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Ebrei Appartenenti

italiano



INTRODUZIONE

Ebrei Appartenenti alla comunità etnica e religiosa che trae le sue origini da alcune tribù semitiche nomadi stanziate nell'area del Mediterraneo orientale prima del 1300 a.C., e insediatesi poi nella "terra di Canaan", ovvero l'antica Palestina. Qui, rafforzando il loro legame fondato sul culto monoteistico di Jahve, costituirono verso il 1020 a.C. un organismo politico unitario retto da un re. Se come "ebrei", termine derivato dal nome di Eber, indicato dalla Bibbia (Genesi, 10:21) come uno dei discendenti di Sem, si identificavano gli stessi appartenenti a questo popolo nella fase più antica della loro storia, di origine remota è anche il nome "Israele": dapprima esso fu proprio del patriarca Giacobbe (Genesi 39:29), poi ve 212i84c nne esteso a tutto il popolo considerato sua discendenza (Genesi 32:33). Seguendo i testi biblici, che esaltano Jahve come "Dio di Israele" e dei "figli di Israele" (Esodo, 1:7), riferendosi soprattutto al periodo compreso fra la conquista della terra di Canaan e la caduta, nel 721 a.C., dell'omonimo Regno di Israele per mano di Sargon II, re degli assiri dal 722 al 705, la lingua italiana indica gli ebrei anche come "israeliti".

Fin dall'epoca della cattività babilonese, tuttavia, il termine "ebrei", come pure le denominazioni derivate dalla parola "Israele", furono sostituiti con l'ebraico yehudhi, originariamente indicante i membri della tribù di Giuda e successivamente tutto il popolo. I romani denominarono Judaea la Palestina e judaei i suoi abitanti, identificati come depositari di una tradizione religiosa: da judaei derivano, oltre all'italiano "giudei", poco utilizzato dalla lingua comune, i termini impiegati dalle principali lingue europee per indicare gli ebrei: in inglese jews, in francese juifs e in tedesco juden. Occorre comunque precisare che il termine "giudei" sopravvive in italiano soprattutto con un'accezione religiosa che esprime un riferimento esplicito, anche nelle traduzioni dei testi del Nuovo Testamento, agli ebrei avversari dell'ebreo Cristo e, in misura ancora maggiore, agli ebrei che, rivendicando la fedeltà ai principi della loro tradizione religiosa, furono identificati come oppositori dalla stessa componente ebraica della prima comunità cristiana. L'ideale religioso, infatti, pur abbandonato dal XIX secolo da un numero non trascurabile di israeliti, ha costituito il motivo fondamentale per l'identità e l'unità degli ebrei della diaspora, dispersi nei diversi paesi, dall'Europa allo stesso Medio Oriente fino agli Stati Uniti, dal 135 d.C., anno del fallimento dell'ultima rivolta antiromana, fino alla fondazione, nel 1948, dello stato di Israele. Stabilendo un criterio univoco per identificare gli eredi di questa millenaria tradizione, etnica e religiosa insieme, il Parlamento israeliano ha definito per legge, nel 1970, come ebreo chiunque sia nato da madre ebrea.




LA TRADIZIONE DELLE ORIGINI
La ricostruzione della storia più antica degli ebrei nel quadro delle migrazioni dei popoli del Vicino Oriente fra il III e il II millennio a.C. appare oltremodo difficile. Gli studiosi fin dal XIX secolo hanno tentato di reinterpretare, specialmente sulla base dei dati archeologici, i contenuti della tradizione biblica, e soprattutto il materiale relativo all'epoca dei cosiddetti patriarchi, confluito nel libro della Genesi intorno al VI secolo a.C., epoca della sua redazione definitiva, assieme agli altri quattro libri della prima e fondamentale sezione della Bibbia: Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Se, infatti, la storia ebraica può essere ricostruita su fondamenti sufficientemente attendibili soltanto a partire dall'epoca monarchica, la tradizione religiosa degli ebrei, invece, attribuisce un'importanza centrale proprio alle vicende che precedettero questa fase più propriamente storica nel senso moderno del termine. La tradizione biblica identifica dunque gli antenati degli ebrei con i nomadi aramei della Mesopotamia meridionale, dalle cui file discenderebbe Abramo, emigrato dalla città di Ur per stabilirsi infine nella regione intorno al fiume Giordano; qui egli sarebbe divenuto il capostipite di un popolo distinto dalle altre tribù contigue, come gli ammoniti, i moabiti e gli edomiti, in quanto adoratore dell'unico Dio.

Forse connessa con l'espansione degli hyksos, i dominatori semitici dell'Egitto fra il 1694 e il 1600 a.C., è la vicenda egiziana degli ebrei che, penetrati al di là del Sinai, avrebbero conosciuto il successo e la prosperità prima di essere praticamente ridotti in schiavitù, intorno al 1570 a.C. In questo contesto storico si colloca probabilmente l'epopea della liberazione e dell'esodo al di là del Mar Rosso, episodio non documentato dalle fonti egiziane, forse a motivo dell'esiguo numero di ebrei effettivamente coinvolti, ma di importanza fondamentale per la tradizione ebraica, che identifica in Mosè il condottiero incaricato dalla divinità di guidare il suo popolo verso la libertà e la terra promessa. Mosè avrebbe ricevuto da Dio, sul monte Sinai, le tavole della legge, fondamento della vita sociale e religiosa del suo popolo, chiamato a prendere possesso di quella terra situata a occidente del Giordano la cui conquista sarebbe stata portata vittoriosamente a termine, sotto la guida di Giosuè, dalle dodici tribù di Israele.


