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PHYSICA - Grandezze fisiche e unità di misura

fisica



PHYSICA


INTRODUZIONE


Grandezze fisiche e unità di misura

Vi sono due sole grandezze che possono essere definite in modo semplice:

per il tempo la durata (o intervallo di tempo) tra due istanti di un fenomeno;

per lo spazio la distanza (o lunghezza) tra due punti.



La "durata" di un fenomeno inizialmente era messa a paragone con l'alternarsi delle stagioni, il succedersi del giorno e della notte, cioè con avvenimenti apparentemente regolari (per questo denominati fenomeni periodici) che erano assunti come unità di misura.

Gli orologi più precisi sono quelli che utilizzano i rapidissimi fenomeni periodici che avvengono negli atomi. In un orologio al cesio un cristallo di quarzo è fatto oscillare in modo da <> la frequenza del proprio moto a quella dell'onda elettromagnetica che è emessa o assorbita da atomi di cesio selezionati in maniera particolare.

Inizialmente, si pensava che un secondo corrispondesse alla frazione 1 / 86.400, dove 86.400 sono i secondi di cui è composta una giornata. Questa definizione venne abbandonata.

Secondo una convenzione internazionale del 1967, un secondo (s) è l'intervallo di tempo durante il quale avvengono 9.192.631.770 oscillazioni di un orologio al cesio.

Analogamente, per misurare la "distanza" dobbiamo confrontare questa distanza con una distanza campione che scegliamo come unità di misura. L'unità di misura della distanza è stata assunta come la distanza tra due sottili incisioni fatte su una barra di platino-iridio conservata presso un museo di Parigi. Però il campione di distanza non poteva essere riprodotto con accuratezza sufficiente e si decise di utilizzare un fenomeno molto più stabile e preciso: la costanza della velocità della luce (c).

La velocità di un lampo di luce nel vuoto è:


c = 299.792.458 m/s


cioè circa 300.000.000 metri al secondo.

Quindi, un metro (m) è la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un 299.792.458-esimo di secondo.



L'ordine di grandezza

Quando parliamo di grandezze parliamo anche di "ordini di grandezze".

L'ordine di grandezza di un numero "x" è una potenza di 10, con esponente "n" intero, che approssima il numero:

ordine di grandezza di x = 10n


dove "n" è il numero intero più vicino a log10 x , cioè all'esponente (y) da dare alla base 10 per ottenere il numero "x".

Esempio: qual è l'ordine di grandezza del numero 850?


log10 850 = 2,93 ≈ 3

ordine di grandezza di x = 103






Errori di misura

Esistono due tipi di errori di misura:

gli errori sistematici;

gli errori accidentali.

Gli "errori sistematici" sono errori che si ripresentano in tutte le ripetizioni di una data misurazione. Il più delle volte, ripetendo le osservazioni, influiscono nello stesso senso (in eccesso o in difetto). Sono errori dovuti a cause ben determinate, spesso legati agli strumenti di misura che si utilizzano.

Gli "errori accidentali" sono errori che si ripresentano in ciascuna misurazione in modo imprevedibile e influiscono sul risultato della misura ora in un senso ora in un altro. Spesso sono dovuti all'imperfezione imprevedibile degli strumenti e dei sensi dello sperimentatore.



Grandezza vettoriale e scalare

Le grandezze possono essere suddivise in:

grandezza vettoriale (o vettore);

grandezza scalare

Un "vettore" è caratterizzato da 3 elementi:

direzione: cioè la retta che contiene il vettore;

verso: cioè il senso del suo moto (destra/sinistra);

modulo: cioè la lunghezza del segmento.

La "grandezza scalare", invece, è identificata da un numero.


Prendiamo in considerazione i vettori  V e Q.

Essi sono due vettori uguali se hanno la stessa direzione, lo stesso verso e lo stesso modulo.

Se un vettore ha modulo "zero" (│V│= 0 ), allora è un "vettore nullo", dove direzione e verso sono indeterminati.


Somma tra vettori

a) Se due vettori hanno la stessa direzione e lo stesso verso, la loro somma darà un ulteriore vettore con la stessa direzione, lo stesso verso e modulo pari alla somma dei moduli dei rispettivi vettori.


O P O P Q

O Q O R


b) Se due vettori hanno lo stesso verso, ma direzione differente, il "vettore somma" sarà la diagonale che si ottiene costruendo le parallele ai due vettori iniziali.


P R



O Q


c) Se i due vettori hanno la stessa direzione, ma verso opposto e moduli diversi, il "vettore somma" sarà un vettore avente la stessa direzione, verso uguale a quello del vettore di modulo maggiore e modulo uguale alla differenza tra il modulo maggiore e quello minore.


O P Q O P

Q O Q R O P


d) Se i due vettori hanno la stessa direzione, lo stesso modulo, ma verso opposto, la loro somma darà un "vettore nullo".


Differenza tra vettori

Considerati due vettori qualsiasi V  e W, la loro differenza sarà data dalla somma tra il vettore V e il vettore opposto di W, ovvero V - W = V + (-W).


R

V


- W O W


Prodotto di un vettore per uno scalare

Definiremo "vettore prodotto" di uno scalare (o numero) " " per un vettore V, quel vettore avente la stessa direzione e lo stesso verso di V e modulo pari al prodotto di λ per il modulo di V. Esistono due casi:


I)   Il caso in cui λ è positivo, cioè λ Є R \, e V ≠ 0, cioè non nullo;

II) Il caso in cui λ è negativo e V ≠ 0. In questo caso si prende in considerazione il "valore assoluto" di λ ( ).


λ se λ ≥ 0


- λ se λ < 0


Esempio:   √ λ² = │λ│ √(-3)² = │-3│= 3


























DESCRIZIONE DEL MOTO


La meccanica

Lo studio del moto inizia con la cinematica, che ha l'obbiettivo di descrivere "come" si muovono gli oggetti, e prosegue con la dinamica, che si occupa delle "cause" del movimento.

La distanza, la durata, la velocità e l'accelerazione sono i concetti principali di cui si serve la cinematica per classificare i diversi tipi di movimenti.

Supponiamo di avere un qualsiasi oggetto che si muove su uno spazio a due dimensioni; si chiama traiettoria di un oggetto in movimento la "linea" che unisce tutte le posizioni attraverso le quali esso è passato.

Per cominciare lo studio della cinematica nel modo più semplice possibile, parleremo spesso del moto di un punto materiale. Con questa espressione ci riferiamo a un oggetto così piccolo che può essere considerato come un punto nel senso geometrico della parola.

Parleremo della posizione (s) occupata dal punto materiale sulla sua traiettoria e dell'istante (t) in corrispondenza del quale esso assume quella posizione. Naturalmente potremo essere interessati anche alla distanza (Δs) percorsa in un intervallo di tempo (Δt).

Indichiamo con "s0" la posizione iniziale del moto e con "t0" l'istante iniziale, la posizione "s" e l'istante "t" sono legati a Δs e a Δt dalle relazioni:


s = s0 + s

t = t0 + t



Moto uniforme

In generale si dice che si ha un moto uniforme quando il corpo percorre distanze Δs uguali in intervalli di tempo Δt eguali, comunque siano piccoli questi intervalli di tempo.

In modo equivalente si può anche dire che un moto è uniforme quando le distanze Δs che il corpo percorre sono direttamente proporzionali agli intervalli di tempo Δt che esso impiega a percorrerle. Un moto uniforme, che avviene su una traiettoria rettilinea, si chiama moto rettilineo uniforme.

Chiamiamo velocità (v) del moto uniforme il rapporto costante tra la distanza percorsa Δs e l'intervallo di tempo Δt impiegato a percorrerla:


v = Δs / Δt


La velocità è una grandezza derivata, definita come il rapporto tra due grandezze fondamentali: una lunghezza e un intervallo di tempo. Come tale, la sua unità di misura nel S.I.M è data in «metri al secondo» (m/s).


La legge del moto uniforme

Supponiamo che un corpo si muove di moto uniforme, possiamo calcolare la sua velocità facendo il rapporto tra un Δs qualsiasi e il suo corrispondente Δt.

Se invece conosciamo la velocità, come si fa per sapere quale distanza viene percorsa in un determinato intervallo di tempo?

Basta ricavare Δs dalla formula della velocità, in modo da ottenere:


Δs = v Δt


Nel moto rettilineo uniforme la "legge del moto", cioè la relazione che lega gli istanti di tempo "t" e le posizioni "s" attraverso cui passa il corpo, può essere espressa mediante una formula semplice.

La relazione

s = s0 + Δs


tra la posizione "s", la posizione iniziale "s0" e la distanza percorsa diventa


s = s0 + v Δs


Sostituendo "t - t0" al posto di "Δt", si ottiene:


s = s0 + v (t - t0)


dove "s0" è la posizione occupata dal corpo nell'istante iniziale "t0" del suo moto.

Se "s0 = 0" e "t0 = 0", la formula precedente diventa:


s = v t



Moto vario

Se un oggetto si muove di moto uniforme, percorre distanze uguali in intervalli di tempo eguali. Di solito vediamo muoversi oggetti la cui velocità varia continuamente.

Un moto nel quale un punto materiale percorre distanze diverse in intervalli di tempo eguali si chiama moto vario.

Nel moto uniforme la velocità ha un valore costante nel tempo. Nel moto vario, invece, il valore della velocità cambia da istante a istante. Quindi, non avendo sempre una stessa velocità, si parla di velocità media (vm).

In generale, definiamo velocità media (vm) di u punto materiale in un dato intervallo di tempo Δt il rapporto tra la distanza Δs percorsa e l'intervallo di tempo Δt impiegato a percorrerla:


vm = Δs / Δt


Definiamo, invece, velocità istantanea (vist) di un punto materiale in un determinato istante il valore limite a cui tende la velocità media calcolandola su un intervallo di tempo sempre più piccolo. Più piccolo è l'intervallo considerato più esatta sarà la misurazione.


vist (A-B) = sAB / tAB


vist (B-C) = sBC / tBC


vist (C-D) = ΔsCD / ΔtCD









In un moto vario qualsiasi la velocità del punto materiale cambia col passare del tempo, non in modo regolare. Abbiamo una variazione di velocità e quindi un'accelerazione. Ma questa grandezza ha negli istanti successivi un valore diverso.

Quindi, possiamo definire l'accelerazione media (am) in un determinato intervallo di tempo Δt come il rapporto tra la variazione di velocità Δv e l'intervallo di tempo Δt in cui avviene questa variazione:

am = Δv / Δt


L'accelerazione istantanea si definisce con un procedimento del tutto simile a quello che abbiamo se 444h78e guito per definire la velocità istantanea.

Definiamo quindi accelerazione istantanea (aist) in un determinato istante di tempo il valore limite a cui tende l'accelerazione media calcolandola in un intervallo di tempo sempre più piccolo.



Moto uniformemente accelerato

In un moto vario il valore della velocità cambia da istante a istante. La rapidità con cui varia la velocità istantanea viene espressa quantitativamente con il concetto di accelerazione.

In generale si ha un moto uniformemente accelerato quando la velocità del corpo varia di quantità Δv eguali in intervalli di tempo Δt eguali, comunque siano piccoli questi intervalli di tempo. In modo equivalente si può anche dire che un moto è uniformemente accelerato quando le variazioni di velocità Δv sono direttamente proporzionali agli intervalli di tempo Δt nei quali esse avvengono.

Chiamiamo accelerazione (a) del moto uniformemente accelerato questo rapporto tra la variazione di velocità Δv e l'intervallo di tempo Δt nel quale essa avviene:


a = Δv / Δt


Nel S.I.M. l'unità di misura dell'accelerazione è data in «metri al secondo quadrato» (m/s2).

Nel caso in cui il punto materiale effettua un partenza da fermo all'istante zero, la velocità sarà data dall'equazione:

v = a t


Esaminiamo ora un caso un po' più complesso. Supponiamo che il corpo abbia all'istante t = 0 una certa velocità iniziale (v0) e che da quell'istante in poi la sua velocità istantanea aumenti uniformemente con una certa accelerazione. Nonostante la velocità non sia proporzionale all'istante di tempo, si tratta pur sempre di moto uniformemente accelerato. Infatti, l'accelerazione si mantiene costante nel tempo.

In generale, la velocità (v) di un punto che si muove di moto uniformemente accelerato con accelerazione (a) e che ha una velocità iniziale (v0) sarà, dopo "t" secondi, pari a:


v = v0 + a t


La legge del moto uniformemente accelerato

Per ricavare la legge del moto uniformemente accelerato facciamo un passo indietro e ritorniamo al moto uniforme. Se rappresentiamo questo movimento in un diagramma velocità-tempo, otteniamo una retta orizzontale, perché la velocità rimane costante.

La "legge del moto uniforme", nel caso di partenza da fermo, si scrive nella forma:


s = v t


Essa può essere interpretata come l'area del rettangolo che si viene a formare.



L'area di questo triangolo può essere calcolata in modo semplice come la metà del prodotto della lunghezza "t" della base per l'altezza "v = a t". Quindi:


s = ½ v t   → s = ½ at ∙ t


s = ½ a t2



Possiamo ora ricavare la legge del moto anche nel caso in cui la velocità iniziale "v0" sia diversa da zero. Anche in questo caso la posizione dell'oggetto è rappresentata dall'area del trapezio. Poiché si tratta di un trapezio:

v + v0

s =  t

2


D'altra parte sappiamo che:

v = v0 + a t


Sostituendo al posto di "v" la sua espressione "v0 + a t", otteniamo:


v0 + v0 +a t

s =    t

2

cioè

s = v0 t + ½ a t2


Se, poi, all'istante iniziale t = 0 l'oggetto non si trova nella posizione s = 0, la formula diventa:

s = s0 + v0 t + ½ a t2


In sintesi, le formule fondamentali del moto uniformemente accelerato sono:


v = v0 + a t


s = s0 + v0 t + ½ a t2
















Moto circolare uniforme

Il moto circolare uniforme è un buon modello per descrivere il movimento dei satelliti.

Si definisce moto circolare uniforme un moto che avviene su una circonferenza, a velocità scalare costante. In questo modo il punto materiale percorre archi uguali in intervalli di tempo eguali.

L'intervallo di tempo T durante il quale il punto materiale compie un giro completo si chiama periodo. Supponiamo che il periodo sia uguale a 1/4 di secondo. Dopo 1 secondo l'oggetto è ripassato 4 volte per la posizione iniziale. Esprimiamo questo fatto dicendo che la frequenza del moto è di 4 giri al secondo.

La frequenza (f) è definita come il numero di giri che il punto materiale compie nell'unità di tempo. La frequenza è l'inverso del periodo:


f = 1 / T

T = 1 / f


Se l'unità di misura del tempo è il secondo, allora la frequenza si misura in «giri al secondo», ovvero Hertz (Hz). L'hertz è quindi la frequenza di un moto circolare che ha un periodo di 1 secondo. Dalla formula precedente si vede che:


1 Hz = 1 s -1


Dire, per esempio, che un moto circolare uniforme ha la frequenza di 100 Hz, vuol dire che il suo periodo è di 1/100 di secondo.

La velocità scalare (v), che rimane sempre costante, si ottiene dividendo la lunghezza di qualsiasi tratto di circonferenza per l'intervallo di tempo che il punto impiega a percorrerlo.

Per esempio, l'intera circonferenza (lunga 2πr) viene percorsa in un intervallo di tempo eguale a un periodo. Quindi la velocità scalare è:


v = 2πr / T

T = 2πr / v






















I PRINCIPI DELLA DINAMICA


La dinamica

La dinamica è quella parte della meccanica che si propone di determinare il movimento di un oggetto quando si conoscono le forze a cui esso è sottoposto.

La dinamica parte da tre principi, che sono il risultato di innumerevoli osservazioni sperimentali e che sono come i pilastri su cui si eleva la sua costruzione teorica:

primo principio, o principio di inerzia;

secondo principio, o legge fondamentale della dinamica;

terzo principio, o principio di azione e reazione.



Primo principio della dinamica

L'esperienza di tutti i giorni induce a pensare che per mantenere un oggetto in movimento bisogna applicargli continuamente una forza.

Un'automobile si muove perché c'è il motore che la spinge. Se si spegnesse il motore, l'automobile si ferma. Sembra quindi che vi sia una stretta relazione tra la forza e la velocità.

