisi, di superare la crisi. Il vantaggio dell'adozione di una procedura di questo genere è rappresentato dalla possibilità di ottenere il risanamento dell'impresa, che è sempre preferibile rispetto alla disgregazione, perché ha effetti meno devastanti nei confronti dei creditori, ma soprattutto consente di mantenere il valore dell'impresa, valore che è dato dall'aggregazione aziendale.

Ci sono poi altre esigenze a cui occorre fare fronte, per esempio l'esigenza di consentire all'imprenditore che sia in stato di insolvenza, di evitare la liquidazione fallimentare, facendo un accordo con i creditori che gli consenta un pagamento parziale, ma sdebitatorio.


Le procedure concorsuali previste sono:


  FALLIMENTO = ha unicamente la funzione di liquidare l'impresa, realizzando la partecipazione di tutti i creditori, secondo il principio di parità di trattamento, a ciò che si ricava dalla liquidazione fallimentare. L'esito del fallimento è inevitabilmente la cessione delle attività dell'imprenditore allo scopo di ripartire il ricavato di tale cessione tra tutti i creditori concorsuali. Il fallimento può essere evitato, facendo ricorso ad una procedura concorsuale alternativa, che è il concordato preventivo.

  AMMINISTRAZIONE CONTROLLATA = prevista sempre allo scopo di consentire all'imprenditore di evitare il fallimento. La sua funzione è quella di consentire all'imprenditore di risanare l'impresa, cioè di continuare l'attività di impresa, superando la situazione di temporanea difficoltà ad adempiere in cui l'imprenditore si trova. Presupposto perché possa essere concessa questa procedura è che l'impresa si trovi in una situazione di "temporanea difficoltà ad adempiere" (insolvenza che si presume possa essere reversibile). Altro presupposto è che vi siano comprovate possibilità di risanamento dell'impresa, cioè che l'imprenditore presenti un programma dal quale si possa desumere che vi sono concrete possibilità che l'impresa superi la situazione di temporanea difficoltà e ritorni in grado di fare fronte ai propri debiti. L'ammissione a questo tipo di procedura comporta, in primo luogo, una moratoria dei debiti, cioè comporta che per tutta la durata della procedura, che non può superare i 2 anni, i creditori anteriori all'inizio della procedura e non possono neppure compiere procedure esecutive sul patrimonio dell'imprenditore. Questa moratoria dovrebbe consentire all'imprenditore di avere il "respiro" necessario per risanare l'impresa. Il secondo aspetto è costituito dal fatto che l'amministrazione dell'impresa si svolge sotto un controllo giudiziale: questo controllo è affidato agli organi della procedura, che sono il giudice delegato (ha il compito di autorizzare il compimento delle operazioni attinenti all'ordinaria amministrazione dell'impresa) e il commissario giudiziale (soggetto che più direttamente controlla l'attività amministrativa). Anche per l'ammissione a questa procedura è necessario il consenso dei creditori, a votazione (come per il concordato preventivo): ammessi al voto sono solo i creditori chirografari, cioè quelli che sono destinati a subire il sacrificio maggiore. Al termine della procedura, se l'operazione di risanamento è riuscita, l'imprenditore ricomincerà a fare fronte regolarmente alle sue obbligazioni; se, al termine della procedura, non si ottiene il risultato del risanamento, allora verrà dichiarato il fallimento. (la maggior parte finisce in questo modo, cioè col fallimento).

  CONCORDATO PREVENTIVO = in presenza di determinati presupposti, l'imprenditore può chiedere di provvedere al pagamento dei propri debiti, offrendo di pagare integralmente le spese della procedura, i crediti privilegiati e, almeno fino al 40%, i crediti chirografari: per fare questo, dovrà fornire idonee garanzie di fare fronte a questo impegno. In alternativa, può proporre di cedere ai creditori tutti i suoi beni sul presupposto che si possa ricavare dalla vendita dei suoi beni un importo sufficiente a pagare le spese della procedura, i creditori privilegiati al 100% e i creditori chirografari almeno nella misura del 40%. Nel primo caso avremo un concordato remissorio garantito; nel secondo caso abbiamo un concordato concessione dei beni. Scopo che si prefigge l'imprenditore: uscire dalla situazione di insolvenza in cui si trova, attraverso una procedura che gli consenta di ottenere un effetto sdebitatorio, cioè di ridurre il suo debito a ciò che costituisce oggetto della proposta concordataria. Per poter essere ammessi al concordato, occorrono determinati presupposti di legge (indicati dall'ART. 160 L.F.) e occorre anche che vi sia l'accordo dei creditori. Anche una volta ottenuta l'approvazione da parte dei creditori, il concordato non diventa esecutivo se non è stato prima omologato da parte del tribunale.


