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IL CODICE DI PROCEDURA CIVILE

diritto



IL CODICE DI PROCEDURA CIVILE. È chiamato codice del 40 - 42 perché ebbe un periodo di vacatio legis di 2 anni. È ancora nella forma originaria del regio decreto. Precedentemente, c'è stato il codice del 1865, che costituisce il primo codice dell'Italia unita. Il codice del 42 risente fortemente del modello codicistico napoleonico per la spiccata formalizzazione e la liberalità. Esso nasce all'insegna del compromesso, è un prodotto do 434i85e ttrinale e non è caratterizzato da elementi di autoritarismo, nonostante veda la luce nel periodo fascista. Le modifiche intervenute sono state di vari tipi:

a ) Leggi speciali di integrazione, contenenti profili sostanziali e processuali, che hanno integrato il Codice. Es.: artt. 18-28 Statuto dei lavoratori: licenziamento illegittimo e norme a tutela dei lavoratori a garanzia della parità; art. 4 l. 125/91: azioni positive contro la discriminazione illecita per ragioni di sesso.

b) Leggi speciali con funzione di espunzione (+incisiva), che sottraggono una materia al Codice e la regolamentano ex novo. Es.: l. 218/95 (abrogazione artt. 2-3-4 cpc) sottrae definitivamente la materia del diritto internazionale processuale; d.lgs. 5/2003: rito societario; l. 1998: diritti dei consumatori e degli utenti.

c) Nonostante questi tipi di intervento, la maggior parte delle modifiche si sono avute con la  "tecnica della novella", cioè con leggi che hanno modificato parte della nozioni del Codice. È stata usata per le riforme di sistema, che sono intervenute a partire dal 1950, anno della prima riforma sistematica. Es: arbitrato, procedura di esecuzione forzata, procedimento cautelare;



l. 581/50: indebolimento delle preclusioni nel rito di cognizione ordinario;

l. 533/73: introduzione del rito per controversie in materia di lavoro subordinato (successivamente esteso al rito locatizio e agrario); l. 352/90: provvedimenti urgenti per il processo civile.

Il 1990 è l'anno di una riforma significativa che, per buona parte, è presente ancor oggi; si tratta della riforma del rito ordinario e del rito in materia cautelare, per la prima volta dichiaratamente nell'intento dell'accelerazione; a seguito di tale riforma si ha un rafforzamento dei provvedimenti giurisdizionali cognitivi fin dal I grado di giudizio, attraverso una scelta di comodo, valida ancor oggi, che consiste nell'attribuzione (in contrasto con il passato) di normale efficacia esecutiva alla sentenza di condanna di primo grado, nonostante la possibilità di riforma. Essa, se contenente condanna, funge da titolo per la forzosa modifica della realtà, in modo conforme a quanto disposto dalla sentenza, salvo a potersi tornare indietro se, conclusa l'esecuzione, la sentenza è riformata in grado d'appello.

Sempre nel '90 un'ulteriore modifica riguarda il regime delle preclusioni (che era stato allentato nel '50), che viene inasprito in modo un po' eccessivo, da qui numerose contestazioni, che ne fanno slittare l'entrata in vigore. [Le preclusioni sono termini in correlazione ai quali devono essere effettuate determinate allegazioni difensive, per giungere ad una scansione del processo sulla base di termini ultimi. Nel processo non si può dire tutto ciò che si vuole quando si vuole, vi è l'esigenza che esso sia scandito da una sequenza ordinata di atti coordinati in funzione di un obbiettivo ultimo].

Nel 1995 il regime viene ammorbidito con un d.l. di riforma degli artt. 180/183. Questa mini riforma amplia la tecnica, già introdotta nel '90, dei provvedimenti di tutela urgenti sommari nn cautelari, in grado di anticipare la sentenza di merito, seppur a certe condizioni.

Nel 1998 viene istituito il Giudice Unico di I grado e viene introdotto il principio della generale competenza monocratica del Tribunale, tranne in casi tassativamente determinati di competenza del Tribunale collegiale (art. 50bis). A differenza del codice del 40, che nasceva da un compromesso tra chi propendeva per la monocraticità e chi la contrastava, per cui si era scelto di fare della competenza del Tribunale una competenza sdoppiata x fasi. a) giudice istruttore: trattazione e esecuzione. B) giudice collegiale: eccezione. Nel '98 si opta per la scelta inversa.

Nel 2001:

il d.lgs. 165 effettua il riparto di competenze fra giurisdizione civile e amministrativa per le controversie in materia di pubblico impiego, con una netta preferenza per il Giudice Civile del lavoro, a differenza del passato;

viene modificato l'art. 375 relativo ai "casi in cui la Cassazione decide con rito camerale";

viene nazionalizzato il principio della tutela risarcitoria per l'eccessiva durata dei processi (anche per venire incontro alle pressanti richieste della Corte di Strasburgo)..



