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IL NUCLEARE PULITO Il futuro energetico e la fusione fredda. La storia e le aspettative di una scoperta controversa destinata a
sconvolgere il mondo della fisica e della chimica. Raccontata da uno dei
protagonisti, Giuliano Preparata.
Da anni si è alla ricerca di una fonte energetica
rinnovabile e non inquinante.
Molte aspettative sono riposte
nella possibilità di poter replicare i meccanismi della fusione nucleareche avvengono sul sole. Da dieci anni, però, alcuni
scienziati stanno lavorando all'ipotesi di una fusione fredda, che per
avvenire, cioé, non abbia bisogno delle condizioni
estreme di una stella.
Più di 10 anni fa, precisamente il 23 marzo 1989, una
notizia scosse violentemente la comunità scientifica internazionale: in
un'infuocata conferenza stampa due chimici dell'Università dello
Utah, Martin Fleischmann
e Stanley Pons,
annunciarono al mondo di aver scoperto una nuova fonte di energia, che
battezzarono fusione fredda.
Cos'è la fusione fredda e perché genera tante e violente
emozioni fra gli scienziati? Noi tutti siamo debitori alla nostra stella, il sole, della nostra stessa vita, e così tutti gli esseri
viventi che popolano il nostro pianeta. È l'enorme quantità di
energia che si sprigiona dal Sole a tenere in vita l'intero ecosistema
che, senza di essa, svanirebbe in una desolazione lunare. Come si produce questa energia vivificatrice? È dagli anni della seconda
guerra mondiale che la risposta a questa domanda è più o meno
nota: Hans Bethe, un fisico
tedesco-americano, nei primi anni '40 mostrò che una stella come il sole ha al
suo interno un "motore a fusione nucleare", in cui nuclei leggeri come idrogeno
(un protone), i suoi isotopi deuterio (un protone e un neutrone) e trizio (un
protone e due neutroni) e l'elio- 919f59j 4 (due protoni e due neutroni) si fondono
generando nuclei più pesanti instabili che si disintegrano producendo un
eccesso di energia. Perché questo può avvenire solo
all'interno dei corpi stellari? La ragione è semplice: perché queste reazioni
si producano occorre che i nuclei vengano a contatto, ovvero
si avvicinino a distanze dell'ordine della loro taglia, cioè un centomillesimo
delle dimensioni di un pur minuscolo atomo, il cui raggio è di un centomilionesimo di centimetro! Ma per arrivare a toccarsi
i nuclei, che hanno tutti carica positiva, debbono
vincere la repulsione elettrostatica che opera fra cariche elettriche eguali,
come ci ha insegnato alla fine del XVIII secolo il francese Coulomb. E per superare questa "barriera coulombiana"
occorrono le alte temperature e le enormi pressioni che esistono nel centro di
una stella. È quindi chiaro che per accedere ad una
tale fonte di energia qui sulla Terra occorre riprodurre in un opportuno
reattore le condizioni che la natura crea spontaneamente nelle viscere delle
stelle. Un compito certamente non facile, se esaminiamo le deludenti vicende e
le mostruose spese della fusione calda, che negli ultimi trent'anni
è stata tentata in macchine sempre più grandi e costose (come i Tokamak, enormi ciambelle percorse da altissimi campi
magnetici) senza alcun successo, nonostante l'enorme impegno di
uomini e mezzi finanziari.
Ora, in quella giornata della primavera di dieci anni fa,
due chimici mostravano al mondo la anonima provetta
(una semplice cella elettrochimica) dove, a loro dire, si erano prodotte le
fusioni nucleari che i Tokamak, con le loro enormi
temperature, non erano riusciti a indurre. Incredibile, non vi sembra? E per avvalorare le loro asserzioni Fleischmann
e Pons mostravano grafici secondo cui nelle semplici
reazioni elettrochimiche della loro cella si producevano quantità di calore,
che non potevano essere spiegate con le leggi della chimica, lasciando
l'ipotesi della fusione nucleare come una delle meno esotiche e più probabili.
L'incredulità della comunità scientifica arrivò ad un
livello parossistico quando ai due chimici venne
richiesto di mostrare la prova della avvenuta fusione: la fuga dalla cella di
un gran numero di neutroni, che accompagna i processi di fusione, dovettero
ammettere che, grazie a Dio, non ve n'era traccia, poiché se la fusione fosse
avvenuta con le stesse modalità del Tokamak
probabilmente non sarebbero stati lì a raccontarne la storia, avendo assorbito
una dose di neutroni più che letale. Questo era troppo. Non c'era solo il
miracolo dell'attraversamento della "barriera coulombiana"
senza le temperature e le pressioni stellari, ma anche quella di una reazione
di fusione esotica, mai vista prima.
