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Le grandi linee della storia italiana dalla fine del Quattrocento al Cinquecento

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Le grandi linee della storia italiana dalla fine del Quattrocento al Cinquecento

Alla metà del Quattrocento i cinque stati italiani più potenti - il ducato di Milano che ha raggiunto lo apogeo del suo splendore con gli Sforza, la Repubblica di Venezia, Firenze governata da Lorenzo il Magnifico, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli (che nel 1443 Alfonso d'Aragona aveva unito alla Sicilia sotto il dominio della sua casa) - trovano il loro equilibrio nella pace di Lodi, firmata il 9 aprile 1454 da Milano e Venezia al termine di una guerra fra di loro, ma a cui in seguito aderiscono anche gli altri tre grandi. Per quarant'anni questo trattato avrebbe mantenuto l'equilibrio in Italia, un po' come due secoli dopo i trattati di Westfalia avrebbero regolato l'equilibrio europeo e nel 1944 gli accordi di Yalta quello dei mondo moderno.

È questo il periodo più luminoso della cultura italiana, il periodo di Leonardo da Vinci e di Botticelli, di Donatelle e del Brunelleschi. È il Rinascimento, la cui arte (insieme alla concezione filosofica che ne è alla base, che consiste in una rivalutazione pagana dell'uomo e della sua volontà, contro il misticismo medioevale) avrebbe varcato le Alpi e provocato il grandioso fiorire delle letterature francese, inglese e spagnola, proprio mentre gli stranieri le varcavano in senso inverso, per imporre a noi il dominio delle loro armi. Si ripete per l'Italia ciò che successe per la Grecia nel II secolo a.C., che, conquistata dai Romani, li civilizzò con la sua cultura superiore.

Nel 1494 il re di Francia Carlo Vili scese in Italia per ristabilire il dominio della casa d'Angiò sul Regno di Napoli, e soprattutto perché gli facevano gola le ricchezze italiane. Egli trovò aiuto nelle discordie esterne ed interne dei signori italiani, specialmente in Lodovico il Moro 959j95j , adirato perché alla morte del fratello, il duca di Milano Galeazze Maria Sforza, il titolo era passato al figlio di costui Gian Galeazze, invece che a lui. Infatti poco dopo il passaggio di Carlo Vili da Milano, Lodovico fece uccidere Gian Galeazze e divenne duca. Intanto Carlo Vili - passando da Firenze, da cui si fece consegnare Pisa e Livorno, e da Roma, dove si accordò col papa Alessandro VI Borgia - entrò solennemente a Napoli il 22 febbraio 1495, essendo fuggito il re Ferdinando II. Ma il Papa, invece di dargli l'investitura del regno, formò contro di lui una coalizione (Lega santa) insieme con Lodovico il Moro - che, ottenuto il potere, adesso lo voleva mantenere - Venezia, l'Imperatore e il re di Spagna Ferdinando il Cattolico, che lo sconfisse costringendolo a rientrare in Francia nel 1496.



Intanto a Firenze nel 1494 il popolo aveva cacciato i Medici che erano stati troppo condiscendenti con Carlo Vili, e creato una repubblica su cui dominava l'autorità morale del frate domenicano Domenico Savonarola, che la trasformò in una specie di stato teocratico, basato sull'austerità dei costumi (si facevano processioni in cui si bruciavano gli oggetti da toeletta femminili e i libri considerati peccaminosi). Dal pulpito fra Gerolamo tuonava contro il Papa, che conduceva una vita dissipata e una politica nepotistica, specialmente nei riguardi dei figli Cesare e Lucrezia. Il Papa allora lo scomunicò, e ciò fece rialzare la testa ai suoi avversari, che erano sia i partigiani dei Medici sia i Francescani, tradizionali rivali dei Domenicani: il Savonarola fu fatto prigioniero, processato e messo al rogo il 23 maggio 1498 in Piazza della Signoria.