IL REGNO
Attraversato dunque il Giordano (oltre il quale Israele si sarebbe imbattuto nella città di Gerico, miracolosamente conquistata), gli ebrei si insediarono nella Palestina occidentale, soggiogando le popolazioni locali, i cananei, e respingendo gli attacchi dei moabiti e dei filistei, un'etnia appartenente ai cosiddetti "popoli del mare" da cui prende il nome la Palestina. Consolidate le loro posizioni sotto la guida dei capi militari e civili noti come "giudici", gli israeliti raggiunsero un'effettiva unità politica con il primo re, Saul, salito al trono intorno al 1020 a.C. e caduto combattendo contro i filistei. Con il successore Davide la conquista di Gerusalemme, antica fortezza cananea proclamata capitale del regno, segnò l'inizio del periodo di massimo splendore per l'antico Israele, ormai dominatore di tutti i popoli dell'area palestinese e sempre più unito dall'ideale religioso. Salomone, figlio di Davide, promosse la costruzione del Tempio di Gerusalemme, il simbolo supremo dell'ebraismo antico, e dotò il regno di una struttura amministrativa e militare degna di una potenza internazionale, anche se la pressione fiscale e il lavoro forzato, strumenti necessari per realizzare opere poderose quali la fortezza di Meghiddo (riportata alla luce dagli archeologi fra il 1925 e il 1939), suscitarono lo scontento della popolazione, creando i presupposti per la rivolta guidata da Geroboamo. Costui, alla morte di Salomone, avvenuta intorno al 922, rientrò dall'Egitto dove si era rifugiato sotto la protezione del faraone Sisach (946-913); di fronte al rifiuto di Roboamo, figlio e successore di Salomone, di procedere ad alcune riforme in campo politico e sociale, Geroboamo condusse la spedizione militare che avrebbe portato alla divisione del regno: egli stesso sarebbe stato proclamato sovrano del Regno di Israele, costituito dalle regioni settentrionali della Palestina, mentre Roboamo avrebbe conservato la sovranità sul solo Regno di Giuda, un territorio che si estende per circa 775 km2 intorno a Gerusalemme.


Con il re Omri (876-869), fondatore, intorno all'870, della capitale Samaria, il Regno di Israele conobbe un periodo di eccezionale prosperità, mentre gli anni di suo figlio Acab furono segnati da una dura controversia religiosa scatenata dall'atteggiamento di sua moglie Gezabele, una principessa di Tiro decisa a introdurre fra gli ebrei le pratiche del paganesimo della sua terra d'origine, respinte come idolatriche dal monoteismo ebraico ed esplicitamente condannate dalla legge mosaica; è questa l'epoca dei profeti, figure come Elia, Eliseo, Amos e Osea, solleciti nel levare la loro voce contro quella che sembrava loro un'intollerabile degenerazione religiosa, un tradimento dell'alleanza con l'unico Dio. Ma sul regno incombeva ormai l'ombra degli assiri, potenza dominante del Vicino Oriente nell'VIII secolo a.C.: se un primo tentativo d'invasione, condotto nell'853 da Salmanàssar III (859-824), fu respinto da Israele, associato alla coalizione di piccoli stati guidata dal re di Damasco Ben Hadad I (morto intorno all'841), nulla poté il regno settentrionale nel 734 di fronte alle armate di Tiglatpileser III (745-727). Caduta fra il 722 e il 721 anche la roccaforte di Samaria, molti degli abitanti furono deportati e la capitale fu ripopolata con coloni assiri che avrebbero adottato la religione ebraica e costituito, con gli israeliti rimasti, la stirpe dissidente dei samaritani.

Il Regno di Giuda dovette invece soccombere alla potenza dell'impero babilonese, e già nel 598 a.C. Gerusalemme fu conquistata da Nabucodonosor II, che lasciò comunque una minima autonomia agli ebrei elevando al rango di re il principe Sedecìa; la rivolta guidata nel 588 dallo stesso Sedecìa condusse alla fine dell'indipendenza del regno, con l'intervento delle armate di Nabucodonosor che nel 586 distrussero il Tempio di Gerusalemme deportando a Babilonia l'élite intellettuale e politica del popolo ebraico.


DAI BABILONESI AI ROMANI
La comunità degli ebrei deportati a Babilonia a partire dal 597 riuscì comunque a mantenere, unendosi con i gruppi già insediatisi in quella città dopo la caduta del Regno di Israele del 721, la propria identità religiosa, soprattutto grazie all'azione del profeta-sacerdote Ezechiele, che indirizzò i compagni di esilio verso una religiosità di carattere spirituale; la preghiera divenne la pratica fondamentale dei devoti, ormai privi del tempio, luogo dei solenni riti del sacrificio. La speranza di un ritorno nella patria perduta si concretizzò nel 538 a.C., quando l'imperatore persiano Ciro il Grande, un anno dopo la sua conquista di Babilonia, restituì agli ebrei la libertà, consentendo il rientro in Palestina di una comunità di circa 42.000 individui. Guidati da Zorobabele, raggiunsero Gerusalemme determinati a ricondurre, sull'onda della predicazione vigorosa dei profeti Aggeo e Zaccaria, la loro terra all'antico splendore. Si giunse così, nel 516, alla ricostruzione del tempio, e a questa data la tradizione ebraica fa risalire la fine della cattività babilonese, attribuendole la durata convenzionale di 70 anni, dal 586 al 516. Anche se lentamente, l'opera di ricostruzione della Palestina procedette nei decenni successivi, fino al 445, anno in cui Neemia, funzionario del re persiano Artaserse I (464-424 a.C.), assunse la carica di governatore imprimendo una svolta decisiva al processo di restaurazione del regno e della religione dei padri, evoluzione che fu ulteriormente accelerata soprattutto dopo l'arrivo a Gerusalemme di Esdra, il sacerdote posto dalla tradizione a fianco di Neemia, ma più verosimilmente inviato dalla comunità babilonese solo nel 398 o nel 397 a.C.