In importanti laboratori per la fusione calda si montarono
in fretta e furia gli esperimenti che Fleischmann e Pons avevano condotto in segreto nel loro garage, e nel
giro di qualche settimana si concluse che era tutta
una montatura, e che i fenomeni di cui parlavano i due chimici erano un
semplice abbaglio, dovuto a tecniche di osservazione rozze se non errate. I
fisici furono fra i più feroci critici della fusione fredda,
poiché, di fatto, quei fenomeni avrebbero richiesto la riscrittura di gran parte dei libri di testo o della fisica
moderna.
Con pressioni così formidabili, per non parlare degli
interessi economici dell'industria dell'energia (petrolio, centrali nucleari,
ecc.), la fusione fredda venne liquidata in quattro e quattr'otto, spingendo i due chimici e i pochi scienziati
curiosi e senza pregiudizi, che desideravano analizzare con rigore cosa
esattamente accadeva nelle loro celle elettrolitiche, in un ghetto di
cialtroneria e incompetenza, se non di disonestà. Sarà forse interessante per
il lettore capire perché un fisico teorico delle particelle, come chi scrive,
si trovò all'inizio degli anni '90 a condividere con uno sparuto gruppo di
scienziati di varie discipline la miseria e le violenze cui furono sottoposti Fleischmann e Pons.
Anch'io, come i miei colleghi fisici, avevo accolto come
una burla l'annuncio del 23 marzo 1989, e non conoscendo i due chimici, pensavo che fossero due avventurieri in cerca di un quarto
d'ora di celebrità. Grande fu la mia sorpresa quando
un collega di facoltà, il noto elettrochimico Sergio Trasatti,
mi annunciò che Martin Fleischmann
era fra i migliori elettrochimici del mondo, oltre che un rispettato membro
della prestigiosa Royal Society inglese. Questa
rivelazione fu sufficiente ad aprirmi gli occhi: chi, se non un pazzo, con un
tale curriculum, metterebbe a repentaglio gli sforzi di una vita di successi su
risultati scientifici dubbi, o peggio fraudolenti? E la pazzia mi pareva ben
poco probabile in uno scienziato maturo (Fleischmann
aveva appena compiuto 60 anni), la cui vita era stata punteggiata di onori e riconoscimenti. La fusione fredda era
probabilmente vera. Ma allora: come rispondere alle
sensate, sensatissime obiezioni dei fisici? Questo era il problema.
Per una singolare coincidenza ,
verso la fine degli anni '80 certi sviluppi del mio lavoro di teorico delle
particelle mi avevano portato a mettere in questione l'impostazione stessa
delle leggi che governavano la materia condensata - liquidi e solidi -, e avevo
concluso che dentro la materia avvengono fenomeni che trascendono di gran lunga
le aspettative delle teorie generalmente accettate e che i fisici avevano brandito
con violenta arroganza contro le affermazioni di Fleischmann
e Pons. E già, poiché i fenomeni che si ipotizzava avvenissero nella fusione fredda riguardavano
la fusione nucleare dentro un cristallo di palladio (un metallo semiprezioso,
detto anche oro bianco), un ambiente in linea di principio ben diverso da
quello in cui avviene la fusione in una stella. Si trattava quindi di trovare
nuovi meccanismi fisici in grado di spiegare le osservazioni di Fleischmann e Pons, sulla cui
realtà non avevo ormai più dubbi.
Insieme ai colleghi Emilio Del Giudice e Tullio Bressani, ci gettammo con decisione in questa
impresa e nel giro di due mesi identificammo gli elementi essenziali di
questi meccanismi e, nel maggio del 1989, il Nuovo Cimento (la rivista della Società
italiana di fisica) pubblicò il nostro lavoro, che con successivi raffinamenti
rappresenta l'unica proposta teorica coerente di spiegazione della fusione
fredda.
Con gli occhi ben aperti da questi sviluppi teorici ho
potuto seguire con attenzione e senza pregiudizi l'evoluzione di questa linea
di ricerca e di quanto successo dal 1989.
I leader, Fleischmann e Pons, cacciati dallo Utah si sono
trovati all'inizio degli anni '90 nel sud della Francia, a Sophia
Antipolis (un parco scientifico nei pressi di Nizza) finanziati dall'Imra, una società del gruppo Toyota.