Parlando di amministrazione controllata, si è inserito un nuovo argomento, che oggi è di particolare importanza e di particolare attualità: il RISANAMENTO DELL'IMPRESA in crisi.

La legge fallimentare è ispirata ad una filosofia che è fondamentalmente quella della necessità di far uscire dal mercato l'impresa insolvente, cercando di attenuarne le conseguenze per i creditori.

Oggi, di fronte alla situazione dell'impresa in crisi, ci si pone in una prospettiva molto diversa, perché l'idea che un'impresa, in particolare di grandi dimensioni, che si trovi in una situazione di difficoltà, debba essere disgregata per cederla a pezzi, urta con la considerazione dell'opportunità di individuare tutte le forme possibili che consentono di mantenere il valore dell'azienda, di conservare il valore rappresentato dall'organizzazione di beni e di persone che fanno capo all'azienda.

Da qui la necessità di individuare procedure concorsuali nuove, alternative al fallimento, che consentono di ottenere il beneficio, da un lato di cercare di conservare quello che c'è di buono nel complesso aziendale che entrato in crisi, dall'altro lato cercare anche soluzioni che consentono di mantenere i livelli dell'occupazione.

Questo spiega perché sia stata introdotta, accanto alle tre procedure che trovano la loro disciplina della legge fallimentare del 1942, anche una quarta procedura, che è stata anche oggetto di un intervento legislativo relativamente recente.

Si tratta dell' AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA delle grandi imprese in crisi, che nasce nel 1979, con l'intento di disciplinare un nuovo tipo di procedura concorsuale, alternativa rispetto al fallimento, che appaia più rispondente alle esigenze di composizione dei dissesti di imprese di grandi dimensioni e il cui dissesto ha un impatto sull'economia molto più rilevante rispetto a quello che può avere su un impresa di piccole dimensioni.

La funzione di questa procedura è, in parte risanatoria e, in parte, liquidatoria: questa procedura si propone di realizzare un programma che in parte è un programma di risanamento dell'impresa, in parte è un programma di liquidazione di quei rami dell'impresa che non possono più essere utilmente proseguiti. (funzione mista). In parte, una funzione simile a quella di un'amministrazione controllata, in parte simile a quella di una procedura fallimentare.

Per risanare un'impresa, normalmente bisogna fare grosse ristrutturazioni: queste ristrutturazioni presuppongono l'eliminazione di quei rami dell'impresa che non sono più produttivi, di quelli che hanno causato o aggravato il dissesto, per conservare quello che di buono, invece, l'impresa è riuscita a generare.

Questo profilo della conservazione dell'impresa, non è volto a conservare la proprietà dell'impresa all'imprenditore insolvente, o almeno non è necessariamente diretto a far sì che il titolare dell'impresa conservi la titolarità dell'impresa: la procedura si propone di conservare l'organismo produttivo, anche ai fini di una dismissione a favore di terzi (normalmente il risanamento si realizza proprio attraverso la dismissione a favore di terzi).

Questa procedura, a differenza di quelle tre regolate dalla legge fallimentare, si svolge sotto il controllo dell'autorità amministrativa, non sotto il controllo dell'autorità giudiziaria.

L'autorità amministrativa di riferimento è il ministero dell'industria, che si serve, a sua volta, di organi della procedura a cui è più direttamente delegata l'attività di direzione e controllo, che sono i commissari straordinari.

Questa procedura, che nel 1979 era stata prevista soltanto per le grandi imprese in crisi, con una riforma operata nel 1999 (L. 270/1999) è stata estesa ad un campo di applicazione che comprende anche imprese di medie dimensioni, con un notevole ridimensionamento del campo di applicazione della procedura fallimentare.