Caratterizzò la storia degli ebrei nel IV secolo a.C. una rinascita religiosa, avvenuta quando una potente casta sacerdotale seppe imporre la legge mosaica come principio normativo fondamentale per l'intero corpo sociale, tanto che la fede comune sarebbe divenuta l'unico motivo di identificazione per un popolo peraltro privo di autonomia politica.


Con il crollo dell'impero persiano di fronte ad Alessandro Magno nel 331 a.C. e il passaggio della Palestina sotto il dominio macedone, prese avvio quel fenomeno di emigrazione che vedrà le comunità ebraiche prosperare economicamente e culturalmente nei centri della nuova compagine imperiale, dalla stessa Alessandria fino alle coste del Mar Nero: l'uso della lingua greca non farà dimenticare agli ebrei la loro tradizione religiosa, tanto che a partire dal II secolo i libri biblici verranno tradotti dall'ebraico al greco (si tratta della celebre versione dei Settanta), a uso dei fedeli che non comprendevano più la lingua dei padri. Assegnata dapprima a Tolomeo I d'Egitto in seguito alla divisione del regno fra i successori di Alessandro, dopo la sua morte nel 323, la Palestina passò nel 198 a.C. sotto il dominio di Antioco III di Siria e dei sovrani seleucidi, inclini a imporre la cultura ellenistica per cementare il proprio vasto impero. Così tentò di fare Antioco IV, che nel 168, dichiarando fuori legge la religione degli ebrei, fece collocare nel Tempio di Gerusalemme un altare in onore di Zeus. Contro questi provvedimenti si scatenò la reazione degli israeliti più devoti, guidati dal sacerdote Mattatia e dai suoi cinque figli, i Maccabei, che riuscirono, dopo un duro confronto militare, a sconfiggere le forze straniere instaurando un regno indipendente retto dalla dinastia degli Asmonei, loro diretti discendenti. In epoca asmonea, la ricerca di una visione religiosa il più possibile pura di fronte alle influenze straniere porterà alla formazione delle correnti, come quelle dei farisei, dei sadducei e degli esseni, che caratterizzeranno l'ebraismo nei secoli successivi, e all'istituzione del Sinedrio, la suprema autorità legislativa formata da 71 saggi.


L'instabilità politica caratteristica del periodo asmoneo raggiunse il suo culmine nel I secolo a.C. con la lotta tra i fratelli Ircano II e Aristobulo II, entrambi aspiranti al trono: Aristobulo, apparentemente sostenitore di Ircano, tramando dietro le quinte con i romani per risolvere il conflitto a suo favore e fare della Giudea uno stato vassallo dell'impero romano, aprì la strada all'esercito di Pompeo, che entrò a Gerusalemme nel 63 a.C. Le vicende successive portarono alla ribalta le figure di Antipatro, un Idumeo convertitosi all'ebraismo e divenuto consigliere di Ircano II, e del figlio Erode che, dopo alterne vicende, venne incoronato re nel 39 a.C. Con la riduzione della Giudea, nel 6 d.C., al rango di provincia amministrata direttamente, iniziò un periodo caratterizzato da una parte dall'attività di alcuni gruppi ebraici che, mal tollerando l'atteggiamento collaborazionista delle autorità religiose, ambivano alla liberazione dal potere romano e, dall'altra, dalla diffusione del cristianesimo, sorto in Galilea e diffusosi anche in Giudea e poi soprattutto fra i pagani, ma anche fra gli ebrei sparsi fuori della loro patria, da Babilonia a Roma, in un contesto spesso conflittuale con gli israeliti rimasti fedeli alla loro tradizione religiosa.

La rivolta antiromana promossa nel 66 d.C. dagli zeloti fu domata dalle truppe, guidate prima da Vespasiano e poi da Tito, e si concluse di fatto con la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70, anche se l'ultima roccaforte della resistenza, Masada, cadde soltanto nel 73. L'ebraismo fu praticamente sradicato dalla Giudea per iniziativa dell'imperatore Adriano, che fece di Gerusalemme una città di stile ellenistico ribattezzandola Aelia Capitolina in onore di Giove. Il fallimento della disperata rivolta condotta da Simon Bar Kokeba fra il 132 e il 135 portò a un ulteriore inasprimento delle misure contro gli ebrei, ormai posti di fronte al divieto di praticare la loro fede nella loro patria e di entrare in Gerusalemme. Nella rovina della città santa i cristiani vedranno ben presto la giusta punizione divina contro gli ebrei a motivo della loro incredulità di fronte a Cristo, e questo atteggiamento porterà, soprattutto con il trionfo del cristianesimo dopo il 313, a un'animosità crescente verso gli israeliti, esecrati come "deicidi" perché ritenuti responsabili della morte di Gesù.