Il nuovo re di Francia, Luigi XII, volle ritentare la conquista dell'Italia, e, alleato a Venezia, nel 1500 tolse Milano a Lodovico il Moro, quindi, per conquistare il Regno delle Due Sicilie (che si chiamava così da quando gli Aragonesi, che già erano re di Sicilia, erano diventati padroni anche del Regno di Napoli) s'alleò con Ferdinando il Cattolico. I due re sconfissero nel 1501 Federico d'Aragona e si spartirono il Regno: Napoli e gli Abruzzi ai Francesi, la Sicilia, la Calabria e la Puglia agli Spagnoli. Per impadronirsi anche dell'Italia centrale Luigi XII sostenne Cesare Borgia, che in poco tempo conquistò tutta la Romagna, Urbino, Camerino, Perugia e Città di Castello, aiutato da suo padre Alessandro VI. Ma quando questi morì nel 1503, e Papa divenne Giulio II della Rovere, acerrimo nemico dei Borgia, Cesare (che era detto il Valentino, perché Luigi XII l'aveva fatto duca di Valenza), combattuto anche dagli Spagnoli, perdette tutti i suoi domini e fu fatto prigioniero in Spagna.

Gli Spagnoli avevano intanto sconfitto i Francesi (giacché le due potenze che s'erano spartite il Meridione si erano subito fatte la guerra per averlo tutto intero) e nel gennaio 1504 il Regno di Napoli diventò un vicereame spagnolo, formalmente separato dalla Sicilia che costituiva un altro vicereame. Alla Francia rimaneva quello che continuava a chiamarsi il Ducato di Milano, ma anche di questo gli Spagnoli s'impadronirono nel 1525, dopo la battaglia di Pavia. Il re di Francia Francesco I non si rassegnò tanto presto alla perdita, per cui altre guerre insanguinarono l'Italia: e adesso non erano più le guerricciole quasi incruente del tempo dei Comuni, ma guerre devastatrici, poiché verso la fine del Quattrocento alle milizie cittadine s'erano sostituite le Compagnie di ventura, cioè eserciti mercenari formati per lo più da rifiuti della società, che saccheggiavano e violentavano senza scrupolo alcuno (in questo mestiere della guerra s'erano specializzati gli Svizzeri). Inoltre la guerra aveva perduto l'aspetto cavalleresco che aveva nel Medio Evo da quando, sempre verso la fine del Quattrocento, si era generalizzato l'uso delle armi da fuoco. Nel 1527 i più crudeli fra i soldati mercenari, i Lanzichenecchi, tedeschi fanaticamente luterani, scesi in Italia a combattere contro il Papa per l'imperatore (che, guarda un po', era il cattolicissimo Carlo V) giunsero fino a Roma e la saccheggiarono orribilmente (Sacco di Roma, maggio 1527). Nel 1530 l'imperatore s'impadronì anche di Firenze (difesa invano dalle fortificazioni create da Michelangelo e dal valore di Francesco Ferrucci), a cui impose il ritorno dei Medici, che divennero duchi e governarono sotto la sua tutela.

La situazione si stabilizzò col trattato di Cateau Cambresis (1559) che sanzionò definitivamente il dominio spagnolo in Italia, che sarebbe continuato per tutto il Seicento: e possiamo ben dire che tutta l'Italia era spagnola, giacché anche lo Stato della Chiesa - che più che un vero stato era un insieme di staterelli più o meno indipendenti, vassalli del Papa - politicamente era un satellite del re di Spagna. Veramente libere rimasero soltanto Genova (che possedeva tutta la Liguria, Nizza e la Corsica) e Venezia, il cui dominio si estendeva oltre mare sull'Istria e la Dalmazia, sulle isole dello Jonio, su Creta e su Cipro, e in Italia fino all'Adda. E c'era pure una moltitudine di staterelli come Mantova, Lucca, Parma, Modena, ecc. che per superficie e importanza politica erano paragonabili agli attuali Monaco o San Marino. Quanto al Piemonte, i duchi di Savoia facevano ancora una politica ai margini dell'area italiana, destreggiandosi tra Francia e Spagna.