Nel 2005 la l. 80 introduce una nuova disciplina del "procedimento di esecuzione forzata" (dovuta al problema dell'eccessiva durata del processo), si opta nuovamente per un ritorno a quel passato che mai aveva potuto esplicare i suoi effetti, cioè a quel modello rigido di preclusioni, che era stato concepito dal legislatore del '90 e abortito poco dopo.: a causa del problema dell'eccessiva durata si ritorna al passato e al modello rigido del legislatore del '90. A questo inasprimento seguirà un correttivo mediante la modifica dell'art. 183.

Nel 2006 il d.lgs. 40 modifica la disciplina del Ricorso x Cassazione e quella dell'arbitrato.

Negli ultimi anni si è assistito anche alla riforma dell'ordinamento giudiziario, contenuto nel r.d. 12/41 e modificato specialmente per ciò che riguarda la carriera dei magistrati e l'esercizio dell'azione penale. Le sue norme si intrecciano in + punti con quelle della procedura civile, visto che esso, fra l'altro:

indica quali sono le autorità cui è affidato l'esercizio della funzione giurisdizionale in genere e di quella civile in particolare: giudice di pace, Tribunale (giudice ordinario), Corte d'Appello, Corte di Cassazione, Tribunale dei minori, oltre ad eventuali sezioni specializzate di questi organi che il legislatore può creare ex art. 102 Cost. (es: le sezioni agrarie del passato; le sezioni per il brevetto comunitario del '93; le sezioni per la tutela della proprietà industriale e intellettuale del 2003);

indica quali sono le attribuzioni del pm in ambito processualcivilistico;

definisce l'organizzazione interna degli uffici (per nr, sede, circoscrizione territoriale dei magistrati addetti, nr di sezioni interne o distaccate dell'ufficio, ecc.). Per questo motivo può essere considerato una sorta di "diritto amministrativo giudiziario". Tali norme, per la maggior parte, non hanno immediata rilevanza per la ritualità del procedimento. Avviene solo in casi estremi che una violazione delle norme di org.one interna dell'ufficio dà luogo ad un'irritualità che si ripercuote sui provvedimenti del processo processo. Es.: se una violazione delle regole sull'assegnazione a sezioni e uffici ha comportato che la controversia è stata decisa da un giudice, che non è investito per quella controversia della funzione, in base alle norme dell'o.g., ma che tuttavia appartiene allo stesso ufficio, secondo la Cassazione la partecipazione di questo magistrato alla decisione non può portare ad un giudizio di nullità della sentenza emessa, perché il vizio di costituzione del giudice (vizio di nullità della sentenza ex art. 158) si ha solo se l'atto è stato posto in essere da persona del tutto estranea all'ufficio, mentre non è riscontrabile quando si verifica una sostituzione tra appartenenti allo stesso ufficio. 

funge da guida per la distribuzione delle controversie sul territorio, quindi per capire a quale area circoscrizionale appartiene un determinato luogo.


Dritto comunitario e procedura civile.

Non si può più ritenere che la procedura civile sia un affare esclusivo del legislatore italiano, perché l'esperienza comunitaria ha posto fine all'autarchia processuale, in particolare processual-civilistica. È proprio in questo campo che il cammino comunitario ha portato a delle profonde innovazioni. Un tempo le uniche ingerenze da parte del diritto comunitario erano le convenzioni concluse in forza dell'art. 220 del Trattato, che imponeva agli Stati membri di promuovere negoziati per semplificare la circolazione dei provvedimenti giurisdizionali (es.: Convenzione di Bruxelles del '68 su "competenza giudiziaria, riconoscimento esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale). L'intervento comunitario era quindi limitato, sia per il contenuto (controversie "transfrontaliere") che per il metodo, visto che era necessario un accordo fra tutti gli Stati. Con il Trattato di Amsterdam, però, le istituzioni comunitarie (con intenti non più solo economici, ma anche di integrazione culturale) avocano a se le competenze normative in materia di cooperazione giudiziaria civile e la materia entrò a far parte del I pilastro dell'UE. Tutto ciò attraverso l'art. 65, una norma piena di "ismi" ( cioè parole astratte che significano tutto e niente), che si avvolge in una serie di espressioni ambigue adombranti il futuro di un'integrazione processuale civile, mediante l'allusione alla presenza di una norma comunitaria fra le fonti di regolamentazione del processo civile.  Esso costituirà la base giuridica su cui fondare norme, adottate dalle istituzioni, in materia di cooperazione giudiziaria civile. A partire dal 2000 si sono adottate norme, per lo più regolamenti, con cui si è approfondito il solco tracciato dalla Convenzione del '68 e norme relative alla creazione di disposizioni uguali per tutti, per stabilire a quale giudice spetti una controversia con elementi di collegamento relativi a più Stati.