L'amministrazione straordinaria non è completamente alternativa rispetto al fallimento, perché nell'ipotesi di insuccesso dell'amministrazione straordinaria, è possibile la conversione di questa in una procedura fallimentare.

Il grosso dibattito che oggi c'è sul tema delle riforme delle procedure concorsuali è proprio basato sul mutamento di filosofia di approccio al tema delle procedura concorsuali, che oggi non è più quello della necessaria liquidazione dell'impresa insolvente, ma è spostato verso la necessità di individuare procedure che consentano il risanamento dell'impresa e il mantenimento dell'impresa sul mercato.

L'esperienza dell'amministrazione controllata come strumento di risanamento è stata un'esperienza pessima: e anche, fino ad ora, l'amministrazione straordinaria non ha dato esiti particolarmente felici.


Esiste un'altra procedura concorsuale di carattere generale, che trova anch'essa la sua disciplina nella legge fallimentare, è la LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA.

La liquidazione coatta amministrativa è una procedura, per molti versi, analoga a quella fallimentare, rivolta alla liquidazione dell'impresa, non al suo risanamento, ma si caratterizza rispetto alla procedura fallimentare per il fatto di essere diretta dall'autorità amministrativa, non di quella giudiziaria.

Soggetti alla liquidazione coatta amministrativa sono gli enti pubblici economici (in questo caso è la natura pubblica dell'ente che comporta l'applicazione di questa procedura che si svolge sotto il controllo dell'autorità amministrativa), oppure sono le imprese anche private che operano in determinati settori (banche, assicurazioni, società di intermediazione mobiliare).

Per questi soggetti, l'assoggettamento ad una procedura diversa da quella vista per le altre imprese, non è sempre agevole.

Sono tutte imprese, la cui attività è soggetta controllo pubblico, che fanno già capo ad un ordinamento di tipo amministrativo: controllo pubblico volto a garantire la correttezza della gestione. Sono anche forme di controllo pubblico che comportano interventi di natura sanzionatoria.

La liquidazione coatta amministrativa non sempre presuppone l'insolvenza dell'impresa: può essere disposta anche in presenza di gravi irregolarità amministrative, oltre che in presenza di gravi perdite patrimoniali che fanno presumere un situazione di insolvenza.

La presenza di un controllo di natura pubblica, spiega l'assoggettamento a liquidazione coatta amministrativa anche delle società cooperative (le società cooperative sono soggette a controllo pubblico, controllo che viene effettuato dal ministero del lavoro).

DIFFERENZA FONDAMENTALE TRA LE COOPERATIVE E LE ALTRE IMPRESE SOGGETTE A LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA = per le cooperative è possibile anche la dichiarazione di fallimento: le cooperative possono essere assoggettate a fallimento o a liquidazione coatta amministrativa e prevale quella che viene dichiarata per prima. Alternativa che non esiste per le altre imprese, banche, assicurazioni, società di intermediazione mobiliare: queste possono essere assoggettate solo a liquidazione coatta amministrativa.























PROCEDURA FALLIMENTARE


soggettivo: sono soggetti a fallimento soltanto gli

imprenditori commerciali non piccoli.

PRESUPPOSTI per la dichiarazione di fallimento:

oggettivo: deve esserci lo stato di insolvenza

(ART. 5 L.F.)


ART. 5 L.F. = Lo stato di insolvenza è definito come incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

E' in stato di insolvenza l'imprenditore-debitore che non sia più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

L'insolvenza è uno stato e, in questo senso, si differenzia dall'inadempimento.

L'inadempimento non necessariamente presuppone una situazione di insolvenza: l'inadempimento può nascere anche dalla volontà di non adempiere.

L'insolvenza è data da una serie di manifestazioni esteriori, tra le quali un ruolo fondamentale hanno i ripetuti inadempimenti.

L'insolvenza non presuppone necessariamente che le attività patrimoniali dell'imprenditore siano inferiori rispetto ai suoi debiti: ci può essere insolvenza anche quando l'imprenditore abbia attività patrimoniali che superano i debiti, però non sia in grado di liquidarle, quindi non sia in grado di avere il denaro sufficiente per far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.