Alcuni problemi

La Controriforma. L'Italia è uno dei pochi paesi europei che quasi non si accorse delle tempeste della Riforma protestante e della Controriforma cattolica (cioè il Concilio di Trento, 1545-1563), e rimase fedele alla Chiesa di Roma senza le stragi di protestanti che insanguinarono la Boemia e l'Ungheria, senza le guerre di religione e le dragonate  della Francia, e senza gli orrori dell'Inquisizione spagnola: gli episodi di Giordano Bruno, di Galileo, di Campanella e di pochi altri fanno tanta impressione proprio perché sono casi isolati. Ma ciò non avvenne non perché le autorità religiose italiane fossero particolarmente tolleranti, ne perché gli Italiani fossero più sinceramente cattolici degli altri, ma anzi proprio perché in fatto di religione essi erano essenzialmente scettici - o se mai soltanto superstiziosi, specie nei ceti inferiori - e perciò per loro era inconcepibile prendersela tanto per astruse questioni teologiche. E del resto lo spettacolo di corruzione e di venalità che il clero aveva continuato a dare per secoli non contribuiva certo a rafforzare la fede. Anzi, l'incontestabile merito del Concilio di Trento è proprio di aver posto un argine a questa corruzione, ridando alla figura del prete la dignità morale che aveva perduto. Ma sul piano del costume, in Italia il rigore teologico e morale delle costituzioni tridentine subito si trasformò in " deviazione " superstiziosa nei ceti inferiori, e ipocrisia farisaica in quelli superiori. E ciò ebbe effetti negativi sulla cultura e sulla politica italiane. Per la cultura basta pensare alla decadenza della letteratura (dove l'arte è essenzialmente libera creazione, sincera e spontanea) e a come le arti figurative si volsero alla vuota grandiosità: vedi le messe del Palestrina e la spettacolare architettura barocca (Bernini, Vanvitelli). Per farla breve, l'Italia dopo il Concilio di Trento perde quel primato culturale che aveva avuto per tre secoli, e che ora passa alla Francia.

Assai più gravi sono gli effetti della Controriforma sulla politica, perché l'ipocrisia imparata nei riguardi della religione, la si usava naturalmente anche verso il potere politico (che era confessionale, nel senso soprattutto che si serviva della religione come strumento per rafforzare l'assolutismo). Insomma gli Italiani impararono l'arte - purtroppo non ancora dimenticata - di adulare i potenti e di ossequiarli per il proprio tornaconto personale. Per questo in Italia non vi furono ne la rivoluzione democratica del popolo inglese ne quella specie di " rivoluzione culturale " che in Francia maturò le coscienze preparando la Rivoluzione vera e propria. Gli uomini di cultura illuminati e i " giacobini ", non saranno che sparute minoranze, spesso malviste dal popolo preoccupato del suo quieto vivere.

La decadenza economica. Bastano poche parole. per dire che le favolose ricchezze italiane del Trecento e Quattrocento adesso non sono più che un lontano ricordo: le spoliazioni e devastazioni compiute dalle soldataglie straniere (a cui si aggiunsero flagelli naturali come siccità e pestilenze) e la politica economica della Spagna e dell'Austria - che proteggono le 5  proprie industrie soffocando quelle italiane con dazi pesantissimi (così per esempio l'industria milanese delle armi, un tempo floridissima, è costretta a chiudere per favorire quella di Toledo) - trasformano l'Italia in un paese sottosviluppato che conoscerà la rivoluzione industriale un secolo dopo gli altri maggiori paesi europei.


Caratteri artistici generali del Cinquecento

Il Cinquecento è il secolo di Raffaello Sanzio (1483-1520), di Leonardo da Vinci e di Michelangelo e dei grandi maestri veneti: Tiziano (1485 circa - 1576), Giorgione (1477-1510), Tintoretto (1518-1594) e Veronese (1528-1588).

La prima caratteristica del Cinquecento è di ordine politico e geografico. La supremazia fiorentina decade, ed è Roma che diventa la capitale delle arti, la Roma dei papi mecenati, umanisti e munifici come Giulio II (divenuto papa nel 1503), Leone X (nel 1513), Clemente VII (nel 1523). Detto questo, occorre precisare che l'arte del Cinquecento è romana solo perché le commissioni provengono dal papa, il quale fa venire a Roma gli artisti da tutte le parti d'Italia, ma di questi artisti nessuno è romano: sono nati in Toscana, nelle Marche, in Lombardia.