FRA ISLAM E CRISTIANESIMO
Ormai lontani dalla loro patria ed esposti alle persecuzioni, gli ebrei riuscirono comunque a conservare la loro identità culturale soprattutto grazie all'opera dei rabbini, i maestri della legge, impegnati a commentare le Scritture e a codificare minuziosamente i precetti della religione dei padri: frutto di questa attività di interpretazione della tradizione antica è il Talmud, costituito dalle due sezioni della Mishnah, raccolta degli insegnamenti orali, e della Gemarah, ampio commentario alla stessa Mishnah, redatte in forma scritta, fra il V e il VI, secolo in due versioni dai maestri delle scuole religiose attive in Palestina, prima sotto i parti e poi, dal 227 d.C., sotto i Sasanidi. L'avvento dell'Islam, imposto in Mesopotamia già nel 637, non rappresentò una minaccia per la sopravvivenza delle comunità ebraiche; neppure le restrizioni imposte dal califfo Omar I, che ingiunse agli ebrei di apporre ai propri abiti un segno distintivo di colore giallo, furono considerate vincolanti nei califfati del mondo islamico. I dotti israeliti poterono così collaborare con i filosofi musulmani nello studio e nell'interpretazione delle opere capitali della filosofia greca: questa posizione di preminenza in ambito culturale e sociale caratterizzò, dopo il X secolo, la vita degli ebrei presenti in buon numero nella Spagna musulmana, dove essi raggiunsero spesso le più alte cariche politiche e amministrative e resero possibile la diffusione in Occidente dei testi dei filosofi greci, soprattutto Aristotele, traducendoli da versioni arabe.

La fine della dominazione islamica nella penisola iberica nel XIII secolo segnò per gli ebrei l'inizio dell'epoca delle persecuzioni sotto i cosiddetti "re cattolici", e già nel 1215 il concilio lateranense IV, convocato dal papa Innocenzo III, varò una politica di restrizione nei confronti delle comunità ebraiche, imponendo il segno distintivo sugli abiti e creando le premesse per l'istituzione del ghetto, il quartiere isolato entro i cui confini erano costretti a risiedere gli israeliti nelle città principali. Espulsi dall'Inghilterra nel 1290 per iniziativa del re Edoardo I e dalla Francia per decreto emanato dal re Carlo VI nel 1394, gli ebrei di Spagna furono costretti a convertirsi in massa al cristianesimo, e ben presto l'Inquisizione spagnola, istituita nel 1478, si impegnò a scovare quegli israeliti bollati come marranos (in spagnolo "porci") perché accusati di continuare a professare segretamente la propria religione nonostante l'accettazione formale della fede cristiana. Espulsi anche dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1497, gli ebrei trovarono rifugio, oltre che in Olanda e a Costantinopoli, nell'Europa orientale, soprattutto in Polonia, dove il loro numero ammontava nel 1648 a circa 500.000 individui. Qui essi vissero raccolti in comunità che godettero di una certa autonomia culturale e religiosa prima di divenire oggetto, fra il 1648 e il 1658, della violenta persecuzione scatenata dai seguaci di Bohdan Khmelnytsky, il leader dei cosacchi ucraini.


L'EPOCA MODERNA
Ritornati in Inghilterra dopo il 1650, all'epoca di Oliver Cromwell, e incoraggiati a insediarsi nelle colonie americane, gli ebrei furono riammessi anche in Francia nel 1791, nel contesto degli ideali libertari della Rivoluzione francese adottati poi da Napoleone, che nel corso delle sue campagne militari affrancò gli israeliti confinati nei ghetti delle varie città europee. La nuova politica di repressione, favorita dalla Restaurazione dopo il 1815, non bloccò comunque il processo di integrazione degli ebrei nella vita sociale dei paesi dell'Europa occidentale, e intorno al 1860 la loro cosiddetta "emancipazione" poteva dirsi fatto compiuto.

L'Europa orientale conobbe invece un'epoca di recrudescenza delle persecuzioni antiebraiche soprattutto dopo l'annessione alla Russia, fra il 1772 e il 1796, delle regioni orientali della Polonia; il regime zarista favorì direttamente i pogrom, periodici massacri di ebrei, la cui presenza era considerata una fonte di diffusione degli ideali liberali nel contesto ancora semifeudale dell'impero russo della fine del XIX secolo. Per sottrarsi alle persecuzioni, scatenate fino alla rivoluzione comunista del 1917, circa due milioni di israeliti viventi nei territori posti sotto il controllo russo emigrarono negli Stati Uniti fra il 1890 e la fine della prima guerra mondiale, unendosi alle comunità già presenti in quel paese fin dal 1654, anno dell'immigrazione di un gruppo di marranos brasiliani, a cui fece seguito l'insediamento, dal 1780, e, in misura maggiore, dal 1815, di ebrei europei e soprattutto, dopo il 1848, tedeschi. Nel 1924, pertanto, la popolazione statunitense di origine ebraica ammontava, quando furono imposti limiti al flusso migratorio, a circa tre milioni di unità.

L'emancipazione ormai raggiunta in Europa occidentale spinse gli ebrei a superare il loro isolamento integrandosi nella vita sociale e politica dei paesi in cui si trovavano, e il XIX secolo conobbe così, accanto a figure come quella di Moses Mendelssohn, traduttore della Bibbia in tedesco e fondatore di un ebraismo che sarà detto "riformato" a motivo dell'atteggiamento di apertura verso le istanze della cultura moderna, personaggi quali il poeta tedesco Heinrich Heine, ebreo convertito al cristianesimo, e lo statista inglese Benjamin Disraeli, figlio di un ebreo convertito. Se Karl Marx e Sigmund Freud erano ebrei apparentemente lontani dalla cultura dei padri, come anche Albert Einstein e il pittore Camille Pissarro, i decenni a cavallo fra il XIX e il XX secolo saranno caratterizzati dall'attività di alcuni movimenti che, prendendo le mosse dalle istanze di rinascita culturale tipiche della Haskalah, o "illuminismo ebraico", inviteranno le comunità israelitiche a riscoprire, anche al di fuori della dimensione religiosa, la propria identità tradizionale e la propria storia, promuovendo il ritorno all'uso dell'ebraico come lingua parlata (vedi Ebraismo riformato).