In presenza di questi presupposti, può essere dichiarato il fallimento.

L'iniziativa per la dichiarazione di fallimento viene riconosciuta allo stesso debitore (il debitore può chiedere il proprio fallimento: anzi, l'imprenditore che si trovi in stato di insolvenza avrebbe il dovere di chiedere il proprio fallimento), o per iniziativa dei creditori (ipotesi più frequente quella del fallimento che viene dichiarato su istanza di uno o più creditori), o su istanza del pubblico ministero, o d'ufficio dal giudice.

Il fallimento viene dichiarato con sentenza: la sentenza dichiarativa di fallimento, non si limita ad accertare l'esistenza dello stato di insolvenza e a dichiarare l'apertura della procedura, ma provvede anche alla nomina degli organi della procedura, in particolare, il giudice delegato al fallimento e il curatore fallimentare.

Il giudice delegato ha il compito di dirigere la procedura.

Il curatore ha il compito di gestire il patrimonio del fallito, sotto la direzione del giudice delegato.


PRINCIPALI EFFETTI DI NATURA SOSTANZIALE CHE DERIVANO DALLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO:

  Effetti che la dichiarazione di fallimento comporta nei confronti dell'imprenditore fallito: L'effetto fondamentale è lo spossessamento, cioè l'imprenditore perde la capacità di disporre dei propri beni (del proprio patrimonio). Dal momento della dichiarazione di fallimento, l'imprenditore fallito non può più compiere atti di disposizione del suo patrimonio, con effetti nei confronti del fallimento. La perdita della capacità di disporre del proprio patrimonio, comporta l'inefficacia degli atti compiuti dall'imprenditore fallito dopo la dichiarazione di fallimento: ART. 44 L.F. - Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori e sono inefficaci rispetto alla procedura. Inoltre, ART. 45 L.F. - Le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiuti dopo la data della dichiarazione di fallimento, sono senza effetto rispetto ai creditori = l'effetto di spossessamento che realizza la sentenza dichiarativa di fallimento ha anche la capacità di estendersi anche ad atti compiuti prima della dichiarazione di fallimento, ricomprendere beni che sono usciti dal patrimonio del debitore prima della dichiarazione di fallimento, quando non siano state poste in essere le formalità necessarie per rendere opponibile l'atto ai terzi. A questo effetto di natura patrimoniale si sottraggono una serie di beni, che sono i beni impignorabili. Inoltre, la sentenza dichiarativa del fallimento comporta effetti di natura personale: l'obbligo di residenza (il fallito non può allontanarsi dalla sua residenza), perdita del diritto alla riservatezza della corrispondenza (la corrispondenza viene aperta dal curatore fallimentare), ecc.