Si tratta però di un falso indizio. Mentre un'automobile sta andando a 100 km/h spegniamo il motore. L'automobile non si ferma immediatamente, ma continua ancora a muoversi per un tratto di strada, perdendo lentamente velocità. Siccome il motore è spento, possiamo essere certi che non c'è alcuna forza che spinge in avanti l'automobile.

Perché allora continua a muoversi? Proseguiamo nel nostro esperimento.

Se rendiamo la strada più liscia e ingrassiamo i cuscinetti delle ruote, la distanza che percorre l'automobile a motore spento aumenta. Se poi fosse possibile togliere completamente l'aria, l'automobile proseguirebbe per un tratto ancora più lungo.

Sono quindi gli attriti che fanno perdere velocità all'automobile. Quanto più riusciamo a ridurli, tanto più lentamente diminuirà la velocità iniziale. È evidente che non sarà mai possibile eliminarli del tutto. In altri termini, tutti gli oggetti tendono "naturalmente" a muoversi a velocità costante. Questa tendenza si chiama inerzia.

Galileo giunse alla scoperta di quella che egli pose come Lex Prima tra gli assiomi del moto e che noi oggi chiamiamo primo principio della dinamica.

Il primo principio della dinamica (o principio di inerzia) è costituito da due affermazioni:

a)  se la forza totale applicata su un punto materiale è uguale a zero, allora esso si muove a velocità costante

b)  se un punto materiale si muove a velocità costante, allora la forza totale che subisce è uguale a zero



Secondo principio della dinamica

Se applichiamo a uno stesso oggetto forze diverse, la sua accelerazione cambia.

Quanto più grande è la massa di un corpo, tanto maggiore è la forza che occorre applicargli per metterlo in moto con una data accelerazione.

Possiamo quindi interpretare la massa come una misura dell'inerzia, cioè della resistenza che il corpo oppone al tentativo di accelerarlo.

La relazione che lega la massa di un oggetto, la forza che gli è applicata e l'accelerazione che subisce può essere scritta nella forma:

F = m a


Essa esprime il secondo principio (o principio fondamentale della dinamica), ovvero che l'accelerazione di un punto materiale è in ogni istante direttamente proporzionale alla forza applicata; la forza e l'accelerazione hanno sempre la stessa direzione e lo stesso verso.

Questo principio vale soltanto in sistemi di riferimento inerziali.

Nel S.I.M. il newton (N) è la forza che imprime alla massa di 1 kg l'accelerazione di 1 metro al secondo ogni secondo (1 m/s²):

1 N = 1 kg · 1 m/s²



Terzo principio della dinamica

Ogni volta che osserviamo una forza applicata a un oggetto c'è sempre qualcosa (o qualcuno) che la sta esercitando. Ma non si tratta di un'azione che avviene in un unico senso, per cui soltanto uno dei due oggetti esercita la forza e l'altro la subisce. L'influenza è sempre reciproca. Se A provoca una forza su B, anche B provoca una forza su A.

Facciamo un esempio: una calamita che attrae una sfera di metallo. A prima vista viene da pensare che la forza agisca in un senso solo, dalla calamita sulla sfera. In effetti, se mettiamo vicini sopra un tavolo questi due oggetti, chi si mette in movimento è la sfera di metallo e non la calamita. Ma ancora una volta sono le forze di attrito che seminano indizi falsi e fuorvianti.

Ripetiamo l'esperienza riducendo il più possibile l'attrito tra i due oggetti e il tavolo.

Non appena li mettiamo vicini, osserviamo che tutti e due si mettono in movimento. Ciò significa che anche la sferetta attrae la calamita.

Il terzo principio della dinamica (o principio di azione e reazione) affermare proprio che quando un oggetto A esercita una forza su un oggetto B, anche B, a sua volta, esercita una forza su A. Le due forze hanno la stessa intensità e direzione, e versi opposti.

Tale principio può essere espresso dalla formula:


F di A su B = - F di B su A




























LA CONSERVAZIONE DELLA QUANTITA'

DI MOTO E DEL MOMENTO ANGOLARE


La quantità di moto

Immaginiamo di appoggiare un fucile su una superficie ghiacciata. Quando premiamo il grilletto il proiettile parte, ma anche il fucile viene sparato all'indietro. I gas caldi che si formano dentro la canna per effetto dell'esplosione spingono in avanti l proiettile e indietro il fucile.

Per comprendere questo fenomeno e vedere se vi è qualcosa che rimane costante, riproduciamo una versione semplificata dell'esplosione, usando due dischi a ghiaccio secco.

Li scegliamo di massa diversa e tra di essi sistemiamo una lamina elastica, che teniamo compressa legandola con un filo. Quando tagliamo il filo, la lamina si distende e i due dischi si mettono in moto partendo lungo la stessa direzione in versi opposti. Il disco di massa minore si comporta come il proiettile, mentre l'altro fa la parte del fucile.

I due dischi si muovono a velocità costante; si nota anche che il disco di massa più piccola si muove più velocemente dell'altro. Misurando le distanze percorse, si ricava che il disco di massa più piccola (m1 = 2,0 kg) ha velocità (v1 = 0,48 m/s); il disco di massa maggiore   (m2 = 3,9 kg) si muove invece a velocità (v2 = 0,24 m/s).

Moltiplicando la massa di ciascun disco per la velocità che ha acquisito,


m1 v1 = 2,0 · 0,48 = 0,96 kg · m/s

e

m2 v2 = 3,9 · 0,24 = 0,94 kg · m/s


scopriamo che i due prodotti hanno valori quasi eguali.

Se attribuiamo la piccola differenza a errori sperimentali, possiamo scrivere:


m1 v1 = m2 v2


Poiché la velocità è un vettore e i due dischi si muovono nella stessa direzione in versi opposti, la formula precedente diventa:


m1 v1 = - m2 v2


Chiamiamo quantità di moto il prodotto

p = m v


della massa (m) del corpo per la velocità (v) a cui si muove

Le quantità di moto dei due dischi hanno allora la stessa intensità e direzione, e versi opposti.


La legge conservazione della quantità di moto

Il tavolo da biliardo ci permette di verificare la conservazione della quantità di moto in un altro caso. Seguiamo il movimento di una biglia rossa che va a urtare una biglia blu inizialmente ferma. La quantità di moto del sistema non cambia a causa dell'urto. La collisione ha avuto l'effetto di distribuire diversamente tra le biglie il vettore quantità di moto totale del sistema:

(prossa) inizio + (pblu) inizio = (prossa) inizio + 0 → (prossa) fine + (pblu) fine


Enunciando la legge di conservazione della quantità di moto, possiamo quindi dire che la quantità di moto totale di un sistema isolato di corpi si conserva, cioè rimane costante nel tempo.

Il momento angolare

La quantità di moto si è rivelata una grandezza molto utile nel descrivere i processi di urto. Per i moti rotatori esiste una grandezza analoga, che in determinate condizioni si conserva: il momento angolare.

Consideriamo un sistema formato da un pianeta di massa (m) che descrive un'orbita circolare attorno a una stella di massa (M) molto maggiore di (m).

C'è una grandezza che si conserva durante il movimento del pianeta? Sicuramente non è la sua quantità di moto, la quale varia continuamente. Si scopre che la quantità che rimane invariante è il vettore


L = m r ∙ v = r · p


"L" prende il nome di momento angolare (o momento della quantità di moto) di una particella rispetto a un punto. Per la definizione di prodotto vettoriale la sua direzione è perpendicolare al piano che contiene "v" e "r", il suo verso è dato dalla regola della mano destra e il suo modulo è espresso dalle formule:


L = m v r = m v r sen α


dove " " è l'angolo formato da questi due vettori. Essendo definito come una massa per una quantità di moto, nel S.I.M. il momento angolare si misura in (kg ∙ m²/s).

nel caso più semplice, in cui "r" e "v" sono perpendicolari tra loro, la formula precedente diventa:

L = m v r




























LA GRAVITAZIONE


Le leggi di Keplero

l'idea che il Sole, e non la Terra,sia al centro dell'Universo è stata avanzata dal matematico e astronomo polacco Nicolò Copernico.

Successivamente Keplero, adottando il punto di vista di copernicano, scoprì alcune importanti regolarità del moto dei pianeti e li condensò in tre semplici leggi sperimentali.

Prima legge di Keplero le orbite descritte dai pianeti intorno al Sole sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei due fuochi

Per definizione, l'ellissi è il luogo dei punti del piano per i quali la somma delle distanze da due punti fissi (detti fuochi) ha un valore fissato. Tale valore è l'asse maggiore dell'ellisse.

La velocità con cui un pianeta percorre l'orbita non è costante. Più precisamente:

Seconda legge di Keplero il raggio vettore che dal Sole va a un pianeta spazza aree uguali in intervalli di tempo eguali

Il raggio vettore è il segmento che congiunge il Sole con la posizione in cui si trova il pianeta. Questa legge afferma in sostanza che il pianeta si muove più velocemente lungo la sua orbita ellittica quando si trova vicino al Sole. La sua velocità nel perielio è quindi maggiore che nell'afelio.

La terza legge mette in relazione le distanze dei pianeti dal Sole e l'intervallo di tempo che essi impiegano per compiere un'intera orbita, cioè i loro periodi di rivoluzione.

Terza legge di Keplero il rapporto tra il cubo del semiasse maggiore dell'orbita e il quadrato del periodo di rivoluzione è lo stesso per tutti i pianeti.

In altri termini, per qualsiasi pianeta


a ³ / T ² = K


dove "a" è il semiasse maggiore dell'orbita del pianeta attorno al Sole, "T" il suo periodo di rivoluzione e "K" una costante, uguale per tutti i pianeti che orbitano intorno al Sole.

Isolando T, otteniamo:

T ² = a ³ / K


Se aumenta il semiasse maggiore "a" dell'orbita del pianeta, aumenta anche il suo periodo di rivoluzione. Ciò significa che l'«anno» di un pianeta è tanto più lungo quanto più il pianeta è lontano dal Sole.



La legge della Gravitazione Universale

Dal principio di inerzia sappiamo che un oggetto in movimento, su cui non è applicata alcuna forza, continua a muoversi in linea retta e a velocità costante. Il fatto che i pianeti non si muovono in linea retta indica che su di essi agisce una forza. Già sappiamo che questa forza è l'attrazione di gravità della Terra.

Newton fece l'ipotesi che l'intensità "F" della forza gravitazionale con cui si attraggono due punti materiali di massa inerziale "m1" e "m2" che si trovano a una distanza "r", sia data da:


F = G  (m1 · m2 / r ²)


dove "G" si chiama costante di gravitazione universale ed è una quantità che ha sempre lo stesso valore per tutti i corpi.

La legge di gravitazione universale, quindi, afferma che la forza con cui si attraggono due corpi dipende dalle loro masse inerziali e dalla distanza a cui si trovano. E' tanto più grande quanto più sono grandi le masse in gioco e diminuisce se i due corpi si allontanano.

Il valore della costante G

L'espressione della costante G si ricava dalla legge di gravitazione:


G = F (r ² / m1 · m2)


Newton determinò il valore di G nel caso della forza che agisce tra la Terra e un oggetto di massa nota che trovi sulla sua superficie. Egli calcolò poi la massa della Terra supponendo che il suo raggio fosse di 6000 km e che la sua massa fosse pari a cinque volte quella di un uguale volume di acqua: m1 è la massa della Terra, m2 è la massa dell'oggetto, r è il raggio della Terra e F = m2 g è il peso dell'oggetto. Newton trovò così:


G = 6 × 10 -11 N · m²/ kg²


Oggi il valore più attendibile di G è:


G = 6,67 × 10 -11 N · m²/ kg²


Conoscendo G, siamo ora in grado di calcolare la forza con cui si attraggono due masse.

Se almeno una delle masse in gioco è consistente, la forza non è più trascurabile. Un sasso di 1 kg di massa e la Terra si attraggono con una forza:


(1 kg) · (5'98 × 10-24 kg

F = 6 × 10 -11 N · m²/ kg² × = 9,81 N

(6,375 × 106 m


Da questo risultato otteniamo il valore dell'accelerazione di gravità:


a = F / m = 9,81 N / 1 kg = 9,81 m/s²


Abbiamo così ricavato il ben noto valore dell'accelerazione gravitazionale (g) a cui sono soggetti tutti i corpi che si trovano sulla Terra.





















IL LAVORO E L'ENERGIA


L' Energia

Intuitivamente possiamo pensare all'energia come a qualcosa che si trasforma continuamente e che può essere utilizzato per compiere lavori utili.

In una centrale idroelettrica, per esempio, l'energia di posizione dell'acqua contenuta in un lago di montagna si trasforma per caduta in energia di movimento e poi in energia elettrica.



Il Lavoro di una forza costante parallela allo spostamento

Una persona che stando ferma tiene in mano una valigia, anche se fa fatica, non compie lavoro. Perché una forza che agisce su un corpo compia lavoro è necessario che il punto in cui essa è applicata subisca uno spostamento. Quindi, sollevando la valigia l'uomo compie lavoro, perché muove verso l'alto il punto di applicazione della forza.

In questa situazione il lavoro (W) compiuto dalla forza costante F, mentre l'oggetto si sposta di una lunghezza "s", è uguale al prodotto dell'intensità della forza per il valore dello spostamento:

W = F s


Nel S.I.M l'unità di misura del lavoro è il joule (J).

1 J è il lavoro compiuto da una forza di 1 N quando il suo punto di applicazione si sposta di 1 m (in direzione della forza).

Se, per esempio, il sasso ha una massa di 1 kg, la forza di gravità che lo attrae verso il suolo è:


P = m g = 1 kg · 9,8 m/s² = 9,8 N


Per una caduta di 3 m, la forza di gravità compie un lavoro:


W = F s = 9,8 N ∙ 3 m = 29 J


Esistono due tipi di lavoro:

lavoro motore: in cui la forza e lo spostamento hanno lo stesso verso;

lavoro resistente: in cui la forza e lo spostamento hanno verso opposto.

Al lavoro motore attribuiamo un segno positivo, mentre a quello resistente un segno negativo.

Ma esiste anche il caso in cui la forza e lo spostamento hanno direzioni diverse.

Pensiamo per esempio a un cane che tira verso il basso il guinzaglio mentre corre in avanti.

Possiamo scomporre la sua forza "F", che applicata sulla mano dell'uomo, in due componenti: "F1" parallelo e "F2" perpendicolare alla direzione dello spostamento. F1, che ha la direzione e il verso di "s", compie un lavoro:

W1 = F1 s


Il lavoro di F2, invece, è per definizione uguale a zero, perché il punto su cui è applicata la forza (la mano) non subisce alcuno spostamento in direzione di F2 (cioè verso il basso):


W2 = 0


Il lavoro compiuto dalla forza "F" è quindi eguale al lavoro compiuto dal suo componente nella direzione dello spostamento:


W = W1 + W2 = W1 = F1 s


In generale possiamo affermare che il lavoro di una forza costante applicata a un oggetto è uguale al prodotto dello spostamento per la proiezione perpendicolare della forza sulla direzione dello spostamento.

Esso può anche essere scritto un'altra forma:


W = F1 s = F s · cos α


dove "α" è l'angolo formato dai vettori forza e spostamento.



Il Lavoro di una forza variabile

Esaminiamo adesso il caso in cui la forza non è costante, cioè cambia mentre il corpo si sta spostando. Questo succede, per esempio, quando comprimiamo o tiriamo una molla.

Se la comprimiamo a velocità costante, dobbiamo esercitare sulla molla una forza eguale e contraria a quella che tende a riportarla nella posizione di equilibrio:


F nostra = k s


In questo caso il lavoro non è uguale al prodotto della forza per lo spostamento.

Quando la forza è costante, possiamo interpretare il lavoro come l'area del rettangolo che ha base "s" e altezza "F" nel diagramma forza-spostamento. Nel caso della molla il lavoro che compiamo è uguale all'area del triangolo di base "s" e altezza "k s".

Il nostro lavoro è quindi uguale a:


W = ½ s ∙ (k s) = ½ k s²


Questo lavoro, preso con il segno negativo, è anche uguale a quello che compie la molla contrastando la nostra forza mentre la comprimiamo. Quando la molla ritorna alla posizione di equilibrio, compie un lavoro:

W = ½ k s²


Eguale a quello che abbiamo fatto noi per comprimerla.