Quest'epoca di intensa attività intellettuale sarà caratterizzata dal sorgere di una nuova forma di ostilità nei confronti della popolazione di origine ebraica, il cosiddetto antisemitismo, termine utilizzato per definire l'atteggiamento proprio dei diversi movimenti di pensiero inclini a individuare gli ebrei, indipendentemente dal loro orientamento in materia politica e religiosa, come componente razziale da considerarsi comunque non appartenente al novero dei popoli europei. Il diffondersi di posizioni di questo genere in Francia condizionò sicuramente la vicenda nota come affare Dreyfus, dal nome dell'ufficiale ebreo ingiustamente condannato per tradimento al termine di un celebre processo, che ebbe fra i suoi spettatori più attenti l'ebreo austriaco Theodor Herzl. Quest'ultimo, nel 1896, fondò il movimento del sionismo, per dare voce agli israeliti decisi a rivendicare la creazione di uno stato ebraico indipendente come unica soluzione al problema dell'antisemitismo e di ogni forma di intolleranza. Le speranze del sionismo si realizzeranno compiutamente soltanto nel 1948, con la creazione dello stato d'Israele dopo le tragiche vicende della Shoah, lo sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti negli anni della seconda guerra mondiale.

STORIA DI ISRAELE
Anche se lo stato d'Israele dichiarò la propria indipendenza il 14 maggio del 1948, la storia moderna della nazione ha avuto inizio con il movimento sionista, fondato ufficialmente da Theodor Herzl a Basilea nel 1897 e sostenuto dalla diaspora ebraica.


Il "focolare nazionale"

Il numero degli ebrei presenti in Palestina all'inizio del XX secolo era esiguo, ma in progressivo aumento, passando da 12.000 presenze nel 1845 a quasi 85.000 nel 1914. Già all'epoca della prima guerra mondiale il movimento era sostenuto dalla Gran Bretagna, che approvò, il 2 novembre 1917, la dichiarazione di Balfour, nella quale si impegnava a creare un "focolare nazionale ebraico" in Palestina. Nel 1922 i termini di tale dichiarazione furono inclusi anche nel mandato palestinese approvato dalla Società delle Nazioni, che affidava alla Gran Bretagna l'amministrazione dell'area. A partire da questo momento la comunità ebraica (Yishuv) crebbe notevolmente, in special modo negli anni Trenta, quando un elevato numero di ebrei fuggì dall'Europa per sottrarsi alle persecuzioni del nazismo. Tel Aviv divenne il maggiore centro di accoglienza e in tutto il territorio furono fondate decine di nuovi villaggi e centinaia di aziende agricole collettive (Vedi Kibbutz); inoltre, molti partiti politici fondati nell'Europa orientale come parte del movimento sionista mondiale, svilupparono le proprie basi anche in Palestina.

Nel frattempo, sotto l'egida dell'Organizzazione sionistica mondiale e dell'Agenzia ebraica per la Palestina (che provvedevano alla raccolta di fondi all'estero nonché alla ricerca di appoggio da parte dei governi occidentali), l'Yishuv aveva esteso le proprie istituzioni amministrative. Tra queste vi erano un'Assemblea elettiva e un Consiglio nazionale, che si occupava di ogni aspetto della vita quotidiana; le questioni religiose erano controllate dal Consiglio dei rabbini. Si svilupparono anche i primi organi di governo locale e si diede una prima organizzazione al sistema educativo, che puntava alla diffusione di una lingua e di una cultura comuni.


Rivolte arabe ed ebraiche

Le questioni riguardanti la difesa, la sicurezza, l'immigrazione e persino il servizio postale e i trasporti erano gestite da un alto commissario britannico nominato dal governo di Londra. Gli inglesi cercavano di mantenere un delicato equilibrio tra gli interessi della comunità ebraica e quelli della popolazione araba, ma con l'aumentare delle ondate immigratorie ebraiche l'opposizione araba al dominio britannico e al sionismo si fece sempre più intransigente, culminando in estese rivolte a partire dal 1936. Durante la guerra, tuttavia, a causa del massacro cui era sottoposta la popolazione ebraica da parte dei nazisti (Vedi Shoah), i sionisti intensificarono le richieste per l'autonomia interna e tentarono di facilitare con tutti i mezzi l'immigrazione (anche clandestina) in Palestina, dove la comunità ebraica si opponeva, spesso in modo violento, alle autorità mandatarie inglesi.


La nascita dello stato di Israele

Nel 1947 gli inglesi chiesero l'intervento della neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, che stabilì un piano per la divisione della Palestina in due stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo, mentre Gerusalemme sarebbe diventata zona internazionale controllata direttamente dall'ONU. Il 14 maggio 1948, a Tel Aviv, un governo provvisorio proclamò la nascita dello stato d'Israele "aperto all'immigrazione di ebrei provenienti da tutte le parti del mondo"; il giorno seguente gli eserciti di Egitto, Transgiordania (l'attuale Giordania), Siria, Libano e Iraq si unirono alle popolazioni palestinesi e alla guerriglia araba che stavano lottando contro le forze ebraiche sin dal novembre del 1947, dando avvio alla prima guerra arabo-israeliana. Gli arabi, tuttavia, non riuscirono a evitare la formazione del nuovo stato e la guerra si concluse nel 1949 con quattro armistizi approntati dall'ONU tra Israele ed Egitto, Libano, Giordania e Siria.