  Effetti del fallimento per i creditori: ART. 52 L.F. = La dichiarazione di fallimento apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito: dal momento in cui viene dichiarato il fallimento, l'esecuzione sul patrimonio del fallito è un'esecuzione concorsuale che si realizza nelle forme della procedura fallimentare. Il creditore, se vuole essere soddisfatto, deve partecipare alla procedura, cioè deve proporre una domanda di insinuazione del passivo fallimentare, quindi deve accettare le regole della procedura. Chi non presenta domanda di insinuazione fallimentare, non partecipa al concorso e non ha diritto ad essere soddisfatto in sede fallimentare. Questo non significa che perda il credito, o che perda la possibilità di rivalersi sul debitore: semplicemente lo potrà fare una volta che la procedura si è chiusa, e che sia rimasto un attivo residuo. Perché si realizzi il concorso di tutti i creditori, secondo il principio di parità di trattamento (principio ispiratore dell'intera disciplina fallimentare) è necessario stabilire un principio per cui i creditori non possono compiere azioni esecutive individuali sul patrimonio del debitore fallito, né possono proseguire le azioni esecutive già iniziate. Il divieto di azioni esecutive è una caratteristica tipica di tutte le procedure concorsuali, perché se si consente ai creditori di iniziare o di proseguire azioni esecutive individuali, viene meno il principio di concorsualità. Seconda regola: dato che bisogna mettere tutti i creditori su un piano di parità nell'esecuzione concorsuale, si stabilisce che tutti i crediti ancorché non scaduti, si considerano scaduti alla data della dichiarazione di fallimento. Infine, terza regola: i debiti pecuniari non producono interessi dalla data della dichiarazione di fallimento - c'è una sospensione del decorso degli interesse: questa regola incontra eccezioni, nel senso che è ammesso il decorso degli interessi, con regole particolari, per i crediti privilegiati (es.: il creditore ipotecario vede riconosciuto il decorso degli interessi sul suo credito, nella misura convenzionale, fino alla chiusura dell'anno in cui è stato dichiarato il fallimento e anche successivamente, nella misura legale, fino alla vendita del bene, naturalmente se tali interessi trovano capienza nel bene sui cui è stata costituita la garanzia). Con la dichiarazione di fallimento si apre il concorso dei creditori, il che vuole dire che i creditori possono essere soddisfatti solo mediante la procedura fallimentare: questo principio incontra solo un'eccezione importante, cioè la facoltà di compensazione = ciascun creditore dovrebbe proporre domanda di insinuazione del passivo fallimentare ed essere pagato in moneta fallimentare, cioè essere pagato da ciò che si ricava dalla vendita dei beni del fallito e nella misura in cui la vendita dei beni del fallito consenta il pagamento: se, però, il creditore del fallito è contemporaneamente anche debitore del fallito, purché credito e controcredito siano sorti entrambi prima della sentenza dichiarativa di fallimento, può opporre la compensazione, cioè il creditore può soddisfarsi opponendo in compensazione al proprio credito, il debito che egli ha nei confronti della procedura - (ART. 56 L.F.).

  Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli per i creditori: (ARTT. 64/SS. L.F.). Disciplina che tiene conto del fatto che, prima della dichiarazione di fallimento, è probabile che l'imprenditore abbia posto in essere con terzi atti che hanno pregiudicato il principio di parità di trattamento, che hanno leso la garanzia patrimoniale dei creditori, o perché hanno favorito un creditore rispetto agli altri, o perché hanno portato un depauperamento del patrimonio dell'imprenditore a danno di tutti i suoi creditori. Nel diritto civile c'è un'azione (artt. 2901 e ss. c.c.) che ha la funzione di consentire al creditore di rendere inefficaci nei suoi confronti, atti di disposizione compiuti dal debitore, che pregiudichino le sue regioni di credito: è l'azione revocatoria ordinaria, la quale presuppone la prova, da parte del creditore, che il debitore ha compiuto un atto che pregiudica le sue ragioni di credito; inoltre, l'atto deve essere compiuto dal debitore con la consapevolezza di recare danno alle ragioni del creditore (frode); se poi l'atto è a titolo oneroso, occorre dimostrare anche la partecipazione alla frode da parte del terzo, o quantomeno che il terzo era consapevole che l'atto era compiuto in frode ai creditori (se l'atto è titolo gratuito, invece, non c'è ragione di tutelare il terzo, rispetto alle ragioni del creditore, il quale può limitarsi solo a provare l'eventus damni e la consapevolezza del pregiudizio in capo al debitore che ha compiuto l'atto di disposizione). La revocatoria non comporta la nullità o l'annullabilità dell'atto: comporta solo la sua inefficacia nei confronti del creditore procedente, in modo tale che il creditore procedente possa agire su quel bene come se facesse parte ancora del patrimonio del debitore. L'azione revocatoria ordinaria è una forma di tutela delle ragioni del creditore di scarsa efficacia, perché, in primo luogo, per le difficoltà probatorie, a cui si aggiunge il fatto che si tratta di un'azione giudiziaria che si propone attraverso un'ordinaria causa (azione di cognizione) che ha, almeno nel nostro Paese, tempi lunghissimi. Ecco perché il tema degli atti pregiudizievoli per i creditori viene affrontato, in sede fallimentare, con strumenti estremamente più efficaci, in considerazione del fatto che, in genere, la disciplina degli atti pregiudizievoli, è uno strumento che consente di ricostituire il patrimonio del fallito, facendo ritornare all'interno di questo patrimonio, che è destinato alla liquidazione fallimentare, anche una serie di attività che ne sono uscite prima della dichiarazione di fallimento, con modalità tali da ledere il principio della par condicio creditorum. Questa particolare efficacia che ha la disciplina della revoca degli atti pregiudizievoli nel fallimento, è dimostrata dall' ART. 64 L.F. (atti a titolo gratuito) - Sono privi di effetto rispetto ai creditori (quindi, rispetto al fallimento) gli atti a titolo gratuito, se compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento. Non è necessario promuovere un'azione giudiziaria: sono automaticamente, ex lege, inefficaci nei confronti del fallimento, gli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento. La stessa sorte della revoca ex lege si ha per il pagamento anticipato di crediti che scadono, o erano destinati a scadere, alla data del fallimento o successivamente a tale data: automatica inefficacia del pagamento, con la conseguenza che chi ha ricevuto il pagamento deve restituire il denaro ricevuto alla procedura. In entrambi questi casi non c'è bisogno di esperire un'azione giudiziaria: è sufficiente che si verifichino i presupposti perché siano inefficaci. Accanto a questa disciplina che comporta la revoca ex lege di atti particolarmente pregiudizievoli per i creditori, la legge fallimentare regola anche l'esercizio di un'azione revocatoria, che si distingue dalla revocatoria ordinaria, perché vengono previste una serie di facilitazioni, sotto il profilo probatorio, a favore del curatore fallimentare: si tratta della revocatoria fallimentare - ART. 67 L.F., dove si distinguono due categorie di atti: "atti anormali" (cioè quelli che, per le loro caratteristiche, sono sintomatici del fatto di essere stati compiuti in una situazione di consapevolezza dell'esistenza di uno stato di insolvenza) e "atti normali" (cioè normali atti di gestione dell'impresa, che diventano però atti pregiudizievoli per i creditori, se compiuti in presenza di una situazione di insolvenza e se il soggetto con cui l'imprenditore li ha compiuti era consapevole dell'esistenza di uno stato di insolvenza). La disciplina che si applica per queste due categorie di atti è diversa sul piano probatorio.  ART. 67 - 1° comma - si identificano gli atti anormali: sono gli atti a titolo oneroso compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito, sorpassano notevolmente ciò che a lui è stato dato o promesso = ci troviamo di fronte ad atti in cui non vi è equilibrio tra le prestazioni, in particolare, la prestazione effettuata dall'imprenditore, poi fallito, sorpassa nel suo valore, il valore della controprestazione: se tale atto è compiuto nei due anni anteriori alla data del fallimento, consente al creditore di agire in giudizio, con vantaggio sul piano probatorio. Il vantaggio è dato dal fatto che l'atto è revocato, a meno che il terzo non dimostri che non conosceva lo stato di insolvenza dell'imprenditore: c'è un'inversione dell'onere della prova (data la anormalità dell'atto, è il terzo che, se vuole evitare la revoca, deve dimostrare che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore fallito). Questa disciplina si applica anche ad altri atti anormali: atti estintivi di debiti pecuniari, scaduti ed esigibili, non effettuati con denaro o con altri mezzi anormali di pagamento (pagamenti anormali). La terza ipotesi è quella delle garanzie (pegni e ipoteche volontarie) costituite nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti (es.: un credito originariamente non garantito viene successivamente garantito con le prestazioni di garanzie reali: anche questo è considerato un atto anormale e sintomatico dell'insolvenza, perché se il finanziamento non era originariamente garantito e successivamente il creditore ha preteso una garanzia, vuole dire che era a conoscenza del fatto che c'era stato un deterioramento della situazione patrimoniale del suo debitore). Infine, ultima ipotesi di atto anormale, è quella della garanzia reale (pegno e ipoteca sia volontaria che giudiziale) che sia stata costituita per debiti preesistenti già scaduti. La differenza che c'è tra quest'ultima ipotesi e le precedenti, è che in questo ultimo caso il termine non è più biennale, ma è annuale: nel caso di garanzie reali costituite per debiti scaduti, l'atto è revocabile se compiuto nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; mentre per le altre tre tipologie, il periodo è di due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento.