La seconda caratteristica è l'abisso esistente tra il messaggio ufficiale che gli artisti sono incaricati di esprimere e le loro opinioni personali. Mentre degli artisti del Trecento e Quattrocento (o almeno di molti di essi) si può dire che avevano il cuore cristiano e l'immaginazione pagana, per il Cinquecento è vero il contrario: l'immaginazione è cristiana, perché il papa commissiona Madonne, Giudizi finali e Annunciazioni, ma l'anima di Leonardo, Raffaello e altri (per Michelangelo il discorso è più complesso) è francamente, coscientemente pagana. Mai forse nella storia dell'arte ci fu così poca sincerità estetica che nelle magnifiche opere del Cinquecento italiano.

Da qui discende la terza caratteristica del Cinquecento: la ricerca formale. Gli artisti italiani sono i maestri della scienza della prospettiva, l'anatomia del corpo umano non ha più segreti per loro, e le loro conoscenze archeologiche sono le più approfondite che si potessero avere a quei tempi. Le ricerche che erano tanto originali e difficili, per Paolo Uccello o Mantegna, all'età di Leonardo sono diventate esercizi scolastici. Già alla fine del Quattrocento il Perugino aveva aperto, a Firenze e a Perugia, delle " botteghe " dove formava intere équipes di " garzoni ", con l'aiuto dei quali per una quarantina d'anni produsse in serie Madonne e Gesù Bambini per accontentare una clientela poco esigente quanto all'originalità. Il grande Raffaello fu pure lui uno di questi garzoni. Così dunque, poiché ormai non è più un segreto per nessuno come ottenere un sorriso o uno scorcio, le ricerche dei pittori si orientano verso nuove direzioni, soprattutto verso nuove tecniche pittoriche. Si comincia a usare la pittura a olio, fino allora mal conosciuta, si fa a gara a chi è il più abile nel lavorare alla modellatura o ad ottenere lo sfumato, il graduale passaggio dalla luce all'oscurità attraverso un'ombreggiatura evanescente, in cui Leonardo fu l'incontestato maestro.


Vita

Michelangielo, scultore, pittore, architetto e poeta, nacque  Caprese, presso Arezzo, nel 1475 (Roma 1564). Avviato alla pittura e all'affresco nella bottega del Ghirlandaio, lavora alla scultura studiando le opere antiche nei giardini dei Medici. Supera velocemente, con la Pietà di San Pietro a Roma (1499), l'estetica del quattrocento e, con il David, l'idealismo classico. L'umanesimo improntato al neoplatonismo in onore presso la cerchia di Lorenzo il Magnifico, sovrapposto alla .fede cristiana, anima la sua opera: non solo "là sua scultura, in cui la forma, liberata dalla materia, tende alla spiritualità con un'energia spesso patetica, ma anche la sua pittura, che trova nel vigore della composizione, nella sintesi della forma e del colore, "nell'originalità della visione una potenza senza precedenti (volta della cappella Sistina, decorata sui temi dell'Antico Testamento). La scultura (per la tomba monumentale, incompiuta, di Giulio II, ci lascia:

gli Schiavi, Louvre e Accademia di Firenze; Mosè, 1516, S. Pietro in Vincoli a Roma; la Vittoria, 1524 ca.. Palazzo Vecchio a Firenze) e soprattutto i problemi dei rapporti tra la scultura e l'architettura rimangono la preoccupazione dominante dell'artista: lavora alla facciata di S. Lorenzo a Firenze, al vestibolo e alla scalinata della biblioteca Laurenziana, costruisce la Sacrestia Nuova di S. Lorenzo e vi innalza (tra il 1526 e il 1533) le tombe di Lorenzo II e di Giulio de' Medici con quattro allegorie: la Notte e il Giorno, il Crepuscolo e l'Aurora, espressioni tormentate del destino e della sofferenza umana. È ancora stimolato dall'affresco (Giudizio universale della cappella Sistina, 1536, d'ispirazione dantesca) e dalla scultura (Pietà del duomo di Firenze e Pietà "Rondanini" del Castello Sforzesco di Milano, incompiute e patetiche), ma, verso la fine della sua vita, si consacra essenzialmente all'architettura (lavori per la piazza del Campidoglio a Roma e soprattutto, a partire dal 1547, per la nuova San Pietro). Il sentimento acuto delle contraddizioni tra la materia e lo spirito, tra la disperazione umana e il mondo divino, i dubbi e le sofferenze, e infine l'esigenza di perfezione, conferiscono alla sua opera un'umanità e una forza che hanno fatto di lui l'incarnazione stessa del genio.