Forze conservative e dissipative

Il lavoro che compie la forza di gravità dipende soltanto dal punto da cui parte l'oggetto e dal punto a cui arriva. Non dipende invece dal percorso che ha seguito.

Quando il lavoro che compie una forza no dipende dal cammino, ma soltanto dal punto di partenza e da quello di arrivo, si dice che la forza è conservativa. La forza di gravità è quindi una forza conservativa.

Una tipica forza dissipativa, cioè non conservativa, è, per esempio, la forza di attrito.

Poiché è sempre diretta in senso contrario allo spostamento, essa compie un lavoro resistente (negativo).

La Potenza

Un uomo che deve portare una valigia dal piano terreno al quinto piano può prenderla in mano e portarla lentamente su per le scale. Oppure può metterla nell'ascensore.

Se, per esempio, la valigia ha massa pari a 10 kg e il quinto piano si trova a 20 m dal suolo, l'uomo o l'ascensore compiono un lavoro pari a:


W = F s = 10 kg · 9,8 m/s² ∙ 20 m = 2 × 10 3 J


L'uomo che sale le scale compie lavoro lentamente, mentre l'ascensore lo compie rapidamente. In altri termini, il motore dell'ascensore è più potente dell'uomo.

Per esprimere quanto è potente un uomo o un ascensore è necessario conoscere il tempo che ognuno di essi impiega a compiere un dato lavoro.

In generale si chiama potenza (P) di un sistema fisico che compie un certo lavoro il rapporto tra il lavoro e l'intervallo di tempo impiegato a compierlo:


P = ΔW / Δt


L'unità di misura di questa grandezza nel S.I.M. è il watt (W): 1 watt è la potenza sviluppata da una forza che compie il lavoro di 1 joule in 1 secondo:


1 W = 1 J / 1 s


Si sviluppa una potenza di circa 1 W quando si solleva di 1 m il peso di una massa di 100 g (circa 1 N) in 1 s. la potenza dalle automobili viene misurata spesso in cavalli vapore (CV):


1 CV = 735 W = 0,735 kW



L'Energia cinetica

Immaginiamo di spingere una slitta inizialmente ferma su un lago ghiacciato. Quando smettiamo di spingerla la slitta ha acquisito una velocità "v", che continua poi a mantenere per il principio di inerzia, poiché gli attriti sono trascurabili.

Sottoposta a una forza costante, la slitta si muove durante lo spostamento "s" di moto uniformemente accelerato con accelerazione:


a = F / m


dove "m" è la sua massa inerziale.

All'istante "t", quando cessa la nostra spinta, il suo spostamento e la sua velocità sono:


s = ½ a t ²   e v = a t


Il lavoro che abbiamo compiuto è:


W = F s = m ∙ a ½ a t ² = ½ m · (a t ²)


Sostituendo la velocità "v" al posto di "a t", otteniamo:


W = ½ m v ²



Chiamiamo il prodotto

K = ½ m v ²


energia cinetica del corpo.

Si tratta di una grandezza scalare, che si misura in joule (J) come il lavoro.

Se il lavoro è positivo, l'energia cinetica aumenta; se invece il lavoro è negativo l'energia cinetica diminuisce. In generale, il lavoro compiuto dalla forza è uguale alla variazione di energia cinetica del corpo:

W = K finale - K iniziale = ΔK



L'Energia potenziale gravitazionale

Sappiamo che su tutti i corpi che si trovano in prossimità della superficie terrestre agisce la forza-peso

P = m g

dove "g" è l'accelerazione di gravità.

Consideriamo un oggetto fermo, che si trova all'altezza "z1" rispetto a una quota di riferimento scelta da noi. Esso non ha energia cinetica; però se cade per un tratto "h", fino all'altezza "z2 = z1 - h", la forza-peso compie su di esso un lavoro:


W 1-2 = P h


Così, quando giunge alla quota "z2", l'oggetto possiede un'energia cinetica che all'inizio non aveva. In altri termini, un oggetto che si trova in una posizione elevata ha una capacità di compiere lavoro a causa della forza di gravità che lo attrae verso il basso.

Questa energia, che dipende soltanto dalla posizione, si chiama energia potenziale gravitazionale. In particolare definiamo l'energia potenziale (U1) come il lavoro che la forza -peso compie su di esso nel farlo passare dall'altezza "z1" all'altezza "z2":


U1 = W 1-2 = P h


Quindi, quando si trova nel punto di arrivo, l'oggetto ha un'energia potenziale "U2 = 0".

Siccome l'energia potenziale può essere definita anche per le altre forze conservative, diverse dalla forza-peso, riepiloghiamo tutte queste idee nel caso di una forza "F" generica:


se un oggetto passa dal punto A al punto B sotto l'azione di una forza conservativa "F", definiamo la differenza di energia potenziale "ΔUAB = UA - UB" eguale al lavoro fatto dalla forza "F" nel passaggio da A a B:


ΔUAB = WAB


una volta scelta una condizione di zero, si chiama energia potenziale in A il valore della differenza di energia potenziale tra A e la situazione di riferimento:


ΔUAR = UA - UR = UA - 0 = UA







L'Energia potenziale elastica

Ci sono anche altri tipi di energia potenziale. Un esempio è costituito dall'energia potenziale elastica; infatti, si dimostra che la forza elastica è conservativa.

Una molla, che è stata compressa di un tratto "s", ha la capacità di compiere un lavoro ritornando nella posizione di equilibrio. Il lavoro che compie è:


W = ½ k s²


Per definizione, questa è la differenza di energia potenziale U(s) - U(s = 0) tra la condizione in cui la molla è compressa di un tratto "s" e quella in cui la compressione della molla è nulla.

Possiamo dire che la molla, quando è compressa per un tratto "s", ha una energia potenziale elastica:

U(s) = ½ k s²


Quindi, il lavoro che compie la forza elastica della molla, per spostare il corpo da una distanza "s1" a una distanza "s2" rispetto alla posizione di equilibrio (s = 0), è uguale alla differenza di energia potenziale elastica tra queste due posizioni:


W 1-2 = U(s1) - U(s2) = ½ k s1² - ½ k s2²


La legge di conservazione dell'energia meccanica

L'energia cinetica e l'energia potenziale sono le due forme sotto cui si può presentare l'energia meccanica. Durante il moto di un oggetto esse assumono valori che, in generale, cambiano da istante a istante. Per esempio, quando un sasso cade, la sua energia cinetica aumenta (perché cresce la velocità) e quella potenziale gravitazionale diminuisce (perché l'altezza del sasso diminuisce). Ma nonostante queste grandezze cambino continuamente, c'è qualcosa che rimane costante. E' l'energia meccanica, cioè la somma dell'energia cinetica e di quella potenziale.

Consideriamo la caduta di un sasso, trascurando l'attrito dell'aria. A e B sono due posizioni qualsiasi attraverso le quali il sasso passa mentre sta cadendo.

Il lavoro che la forza di gravità compie mentre il sasso cade è uguale all'aumento di energia cinetica

W AB = K(z B) - K(z A)


e anche alla diminuzione di energia potenziale gravitazionale


W AB = U(z A) - U(z B)


Possiamo allora eguagliare i secondi membri delle due formule precedenti e ottenere:


K(z B) - K(z A) = U(z A) - U(z B)

K(z B) - U(z B) = K(z A) - U(z A)


Siamo così arrivati alla conclusione che durante la caduta la soma dell'energia potenziale gravitazionale e di quella cinetica rimane costante, ovvero si conserva:


K(z) - U(z) = costante = E


Infatti, la legge di conservazione dell'energia meccanica dice che se le forze che agiscono in un sistema isolato sono tutte conservative, la somma dell'energia cinetica e dell'energia potenziale totale si mantiene costante durante il moto.

I FLUIDI


Introduzione

Osservando la materia che ci circonda a livello macroscopico distinguiamo:

solidi possono essere afferrati, sono rigidi e quindi hanno forma e volume propri;

liquidi: può essere raccolto in un recipiente e tende allora ad assumere la forma della parte del contenitore che occupa, di conseguenza non ha forma propria, ma ha un volume proprio e assai difficile da comprimere;

aeriformi: può essere raccolto in un recipiente e tende ad occupare tutto il suo volume, non ha forma né volume proprio, e il suo volume è facilmente comprimibile.



La Densità

Ogni sostanza, sia essa solida, liquida o aeriforme, ha una massa e occupa un determinato volume.

La densità ( ) (o massa volumica) di una sostanza è una grandezza fisica definita come il rapporto tra la massa (m) e il volume (V) che essa occupa:


ρ = m / V


Nel S.I.M. la densità si calcola in «chilogrammi al metro cubo» (kg/m³).



La Pressione

La grandezza che dà informazione su quanto una forza è concentrata su una superficie è la pressione.

La pressione (p) è definita come il rapporto tra l'intensità della forza (F) che preme perpendicolarmente alla superficie e l'area (S) di questa superficie:


p = F / S


Una stessa forza può esercitare diverse pressioni, a seconda di quanto è estesa la superficie sulla quale la forza è applicata. Sulla base più grande il peso di un determinato oggetto esercita una piccola pressione; su un vertice la pressione è molto maggiore.

Nel S.I.M. l'unità di misura della pressione è il pascal (Pa), ovvero la pressione che esercita una forza di 1 newton applicata perpendicolarmente alla superficie di 1 metro quadrato:


1 Pa = 1 N / 1 m²


Osserviamo che 1 N / 1 m² si può scrivere come:


(1 N · 1 m) / 1 m³ = 1 J / 1 m³


Così, in sistemi coerenti di unità di misura, diversi dal S.I.M., l'unità di pressione è data dall'unità di energia divisa per quella di volume.

Un multiplo del pascal che si usa spesso in meteorologia è il bar:


1 bar = 10 5 Pa




La pressione nei liquidi

La legge di Pascal

Se mettiamo un palloncino pieno di aria all'interno di un recipiente con pistone, lo vediamo rimpicciolirsi per effetto della pressione esercitata dal pistone.

Poiché il palloncino conserva sempre la stessa forma sferica, vuol dire che subisce dappertutto la stessa pressione e che questa grandezza è in ogni punto perpendicolare alla sua superficie.

Questi risultati sperimentali sono sintetizzati in una legge.

La legge di Pascal afferma che la pressione esercitata su una superficie qualsiasi di un liquido si trasmette con la stessa intensità su ogni altra superficie a contatto con il liquido, indipendentemente da come questa è orientata.


La legge di Stevino

Uno strato orizzontale di liquido, che si trova a una profondità (h), subisce una determinata pressione dovuta al peso del liquido che gli sta sopra. Vogliamo ora trovare da che cosa dipende questa pressione.

Consideriamo un liquido che ha densità (ρ), contenuto in un recipiente cilindrico di sezione (S). Sullo strato di liquido, oltre alla pressione atmosferica, agisce una pressione aggiuntiva causata dal peso della colonna di liquido, di base (S) e altezza (h), che gli sta sopra.

Questa colonna, che ha volume (S h), ha una massa:


m = ρ S h


Moltiplicando la massa per l'accelerazione di gravità (g), otteniamo il peso (G) della colonna di liquido:


G = m g = ρ S h g


La pressione aggiuntiva (Δp) che la colonna di liquido esercita sullo strato di liquido è:


p = G / S = S h g / S = h g


La legge di Stevino afferma che la pressione (p) esercitata da uno strato di liquido è direttamente proporzionale alla densità (ρ) del liquido, alla profondità (h) dello strato e all'accelerazione di gravità (g):

p = ρ h g


La legge di Archimede

Archimede trovò sperimentalmente, con l'aiuto di una bilancia e di due cilindri di volume identico (uno pieno e uno cavo) appesi su un lato della bilancia e immersi in una bacinella contenente un liquido, una legge che giustificasse il fenomeno del galleggiamento dei corpi.

La legge di Archimede afferma che un corpo immerso in un liquido riceve una spinta (una forza) verso l'alto eguale al peso del liquido spostato.

La forza verso l'alto che il corpo immerso subisce può essere rispetto al suo peso:

minore (il corpo affonda);

uguale (il corpo non va né su né giù);

maggiore (il corpo risale fino a galleggiare).






La corrente di un fluido

Con il termine corrente di un fluido intendiamo un movimento ordinato di un liquido o un gas all'interno della conduttura in cui esso si muove.

Per descrivere in modo quantitativo l'intensità della corrente che fluisce in una conduttura dobbiamo introdurre una nuova grandezza: la portata della corrente. Essa esprime il volume di un liquido o di gas che attraversa una sezione della conduttura nell'unità di tempo.

Se il condotto che stiamo esaminando ha una sezione trasversale di area "S" e attraverso di essa passa un volume "ΔV" di liquido in un intervallo di tempo "Δt", la portata (q) è definita dal rapporto:

q = ΔV / Δt


Dal momento che il volume (ΔV) in una conduttura cilindrica è anche uguale al prodotto della sezione (o area) (S) della conduttura che il fluido attraversa, della velocità (v) del fluido e dell'intervallo di tempo (Δt) che impiega a percorrerlo, la portata è data anche dalla formula:


q = V / t = S v t / t = S v


q = S v


La portata misura la rapidità con la quale un volume di fluido attraversa una sezione della conduttura. Nel S.I.M. essa è data in «metri cubi al secondo» (m³/s).

In generale la portata di un fluido in un punto della conduttura varia nel tempo.

Quando invece la portata in ogni punto della conduttura rimane costante, si dice che la corrente di liquido è stazionaria.

Esiste una legge chiamata equazione di continuità che dice che la portata di una corrente lungo una conduttura senza sorgenti e senza pozzi è la stessa in ogni suo punto:


SA vA = SB vB



L'equazione di Bernoulli

Finora abbiamo fatto l'ipotesi che il tratto di conduttura sia orizzontale, trascurando il peso del fluido. Immaginiamo allora un fluido di densità (ρ) che scorre in una conduttura e scegliamo due diverse sezioni di essa. Nella prima, posta a un'altezza "yA" rispetto a una certa quota di riferimento, la velocità del fluido è "vA" e la pressione che si esercita su di esso è "pA".

Nella seconda l'altezza, la velocità del fluido e la pressione sono rispettivamente "yB" "vB" e "pB". Utilizzando la legge di conservazione dell'energia meccanica, si dimostra che queste grandezze sono legate tra loro dalla seguente relazione:


pA + ½ ρ vA² + ρ g yA = pB + ½ ρ vB² + ρ g yB


Questa formula, detta equazione di Bernoulli, ha la forma di una legge di conservazione: nel suo moto, il fluido che stiamo esaminando cambia quota, velocità e pressione, ma una certa combinazione di queste quantità rimane invariata.

Per tale ragione questa legge viene spesso scritta anche nella forma:


p + ½ ρ v ² + ρ g y = kost


dove "p", "v" e "y" sono rispettivamente la pressione che si esercita su una qualunque porzione di fluido, la velocità del fluido che si trova in tale porzione e la sua quota rispetto a un piano orizzontale qualsiasi preso per riferimento.

LA TERMODINAMICA


FENOMENI TERMICI


L'equilibrio termico e il termometro

Il calore è l'energia trasferita da un corpo a temperatura maggiore ad un corpo a temperatura minore. In altre parole, il calore è «energia in transito». Dopo essere stati a contatto per un certo periodo di tempo, i due corpi raggiungeranno una temperatura comune.

Diciamo che due corpi hanno raggiunto l'equilibrio termico quando in entrambi cessano tutti i fenomeni termici (dilatazione, cambiamenti di stato).

Quindi possiamo dire che la temperatura è quella grandezza fisica che si misura mediante un termometro. Essendo definita da un numero, la temperatura è una grandezza scalare.

Come temperatura zero si sceglie inizialmente la temperatura del ghiaccio fondente, quando la pressione è normale, e come altro punto di riferimento quello dell'acqua bollente (ovvero 100). Si divide poi in 100 parti eguali la distanza tra i punti fissi (0 e 100) che corrispondono alla fusione del ghiaccio e all'ebollizione dell'acqua.

Abbiamo così fissato lo zero della scala delle temperature e il dislivello unitario di temperatura, che si chiama grado Celsius (°C).