In questo ambito, nasce la Convenzione di Bruxelles che si occupa sia della creazione di un sistema integrato di competenze giurisdizionali relative ad una data controversia, sia del profilo della circolazione della sentenza finale, perché una controversia con elementi di internazionalità ha bisogno di circolare perché sia conoscibile negli altri Stati. Ciò costituisce l'oggetto privilegiato dell'integrazione processuale comunitaria. Lo scopo ultimo è quello di giungere ad una regolamentazione unica del diritto processuale civile, da applicarsi a qualunque lite, non più necessariamente transfrontaliera, attraverso un graduale ravvicinamento delle legislazioni nazionali.

L'art. 65 ha indubbiamente delle potenzialità non ancora esplorate, per cui si è fatta strada l'idea che è concepibile una forma di armonizzazione processuale, un disegno attraverso cui i particolarismi processuali possono affievolirsi e, in ultimo, armonizzarsi. Il processo di armonizzazione è faticoso, ma si profilano alcune svolte importanti: più norme simili si hanno, più è possibile che non ci sia neanche bisogno di controllare i provvedimenti. In alcuni casi, le istituzioni hanno cominciato a favorire l'ingresso di frammenti di norme processuali, che entrano nei singoli Stati e regolamentano tutti i processi e non solo le controversie transnazionali. Quest'armonizzazione è piuttosto ardua perché si oppone all'idea che l'ord. Comun., in quanto tale, non avrebbe titolo per entrare nelle questioni nazionali, per cui si è ricorsi ad alcuni escamotage argomentativi.

Es.: sulla base giuridica dell'art. 65, il Consiglio ha emesso la Direttiva 35/2000 intitolata alla "lotta contro il ritardo nei pagamenti transnazionali commerciali"; in una norma è detto che, siccome l'ordinamento comunitario ha interesse a che la giustizia civile funzioni, perché, ferme restando le libertà individuali degli Stati a regolare i loro processi come vogliono, l'ord. ha interesse a che il processo funzioni, quindi può buttare un occhio su queste regole. A partire da un principio di civiltà comune agli Stati, si impone loro di dotarsi di strumenti tali da garantire che se un creditore chiede una condanna contro il debitore e questo debitore non sappia contestargli nulla né sulla qualità della domanda né sul credito, lo Stato debba dargli, entro 90 gg dalla presentazione della domanda, un titolo per portarla ad esecuzione ed ottenere il pagamento. Gli Stati hanno guardato nei loro Codici per vedere se sono in presenza di questo titolo. L'Italia ha trovato il "decreto ingiuntivo", con cui se il creditore dispone di una prova scritta può chiedere al giudice, inaudita altera parte, che il suo debitore venga condannato, sulla base di quanto asserito dal documento. La prova scritta dà al creditore il privilegio di ottenere il decreto, che è una condanna, ma che deve essere portato a conoscenza del debitore (solo raramente è dotato di operatività immediata) affinché si istauri il contraddittorio differito. Il debitore potrà proporre un giudizio di opposizione, in cui spendere quelle difese, che non ha potuto avanzare nella prima parte. Se il debitore lascia trascorrere i termini per l'opposizione, si ha lo scenario descritto dalla direttiva 35/2000. A questo punto ci si chiede se dal momento  in cui è stata avanzata la domanda al giudice al momento in cui sia maturato infruttuosamente il termine per l'opposizione passino sempre 90 gg. Nell'ord. italiano tale ultimo termine non era garantito, pertanto il legislatore ha ritoccato le norme sul procedimento ingiuntivo, imponendo una cadenza di termini, di modo che calcolando tutto il tempo dalla domanda del creditore alla ipotetica mancata opposizione, se sono trascorsi 90 gg, il decreto dovrà essere dotato di forza esecutiva. Quindi, a partire dall'esigenza di tutela dei crediti internazionali, l'Italia si è giovata di una nuova disciplina, che può essere applicata anche all'interno. L'ord. italiano è cambiato in forza di un'imposizione proveniente dall'Unione e in maniera forte, perché prima della direttiva prevedeva che il rito monitorio non poteva essere concesso contro un debitore residente all'estero ex art. 633, perché si pensava che non fossero abbastanza garantiste le modalità di notifica del decreto ingiuntivo, visto che lo Stato non era certo della notifica al debitore straniero. Una norma del genere costituiva un fastidioso retaggio del passato, a fronte delle attuali possibilità di comunicare tra Stati, e quindi era necessario provvedere. A tale risultato si approda con la direttiva. Di fronte all'esigenza di assicurare un titolo esecutivo al creditore transfrontaliero, l'ord. italiano ha dovuto necessariamente abrogare l'art. 633.

Oggi si comincia a parlare di "procedimento monitorio europeo", cioè si comincia a pensare all'idea che non soltanto i procedimenti giurisdizionali che nascono in un certo Stato, secondo le regole di quello Stato, possano poi circolare alla luce di un'unica disciplina, ma che anche il procedimento nella sua interezza possa essere disciplinato per tutti allo stesso modo. Si vuol dare a tutti la possibilità di avvalersi di un uguale strumento di tutela giurisdizionale, di fonte europea.






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