Il vecchio Signor Toyota, fondatore del gruppo, si
era infatti convinto della bontà delle ricerche sulla
fusione fredda. Purtroppo nel '93 il patriarca giapponese morì e nel giro di un
paio d'anni anche il laboratorio di Sophia Antipolis
fu disintegrato, non senza fornire ulteriori, importanti prove della validità e
della realtà della fusione fredda.
La ragione di questo successo scientifico e fallimento
organizzativo, a mio avviso, va ricercata nella grande ostilità
francese a questa linea di ricerca (ricordiamoci che
È di questo periodo il mio sodalizio, rafforzatosi con il
tempo, con Martin Fleischmann
che mi fruttò, nell'estate del 1993, un'osservazione importante su certi
esperimenti che Martin stava allora compiendo su fili
di palladio ripieni di atomi di deuterio. Da certi
strani comportamenti che si osservavano, mediante la teoria già sviluppata
dedussi la possibilità di aumentare di gran lunga la
densità di deuterio nel palladio, amplificando così notevolmente l'efficienza
energetica della fusione fredda. In Italia trovai interesse su queste idee dapprima
da parte della Fiat e della Edison, che decisero di
installare un laboratorio a Torino, che per ragioni a me ignote, durò poco. In
seguito
Da ultimo, con capitali privati, riuscii a far funzionare
un laboratorio a Milano (Laboratorio di elettrodinamica
avanzata, Leda) per due anni (1996-1997) con risultati molto lusinghieri e con
il conseguimento di un brevetto internazionale sul nuovo metodo di caricamento
di deuterio nel palladio (effetto Cöhn-Aharonov).
Per terminare questa breve storia, occorre ricordare che
per interessamento del deputato Massimo Scalia, con
la solidarietà del gruppo dirigente dei Verdi italiani, sta per partire a
Frascati un iniziativa comune Enea-Leda dove speriamo
di realizzare la grande promessa della ricerca di questi dieci anni.
Per quanto riguarda il resto del mondo, in questi dieci
anni si sono tenute sette conferenze internazionali, dove sono stati presentati
centinaia di lavori sperimentali che confermano completamente quelli di Fleischmann e Pons. Non solo, ma
attraverso un'analisi delle "ceneri" della reazione, in particolare l'elio-4,
si è stabilito che si tratta di fusione nucleare secondo il meccanismo
ipotizzato. Come si è detto il programma giapponese è stato chiuso, ma molti
ricercatori del sol levante continuano a produrre esiti interessanti. In Italia pregevoli risultati sono stati ottenuti da Scaramuzzi, De Ninno e Violante dell'Enea di Frascati e da
Gozzi dell'Univesità
Giuliano Preparata è professore ordinario di Teoria
delle interazioni subnucleari
all'Università di Milano.
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La scienza della levitazione. Dall'osservazione dei campi
magnetici di Giove è nata l'idea per un un
reattore a fusione semplice, piccolo, potente ed economico. Nasce così LDX,
la "zucca nucleare" E' semplice quanto
rivoluzionaria l'idea che Jay Kesner, ricercatore dell'Istituto di Fisica del MIT,
illustra presentando LDX, ovvero Levitated Dipole Experiment (esperimento
di levitazione dipolare), un dispositivo per la fusione termonucleare che
sembra una zucca d'acciaio. LDX è, dopo 30 anni di ricerca, un possibile
sostituto dei complessi, costosi e giganteschi Tokamak,
gli attuali dispositivi di fusione a confinamento
magnetico a forma di ciambella. In queste macchine si riesce a generare
energia portando un gas ionizzato ad altissime temperature, cioè allo stato di plasma, e sottoponendolo a una
fortissima compressione. Il fine è riprodurre le reazioni che avvengono nel
Sole dove, grazie alle alte temperature e alla pressione di
elevati campi gravitazionali, i nuclei del gas idrogeno fondono
formando elio e generando energia. I Tokamak
comprimono il plasma "spingendolo" verso l'interno della ciambella,
mentre nell'LDX il plasma viene confinato in una
sorta di "ciambella virtuale", creata soltanto da un campo
magnetico dipolare, come quello dei pianeti. Proprio osservando come il campo
magnetico di Giove intrappola il gas ionizzato proveniente dal Sole, infatti,
è nata l'idea dell'LDX. Fisicamente, l'LDX è un serbatoio sottovuoto, alto tre metri e dal
diametro di cinque, al cui interno si trova una bobina di niobio (elemento
chimico usato per speciali leghe) avvolta ad anello che pesa circa 500 chili.
La bobina riesce a confinare il plasma grazie al campo magnetico che genera,
senza bisogno di strutture come nei Tokamak.
L'anello viene introdotto nella "zucca" e
raffreddato a |
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