Il conflitto alterò profondamente gli equilibri etnici. Gli accordi estesero il territorio israeliano al di là dei confini stabiliti inizialmente dall'ONU (da circa 15.500 a 20.700 km2), comprendendo anche la parte nuova di Gerusalemme, che fu eretta a capitale; la striscia di Gaza, sul confine tra Israele ed Egitto, venne affidata a quest'ultimo, mentre la Cisgiordania e la parte antica di Gerusalemme furono annesse dalla Giordania. Degli oltre 800.000 arabi che abitavano la Palestina nel 1949, ne rimasero solamente 170.000; i rimanenti si rifugiarono nei paesi confinanti. Nel 1949 si tennero le prime elezioni per la Knesset (il Parlamento) e Chaim Weizmann, eminente leader sionista, divenne il primo presidente del paese.

I

l governo di Ben Gurion

La carica di primo ministro spettò a David Ben Gurion, leader del Mapai. Questi pose l'accento sulla sicurezza nazionale e sullo sviluppo di un esercito moderno, il quale divenne anche il centro educativo per centinaia di migliaia di nuovi cittadini dello stato israeliano. Infatti, in seguito alle massicce ondate immigratorie (soprattutto di sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti) verificatesi subito dopo la seconda guerra mondiale, nel 1952 la popolazione del paese era raddoppiata. Alcuni anni dopo cominciarono ad affluire ebrei dai paesi musulmani del Medio Oriente e dell'Africa del Nord e nell'arco di tre decenni la popolazione si era quintuplicata. Nei suoi primi anni di vita il nuovo stato dovette far fronte a non pochi problemi e, nonostante gli aiuti degli Stati Uniti, i primi anni Cinquanta furono caratterizzati da recessione economica e inflazione.

Il secondo conflitto arabo-israeliano I tentativi di convertire gli armistizi del 1949 in trattati di pace fallirono e a ogni azione di guerriglia dei rifugiati arabi Israele rispondeva con una rappresaglia. Il rifiuto egiziano di concedere il libero passaggio alle navi israeliane attraverso il canale di Suez, da poco nazionalizzato dal presidente egiziano Gamal Abd el Nasser, e il blocco dello stretto di Tiran, l'accesso di Israele al Mar Rosso, vennero considerati atti di guerra e gli incidenti di frontiera con l'Egitto aumentarono sino a sfociare nel secondo conflitto arabo-israeliano (Vedi Crisi di Suez). Con l'appoggio di Gran Bretagna e Francia, Israele si assicurò una facile vittoria e in pochi giorni prese possesso della striscia di Gaza e della penisola del Sinai. Tuttavia, mentre le forze israeliane al comando di Moshe Dayan raggiungevano il canale di Suez e inglesi e francesi iniziavano il loro attacco, i combattimenti furono fermati dall'ONU (appoggiata da USA e URSS), che inviò sul posto alcuni contingenti; i tre paesi invasori furono costretti a lasciare la zona del canale, ma gli israeliani si rifiutarono di abbandonare Gaza sino agli inizi del 1957, quando fu riaperto lo stretto di Tiran.


Gli ultimi anni di Ben Gurion

Durante l'ultimo governo di Ben Gurion, Israele continuò a potenziare l'esercito (soprattutto l'aviazione); la situazione economica migliorò e fu creata una rete idrografica al fine di facilitare lo sviluppo dei nuovi insediamenti nelle regioni meridionali del paese. Sebbene di dimensioni più contenute, il flusso di immigrati provenienti perlopiù dal Marocco continuò anche nei primi anni Sessanta e uno dei problemi fu l'assorbimento dei nuovi arrivati, notevolmente più poveri dei precedenti. Ben Gurion si dimise nel 1963 e gli succedette Levi Eshkol. Nel 1965 l'ex primo ministro lasciò il Mapai - il quale, fusosi con altri gruppi di sinistra, andò a formare il Partito laburista, che governò fino al 1977 - per andare a costituire un gruppo di opposizione chiamato Rafi. I due maggiori partiti di opposizione, liberali e Herut, si fusero nel 1965 nel Gahal, guidato da Menhaem Begin, e diedero in seguito vita al Likud.


La guerra dei Sei giorni

Dopo il conflitto del 1956 il nazionalismo arabo toccò l'apice e nel 1967 la costituzione di un contingente militare arabo unito, la chiusura dello stretto di Tiran e il ritiro delle truppe dell'ONU dalle zone di confine meridionali, indussero Israele ad attaccare contemporaneamente la Giordania, la Siria e l'Egitto (Vedi Guerre arabo-israeliane; Guerra dei Sei giorni). Forti della loro supremazia aerea, dopo sei giorni di combattimento gli israeliani ebbero la meglio. Al termine della guerra, Israele - contro le risoluzioni dell'ONU - prese possesso di Gaza e della penisola del Sinai, della zona araba di Gerusalemme (Gerusalemme orientale) e della Cisgiordania (sottratte alla Giordania), delle alture del Golan (già appartenenti alla Siria), raggiungendo un'estensione quattro volte superiore rispetto a quanto stabilito dall'armistizio del 1949. I territori occupati erano abitati da circa un milione e mezzo di palestinesi.