Tomba di Giuliano de' Medici duca di Nemours (1526-34)

Per Giulio II Michelangielo si era rifatto all'antico, all'idea del mausoleo-monumento: una poderosa massa plastica in un grande vano architettonico. Qui immagina una soluzione opposta: lo spazio architettonico è vuoto e le sculture sono "integrate" alle pareti. Non soltanto per ragioni di simmetria assume come dato fondamentale del suo progetto la sacrestia vecchia, del Brunelleschi: a Firenze si sente più vicino alla fonte neoplatonica del suo pensiero, ne rievoca il punto di partenza per dimostrare, a un secolo di distanza, quale sia il suo punto d'arrivo. Come il Brunelleschi concepisce la sacrestia come uno spazio cubico, vuoto, definito in limine dalle strutture prospettiche proiettate sulle pareti, disegnate dalle membrature scure sulle superfici candide. Per Michelangielo il vuoto cubico, nella luce chiara che scende dalla cupola, è lo spazio dell'altra vita, dell'intelletto finalmente libero dalla materia: a questo spazio si affacciano, come giungendo dallo spazio esterno della natura o della vita, le figure dei principi. Per il Brunelleschi le pareti erano puri piani, sezioni ideali dello spazio prospettico; per Michelangiolo sono le barriere che separano lo spazio "intellettuale" dallo spazio naturale, la morte dalla vita. La vita preme alla soglia dell'eternità: le pareti sono le strutture spirituali o intellettuali che le si oppongono, la contengono, le impediscono di irrompere e turbare la serenità della verità raggiunta oltre la morte. Le strutture scure non sono più pure scritture geometriche sul piano, come nella sacrestia vecchia, ma formano un forte telaio plastico; le finestre murate e le porte s'incastrano a forza in quel telaio, con una tensione plastica che esprime il maggior sforzo di contenzione là dove maggiore è la spinta dell'esterno. Il significato e il valore della composizione è proprio nel conflitto di queste due realtà, la natura e lo spirito. Gli archi, la limpida scansione proporzionale delle cornici e delle paraste scure sono la forma ideale del concetto, ma la forma deve tradursi in forza per resistere alla pressione della realtà empirica, della natura. Perciò le membrature acquistano un risalto plastico, i nessi strutturali si stringono, lo schermo diventa telaio: su quelle pareti, infine, la verità intellettuale e la realtà naturale si affrontano come due spinte contrarie che trovino, per un istante, una condizione di equilibrio. Le superfici bianche tra le membrature, che nel Brunelleschi erano puri piani, qui sono colmate di luce: e proprio la luce è il motivo dominante, perché lo spazio neoplatonico è soprattutto luce. La luce fìsica vorrebbe irrompere dall'esterno, il telaio geometrico la trattiene, la filtra, la traduce in luce intellettuale; la realtà diventa verità e il transito dall'una all'altra è la morte. Le figure dei duchi, incassate nella parete, appena affioranti allo spazio "puro" del vano, sono raffigurate appunto nel "trapasso" dalla dimensione della natura a quella dello spirito. Che le pareti siano veramente la soglia tra mondo e oltre-mondo è detto anche dalle quattro statue sui sarcofagi: il Giorno e la Notte, V Aurora e il Crepuscolo. Sono immagini del Tempo; e la torsione a spirale dei corpi esprime appunto il volger del tempo, ma anche il carattere ciclico di quel continuo mutare, ed il nascere di ogni tempo dalla fine dell'altro, con un ritmo che è il ritmo dell'eterno. "Adagiate sul coperchio dei sarcofaghi, sembrano spezzarlo con il loro peso, sicché l'anima finalmente libera si volge alla contemplazione eterna dell'idea della Vita, simboleggiata dalla Vergine e dal Bambino. Verso la Vergine stanno rivolti ambedue i Duchi, e la contemplano" (Tolnay). E proprio in quelle figure, poste in equilibrio instabile sui coperchi ricurvi dei sarcofagi, si fa più insistente il non-finito: sono scabre le basi, quasi fossero frammenti di natura che le immagini hanno portato con sé dal loro