Nel S.I.M. la temperatura si misura in Kelwin (K). Questa unità di misura ha un valore uguale al grado Celsius, ma la temperatura del punto di fusione del ghiaccio (0 °C) corrisponde a 273,15 K, mentre la temperatura del punto di ebollizione dell'acqua (100 °C) corrisponde a 373,15 K.



La dilatazione termica lineare

E' da notare che una sbarra posta ad una certa variazione di calore subisce deformazioni.

Man mano che la temperatura della sbarra aumenta, essa si allunga. Precisamente, quando la temperatura passa da 0 °C a t °C, la lunghezza della sbarra passa dal valore l0 a lt, in modo che:

l t = l 0 + l t t


l = l Tf - l 0


t = T = Tf - Ti


l / l 0 T


dove " " è il coefficiente di dilatazione lineare, che cambia a seconda del materiale di cui è costituita la sbarra.

Possiamo scrivere la legge della dilatazione lineare nella formula:


l t = l 0 · (1 + λ ΔT)



La dilatazione termica dei solidi, liquidi e gas

In generale, quando la temperatura aumenta, si devono considerare le dilatazioni in tutte e tre le dimensioni (lunghezza, larghezza e altezza). Si parla di dilatazione volumica, e non più lineare, nel senso che il processo interessa l'intero volume del corpo:


Vt = V0 · (1 + α t)


dove "α" si chiama coefficiente di dilatazione cubica. Per i solidi si dimostra che α = 3λ.

Anche i liquidi si dilatano seguendo una legge del tutto simile a quella dei solidi.

Grosso modo, al crescere della temperatura, i liquidi si dilatano 10 volte più dei solidi.

Altrettanto i gas, se sono mantenuti a una pressione costante, aumentano di volume seguendo la stessa legge di dilatazione dei solidi e dei liquidi.

Questa legge della dilatazione a pressione costante si chiama anche 1ª legge di Gay-Lussac.

Essa vale per tutti i gas a condizione che siano rarefatti (cioè a bassa densità) e lontani dalle condizioni in cui si liquefanno. Mentre per i solidi e i liquidi il coefficiente di dilatazione varia a seconda delle sostanze, per i gas "α" ha sempre lo stesso valore:


α = (1 / 273,15) · (1 / °C)









































LEGGI DEI GAS PERFETTI


Introduzione

Tre sono le grandezze fisiche che descrivono le proprietà dei gas:

il volume;

la pressione;

la temperatura.

Per capire che relazione esiste tra di loro studiamo come si comporta un gas quando teniamo fissa una di queste grandezze e lasciamo variare il valore di un'altra.



La legge di Boyle (temperatura costante)

Mantenendo costante la temperatura il volume di una data massa di gas è inversamente proporzionale alla pressione

Se con "p" si indica la pressione del gas e con "V" il suo volume, la legge di Boyle si esprime con la formula:

p = kost / V

oppure

p V = kost t = kost



La 1ª legge di Gay-Lussac (pressione costante)

Consideriamo ora un altro tipo di trasformazione, mantenendo costante la pressione e variando la temperatura. La 1ª legge di Gay-Lussac dice che il volume di una data massa di gas aumenta al crescere della temperatura. La variazione di volume è direttamente proporzionale alla variazione di temperatura:


V = V0 · (1 + α t)p = kost



La 2ª legge di Gay-Lussac (volume costante)

Vediamo infine che cosa succede quando manteniamo costante il volume.

Come sappiamo, se aumentiamo la temperatura del gas il volume tende ad aumentare.

La 2ª legge di Gay-Lussac dice che in una data massa di gas, tenendo fisso il volume, quando aumenta la temperatura aumenta anche la pressione. Ciò significa che la variazione di pressione è direttamente proporzionale alla variazione di temperatura:


p = p 0 · (1 + α t)V = kost



Il gas perfetto

Le leggi che abbiamo appena enunciato descrivono in modo corretto le proprietà di tutti i gas se sono soddisfatte due condizioni:

il gas preso in esame è piuttosto rarefatto

la sua temperatura è molto maggiore di quella alla quale esso si liquefà

Un gas ideale che obbedisce esattamente a queste leggi si chiama gas perfetto.

Nella realtà il gas perfetto non esiste. In altri termini, un gas perfetto è un modello di riferimento.




L'equazione di stato del gas perfetto

Le leggi di Boyle e le due leggi di Gay-Lussac possono essere sintetizzate in un'unica relazione, chiamata equazione di stato del gas perfetto:


p V = n R T


R = 8,3143 J/mol · K


dove "R" è una costante di proporzionalità che si chiama costante del gas perfetto e "n" è il numero di moli contenute il tale gas.

L'equazione di stato stabilisce una relazione tra la pressione (p), il volume (V) e la temperatura (T) di una determinata quantità (n moli) di un gas perfetto.

Essa afferma, in sostanza, che il prodotto della pressione per il volume è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta (T = t + 273,15 °C).

Noto il numero di moli del gas considerato, se fissiamo due tra le tre grandezze che caratterizzano lo stato di un gas, il valore della terza grandezza è determinato dall'equazione di stato. Per esempio, la pressione di una certa quantità di gas che occupa il volume "V" è determinata dal valore della temperatura e da quello del volume:


p = n R T / V


L'equazione di stato del gas perfetto implica la legge di Avogadro, secondo la quale, in condizioni normali, una mole di un gas qualsiasi occupa sempre un volume di 22,4 l. Infatti, a (T) e (p) fissati, il volume (V) dipende soltanto dal numero (n) di moli e non dal tipo di gas.

L'equazione di stato del gas perfetto vale con sufficiente approssimazione per i gas reali, a condizione che essi non siano troppo compressi e che si trovino lontano dal punto di liquefazione. Per i gas reali che non soddisfano queste condizioni l'equazione di stato non è valida.
























TEORIA CINETICA E INTERPRETAZIONE

MOLECOLARE DELLA TEMPERATURA


L'energia interna

Un gas è composto da un numero grandissimo di molecole che si muovono in tutte le direzioni. Questo movimento, che si chiama moto di agitazione termica, porta le molecole a urtare contro le pareti del recipiente e anche a scontrarsi le une con le altre.

Ogni molecola, avendo un'energia cinetica, dà il proprio contributo all'energia complessiva del gas. Ma c'è anche un'altra forma di energia che entra in gioco nel determinare quella che si chiama l'energia interna della massa di gas. E' l'energia potenziale, che nasce dalle forze con cui interagiscono le molecole.

Due molecole si attraggono quando si trovano a una distanza compresa tra 10 -9 m e 10 -7 m.

Se sono più lontane le forze si annullano, se invece distano meno di 10 -9 m le forze diventano repulsive. Tale energia è data dalla relazione:


UA = WA→R


L'energia potenziale di un sistema di due molecole con i centri posti a distanza (r) tra loro (condizione A) è uguale al lavoro fatto dalla forza intermolecolare (F) quando la loro distanza viene aumentata, partendo dal valore "r", fino a diventare infinitamente grande (condizione R). Siccome la forza (F) è attrattiva, il lavoro compiuto da (F) mentre le molecole sono allontanate è negativo. Ne consegue che, per ogni valore di (r) non troppo grande, l'energia potenziale del sistema fisico formato dalle due molecole è negativa. Inoltre, essa aumenta all'aumentare di "r".

L'energia interna del gas si ottiene aggiungendo all'energia potenziale (negativa) del gas la somma dell'energia cinetica di tutte le molecole (positiva).

In un gas le distanze tra le molecole sono relativamente grandi e le forze di interazione piuttosto deboli. Di conseguenza, l'energia potenziale è molto minore della somma delle energie cinetiche delle. Le particelle di gas si muovono nel recipiente come se fossero quasi libere. Si può dire che un gas si comporta come un gas perfetto quando l'energia interna è uguale alla somma delle energie cinetiche di tutte le sue molecole.

Ciascuna molecola di questo gas ideale, non essendo soggetta a forze da parte delle altre, si muove di moto rettilineo uniforme fino a quando urta contro una particella del recipiente.

Siccome il gas perfetto è, per ipotesi, molto rarefatto, gli urti tra molecole sono molto rari.

In un gas reale, invece, oltre che con le pareti le molecole interagiscono anche tra di loro.



L'energia cinetica media di una molecola

Partiamo dall'equazione di stato del gas perfetto e operiamo alcune modifiche.


p V = n R T


Tale relazione può essere scritta come:


p V =   Na · n R T

Na


dove "KB" è la costante di Boltzmann (1,381 × 10 -23 J/K) e "Na" è il numero di Avogadro (6.02 × 10 23). L'equazione quindi può essere riscritta come:


p V = N KB T

Da qui si ricava l'energia cinetica media di ciascuna molecola, che è data dalla formula:


p V = 2/3 N Kmedia


Volendo mettere in evidenza "Kmedia", abbiamo:


Kmedia = 3/2 · (p V / N)


Per ottenere la formula della temperatura assoluta dobbiamo eguagliare la formula per il calcolo dell'energia cinetica media di una molecola e l'equazione di stato del gas perfetto:


2/3 N Kmedia = n R T


Sostituendo "N = n Na" e isolando "Kmedia", otteniamo:


Kmedia =  ·


Semplificando e apportando le dovute sostituzioni, otteniamo infine la formula per il calcolo della temperatura assoluta:


Kmedia = 3/2 KB T


La temperatura assoluta è la misura di quanto è grande l'energia cinetica media delle molecole che costituiscono il gas. Quindi è un'energia cinetica e si calcola in "Joule"(J).



La velocità quadratica media

Per semplicità supponiamo di lavorare con un gas fatto da "N" molecole di massa "m" tutte uguali tra loro. Per ottenere una grandezza che rappresenti una velocità definiamo la velocità quadratica media ( ) come:


= √ (v ²)media


Prima di arrivare a scrivere la formula effettiva per il calcolo della velocità quadratica media, operiamo un'opportuna eguaglianza:


1/2 m ² = 3/2 KB T


Semplificando e isolando "" otteniamo:


= √ 3 · (KB T / m)


Molecole che hanno masse più piccole si spostano mediamente con velocità maggiori.









IL CALORE


La caloria

Il calore, essendo energia che si trasferisce da un corpo caldo a uno più freddo, nel S.I.M si calcola in joule (J). Talvolta si continua a usare un'altra unità di misura, la caloria (cal).

Essa è definita come la quantità di energia necessaria per innalzare la temperatura d 1 g di acqua da 14,5 °C a 15,5 °C alla pressione atmosferica di 1,01 × 10 5 Pa.


1 cal = 4,186 J



La capacità termica e il calore specifico

La capacità termica di un corpo è la grandezza che misura quanta energia è necessaria per aumentare di 1 K (o di 1 °C) la temperatura del corpo. Essa è definita come il rapporto tra la quantità di energia o di calore (ΔE o Q) che il corpo assorbe e il corrispondente aumento di temperatura (ΔT):


C = Q / ΔT


La capacità termica si misura in «joule su kelvin» (J/K).

Volendo aumentare di uno stesso numero di gradi la temperatura di due corpi (costituiti da sostanze identiche), occorre fornire energia in proporzione alla massa:


C = c m


c = C / m


dove "c" è il calore specifico della sostanza e si misura in (J/kg · K).

Il calore specifico esprime la quantità di calore che è necessaria per innalzare di 1 K la temperatura di 1 kg di una determinata sostanza.

Eguagliando la capacità termica con il calore specifico otteniamo:


Q / ΔT = c m


Q = c m ΔT


cioè il calore (o energia) che occorre fornire a un corpo per aumentare la sua temperatura.



La temperatura di equilibrio

La temperatura di equilibrio dipende sia dalla massa degli oggetti sia dal calore specifico della sostanza di cui essi sono costituiti.

Indichiamo con "m1" la massa del primo corpo, con "T1" la sua temperatura assoluta e con "c1" il calore specifico del materiale di cui è composto. Le corrispondenti grandezze per il secondo corpo saranno "m2", "T2" e "c2". Possiamo pensare che la temperatura "T2" sia maggiore di "T1". La formula per il calcolo della temperatura di equilibrio sarà:



c1 m1 T1 + c2 m2 T2

T =

c1 m1 + c2 m2

La propagazione del calore

Il calore è energia che passa spontaneamente dai corpi più caldi a quelli meno caldi.

La propagazione avviene con tre diversi meccanismi:


Conduzione: è la modalità di propagazione del calore caratteristica dei solidi senza alcun trasporto di materia. La quantità di calore (ΔE o Q) che si propaga nel tempo (Δt o τ) attraverso una parete di spessore (d) e area (S), che separa due ambienti tra cui vi sia una differenza di temperatura (ΔT o t2 - t1), vale la relazione:


E = S · ( T / d) t


Q = S · (t2 - t1 / d)


dove " " è il coefficiente di conducibilità termica diverso per ciascun materiale.


Convezione: è la modalità di propagazione del calore caratteristica dei fluidi con trasporto di materia. Un fluido riscaldato si espande e tende a salire verso l'alto, mentre altro fluido più freddo lo rimpiazza. La quantità di calore è data dalla relazione di Newton:


Q = λ0 S (t - t0) τ


dove "λ0" è il coefficiente di conducibilità termico esterno.


Irraggiamento: è la modalità di propagazione del calore nel vuoto. La quantità di energia che un corpo emette o assorbe nell'unità di tempo può essere rappresentata mediante la legge di Stefan-Boltzmann:


E = a σ ΔT 4


a = coefficiente di assorbimento (0 < a < 1);

= costante di Stefan-Boltzmann.


















La legge di Stefan-Boltzmann

Un corpo ci appare di colore nero se assorbe tutte le radiazioni dello spettro visibile. Quindi questo stesso corpo, se riscaldato, è in grado di emettere radiazioni elettromagnetiche di tutte le lunghezze d'onda. Perciò è detto corpo nero un sistema fisico che è in grado di assorbire onde elettromagnetiche di tutte le lunghezze d'onda.

L'energia totale (Wtot) emessa in un intervallo di tempo (Δt) da un corpo nero è direttamente proporzionale sia alla sua superficie (S) sia alla durata (Δt) del fenomeno.

Perciò è utile definire una nuova grandezza fisica, l'intensità di irraggiamento (I), che descriva in modo intrinseco il corpo in esame. Essa è definita come:


I = Wtot / (S · Δt)


Nel S.I.M. l'intensità di irraggiamento si misura in «watt per metro quadro» (W · m²):

Per un corpo nero si trova sperimentalmente che l'intensità di irraggiamento dipende soltanto dalla temperatura del corpo.

In particolare, la legge di Stefan-Boltzmann stabilisce che l'intensità di irraggiamento (I) è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta elevata alla quarta potenza:


I = σ T 4


dove "σ" è la costante di Stefan-Boltzmann e vale:


σ = 5, 67 × 10 -8 W / m² · K²





























IL PRIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA


Introduzione

La termodinamica studia i sistemi dal punto di vista degli scambi di energia, sotto forma di lavoro e calore, con l'ambiente esterno. In particolare, la termodinamica si occupa delle trasformazioni di calore in lavoro che hanno luogo in tutti i motori termici.

La termodinamica è fondata su due principi, i cosiddetti principi della termodinamica, che hanno carattere estremamente generale.



Il Principio zero della termodinamica

Il principio zero della termodinamica afferma che, se il corpo A è in equilibrio termico con un corpo C e anche un altro corpo B è in equilibrio termico con C, allora A e B risultano in equilibrio termico tra loro.



Il Primo principio della termodinamica

Il primo principio della termodinamica afferma che qualunque sia il sistema termodinamico, qualunque sia il tipo e la natura delle trasformazioni che esso subisce, la variazione positiva o negativa (ΔU) dell'energia interna è uguale all'energia totale che il sistema riceve sotto forma di calore o lavoro:

Wtot = - W(e) tot


U = Qtot - Wtot


In questa semplice relazione è espressa, in sostanza, la conservazione dell'energia totale del sistema e dell'ambiente.


Applicazioni del primo principio



Trasform.

