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Petronio, Satyricon 118: La teoria letteraria di Eumolpo

latino



Petronio, Satyricon 118: La teoria letteraria di Eumolpo


Disse Eumolpo: "Oh ragazzi, la poesia ha ingannato molti. Infatti non appena qualcuno ha composto un verso con i piedi e ha intessuto con un giro di parole una sensazione più delicata, subito 858b12i ha pensato di aver raggiunto l'Elicona. Così alcuni che si erano esercitati nei lavori forensi, di frequente di rifugiarono nella tranquillità della poesia come ad un porto più tranquillo, convinti di poter più facilmente comporre un poema, che un'arringa punteggiata di pensierini vigorosi.



Del resto uno spirito molto nobile non ama la vanità, né la mente può concepire o dare alla luce (un'opera) se non è inondata dal grande fiume delle lettere. Bisogna rifuggire da ogni banalità delle parole, come così (la) chiamerò (=chiamiamiamola così), e assumere le voci respinte dal popolo (=farsi carico delle proprie parole anche se la plebe ci è contro), così si concretizzerà (il detto): odio il volgo profano e (lo) tengo lontano[1].

Inoltre bisogna curare, che le sentenze non escano fuori dal contesto dell'orazione espressa, ma che risplendano col il colore intessuto sulle vesti. Prova (ne sono) Omero e i lirici, e il romano Virgilio e la curiosa capacità di Orazio (di andare nei particolari). Infatti gli altri o non hanno visto la strada che portava alla poesia o, pur avendola vista, non osarono calcar(la). Per esempio (considerate) chiunque tentò il lavoro enorme della guerra civile, se non è pieno di lettere, è schiacciato sotto il peso. Infatti non bisogna esprimere le imprese coi versi, cosa che gli storici fanno di gran lunga meglio, ma lo spirito libero deve precipitarsi attraverso gli indugi e i servigi delle divinità e il favoloso tormento delle sentenze, in modo che appaia piuttosto la profezia di un animo furente che la testimonianza sotto testimoni di un'orazione scrupolosa. Così come vi piace questo impeto, anche se non ha ancora ricevuto l'ultima mano.



Gnome con cui Orazio apre la III sezione delle "Sei Odi Romane".




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