I territori occupati e la resistenza araba

Dopo il conflitto, la questione dei territori occupati dominò il dibattito politico. La destra politica e i leader dei partiti religiosi ortodossi si opponevano al ritiro dalla Cisgiordania e da Gaza, che consideravano parte del paese, mentre nel Partito laburista si discuteva se fosse opportuno il ritiro o il mantenimento delle posizioni acquisite; infine, numerosi partiti di minoranza, inclusi i comunisti, si opponevano all'annessione. Alcuni giorni dopo la fine della guerra, tuttavia, Israele unì formalmente le due zone di Gerusalemme. A ciò fece seguito una recrudescenza del nazionalismo arabo palestinese; alcune fazioni interne all'Organizzazione per la liberazione della Palestina intrapresero attacchi terroristici contro scuole, mercati e aeroporti israeliani con l'obiettivo dichiarato di liberare la Palestina.

La guerra del Kippur e le sue conseguenze
Nel 1973 l'Egitto si unì alla Siria in una nuova guerra contro Israele, per recuperare i territori perduti nel 1967 (Vedi Guerre arabo-israeliane; Guerra del Kippur). I due stati arabi sferrarono un attacco a sorpresa il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur, la maggiore festività israeliana; tuttavia le forze israeliane reagirono e, sebbene con molta difficoltà, sconfissero gli avversari nel giro di tre settimane. Alla fine della guerra, l'Arabia Saudita e altri paesi produttori di petrolio ridussero le proprie esportazioni di greggio agli Stati Uniti e ad altre nazioni occidentali per l'aiuto prestato a Israele. In seguito, nel tentativo di incoraggiare una sistemazione pacifica della regione, il presidente americano Richard Nixon incaricò il segretario di stato, Henry Kissinger, di condurre i negoziati tra Israele, Egitto e Siria, che portarono, nel 1974, alla smilitarizzazione del Sinai e delle alture del Golan.

La conclusione della guerra del Kippur non pose fine né ai disordini, né all'insoddisfazione generale nel paese (anche per quanto riguardava la conduzione della guerra) che portarono, nell'aprile del 1974, alle dimissioni del primo ministro Golda Meir (succeduta a Eshkol nel 1969) e del suo governo. Alla Meir successe Yitzhak Rabin, che non riuscì comunque ad arrestare la spirale inflazionistica e ad attenuare le difficoltà economiche. Il suo partito perse così le elezioni del 1977 e Begin, leader del Likud e contrario a qualsiasi concessione territoriale o politica ai palestinesi, assunse la guida del paese.


Il governo di Begin
Il programma economico conservatore del nuovo governo, che mirava ad arginare il deterioramento dell'economia (dovuto soprattutto alle ingenti spese militari), fallì. Malgrado la sua politica volta a favorire la formazione di nuovi insediamenti israeliani nei territori occupati e le sue azioni militari contro le zone meridionali del Libano, Begin fu il primo leader israeliano a raggiungere un accordo di pace con uno stato arabo; tale accordo fu il risultato di una sorprendente iniziativa del presidente egiziano Anwar al-Sadat, il quale nel novembre del 1977 si recò a Gerusalemme per intraprendere negoziati di pace. Questi, mediati dal presidente americano Jimmy Carter a Camp David (Maryland, USA), condussero alla firma del trattato di pace tra Egitto e Israele (Washington, 26 marzo 1979), il quale prevedeva la restituzione del Sinai all'Egitto, rafforzando così il controllo israeliano in Cisgiordania. L'accordo firmato con Israele costò all'Egitto l'espulsione dalla Lega araba. vedi Accordi di Camp David


Israele negli anni Ottanta
Nel 1981, anno in cui il Likud tornò alla guida del paese, Israele inviò alcuni bombardieri a distruggere un reattore nucleare in costruzione nei pressi di Baghdad, in Iraq, suscitando reazioni negative a livello internazionale, che furono accentuate poi dall'annessione unilaterale delle alture del Golan. Nonostante questi sviluppi e le complicazioni causate dall'assassinio di Sadat (ottobre 1981), nel 1982 venne completato il ritiro israeliano dal Sinai. Due mesi dopo Israele invase il Libano, con l'intenzione di disfarsi della presenza dell'OLP in quell'area e di instaurarvi un governo filoisraeliano; dopo aspri combattimenti nei dintorni di Beirut, i palestinesi ritirarono le proprie forze dalla città, mentre le truppe israeliane rimasero di stanza nella zona meridionale del paese. In seguito alle proteste internazionali - dovute anche al vasto massacro commesso da milizie cristiane nei campi profughi palestinesi controllati dagli israeliani - e alla continua crisi economica, Begin annunciò le sue dimissioni da primo ministro e da leader del Likud nell'agosto del 1983; gli succedette il ministro degli Esteri Yitzhak Shamir. Nelle elezioni del 1984 vinsero di stretta misura i laburisti che, insieme al Likud, formarono un governo unitario, nell'intento di ristabilire le relazioni internazionali. La carica di primo ministro fu così affidata a Shimon Peres, leader laburista fino al 1986, quando fu sostituito da Shamir.


Le rivolte palestinesi

I rapporti tra israeliani e palestinesi entrarono in una nuova fase nei tardi anni Ottanta, con l'avvio dell'intifada (1987), una serie di rivolte palestinesi nei territori occupati. La dura risposta del governo attirò le critiche dell'Occidente e dell'ONU. La coalizione Likud-laburisti crollò nel 1989 e Shamir guidò un governo provvisorio sino al giugno del 1990. Tra il 1989 e il 1990 giunsero oltre 200.000 ebrei dall'Unione Sovietica; questa nuova ondata immigratoria minò gravemente la già debole struttura economica del paese. Durante la guerra del Golfo, in cui molti palestinesi appoggiarono l'Iraq, numerosi missili Scud colpirono ripetutamente Israele, ma Israele non si lasciò coinvolgere nel conflitto.