Termine

costante

Quantità

calore

(Q)

Lavoro


(W)

Variazione

energia

(ΔU)

Isocora

V = kost

Q = n · cv · ΔT

W = 0

ΔU = Q


Isobara


p = kost


Q = n · cp · ΔT

W = n · R · T

W = p · ΔV

W = F · h = p · S · h


ΔU = Q - W

Isoterma

T = kost

Q = n · R · ΔT · ln (V2/V1)

Q = n · R · ΔT · ln (p1/p2)

W = Q

ΔU = 0


Adiabatica



Q = 0

W = n · cv · ΔT

W = Qisoc

W = p2V2 - p1V1/1 - γ

ΔU = - W

ΔU = - Qisoc

ΔU = - ΔUisoc

Ciclica


Q = W

W = Q

ΔU = 0







IL SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA


La macchina termica

La macchina termica è un dispositivo in grado di compiere un lavoro continuativo a spese dell'energia interna ricevuta mediante scambi di calore.

Il funzionamento di una macchina termica è descritto da una trasformazione ciclica.

E' molto importante sottolineare che una macchina termica, per funzionare, ha bisogno di almeno due sorgenti di calore: una (detta caldaia) che riscaldi il fluido e provochi la sua espansione e un'altra (detta refrigerante) che raffreddi il fluido in modo da chiudere il ciclo.

Tale macchina assorbe una quantità "Q2" di calore dalla sorgente a temperatura maggiore (T2), compie un lavoro (W) e cede una quantità di calore "Q1" (negativa) alla sorgente alla temperatura inferiore (T1). Per una trasformazione ciclica vale la relazione:


Qtot = Wtot


Nel caso che stiamo esaminando il calore totale assorbito è la somma dei calori "Q2" e "Q1" scambiati dal fluido della macchina termica alle temperature "T2" (alta) e "T1" (bassa).

Poiché "Q1" è negativo, si preferisce scrivere:


Wtot = Q2 + Q1 = Q2 - │Q1


L'energia interna ottenuta dal sistema grazie all'assorbimento del calore "Q2" (positivo) serve solo in parte a compiere il lavoro meccanico (Wtot). La parte rimanente (Q1) viene infatti «sprecata», visto che deve essere ceduta alla sorgente che si trova alla temperatura inferiore.



Gli enunciati del Secondo principio della termodinamica

L'enunciato di Lord Kelvin

Nella formulazione del fisico inglese Lord Kelvin, si afferma che è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di assorbire una determinata quantità di calore da un'unica sorgente di calore e trasformarla integralmente in lavoro.


L'enunciato di Clausius

Esiste anche un secondo enunciato del secondo principio della termodinamica. Anch'esso, come il precedente esprime un'impossibilità.

L'enunciato del fisico tedesco Rudolf Clausius afferma che è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di far passare calore da una corpo più freddo a uno più caldo.

Un frigorifero, infatti, preleva il calore dall'interno di un recipiente che è freddo e lo riversa nell'ambiente, che si trova a una temperatura superiore. Ma non si tratta dell'unico risultato della trasformazione, perchè dall'ambiente è stata prelevata dell'energia elettrica per far funzionare il frigorifero.

In sostanza l'enunciato di Clausius afferma che il calore non passa mai spontaneamente dai corpi freddi a quelli caldi. Il flusso spontaneo del calore tende a livellare le temperature e mai ad accentuarne le differenze.







Il rendimento di una macchina termica

Per indicare qual è la "qualità" della macchina termica, cioè quanto essa è capace di convertire calore in lavoro, definiamo una nuova grandezza termodinamica, il rendimento.

Il rendimento (η)di una macchina termica è definito come il rapporto:


η = Wtot / Q2


tra il lavoro totale (Wtot) prodotto dalla macchina in un ciclo e la quantità di calore (Q2) che in ogni ciclo la macchina preleva alla sorgente a temperatura più alta.

Sostituendo "Wtot" con "Q2 - │Q1│" nella definizione, otteniamo:


Q2 - │Q1│ │Q1

= 1 -

Q2   Q2



Un terzo enunciato del secondo principio della termodinamica

Siccome vale la relazione "│Q1│≤ Q2" dal punto di vista matematico il rendimento di una macchina termica è sempre compreso tra 0 e 1. Però l'enunciato di Lord Kelvin del secondo principio della termodinamica stabilisce che:


Q1 ≠ 0


Di conseguenza, la frazione "│Q1│/ Q2" non può essere uguale a zero; quindi il rendimento della macchina termica non può raggiungere il valore "η = 1".

Abbiamo quindi un terzo modo per enunciare il secondo principio della termodinamica:


0 ≤ η < 1


cioè è impossibile progettare una macchina termica che abbia rendimento eguale a 1.



Trasformazioni irreversibili e reversibili

Esistono due tipi di trasformazioni: irreversibile e reversibile.

Una trasformazione irreversibile è tipica di una sistema che non può essere riportato nello stato iniziale con un processo inverso.

Una trasformazione reversibile A-B è una trasformazione di un sistema termodinamico fatta in modo tale che, quando essa è conclusa, è possibile riportare il sistema nello stato A, ripercorrendo a ritroso il cammino A-B, riportando contemporaneamente alle condizioni iniziali anche l'ambiente circostante.



Il Teorema di Carnot

Tra le trasformazioni reversibili, una classe è particolarmente importante: quella delle trasformazioni relative alle macchine termiche reversibili.

Una macchina reversibile è un dispositivo che compie una trasformazione ciclica reversibile.

Grazie a questo concetto è possibile dimostrare un teorema molto importante, il teorema di Carnot, che si riferisce a una macchina termica qualunque che funzioni con due sole sorgenti di calore, rispettivamente alle temperature "T1" e "T2" con (T1 < T2).

Spesso si dice che tale macchina «lavora tra le temperature T1 e T2».

Più precisamente, il teorema di Carnot stabilisce che, data una macchina reversibile R, il cui rendimento è "ηR", e un'altra macchina qualunque S, con rendimento "ηS", che lavora tra le stesse due temperature di R, si ha sempre:


ηR ≥ ηS


Il segno di eguale vale se e solo se anche la macchina S è reversibile.



Il Ciclo di Carnot

Il ciclo di Carnot è costituito da quattro fasi consecutive:

1 espansine isoterma

1 espansine adiabatica

1 compressione isoterma

1 compressione adiabatica










L'ultima trasformazione è quella che riporta il sistema nello stato iniziale.



Il rendimento delle macchine termiche che lavorano tra due temperature

Consideriamo una macchina di Carnot che lavora tra due temperature "T1" e "T2".

Secondo il teorema di Carnot, il rendimento "ηC" della macchina di Carnot è uguale a quello "ηR" di una macchina reversibile qualunque che lavori tra le stesse due temperature.

Ciò significa che, anche se i calori "Q1" e "Q2" scambiati dalla macchina di Carnot con le sorgenti di calore sono diversi da quelli "Q'1" e "Q'2" scambiati con le stesse sorgenti dall'altra macchina reversibile, le due quantità


ηC = 1 - (│Q1│/ Q2)


ηR = 1 - (│Q'1│/ Q'2)


sono eguali tra loro.

Se indichiamo con "η" tale valore comune del rendimento, è possibile dimostrare che vale la proprietà:

η = 1 - (T1 / T2)


Visto che nessuna macchina reale (cioè irreversibile) può avere lo stesso rendimento di un ciclo reversibile, la formula pone un limite massimo all'efficienza di ogni macchina che possiamo sperare di progettare o costruire, quando questa macchina lavora tra sorgenti di calore che sono alle temperature "T1" e "T2".

Quindi, indicheremo con "ηreale" il massimo rendimento di un sistema irreversibile:


ηreale < 1 - (T1 / T2)

IL SUONO


La propagazione delle onde

Fenomeni molto diversi tra loro, quali il suono, la luce, i segnali radio, i terremoti hanno in comune la caratteristica di essere delle «onde». Si parla infatti di onde sonore, onde luminose, onde radio e onde sismiche.

In generale possiamo definire un'onda come una perturbazione che si propaga nello spazio trasportando energia, ma non materia.

Se la perturbazione è un moto vibratorio del mezzo in cui si propaga, l'onda è meccanica o elastica; se invece la perturbazione è un segnale di natura elettromagnetica, l'onda è elettromagnetica, la quale si propaga anche nel vuoto.



Onde trasversali e longitudinali

Immaginiamo di scuotere una molla (che è un esempio di onda elastica). Noi possiamo o agitare un'estremità della molla in modo da farla ondeggiare su e giù, oppure possiamo spingere avanti e indietro l'estremità della molla in modo da creare una zona di spire compresse, seguita da un'altra zona di spire rade.

Abbiamo generato due tipi di onde:

onde trasversali: nelle quali le particelle del mezzo oscillano perpendicolarmente alla direzione di propagazione dell'onda;

onde longitudinali: nelle quali le particelle del mezzo oscillano nella stessa direzione in cui si propaga l'onda.



Onde periodiche e caratteristiche dell'onda

Se facciamo oscillare l'estremità di una molla sempre nello stesso modo, ripetendo continuamente lo stesso movimento, si crea nella molla un'onda periodica.

E' periodico un moto che si ripete sempre eguale a se stesso. Il punto da cui nasce la perturbazione, vibra di moto periodico e impiega un periodo (T) per portare a termine un'oscillazione completa. La sua frequenza ( f ), cioè il numero di oscillazioni che compie nell'unità di tempo, è eguale all'inverso del periodo:


T = 1 / f


f = 1 / T


Il periodo si misura in «secondi» (s) e la frequenza in «Hertz» (Hz).

Osserviamo che il profilo dell'onda è costituito da un'alternarsi regolare di creste (i punti più alti) e di gole (i punti più bassi).

La distanza tra due creste (o tra due gole) consecutive si chiama lunghezza d'onda ( ) e si misura in «metri» (m):

λ = v / f


λ = v · T


Un'altra caratteristica importante del profilo dell'onda è l'ampiezza (a) che è definita come il massimo spostamento di un punto dalla posizione di equilibrio.

Fissando l'attenzione su un punto (P) della molla, noteremo che, mentre l'onda si sposta verso destra di un tratto (λ), il punto (P) compie un'oscillazione completa. Questo vuol dire che in un periodo (T) l'onda avanza di una lunghezza d'onda (λ).

La velocità a cui l'onda si muove è pertanto:


v = λ / T


v = λ · f


La velocità si misura in «metri al secondo» (m/s).

Esistono altre due formule per il calcolo della velocità: una per il calcolo della velocità di un'onda su una corda, l'altra su fluido:


v su corda = √ T / μ


v su fluido = √ K / ρ


Molto spesso, come nel caso delle onde nell'acqua, a oscillare è un'intera superficie. In questo caso la linea immaginaria che congiunge i punti che oscillano allo stesso modo si chiama fronte d'onda.

Il fronte d'onda è l'insieme dei punti in cui le vibrazioni della grandezza che caratterizza l'onda sono concordi. Se i punti di un fronte d'onda si dispongono sopra una superficie, il fronte d'onda si chiama superficie d'onda.



Caratteri distintivi del suono

Abbiamo finora parlato genericamente di suono, ma in acustica si usa distinguere tra suoni e rumori. Con la parola suono intendiamo un'onda sonora generata da una vibrazione periodica. Invece i rumori sono onde sonore alle quali manca un preciso carattere di periodicità.

I caratteri distintivi del suono sono l'altezza, l'intensità e il timbro:

- l'altezza: è il carattere del suono che distingue i suono gravi da quelli acuti e dipende dalla frequenza;

l'intensità: è il carattere che distingue i suoni forti da quelli deboli ed è legata all'ampiezza;

- il timbro: è il carattere che permette di distinguere più suoni identici per altezza e intensità che provengono da sorgenti diverse. Suoni di timbro diverso differiscono per la forma dell'onda.



La riflessione del suono: l'Eco

Quando incontra un ostacolo un'onda può rimbalzare e tornare indietro. Questo fenomeno si chiama riflessione. Le onde sonore spesso si riflettono contro gli ostacoli e, in circostanze particolari, danno luogo al fenomeno dell'eco.

Immaginiamo di avere una sorgente sonora nel punto (O), posto a una distanza (d) da una superficie solida (AB), per esempio una parete. Quando le onde sonore emesse da "O" giungono contro la parete sono riflesse, cioè si propagano all'indietro, come se fossero state emesse da una sorgente "O' ", simmetrica di "O" rispetto ad AB. Dopo un certo intervallo di tempo, esse giungono di nuovo al punto (O), dal quale il suono era stato emesso.

Dall'istante in cui le onde sono partite da "O" all'istante in cui, dopo la riflessione, esse vi ritornano, è trascorso un intervallo di tempo pari a:


Δt = 2d / v


dove "d" è la distanza tra la sorgente sonora e la parete e "v" la velocità del suono (331,4 m/s).

Il fattore "2" è dovuto al fatto che il suono percorre due volte la stessa distanza (d).

L'OTTICA


La Riflessione e la Rifrazione della luce

Quando un raggio di luce che si propaga nell'aria incontra la superficie liscia dell'acqua, si spezza in due raggi.

Uno rimbalza e continua a propagarsi nell'aria. L'altro penetra dentro l'acqua e prosegue in una direzione leggermente diversa rispetto a quella iniziale.

Il primo dei due raggi si chiama raggio riflesso, il secondo si chiama raggio rifratto.

La suddivisione del raggio incidente in un raggio riflesso e uno rifratto si verifica ogni volta che la luce attraversa la superficie che separa due mezzi trasparenti.

Se invece il secondo mezzo è opaco, il raggio rifratto manca. Se poi la superficie di separazione è ben levigata, non soltanto manca il raggio rifratto, ma il raggio riflesso trasporta un'energia quasi eguale a quella del raggio incidente. In questo caso la superficie di separazione è una superficie riflettente.



Le leggi della Riflessione

Inviamo un sottile fascio di luce su una lamina di metallo piana e ben levigata. Dalla superficie emerge un fascio riflesso, anch'esso sottile e ben definito.

Appoggiando un foglio di cartone nel punto in cui si ha la riflessione, riusciamo a disporlo in modo che la superficie sia sfiorata da entrambi i raggi. Ciò significa che il raggio incidente e quello riflesso stanno su un unico piano. Se poi misuriamo l'angolo di incidenza (i) e quello di riflessione (r), osserviamo che sono eguali.

Questi due risultati, che continuano a essere veri per qualsiasi valore dell'angolo di incidenza, sono riassunti nelle due leggi della riflessione:

1a legge: il raggio incidente, il raggio riflesso e la normale alla superficie riflettente nel punto di incidenza giocano tutti sullo stesso piano;

2a legge: l'angolo di incidenza (i) è uguale all'angolo di riflessione (r).

Le leggi della riflessione sono vere anche quando la superficie su cui incide il fascio luminoso è scabra, cioè ha delle asperità.



La riflessione su uno specchio piano

Una sorgente luminosa puntiforme emette luce in tutte le direzioni. Se la mettiamo vicino a uno specchio, oltre a vederla direttamente, osserviamo anche una sua immagine, che sembra provenire da dietro lo specchio. Alcuni raggi emessi dalla sorgente colpiscono direttamente il nostro occhio, altri vi arrivano dopo essere stati riflessi dallo specchio.

Consideriamo due di questi raggi: il raggio "OS", che percorre all'indietro lo stesso cammino del raggio incidente, e il raggio "AQ".

Prolungando i due raggi al di là dello specchio, essi si incontrano nel punto S'. Un semplice ragionamento geometrico ci consente di concludere che S' è il punto simmetrico di S rispetto allo specchio.

Questo risultato è valido qualunque sia il valore dell'angolo (i), cioè qualunque sia l'inclinazione del raggio incidente.

S' è un'immagine virtuale e non reale, nel senso che i raggi raccolti dall'occhio non passano effettivamente per il punto S'.






Vari tipi di specchi

Specchi curvi

Uno specchio curvo è uno specchio composto da una parte convessa e una concava.

Se noi facciamo riflettere un oggetto sulla parte convessa, esso ci appare rimpicciolito e diritto. Se invece lo vediamo nella parte concava, ci sembra capovolto e rimpicciolito.

Per capire come si forma l'immagine, consideriamo uno specchio sferico che ha la forma di una calotta. I raggi di luce emessi da una sorgente luminosa (AB) si riflettono sulla parte convessa secondo le leggi della riflessione.

L'immagine A'B' dell'oggetto è rimpicciolita e si forma al di là dello specchio, prolungando all'indietro i raggi riflessi. Si tratta di un'immagine virtuale.