Vediamo ora come sono trattati gli atti normali (normalissimi atti di gestione che, in sé, non fanno affatto presumere una situazione di insolvenza o la conoscenza di uno stato di insolvenza): la norma si riferisce a qualsiasi atto a titolo oneroso che sia stato compiuto dall'imprenditore nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Questi atti normali sono: pagamenti di debiti liquidi ed esigibili e gli atti a titolo oneroso, che non abbiano il carattere della anormalità, compiuti dall'imprenditore nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Anche gli atti normali vengono colpiti dalla revocatoria fallimentare, perché comunque anche un atto normale può ledere alla parità di trattamento dei creditori: l'unica cosa è che, trattandosi di atti normali, quindi di atti non sintomatici di una situazione di insolvenza e soprattutto della conoscenza di questa situazione da parte del terzo, la legge prevede che, in questo caso, è il curatore che deve provare che il terzo era a conoscenza dello stato di insolvenza dell'imprenditore (l'onere probatorio grava sul curatore fallimentare, proprio perché l'atto non è, in sé, sintomatico della situazione di insolvenza e della sua conoscenza da parte del terzo: più l'atto è vicino, temporalmente, alla data in cui il fallimento è stato dichiarato, più è facile dimostrare la conoscenza dello stato di insolvenza, perché in genere c'è già un panorama di manifestazioni dell'insolvenza, rispetto al quale è più agevole dimostrare che il terzo ne era a conoscenza).

L'effetto della revocatoria fallimentare è lo stesso di quello della revocatoria ordinaria, cioè l'inefficacia dell'atto, l'inopponibilità alla procedura dell'atto stesso, con un effetto immediatamente restitutorio: il soggetto che soccombe in revocatoria, se ha acquistato un bene (o chi ha ricevuto un pagamento), è tenuto a restituire il bene (o il pagamento ricevuto) alla procedura, in modo che questa possa venderlo in sede fallimentare (o che il denaro possa essere destinato a tutti i creditori). L'unica consolazione per il soggetto che ha subito la revocatoria è quella di potersi insinuare nel passivo fallimentare: ART. 71 L.F. - Colui che per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto, è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.

  Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti: ARTT. 72/SS. L.F. - Le soluzioni che il legislatore ci offre, a seconda del tipo di contratto preso in considerazione, sono tre. La prima soluzione, prevista per la compravendita, è una soluzione che si basa sul principio secondo cui il contratto rimane sospeso, con la dichiarazione di fallimento, in attesa che il curatore fallimentare decida se darvi o non darvi esecuzione. Per altri contratti, invece, il legislatore, ravvisandovi una incompatibilità assoluta nella loro prosecuzione con la procedura fallimentare, prevede come regola lo scioglimento automatico (es.: mandato, conto corrente, contratto di società, contratto di associazione in partecipazione, contratto di commissione). Infine, per altri contratti (contratti di durata), si prevede la continuazione con la procedura (contratto di locazione di immobili: se fallisce il locatore, il contratto non si scioglie, ma il curatore subentra nel contratto; se fallisce il conduttore, il contratto prosegue con la procedura e il curatore può recedere dal contratto, corrispondendo al locatore un equo compenso).

Però, vediamo che la scelta del legislatore nel disciplinare gli effetti del fallimento solo per alcuni tipi di contratto, lascia ampi margini di dubbio sulla disciplina applicabile ai contratti che non sono espressamente menzionati (es.: contratto di lavoro). Gli orientamenti che oggi tendono a prevalere sono nel senso che la regola della sospensione sia la regola di carattere generale: salvo che non si ravvisi un'assoluta incompatibilità con la procedura, per cui comunque il contratto non potrebbe proseguire con la procedura, la regola da applicare ai contratti non espressamente menzionati dalla legge fallimentare, è quella che il contratto si sospende, in attesa della decisione del curatore se subentrare o se scioglierlo. Questa è anche la regola che, in ogni caso, risponde meglio alle regole della procedura. Anche dopo la dichiarazione di fallimento è possibile la prosecuzione dell'attività: è possibile l'esercizio provvisorio dell'attività d'impresa.