ciclico viaggio sulla Terra; ma sono scabre anche alcune parti delle figure (per esempio il volto del Giorno) perché la sostanza del Tempo è ambigua, da un lato domina il destino dei mortali, dall'altro è l'eternità stessa. Perciò il non-finito invade a tratti, per frammenti le forme, in altre parti levigate fino ad essere specchianti: è come una scorza terrena da cui le figure non si sono ancora totalmente liberate. Giustamente il Tolnay ha indicato, per la concezione della Sacrestia nuova, una fonte diretta, di prima mano: il Fedone. Ma Michelangiolo non mira a trasporre in immagini i concetti filosofici di Fiatone; vuole esprimerli e forse è proprio qui, nelle tombe medicee, che l'arte viene posta, per la prima volta, come espressione. L'opera dell'artista non soltanto ricostruisce, rivive l'iter del pensiero: il significato delle immagini non va più cercato nella loro evidenza iconografica, ma nel processo del loro formarsi, nell'impronta che il tormento dell'artista ha lasciato nella pietra con ogni colpo di scalpello. L'immagine è soltanto il punto di arrivo: l'idea finalmente raggiunta attraverso un sofferto processo di liberazione. Perciò scompare l'unità bloccata del "monumento"; gli elementi si dissociano, si collegano a distanza o più semplicemente coesistono in una stessa condizione spaziotemporale; architettura e scultura non si sommano, ma trascorrono Runa nell'altra come se, tra esse, fosse caduta la barriera di una tecnica, dunque di un modo di espressione, diversa. Con la concezione delle tombe medicee Michelangiolo si stacca definitivamente dall'ideale del "monumento", cioè dal motivo fondamentale del suo culto dell'antico. La sala e il vestibolo della Biblioteca Laurenziana sono il punto di partenza dell'architettura del Manierismo: di un'architettura, cioè, non più rivolta a imitare o ripetere nella propria struttura la struttura dell'universo o a costruire uno spazio che fosse l'immagine "razionale" della natura. La sala è uno spazio lungo e stretto, tra pareti bianche su cui le lesene e le cornici di pietra scura formano un solido telaio, che inquadra le finestre: più che un limite, la parete è una barriera tra lo spazio esterno, naturale, e lo spazio interno, dello studio e della meditazione. A questa lunga, severa prospettiva si giunge dal vestibolo (ricetto), e qui il vano è in parte occupato dalla gradinata, i telai delle pareti sono rafforzati dalle colonne abbinate, incassate profondamente. Impostando questa struttura su uno zoccolo molto alto, non dando alle colonne altro sostegno che il ricciolo di una mensola, Michelangiolo dimostra chiaramente che il gioco delle forze non è dall'alto al basso ma dall'esterno all'interno. Lo provano le pareti bianche affioranti tra le colonne, come respinte, e le finestre cieche, murate. Il motivo dominante, infine, non è la forza equilibrata, ma la forza trattenuta: il raccordo tra il vestibolo e la sala è infatti l'organismo plastico della gradinata, che irrompe nel ricetto come una colata di lava, a ondate, ma è incatenata dalle balaustre che la incanalano facendola ribollire come un torrente in piena. Perfino uno studio tecnico, come quello per le fortificazioni di San Miniato, riflette questa concezione dinamica e drammatica dello spazio architettonico: il bastione si avventa in avanti, stringe il colle nella tenaglia potente delle due scarpate. E questo, della fine della repubblica fiorentina, il periodo più angoscioso della vita di Michelangiolo. Benché repubblicano convinto, è sopraffatto dal terrore degli eventi: fugge a Ferrara e a Venezia (1529), vorrebbe riparare in Francia, Firenze lo bandisce come disertore e ribelle, poi lo perdona e richiama. Nascosto e sgomento, assiste alla caduta della città; e solo più tardi, timidamente, riprende i contatti col papa, che nel 1^34 lo incarica di completare la decorazione della cappella Sistina con un grande affresco dietro l'altare.




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