Nel caso della parte concava di uno specchio sferico, a meno che l'oggetto sia molto vicino allo specchio, l'immagine che si forma è capovolta. Ma, a differenza di quanto accade per uno specchio convesso, si tratta di un'immagine reale.


Specchi parabolici

Tra gli specchi curvi sono molto importanti quelli parabolici. La loro superficie è generata dalla rotazione di una parabola intorno al proprio asse di simmetria (asse ottico).

Tutti i raggi paralleli all'asse ottico che colpiscono la parte concava dello specchio parabolico vengono riflessi in un punto che si chiama fuoco.

Mettendo una sorgente luminosa nel fuoco di uno specchio parabolico, la sua luce viene riflessa in un fascio luminoso abbastanza ristretto che si allontana lungo l'asse ottico. Lo specchio funziona così da proiettore.


Specchi sferici

Gli specchi sferici vengono utilizzati in sostituzione a quelli parabolici, ma hanno un piccolo inconveniente: i raggi paralleli all'asse ottico non sono concentrati in un unico punto.

Possiamo però notare che i raggi che colpiscono lo specchio vicino al suo punto di intersezione con l'asse ottico passano tutti, con buona approssimazione, per un unico punto posto a metà del raggio. Per questa ragione ci limiteremo a studiare specchi sferici di piccola apertura.

Esiste un metodo grafico che permette di determinare, data una sorgente puntiforme A, la posizione della sua immagine A' generata da uno specchio sferico concavo.

Il raggio (AP), parallelo all'asse ottico, è riflesso e passa per il fuoco (F); invece il raggio che passa per il centro (C), sovrapponendosi al raggio della sfera, è riflesso su se stesso.

Questi due raggi si intersecano nel punto A' in cui convergono anche tutti gli altri infiniti raggi che, emessi da A, sono riflessi dallo specchio.

Quindi A' è proprio l'immagine della sorgente A.

Esistono tre casi, in base alla posizione dell'oggetto:

se l'oggetto è posto oltre il centro, l'immagine è reale, capovolta e rimpicciolita;

se l'oggetto è posto tra il centro e il fuoco, l'immagine è reale, capovolta e ingrandita;

se l'oggetto è posto tra il fuoco e lo specchio, l'immagine è virtuale, diritta e ingrandita.

Nel caso di uno specchio sferico convesso il fuoco dello specchio e l'immagine generata sono sempre virtuali.









La legge dei punti coniugati per uno specchio sferico

Specchio sferico concavo

Per gli specchi sferici di piccola apertura esiste una legge che ci permette di prevedere la posizione di A' se conosciamo quella di A e il raggio dello specchio.

Se lo specchio è concavo, vale l'equazione:


1 2

+ =

p q r


dove "r" è la misura del raggio dello specchio, "p" la distanza tra la sorgente e lo specchio e "q" la distanza tra l'immagine e lo specchio.

Poiché per uno specchio sferico concavo si ha "f = r / 2", la legge dei punti coniugati può essere scritta nella forma:

1 1

+ =

p q f


dove " f " è la distanza focale.


Specchio sferico convesso

Se lo specchio è convesso vale un'equazione molto simile con l'unica differenza che, in questo caso, il fuoco è virtuale, cioè posto dalla parte opposta dell'oggetto rispetto allo specchio, quindi abbiamo che il raggio è negativo (-r). Per questa ragione la legge dei punti coniugati diviene:

1 1 2

+ = -

p q r


da questa formula possiamo ricavare subito "1 / q", che risulta:


1 1 2

= - +

q p r


Siccome "p" e "r" sono positivi, è chiaro che "1 / q" risulta negativo. Quindi "q" è negativo e l'immagine è, come il fuoco, dalla parte opposta dello specchio rispetto all'oggetto.

Ricordiamo che in uno specchio convesso l'immagine è sempre virtuale.














Ingrandimento lineare

Oltre alla posizione dell'immagine, spesso è molto importante sapere con precisione qual è l'ingrandimento che subirà un oggetto che è posto a una certa distanza da uno specchio sferico.

Chiamiamo quindi ingrandimento lineare (G) il rapporto tra la lunghezza (A'B') dell'immagine e la lunghezza (AB) dell'oggetto:


G = A'B' / AB


Come nel caso dei punti coniugati, è possibile dimostrare geometricamente che vale l'equazione:

G = q / p


Questa formula è valida sia per gli specchi concavi che per quelli convessi.

Notiamo che, mentre "p" è sempre positivo, "q" può essere positivo o negativo a seconda che l'immagine sia reale o virtuale. Quindi l'ingrandimento (G) è positivo per le immagini reali, negativo per immagini virtuali.



Le leggi della Rifrazione

Un raggio di luce, nel passaggio tra due mezzi trasparenti (aria-acqua), si spezza in due raggi: uno riflesso e uno rifratto. Del primo sappiamo determinare la direzione sulla base delle due leggi della riflessione. Vogliamo ora capire come si comporta il raggio rifratto.

Penetrando nell'acqua, il raggio cambia bruscamente direzione e si piega verso la normale (perpendicolare) alla superficie che separa i due mezzi. L'angolo di rifrazione "r", che ha per lati la normale e il raggio rifratto, è minore dell'angolo di incidenza "i" (in tutti i casi in cui il secondo mezzo è più rifrangente).

Il comportamento del raggio rifratto è descritto dalle due leggi della rifrazione:

1a legge: il raggio incidente, quello rifratto e la normale alla superficie di separazione dei due mezzi giacciono sullo stesso piano;

2a legge: il rapporto tra il seno dell'angolo di incidenza "i" e il seno dell'angolo rifratto "r" è costante. Esso resta sempre lo stesso qualunque sia l'angolo di incidenza.

Tale rapporto esprime il concetto della legge di Snell e il suo valore:


sen i / sen r = n AB


dipende soltanto dai due mezzi in cui la luce passa.

"n AB" è l'indice di rifrazione relativo del mezzo B (in cui la luce entra) rispetto al mezzo A (da cui la luce proviene).

Se "n AB" è maggiore di 1, si dice che il mezzo B è otticamente più denso (rifrangente) del mezzo A;

Se al posto dell'acqua avessimo avuto una lastra di vetro a facce parallele, il raggio luminoso sarebbe uscito di nuovo nell'aria con una direzione eguale all'iniziale.

L'effetto della doppia rifrazione è quello di spostare lateralmente il raggio, senza però cambiare direzione. Possiamo ricavare una proprietà dell'indice relativo di rifrazione.

Quando la luce penetra dal mezzo A nel mezzo B, possiamo scrivere:


sen i / sen r = n AB




Quando invece passa da B ad A, la stessa legge diventa:


sen r / sen i = n BA


Si può quindi concludere che:


n AB = 1 / n BA


Cambiando il verso in cui si muove la luce, gli indici di rifrazione relativi diventano l'uno l'inverso dell'altro.

Quando la luce entra in un mezzo trasparente provenendo dal vuoto, la costante "n" si chiama indice di rifrazione assoluto del mezzo e si ricava con la formula:


n = c / v


dove "c" è la velocità dell'onda nel vuoto e "v" la velocità dell'onda nel mezzo in cui penetra.

La conoscenza degli indici assoluti di due mezzi consente di ricavare l'indice di rifrazione di un mezzo rispetto all'altro.

Si può dimostrare che:


n AB = n B / n A


dove "n A" e "n B" sono rispettivamente gli indici assoluti dei mezzi A e B.



L'angolo limite e la riflessione totale

Consideriamo due mezzi trasparenti (aria-acqua) e una sorgente luminosa (S) posta nel mezzo più rifrangente, in questo caso l'acqua. Poiché i raggi che si rifrangono dal mezzo più rifrangente a quello meno rifrangente si allontanano dalla normale, considerando raggi provenienti da S e formanti con le rispettive normali angoli di incidenza via via crescenti, si perviene a un particolare raggio con un angolo di incidenza "ℓ" tale che il raggio rifratto emerge radente alla superficie di separazione dei due mezzi. L'angolo di rifrazione è di 90°.

L'angolo "" viene chiamato angolo limite, in questo caso dell'acqua. Ponendo approssimativamente l'indice di rifrazione assoluto dell'aria uguale a 1, si ha:


sen ℓ = 1 / n


da ciò si deduce che l'angolo limite è tale che il suo seno è uguale al reciproco dell'indice di rifrazione.

Considerando invece un angolo di rifrazione maggiore dell'angolo limite, la luce non passa nel secondo mezzo, ma viene totalmente riflessa dalla superficie di separazione.

Tale fenomeno è chiamato riflessione totale.










La Diffrazione della luce

Sappiamo che la propagazione rettilinea della luce è valida se considerata approssimativamente. Infatti, se si esamina il cammino della luce si nota che presenta delle deviazioni. Tali deviazioni sono dovute al fenomeno di diffrazione della luce e diventano particolarmente evidenti quando le radiazioni incontrano ostacoli che interrompono il suo cammino, o quando passano attraverso una piccola fenditura.

Se facciamo passare un'onda piana attraverso uno schermo munito di due fenditure molto vicine e strette, le frange d'interferenza tendono ad avvicinarsi e a diventare più marcate.

Si possono migliorare le figure d'interferenza utilizzando un reticolo d'interferenza, in cui la distanza fra due fenditure rappresenta il passo o costante del reticolo.

Per ricavare la distribuzione delle frange luminose possiamo utilizzare l'equazione:


d sen υ = k · λ


d = passo del reticolo;

= angolo formato fra la frangia rifratta e il piano;

k = ordine dell'immagine;

= lunghezza d'onda della luce.



La Dispersione della luce

Questo fenomeno rappresenta solo una proprietà della luce bianca e può essere ottenuto inviando, attraverso un prisma di vetro, un sottile fascio di luce bianca, così chiamata perché non sembra avere un proprio colore. La luce, dopo aver attraversato il prisma ed essersi raccolta su uno schermo, evidenzia i 7 colori fondamentali che vanno dal rosso al violetto.

Questi colori non sono ulteriormente scomponibili. Infatti, se facciamo uscire da una stretta fenditura un raggio monocromatico dallo spettro, per esempio il giallo, e poniamo lungo il suo cammino un secondo prisma, non si ottiene più una seconda dispersione della luce.

Poiché l'angolo di rifrazione diminuisce dal rosso al violetto, l'indice di rifrazione assume valore minimo per il rosso e valore massimo per il violetto.



La Polarizzazione della luce

La polarizzazione della luce è un particolare fenomeno che permette di dimostrare che la luce è un'onda trasversale, cioè che le oscillazioni sono perpendicolari alla direzione di propagazione dell'onda.

Diciamo innanzitutto che un campo magnetico oscillante costituisce un campo elettrico, mentre un campo elettrico costituisce un campo magnetico. Supponiamo di avere un sistema di assi in cui si propaga l'onda. La luce si propaga trasversalmente, il campo elettrico (E) si propaga nel piano "y", mentre il campo magnetico (B) si propaga nel piano "z" che è perpendicolare a "y" e "x".

Quindi i campi "B" ed "E" si propagano sempre perpendicolarmente tra loro.

In generale, una sorgente si dice polarizzata quando emette luce, i cui campi elettrici e magnetici coincidono rispettivamente tra loro.

Mentre, la luce è parzialmente polarizzata se c'è una componente maggiore.

Infine, la luce si dice linearmente polarizzata se le vibrazioni dell'onda sono distribuite solo su un piano passante per la direzione di propagazione.





L'ELETTROSTATICA


La carica elettrica

L'esperienza mostra che corpi elettrizzati esercitano forze su corpi non elettrizzati.

Possiamo spiegare questi fenomeni facendo l'ipotesi che esistano due tipi di elettricità o di cariche elettriche: positiva e negativa.

Cariche dello stesso tipo (o stesso segno) si respingono, mentre cariche di tipo diverso (o segno opposto) si attraggono.

Nel S.I.M. l'unità di quantità di elettricità è il coulomb (C).

La carica elettrica più importante è quella dell'elettrone. La carica (negativa) "- e" dell'elettrone è uguale a:


- e = - 1,6022 × 10 -19 C



I conduttori e gli isolanti

Compiendo alcuni semplici esperimenti con vari corpi strofinati, possiamo osservare la differenza tra materiali conduttori e materiali isolanti.

I conduttori sono i materiali in cui le cariche elettriche sono libere di muoversi. Invece, gli isolanti sono le sostanze che non lasciano sfuggire le cariche elettriche.

Questa distinzione vale non soltanto per i solidi, ma anche per i liquidi e per i gas.

Nei conduttori vi sono particelle cariche di elettricità, che sono libere di muoversi: esse sono dette portatori di carica. In particolare nei conduttori metallici i portatori di carica sono alcuni degli elettroni che costituiscono gli atomi.

Invece nei conduttori liquidi e gassosi i portatori di carica sono ioni, cioè atomi o molecole che hanno perso o acquistato elettroni.



La legge di Coulomb

La legge di Coulomb afferma che la forza di attrazione o di repulsione, che si esercita tra due corpi puntiformi elettrizzati, è direttamente proporzionale al prodotto delle quantità di elettricità possedute dai due corpi e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.

Se si indicano con "F0" l'intensità della forza (attrattiva o repulsiva) che ciascuno dei due corpi esercita sull'altro nel vuoto, con "Q1 e Q2" le loro cariche elettriche e con "r" la loro distanza, la legge di Coulomb si scrive:


F0 = k0 · (Q1 Q2 / r²)


dove "k0" è un coefficiente di proporzionalità che vale:


k0 = 8,99 × 10 9 N · m²/C²










La forza di Coulomb nel vuoto

Si è imposto l'uso di esprimere la costante "k0" che compare nella legge di Coulomb per cariche poste nel vuoto come:

k0


dove " si chiama costante dielettrica assoluta del vuoto e il suo valore numerico è:


є0 = 8,854 × 10 -12 C²/N · m²


Sostituendo "k0 = 1 / 4 π є0", possiamo scrivere nella forma più abituale la legge di Coulomb per cariche poste nel vuoto:


F0 = 1 / 4π є0 · (Q1 Q2 / r²)



La forza di Coulomb nella materia

Se ripetiamo l'esperimento di Coulomb mettendo le cariche non nel vuoto ma in un mezzo materiale isolante (per esempio nell'acqua) a parità di cariche e di distanza misureremo una forza (Fm) minore della forza (F0) che agisce nel vuoto:


Fm = F0 / єr


dove "єr" si chiama costante dielettrica relativa del mezzo che cambia in base al mezzo considerato.

Se sostituiamo al numeratore del secondo membro l'espressione della legge di Coulomb, troviamo l'equazione:


Fm = 1 / 4π є0 єr · (Q1 Q2 / r²)


Si usa definire una nuova costante attraverso la relazione:


є = є0 єr


dove " è la costante dielettrica assoluta del mezzo considerato. Grazie a essa è possibile scrivere la legge di Coulomb nella forma generale:


F = 1 / 4π є · (Q1 Q2 / r²)



Il campo elettrico

La forza che si esercita tra due corpi carichi è una forza a distanza. Essa si fa sentire senza che vi sia alcuna connessione materiale tra i due corpi che interagiscono.

Diciamo che, quando un corpo "A" viene caricato, si genera in tutto lo spazio circostante una situazione nuova. Il fatto di aver caricato "A" modifica le proprietà dello spazio che circonda questa carica, nel senso che ora lo spazio diventa sede di forze elettriche, mentre prima non lo era. Un altro corpo carico "B", messo in qualche punto dello spazio, a un certo istante comincia a sentire una forza elettrica di cui "A" è la causa.

Si dice che una regione di spazio è sede di un campo elettrico se, prendendo un corpo carico e ponendolo in un punto qualsiasi di questa regione dello spazio, si può osservare che esso è soggetto a forze di origine elettrica.


Il vettore campo elettrico

Le proprietà del campo elettrico sono descritte quantitativamente definendo in ogni punto dello spazio un vettore campo elettrico E.

Mettiamo in un punto (P) una carica positiva (+q) di prova e misuriamo la forza (F) che essa subisce. Il vettore campo elettrico (E) nel punto (P) è definito come il rapporto tra la forza elettrica che subisce la carica di prova posta in quel punto e la carica stessa:


E = F / +q


Nel S.I.M. il campo elettrico si misura in «newton su coulomb» (N/C).