Il procedimento fallimentare prevede alcune fasi, che sono:


  FASE DI ACCERTAMENTO DEL PASSIVO = fase in cui gli organi della procedura accertano la sussistenza, l'entità e la natura dei crediti di coloro che hanno proposto la domanda di insinuazione del passivo fallimentare. Questa fase si realizza attraverso la formazione dello stato passivo.

  FASE DI LIQUIDAZIONE DELL'ATTIVO = fase nella quale il curatore, sotto la direzione del giudice delegato, procede alla trasformazione in denaro del patrimonio del fallito (alla vendita dei beni del fallito).

  FASE DI RIPARTIZIONE DELL'ATTIVO = fase in cui gli organi della procedura provvedono a ripartire ciò che si è ricavato dalla liquidazione dell'attivo fallimentare, fra tutti i creditori, nel rispetto di una serie di regole (prima vanno pagate le spese della procedura; poi vengono pagati i creditori privilegiati, secondo il grado del privilegio; infine, verranno pagati i creditori chirografari che, come spesso accade, finiscono col non percepire nulla).

  FASE DELLA CHIUSURA DEL FALLIMENTO = la chiusura del fallimento può intervenire anche prima della stessa liquidazione dell'attivo, qualora non venga presentata nessuna istanza di ammissione alla procedura. Oppure si chiude, prima ancora che si arrivi al riparto dell'attivo, ci si rende conto che l'attivo è assolutamente insufficiente per il pagamento dei creditori (non riesce neppure a pagare le spese di procedura). Oppure si può chiudere quando è stato ripartito tutto l'attivo possibile. Oppure (meno frequente) quando, prima che sia stato liquidato interamente l'attivo, il curatore acquisisca disponibilità sufficienti per il pagamento al 100% di tutti i creditori. Infine, la chiusura del fallimento può avvenire anche con un concordato fallimentare: è lo stesso imprenditore fallito che formula una proposta di pagare le spese di procedura, di pagare al 100% i creditori privilegiati e in una certa percentuale (che la legge non predetermina) i creditori chirografari. Anche il concordato fallimentare, come quello preventivo, deve ottenere il consenso dei creditori, ma con una sostanziale differenza: mentre con il concordato preventivo il consenso viene dato in un'apposita adunanza, nel concordato fallimentare c'è una procedura di consenso scritto, ma che funziona con la regola del silenzio-assenso (a tutti i creditori viene mandata una comunicazione contenente la proposta di concordato fallimentare: chi si vuole opporre deve dirlo espressamente, perché chi non dice nulla si considera consenziente).



















FALLIMENTO DELLE SOCIETA'

(vedi anche in seguito, in tema di società).


Quando a fallire è una società, le norme che trovano applicazione nel caso di effetti nei confronti del fallito, sono le stesse norme che si applicano nel caso di fallimento dell'imprenditore individuale, con la sola eccezione che taluni degli effetti personali che sono previsti a carico del fallito, nel caso delle società, si applicano agli amministratori della società.

C'è però una peculiarità che riguarda le società con soci illimitatamente responsabili.

Quando parliamo di società con soci a responsabilità illimitata, facciamo riferimento alle società di persone (s.s., s.n.c. e s.a.s.).


ART. 147 L.F. - In caso di fallimento di una società con soci illimitatamente responsabili, il fallimento della società produce anche il fallimento personale dei soci illimitatamente responsabili.


ESEMPIO: se i soci sono 5, si aprono 6 fallimenti e ciascuno ha una massa attiva ed una massa passiva differente: nella massa attiva del fallimento della società, ci sono i beni della società; nella massa passiva del fallimento della società, ci sono i debiti della società. Invece, nella massa passiva del fallimento di un socio ci sono i debiti della società, perché ne risponde illimitatamente, ma anche i suoi debiti personali; nella massa attiva del fallimento di un socio, ci sono i suoi beni personali.


Questa norma che prevede il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, si applica anche al caso del SOCIO OCCULTO - ART. 147 L.F.: Se dopo la dichiarazione di fallimento, si scopre l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il cui vincolo sociale non era stato esteriorizzato (era rimasto occulto) allora il fallimento della società comporta anche il fallimento del socio occulto.













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