Verso la pace
I primi colloqui di pace tra Israele, le delegazioni palestinesi e i confinanti stati arabi iniziarono nell'ottobre del 1991. Nel 1992 il Likud perse le elezioni parlamentari e il leader del Partito laburista Yitzhak Rabin formò un nuovo governo. Nel 1993 il primo ministro Rabin e il leader dell'OLP Yasser Arafat firmarono a Washington uno storico trattato di pace (frutto di un lungo lavoro preparatorio svoltosi nei mesi precedenti a Oslo in gran segreto). Il leader palestinese riconosceva a Israele il diritto a esistere come stato; Israele si impegnava a concedere l'autogoverno palestinese nei territori occupati, prima nella striscia di Gaza e nella città di Gerico e successivamente in altre aree della Cisgiordania.

Nel maggio dello stesso anno, le truppe israeliane si ritirarono da Gerico e dalla striscia di Gaza, che passarono sotto l'autorità palestinese. A luglio, Rabin e Hussein di Giordania firmarono a Washington un accordo di pace che, fondamento per il vero e proprio trattato del 26 ottobre, pose fine a 46 anni di guerra tra i due paesi.


Lo stallo

Le trattative tra Israele e Siria nell'aprile del 1995 furono bloccate dal disaccordo sul possesso delle alture del Golan; nello stesso mese il governo annunciò l'espropriazione delle terre arabe a Gerusalemme orientale. La lentezza nell'applicazione degli accordi di Oslo intanto causava nei territori occupati un grande malcontento verso l'autorità palestinese e un rafforzamento delle forze ostili all'accordo di pace, in particolare i movimenti integralisti islamici Hamas e Jihad, che intensificarono l'attività terroristica compiendo gravi attentati nelle città israeliane. Anche in Israele si rafforzarono le posizioni di quanti erano ostili all'accordo di pace e furono commessi diversi attentati contro la comunità arabo-israeliana (ad esempio a Hebron, dove un militante della destra integralista ebrea fece un'irruzione armata in una moschea uccidendo 29 persone). Ma malgrado le proteste spesso violente, il processo di pace non si arrestò.


L'assassinio di Rabin

Il 4 novembre 1995 il primo ministro Rabin fu assassinato da Yigal Amir, un estremista ebreo; l'episodio suscitò una profonda emozione e la reazione della società israeliana fu immediata e massiccia. Il paese voleva la pace, ma, lacerato dalle divisioni, era sull'orlo della guerra civile. Tra febbraio e marzo del 1996 attentati islamici colpirono le maggiori città israeliane causando decine di vittime.

Alle elezioni del maggio 1996 il Likud - che aveva condotto una campagna all'insegna della sicurezza e che fino a pochi giorni prima era ritenuto sfavorito - vinse le elezioni per una differenza di appena 26.000 voti. Benjamin Netanyahu, il leader del partito, fu eletto primo ministro e formò un governo con i partiti della destra religiosa, contrari all'accordo di pace e fautori dell'estendersi della colonizzazione israeliana nei territori occupati.


Crisi del processo di pace

Dal 1996 il governo israeliano ribadì più volte la necessità di rivedere gli accordi di Oslo, sia per quanto riguardava l'autonomia palestinese, sia, e soprattutto, per quanto riguardava la possibilità di insediare nuove colonie ebraiche nei territori occupati. Le crisi nelle relazioni israelo-palestinesi da allora si susseguirono, arrivando nel settembre allo scontro armato tra esercito israeliano e polizia dell'autorità palestinese, che causò 76 morti e centinaia di feriti.

La situazione non migliorò nel 1997, quando il continuo rinvio dell'applicazione degli accordi di Oslo e ulteriori concessioni alla destra religiosa da parte del governo israeliano (come l'approvazione di un'altra colonia, la sesta, a Gerusalemme Est) cacciarono il processo di pace in un vicolo cieco. Verso la metà dell'anno, nell'intento di far avanzare le relazioni tra le due parti in conflitto e far uscire Israele dall'isolamento internazionale, ripartì l'attività diplomatica statunitense, che tuttavia non ottenne i risultati sperati.

Infatti, dopo un ulteriore accordo sottoscritto nel 1998 tra Israele e Palestina a Wye Plantation negli Stati Uniti, il processo di pace si arenò nuovamente per la forte opposizione dei settori ultraortodossi e tradizionalisti della società israeliana.


Sviluppi recenti
A cinquant'anni dalla sua nascita, il paese è profondamente in crisi e la sua società appare divisa: la parte più laica, sostenitrice del Partito laburista e degli altri partiti di sinistra, è ormai favorevole alla creazione di uno stato palestinese; la parte più conservatrice, legata al Likud, è ambigua sulla restituzione dei territori ed è fortemente condizionata dai settori religiosi ortodossi, decisamente ostili al processo di pace e in parte favorevoli a un disegno di modificazione dello stesso stato in senso teocratico. La politica di Netanyahu, sospesa tra una formale adesione agli accordi e una sostanziale elusione degli stessi, è stata infine bocciata dall'elettorato israeliano nelle elezioni del maggio 1999, quando il premier uscente ha ottenuto il 43,9% dei voti contro il 56,1% del leader laburista Ehud Barak. Il risultato del partito di Natanyahu è stato altrettanto deludente; il Likud ha infatti conquistato solo 19 dei 120 seggi della Knesset, contro i 27 di Yisrael Akhat (un unione di tre partiti guidata dai laburisti) e i 17 dello Shas, il partito ultraortodosso.




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