Questa nuova grandezza non dipende dal valore della carica di prova.

Consideriamo il campo elettrico generato da una sola carica (Q). La forza che essa esercita sulla carica di prova (+q) posta a distanza (r) è, per la legge di Coulomb, eguale a:


F = 1 / 4π є · (Q q / r²)


Per l'intensità del campo elettrico (E) si ottiene:


E = F / q = [1 / 4π є · (Q q / r²)] / q = 1 / 4 π є · (Q / r²)


In particolare, se le cariche sono poste nel vuoto, si "є = є0" e si trova:


E = 1 / 4π є0 · (Q / r²)


Come si vede, la carica di prova (q) non figura più nell'espressione del campo elettrico.

Se ne avessimo usata una diversa, il campo elettrico non sarebbe cambiato.



La sovrapposizione di più campi elettrici

Se il campo è generato da più di una carica, per esempio da "Q1" e da "Q2" la forza (F) sulla carica di prova (+q) è eguale alla somma vettoriale delle forze "F1 e F2" che le singole cariche esercitano separatamente su "+q":


F = F1 + F2


Il vettore E vale:


E = F / q = (F1 + F2) / q = (F1 / q) + (F2 / q) = E1 + E2


cioè il campo elettrico (E) è il vettore risultante dalla somma dei campi elettrici "E1 ed E2", che sono generati rispettivamente dalle cariche "Q1 e Q2".

Dalla definizione di campo elettrico si ricava:


F = q · E


Una volta che conosciamo E in un punto siamo in grado di calcolare la forza che il campo esercita su qualsiasi carica messa in quel punto.

La direzione della forza è la stessa di quella del campo. Se la carica è positiva, anche il verso è lo stesso; se invece è negativa, il verso è contrario a quello della forza.



Il flusso del campo elettrico

Per una superficie piana (S) e un campo elettrico (E) costante su (S), si definisce flusso (ΦE) del campo elettrico il prodotto della superficie per il campo elettrico e per il coseno dell'angolo:

ΦE = S · E · cos α


Il flusso del campo elettrico varia al variare dell'angolo.

Si può scrivere anche in forma vettoriale:


ΦE = E · S


E la sua variazione sarà espressa da:


ΔΦE = E · ΔS


Nel S.I.M. il flusso del campo elettrico si misura in «newton su coulomb per metro quadro» (N/C · m²).

Se si vuole calcolare il flusso del campo elettrico per una superficie chiusa bisogna sommare il valore delle cariche elettriche che la compongono e dividere per la costante dielettrica del mezzo che riempie lo spazio, quindi:


ΦE = Σ q / є


Tale proprietà è conosciuta come Teorema di Gauss per il campo elettrico che afferma che il flusso di un campo elettrico uscente da una superficie chiusa è uguale alla somma delle cariche elettriche contenute nel suo interno diviso la costante dielettrica del mezzo.

Se vi è una carica esterna, essa non contribuisce a determinare il campo elettrico all'interno della superficie.



Il potenziale elettrico

Se spostiamo una carica (q) dal punto "A" al punto "B", possiamo determinare la differenza di energia potenziale tra la condizione iniziale e quella finale. Il valore dell'energia potenziale non dipende soltanto dalle "N" cariche che generano il campo, ma anche dalla carica di prova (q).

Definiamo la differenza di potenziale elettrico (ΔV) tra due punti (A e B) immersi in un campo elettrico come il rapporto:

ΔV = ΔU / q


La definizione si può scrivere anche come:


ΔV = VB - VA = - WAB / q = WBA / q


dove "WAB" e "WBA" sono i lavori fatti dalla forza elettrica sulla carica di prova (q) durante il suo spostamento da A a B o viceversa.

Nel S.I.M. il potenziale elettrico si misura in «joule su coulomb» (J/C). Tale unità di misura è chiamata anche volt (V).

Si può dire che tra due punti c'è una differenza di potenziale di 1 V quando, spostando una carica di 1 C da un punto a un altro, si ha una differenza di energia potenziale di 1 J.



La corrente elettrica

Un conduttore è attraversato da una corrente elettrica quando al suo interno vi è una migrazione di particelle cariche. Perché questo accada è necessario che dentro il conduttore siano in azione delle forze elettriche, in grado di mettere in movimento le cariche.

Ciò significa che al suo interno vi sono punti che si trovano a potenziali diversi. Se non fosse così il conduttore sarebbe in equilibrio. Possiamo allora dire che la corrente elettrica nasce da una differenza di potenziale.

Consideriamo un conduttore a forma di cilindro e supponiamo che il punto A si trovi a un potenziale (VA) maggiore di quello (VB) nel punto B: (VA > VB).

In ogni punto interno al conduttore c'è un campo elettrico (E) diretto nel verso che va dal punto A al punto B. questo campo elettrico esercita una forza (F = q E) su ogni particella di carica (q) che si trova in un punto qualsiasi dentro al conduttore.

Si definisce intensità della corrente elettrica (i) il rapporto tra la quantità di carica (ΔQ), che attraversa la sezione trasversale di un conduttore in un intervallo di tempo (Δt), e questo intervallo di tempo (Δt):

i = ΔQ / Δt


In generale, la corrente elettrica può cambiare da istante a istante. Quando la sua intensità si mantiene costante nel tempo, si dice che la corrente è continua (o stazionaria). In questo caso la quantità di carica (ΔQ) che attraversa una sezione trasversale del conduttore è direttamene proporzionale all'intervallo di tempo (Δt). Infatti:


ΔQ = i · Δt


Nel S.I.M. l'unità di misura dell'intensità di corrente è l'ampere (A). In un conduttore passa la corrente di 1 A quando attraverso una sua sezione trasversale transita una quantità di carica di 1 C nell'intervallo di tempo di 1 s:


1 A = 1 C / 1 s


Poiché 1 C è costituito da 6 × 10 18 elettroni, quando la corrente in un filo è 1 A, passano attraverso una sezione qualsiasi del filo 6 × 10 18 elettroni ogni secondo.



Il circuito elettrico

Affinché in un conduttore passi una corrente continua, occorre inserirlo in un circuito del quale deve far parte un generatore di tensione.

In generale, un circuito elettrico è costituito da un insieme di conduttori connessi l'uno all'altro in modo continuo e collegati ai poli di un generatore.

La corrente passa nei vari conduttori nel verso che va dal polo positivo al polo negativo del generatore e, all'interno del generatore, nel verso che va dal polo negativo a quello positivo.

Affinché in un circuito passi corrente continua è essenziale che esso sia chiuso, ossia che non abbia interruzioni. Se il circuito si interrompe, la corrente non passa più e si dice allora che il circuito è aperto.








La Prima legge di Ohm

Ai capi di ogni conduttore che fa parte del circuito esiste una differenza di potenziale.

Se facciamo variare questa differenza di potenziale ci aspettiamo che cambi anche la corrente che circola dentro il conduttore.

A riguardo, possiamo enunciare la prima legge di Ohm che afferma che esiste una vasta categoria di conduttori, tra cui quelli metallici, per i quali l'intensità di corrente (i) da cui sono attraversati è direttamente proporzionale alla differenza di potenziale (ΔV) che è applicata ai loro capi. La relazione può essere scritta nella forma:


i = ΔV / R


dove "R" è la resistenza elettrica del conduttore, una grandezza che dipende dalle condizioni in cui esso si trova (di temperatura, di pressione, ecc.).

Quanto più grande è "R", tanto minore è la corrente che attraversa il conduttore e quindi esprime la difficoltà che incontra la corrente nel fluire all'interno del conduttore.

Nel S.I.M. la resistenza elettrica si misura in ohm ( ).

1 Ω è la resistenza di un conduttore che è percorso da una corrente di intensità pari a 1 A quando ai suoi estremi si applica una differenza di potenziale di 1 V:


1 Ω = 1 V / 1 A



La Seconda legge di Ohm

Lo stesso Ohm stabilì sperimentalmente una seconda legge, che mostra come la resistenza (R) dipende dalle dimensioni del conduttore e dallo specifico metallo di cui è costituito.

La seconda legge di Ohm afferma che la resistenza elettrica di un filo conduttore è direttamente proporzionale alla sua lunghezza ( l ) e inversamente proporzionale alla sua sezione (A). Inoltre essa dipende anche dalla sostanza di cui è costituito il filo e dalla sua temperatura, espressi dal coefficiente di proporzionalità (ρ):


R = ρ · (l / A)


dove il coefficiente di proporzionalità " " si chiama resistività della sostanza considerata.

Nel S.I.M. la resistività si misura in «ohm per metro» (Ω · m).



I conduttori ohmici in serie e in parallelo

Per quanto complicati possono essere i collegamenti tra i componenti di un circuito, essi si riducono a due tipi fondamentali:

in serie;

in parallelo.


Connessione in serie

Due o più conduttori sono collegati in serie quando sono disposti in successione, cioè uno di seguito all'altro. Ognuno di essi è attraversato dalla stessa corrente.

In generale la corrente, uscente dal generatore, determinata dalla presenza di "n" resistenze (R1, R2 . Rn) in serie tra loro, è la stessa che si avrebbe se tali resistenze fossero sostituite da una sola resistenza (R) pari a:


R = R1 + R2 + . + Rn


Connessione in parallelo

Due o più conduttori sono collegati in parallelo quando hanno le prime estremità in comune tra loro e anche le seconde estremità in comune tra loro. Ai capi di ciascun conduttore è applicata la stessa differenza di potenziale.

In generale la corrente, uscente dal generatore, determinata dalla presenza di "n" resistenze (R1, R2 . Rn) in parallelo tra loro, è la stessa che si avrebbe se tali resistenze fossero sostituite da una sola resistenza (R) pari a:


1 / R = 1 / R1 + 1 / R2 + . + 1 / Rn



La potenza elettrica

Per calcolare quanta energia elettrica si trasforma ogni secondo in altre forme di energia, fissiamo l'attenzione su un conduttore percorso dalla corrente (i), ai cui capi è applicata una differenza di potenziale (ΔV)

Quando una carica (ΔQ) attraversa la differenza di potenziale tra gli estremi A e B del conduttore, le forze del campo elettrico compiono un lavoro positivo:


W = ΔQ · (VA - VB)


Poiché il conduttore è attraversato dalla corrente (i), in Δt secondi transita attraverso ogni sua sezione la carica:

ΔQ = i · Δt


Sostituendo l'ultima formula nella penultima, otteniamo:


W = i · Δt · (VA - VB)


Questo lavoro viene compiuto a spese dell'energia potenziale elettrica.

L'energia potenziale non scompare, ma si trasforma in altre forme di energia, quali l'energia interna e l'energia luminosa.

Per calcolare quanta energia elettrica si trasforma nell'unità di tempo bisogno dividere entrambi i membri della relazione per "Δt". Otteniamo così la formula che esprime la potenza elettrica sviluppata nel conduttore:


P = i · (VA - VB)


Se il conduttore attraversato da corrente è ohmico e ha resistenza (R), la formula precedente può essere scritta come:

P = R · i ²


Nel S.I.M. la potenza si misura in Watt ovvero in «joule al secondo» (J/s).










IL MAGNETISMO


Magneti naturali e artificiali

Un esempio di magnete naturale è dato da un minerale di ferro, la magnetite, che ha la proprietà di attrarre la limatura di ferro.

Questa proprietà può anche essere prodotta artificialmente. Una sbarra di acciaio non attrae la limatura di ferro. Ma se la avviciniamo a un pezzo di magnetite, essa acquista la proprietà di attrarre la limatura di ferro.

Si esprime questo fatto dicendo che la sbarra di acciaio si è magnetizzata ed è diventata un magnete artificiale (o calamita). I suoi estremi sono chiamati poli.

Non tutte le sostanze hanno la proprietà di magnetizzarsi. Le sostanze che appartengono a questa stretta categoria hanno il nome di sostanze ferromagnetiche.

Si dice che la calamita rettilinea genera nello spazio circostante un campo di forza, che chiamiamo campo magnetico.

In generale, un campo magnetico (B) è un campo di forza attorno a un magnete o a un circuito percorso da corrente elettrica, in cui per direzione del campo in un punto si assume quella dell'asse di un ago magnetico, libero di ruotare nella posizione di equilibrio e come verso quello che va dal polo Sud al polo Nord dello stesso ago.



Le linee di forza del campo magnetico

Detta anche linea di campo, è una qualsiasi linea diretta in modo che la retta tangente in ogni suo punto abbia la stessa direzione dell'asse di un ago magnetico nella posizione di equilibrio assunta nel punto considerato per effetto del campo magnetico.










Confronto tra il campo magnetico e il campo elettrico

Il campo magnetico assomiglia per diversi aspetti al campo elettrico. Entrambi sono campi vettoriali e, in quanto tali, possono essere rappresentati da linee di campo.

La somiglianza, però, non va oltre, perché tra i due campi esistono differenze sostanziali.

Per esempio, mentre le cariche elettriche positive possono essere separate da quelle negative, è impossibile isolare i poli magnetici. Se si spezza una calamita in due parti, ciascuna di queste è, a sua volta, una calamita completa, dotata dei due poli di nome opposto.

Inoltre, mentre un campo può essere elettrizzato in modo da avere un eccesso di carica positiva o negativa, non esiste un corpo magnetizzato che abbia un eccesso di magnetismo Nord oppure Sud.









La forza e il campo magnetico che si esercitano tra due fili percorsi da corrente

Tra due correnti deve esistere una forza. Infatti, il campo magnetico generato da ciascuna di esse esercita una forza sull'altra.

Per esempio, due fili rettilinei e paralleli si attraggono se sono attraversati da correnti che hanno lo stesso verso e si respingono se le correnti hanno versi contrari.

Misurando la forza che ciascun filo esercita su un tratto lungo ( l ) dell'altro, si verifica che essa dipende dalla distanza (d) tra i due fili e dalle correnti (i1 e i2) che li attraversano:


F = k · (i1 i2 l / d)


dove "k" è una costante sostituibile con il rapporto:


k


dove0" è una nuova costante, detta permeabilità magnetico del vuoto, il cui valore numerico è posto esattamente uguale a:


μ0 = 4π × 10 -7 N/A²


Andando a sostituire il rapporto alla formula, otteniamo:


F = (μ0 / 2π) · (i1 i2 l / d)


Adesso vogliamo conoscere qual è il campo magnetico che ciascun filo esercita sull'altro.

Consideriamo il caso in cui i versi delle correnti sono gli stessi.

Il filo 1 è immerso nel campo magnetico (B2) generato dal filo 2, le cui linee di campo sono perpendicolari alla corrente (i1). La forza (F1) è:


F1 = B2 · i1 · l


ed è diretta verso il filo 2. lo stesso ragionamento si può ripetere per il filo 2, che è immerso nel campo magnetico generato dal filo 1. risulta così che i due fili si attraggono.

Sappiamo come la forza tra i due fili paralleli dipende dalla distanza a cui si trovano:


F1 = (μ0 / 2π) · (i1 i2 l / d)


Eguagliando questa formula con la precedente, otteniamo:


B2 · i1 · l = (μ0 / 2π) · (i1 i2 l / d)


Semplificando, si ha:


B2 = (μ0 / 2π) · (i2 / d)


Possiamo dare maggiore generalità alla formula riferendoci al campo magnetico (B) generato da un filo percorso da una corrente (i) qualsiasi in un punto che si trova a distanza (d) dal filo.

In questo caso generale si ha:


B = (μ0 / 2π) · (i / d)



L'intensità del campo magnetico

Per analogia con ciò che abbiamo fatto per definire il campo elettrico, chiamiamo filo di prova il conduttore percorso da corrente con cui esploriamo il campo magnetico.

Osserviamo innanzitutto che la forza su questo filo di prova dipende dalla sua orientazione.

Essa è massima quando il conduttore è disposto perpendicolarmente alle linee del campo e diventa eguale a zero quando il conduttore è parallelo alle line di campo.

Si trova allora che la forza è direttamente proporzionale alla lunghezza ( l ) del conduttore e alla corrente (i) che lo attraversa:


F = B · i · l


"B" è il fattore che, moltiplicato per (i) e per ( l ), consente di ottenere l'intensità della forza.

Per analogia con la definizione di campo elettrico, definiamo (B) come l'intensità del campo magnetico in un punto dello spazio:


B = F / (i · l)


Nel S.I.M. l'intensità del campo magnetico si misura in tesla (T), dove:


1 T = 1 N / (1 A · 1 m)



La forza esercitata da un campo magnetico su un filo percorso da corrente

Supponiamo ora di conoscere intensità, direzione e verso del vettore (B) in una regione dello spazio. Collochiamo il conduttore percorso da corrente in un punto del campo magnetico, in modo che sia perpendicolare alle linee di campo. Ciò che determina la forza non è il vettore (B), ma la sua proiezione (B ) nella direzione perpendicolare al flusso della corrente.

Più il campo magnetico (B) è inclinato rispetto alla direzione della corrente, più B   diminuisce e minore è la forza.

Sostituendo al posto di "B" la sua proiezione "B ", estendiamo la formula (F = B · i · l) al caso generale in cui il conduttore percorso da corrente ha una direzione qualsiasi rispetto alle linee del campo. La forza che esso subisce è allora:


F = B · i · l


La direzione della forza è sempre perpendicolare al vettore (B) e alla direzione della corrente. Il verso della forza si determina usando la regola della mano destra.

Possiamo ricordare anche che l'intensità di "F" può essere scritta come:


F = B · i · l · sen α


dove "α" è l'angolo compreso tra i vettori " l " e "B".



La regola della mano destra

Tale regola serve per individuare la direzione della forza agente su un filo rettilineo percorso da corrente per effetto di un campo magnetico esterno.

Regola della mano destra aprendo la mano destra col pollice diretto perpendicolarmente alle altre dita, se si dispone la mano in modo che il pollice sia diretto secondo la corrente e le altre dita secondo il campo magnetico, la forza agente sulla corrente ha il verso della perpendicolare uscente dal palmo della mano.

Il campo magnetico di un solenoide

Una bobina il cui filo è avvolto a elica è detta solenoide. Questo sistema fisico può essere analizzato matematicamente come se fosse formato da una gran numero di spire circolari tutte uguali impilate l'una sull'altra con un passo che è dato dalla distanza tra due spore contigue.

Il campo magnetico generato da un solenoide diviene particolarmente semplice quando il solenoide è molto lungo, cioè quando il suo diametro è molto piccolo rispetto alla sua lunghezza. L'intensità del campo magnetico all'interno di un solenoide molto lungo è data dalla formula:

B = μ0 · (N i / l)


dove "N" è il numero di avvolgimenti che compongono il solenoide, "l" è la sua lunghezza e "i" è l'intensità della corrente che fluisce in esso.



La forza di Lorentz

Consideriamo sempre il filo percorso da corrente e supponiamo che esso abbia una sezione di area (A) e che al suo interno vi siano "n" elettroni di conduzione nell'unità di volume, ciascuno dei quali si muove con velocità media (v) dovuta al potenziale applicato dall'esterno.

Il valore della forza del singolo elettrone è data da:


Felettrone = e · v · B


Possiamo generalizzare la formula precedente estendendola a una carica (q) qualsiasi che si muove con velocità (v) in un campo magnetico (B). La forza che essa subisce è uguale a:


Fq = q · v · B


dove "B " è la proiezione di B lungo la direzione perpendicolare alla velocità della carica.

Questa forza è chiamata forza di Lorentz. La direzione e il verso di tale forza si determinano usando la regola della mano destra. Se la carica è positiva, la corrente ha la stessa direzione e verso del vettore velocità. Se invece la carica è negativa, la corrente è diretta in senso opposto rispetto alla velocità.

Possiamo infine scrivere una formula che fornisce direttamente il vettore forza (Fq) che si esercita su una carica puntiforme (q), che si muove con velocità (v) in un campo magnetico.

Tale formula è:


Fq = q · v × B


Dalla proprietà del prodotto vettoriale sappiamo che l'intensità di "Fq" può essere scritta anche in forma goniometrica come:


Fq = q · v · B · sen α


dove "α" è l'angolo formato dai vettori "v" e "B".








Il moto di una particella in un campo magnetico

Supponiamo che la carica puntiforme (q) entri in un campo magnetico uniforme con una velocità (v) perpendicolare alle linee di campo.

In tal caso la carica puntiforme (q) si muove di moto circolare uniforme.

Il moto è uniforme perché il modulo di "v" è costante. Inoltre, se "B" è uniforme e perpendicolare a "v", la forza (Fq), oltre a essere a sua volta perpendicolare a "v", ha modulo:


Fq = q · v · B


costante ed è sempre contenuta nel piano.

Ma queste sono proprio le proprietà della forza centripeta che, in un moto circolare uniforme, è sempre perpendicolare alla velocità del punto materiale, ha modulo costante e varia in modo da rimanere sempre nello stesso piano.

Quindi, per una carica che si muove in un campo magnetico, la forza della carica ha le proprietà di una forza centripeta. Possiamo quindi eguagliare il modulo della forza di Lorentz con l'espressione di una generica forza centripeta:


q · v · B = (m · v ²) / r


da cui, semplificando, si ricava il raggio dell'orbita:


r = (m · v) / (q · B)



Il flusso del campo magnetico

Consideriamo un filo rettilineo percorso da una corrente (i) stazionaria, cioè costante nel tempo. Le linee del campo magnetico (B) generato, che ha intensità:


B = (μ0 / 2π) · (i / r)


hanno la forma di anelli che circondano il filo, e sono disposte perpendicolarmente a esso.

Determiniamo il flusso del campo magnetico attraverso un cilindro il cui asse coincide con il filo. Definiamo il flusso (ΦB) del campo magnetico attraverso la superficie piana (S) come:


ΦB = B · S · cos α


Si può scrivere anche in forma vettoriale:


ΦB = B · S


Poiché le linee del campo avvolgono la superficie laterale, in ogni punto della superficie il vettore "Bi" è perpendicolare al vettore "ΔSi". quindi il flusso del campo magnetico attraverso la superficie del cilindro è nullo. Il flusso è nullo anche attraverso le due basi; infatti le linee del campo sono parallele alle basi e pertanto sono perpendicolari ai vettori area che hanno la stessa direzione del filo.

Si può enunciare il Teorema di Gauss anche per il campo magnetico: il flusso di un campo magnetico attraverso una qualsiasi superficie chiusa è sempre uguale a zero.

Nel S.I.M. il flusso del campo magnetico si misura in «weber» (Wb), dove:


1 Wb = 1 T · m²


La circuitazione del campo magnetico

Assegnata una linea chiusa orientata secondo un verso scelto arbitrariamente in un campo magnetico (B), si definisce circuitazione del vettore (B) l'espressione:


C (B) = Σ B · Δl


in cui "Δl" è uno spostamento elementare che unisce due punti consecutivi infinitamente vicini sulla linea chiusa.

Ciò premesso, il Teorema della circuitazione di Ampere afferma che la circuitazione di un campo magnetico (B), calcolata lungo un cammino chiuso qualsiasi, è uguale al prodotto della permeabilità magnetica del vuoto (μ0) per la somma algebrica delle correnti concatenate col cammino considerato.

Il campo magnetico ha la stessa intensità (B) in tutti i punti della circonferenza. Dunque la sua circuitazione risulta:


C (B) = B · Σ Δl


Sapendo che "B = (μ0 / 2π) · (i / r)" e che "Σ Δl = 2π r" ovvero tutta la circonferenza, sostituendo alla formula della circuitazione e semplificando, otteniamo:


C (B) = (μ0 / 2π) · (i / r) · 2π r


C (B) = μ0 · i


In conclusione possiamo affermare che la circuitazione del campo magnetico (B), lungo un percorso chiuso, è sempre uguale al prodotto della permeabilità magnetica del vuoto (μ0) per l'intensità di corrente (i), qualunque sia la forma del percorso chiuso.



Le onde elettromagnetiche

Immaginiamo di avere una carica positiva ferma in un punto O dello spazio vuoto. A un certo istante (t1) essa comincia a oscillare, per poi fermarsi di nuovo nella posizione iniziale all'istante (t2). Cosa possiamo dire del campo elettrico generato da questa carica?

Prima dell'istante (t1), c'è solo un campo elettrico ed è quello di una carica ferma. Quando la carica comincia a muoversi, il campo elettrico cambia e nasce anche un campo magnetico, perché col suo movimento essa genera una piccola corrente.

Un osservatore che si trova lontano dal punto O non può sapere immediatamente che il campo sta cambiando. L'informazione gli arriverà con un certo ritardo.

Se chiamiamo "v" la velocità con cui si propaga la variazione del campo elettromagnetico, l'osservatore saprà che il campo è cambiato dopo un intervallo di tempo:


Δt = Δs / v


dove "Δs" è la sua distanza dal punto O.

L'informazione che il campo all'istante "t = t1" è cambiato si espande nello spazio come una sfera che ha raggio "v(t - t1)". Questa sfera di informazione diventa tanto più grande quanto più passa il tempo. Tutti gli osservatori che si vengono a trovare al suo interno sanno che la carica si è messa in moto; quelli che stanno fuori ancora non lo sanno, ma dopo un po' di tempo, man mano che la sfera di informazione si espande, lo verranno a sapere.



I MODELLI ATOMICI E LA FISICA NUCLEARE


I primi modelli atomici

Modello atomico di Thomson

Uno dei primi intenti della fisica moderna è stato quello di scoprire com'è strutturato l'atomo.

Il primo fisico che propose il suo modello atomico fu Thomson. Egli ipotizzo che l'atomo fosse costituito da una sfera di raggio "r = 10 -10 m", in cui le cariche positive erano distribuite quasi uniformemente in tutta la sfera e dove gli elettroni, per creare equilibrio, erano disposti senza una particolare disposizione spaziale.










Modello atomico di Rutherford

Successivamente Rutherford sperimentò il cosiddetto «modello atomico planetario».

Egli, per dimostrare una celebre esperienza sulla diffusione delle particelle α da parte degli atomi, idealizzò l'atomo come un microscopico sistema solare in cui gli elettroni ruotavano intorno a una massa positiva, chiamata nucleo.

L'esperimento evidenziò che una particella positiva α, anziché procedere diritta lungo l'iniziale direzione, subiva forti deflessioni. Questo mutamento direzionale poteva essere giustificato solo se la particella interagiva fortemente con una distribuzione di cariche positive non più diluite in tutto il volume atomico, bensì concentrate in un nucleo centrale piccolo e pesante.










Modello atomico di Bohr

Bohr si interessò ai problemi riguardanti la struttura dell'atomo nucleare. Egli cercò di dare una risposta alla domanda: «Come sono disposti gli elettroni intorno al nucleo?».

Secondo le leggi dell'elettrodinamica classica ogni carica che si muove di moto non uniforme irradia onde elettromagnetiche a spese della propria energia di moto. Quindi, dopo un certo tempo, l'elettrone dovrebbe cadere sul nucleo.

Bohr intuì che era necessario introdurre nel modello atomico di Rutherford una nuova grandezza, la costante di Planck (h). Considerando un atomo di idrogeno.

Secondo il modello di Rutherford esso è costituito da un nucleo dotato di carica positiva uguale in grandezza all'unico elettrone che gli ruota intorno. La forza responsabile di tale moto è quella elettrica con cui nucleo ed elettrone si attraggono:


F = - 1 / 4π є0 · (e²/ r²)


che è dello stesso tipo della forza gravitazionale, che descrive il moto dei pianeti intorno al sole. Quindi, il percorso dell'elettrone sarà ellittico. Da ciò deriva che:

l'elettrone può percorrere intorno al nucleo solo una successione discreta di orbite, ciò significa che non tutte le orbite sono permesse

durante il suo percorso, l'elettrone non irradia energia, ma solo a seguito di una transizione da una orbita a un'altra vi è cambiamento del contenuto energetico dell'atomo.

Questi due concetti sono chiamati «quantizzazione delle orbite e dell'energia» e secondo Bohr possono essere espresse dalla relazione:


L = m · v · r = n · (h / 2π) = n · ħ


dove "h" è la costante di Planck e "n = 1, 2, 3." è il numero quantico principale che indica il livello energetico.

Secondo tale relazione, un elettrone può ruotare intorno al nucleo solo su quelle orbite, per cui il momento della quantità di moto "m · v · r" (o momento angolare), rispetto al nucleo, è multiplo della quantità costante "h / 2π = ħ".

Dalla quantizzazione del momento angolare deriva:


r = (n² · ħ² · 4π є0) / (c² · m²)


da cui si nota che "r" dipende da "n", visto che tutti gli altri elementi sono delle costanti.

Per esempio, per n = 1 → r = 0,53 × 10 -10 m, che sono le dimensioni dell'atomo di idrogeno.



La struttura del nucleo: i protoni e i neutroni

All'inizio del XX secolo ci si chiedeva ancora: «Di che cosa sono fatti i nuclei?».

Un passo avanti nel rispondere a questa domanda fu fatto, sempre da Rutherford. Egli riuscì a provocare, per la prima volta, la trasformazione di un elemento in un altro o, come si dice, la trasmutazione di un nucleo stabile in un altro nucleo.

Nell'esperienza originaria un fascetto di particelle alfa veniva fatto passare attraverso uno strato di gas azoto. Rutherford osservò che talvolta un nucleo di azoto, colpito da una particella alfa, la cattura e si trasforma in un nucleo di ossigeno, emettendo una particella diversa da quella incidente. La particella emessa, che ha massa:


mp = 1,6726 × 10 -27 kg


e carica "+ e" (eguale e di segno contrario a quella dell'elettrone), è stata chiamata protone.

Il neutrone, così venne chiamata la particella scoperta, è elettricamente neutra e la sua massa è di pochissimo superiore a quella del protone:


mn = 1,6749 × 10 -27 kg


Da allora, quando ci si vuole riferire indifferentemente a un neutrone oppure a un protone si parla di nucleone.

La scoperta del neutrone permise di comprendere la struttura dei nuclei: ognuno di essi è costituito da un certo numero di protoni e di neutroni che interagiscono tra loro con forze attrattive di nuovo tipo dette, appunto, forze nucleari





La radioattività

La trasformazione di un nucleo può avvenire anche in modo naturale, cioè spontaneamente.

Esistono infatti in natura alcuni isotopi il cui nucleo ha la proprietà di essere instabile.

Esso può restare così com'è anche per millenni. Ma a un certo istante, emettendo un corpuscolo, si trasforma o, come più spesso si dice, decede nel nucleo di un altro elemento.

Questi nuclei che si disintegrano spontaneamente sono detti radioattivi. I nuclei radioattivi possono decadere in due modi diversi:

emettendo una particella alfa;

emettendo una particella beta (o elettrone);



La legge del decadimento radioattivo

Se si prende una certa quantità di sostanza radioattiva essa diminuisce al passare del tempo come conseguenza del decadimento spontaneo subito dai suoi nuclei.

La legge con cui la massa varia in funzione del tempo è la stessa per tutti i corpi radioattivi ed è rappresentata dalla curva di decadimento. Essa ha la proprietà caratteristica di ridursi alla metà in un intervallo di tempo "T1/2" costante, detto periodo di dimezzamento:


T1/2 = τ ln 2


dove " è una costante chiamata vita media del nucleo, tipica di ogni tipo di nucleo.

Dal punto di vista matematico ciò è espresso dall'equazione:


N (t) = N0 · e - t / τ


dove "N0" è il numero di nuclei radioattivi presenti all'istante (t = 0), "N (t)" è il numero di nuclei superstiti all'istante (t).



I raggi X

Alla fine del secolo scorso il fisico tedesco W. C. Roentgen scoprì i raggi X.

Tali raggi hanno una lunghezza d'onda compresa tra 10 -8 e 10 -11 m circa. Sono prodotti mediante tubi a vuoto, nei quali gli elettroni subiscono una rapida decelerazione urtando contro un bersaglio metallico. Quanto più piccola è la loro lunghezza d'onda, tanto più nella penetrano materia.

Per esempio, quando si fa una radiografia, i raggi X passano attraverso la carne come se fosso trasparente, ma sono assorbiti dalle ossa che contengono calcio, cioè atomi con numero atomico elevato, con cui interagiscono maggiormente. Soltanto i raggi che attraversano il corpo impressionano una lastra fotografica, sulla quale appare per contrasto l'ombra che corrisponde alla struttura delle ossa.





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