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ARTE E SENSO DI INQUIETUDINE - ILLUMINAZIONI OSCURE

interdisciplinare



ARTE E SENSO DI INQUIETUDINE


Tesina multidisciplinare




Introduzione:


Questa tesina multidisciplinare rappresenta un lungo percorso, un approfondito durato un anno intero: in esso trovano spazio la musica, l'arte surrealista, la poesia e la narrativa. Tematiche pervase da un senso di inquietudine e di mistero. Ed è di artisti definiti "maledetti" che tratterò nelle pagine seguenti.


Materie coinvolte nel percorso multidisciplinare:


Musica: Nick Cave e i grandi Pink Floyd



Arte: H.R.Giger e Fussli

Poesia: Poe, Baudelaire e Rimbaud

Narrativa: I racconti dell'orrido di Poe



ILLUMINAZIONI OSCURE

I FIGLI DEL BUIO



Viviamo in una fase di passaggio, scenari di mutazione non ancora ben definiti sono in atto, ovunque si avverte la necessità di una radicale ri-scrittura dei codici bio-culturali del mondo occidentale; il percorso che le arti contemporanee hanno compiuto alla fine del secondo millennio è dei più inconsueti, credo, anche se raffrontato con periodi già molto anomali come quello della seconda metà dell'Ottocento e della prima metà del Novecento.

Un artista come H.R. Giger, la cui attività è ancora in pieno svolgimento, ha saputo coniugare, senz'altro, gran parte delle nuove tendenze estetiche dell'ultimo Novecento. Giger apre la sua mente e ne fa uscire cose spaventose: i suoi dipinti e più in generale tutte le sue creazioni derivano, come dice lui stesso, "direttamente dal suo lato oscuro" da quell'altra parte di lui che emerge più di tutte le altre e che gli permette di essere l'artista che ha avuto un incredibile successo. Risulta difficile etichettare l'arte di Giger: artista multimediale, negli ultimi venticinque anni ha anticipato il futuro, divenendo celebre, 525c25f non solo attraverso pittura scultura e cinema, (molti lo ricorderanno come l'ideatore del mostro Alien), ma anche attraverso l'utilizzo di veicoli non strettamente artistici ma più legati alla cosiddetta "arte applicata". Egli ha disegnato le più belle copertine di dischi dell'intera storia del Rock, (Emerson Lake & Palmer, Danzig, Steve Stevens, Carcass), ha collaborato a riviste culto degli anni Settanta come la francese "Metal Hurlant", ha seguito progetti scenografici e di costumi per innovativi film fantascientifici (ricordavo Alien ma anche, Dune, Poltergeist, Predator, fino all'ultimo Species).

Giger ha "ri-progettato" un futuro in modo molto diverso da ciò che l'iconografia fantascientifica classica ha sempre rappresentato: la grande intuizione di Giger è che il futuro, la macchina, la comunicazione, la tecnologia avrebbero cambiato non il mondo ma l'uomo stesso, strutturalmente, geneticamente. Una provocazione estrema: la nascita del biomeccanoide, sesso e metallo, sangue e neo-tecnologie, in un'unica soluzione.

I biomeccanoidi gigeriani, creature lovecraftiane ridisegnate al computer graphic, sono esseri ambigui, commistione tra organico e inorganico, fra vivente e non-vivente: qualcosa di più del cyborg, in quanto il non-organico comincia a prevalere togliendo ogni residuale speranza d'umano e umanità.

Nell'intera opera di Hans Rudy Giger troviamo influenze che vanno da Lovecraft ad Albrecht Durer, da Max Ernst a Salvador Dalì, da autori della corrente cyberpunk a pittori come Ralph Abati. Tra il trauma della nascita e la maledizione della morte, Giger, permeando tutta l'intera opera con un fortissimo erotismo, combina e favorisce accoppiamenti contronatura che testimoniano il terribile piacere e nello stesso tempo il piacevole sgomento della perdita del corpo. Ed è proprio il corpo, che nel terzo millennio il senso comune comincia ad identificare come costruzione culturale, come terreno di costruzione dell'immaginario, diventa una nuova inquietante terra di conquista, territorio in cui esplodono tensioni e perversioni che nelle epoche passate erano rimaste allo stato latente. Giger dipinge nuove formule liberatorie della sessualità e del desiderio che trovano a loro volta espressioni in un'arte che fa della vita il suo campo d'azione. Tutti i propri incubi Giger li ha esorcizzati trasformandoli in arte grazie a quel micidiale psicanalista che nelle sue mani diventa l'aerografo. Nella sua personale galleria ogni cosiddetta devianza diventa il nostro sabba quotidiano ed inevitabile, ed il sesso diventa un monumento alla vita, alla morte, alla resurrezione.

La ricreazione della vita, la progettazione dell'esistenza, la visione del futuro, sono state pulsioni fondamentali di quell'arte che ha perseguito come proprio fine la sperimentalità, dal livello estetico a quello sociale e culturale: questa è l'arte di Giger. Un'arte che s'interroga sulla caduta dell'universo antropocentrico, sulla natura artificiale generata dall'uomo, sui nuovi linguaggi tecnologici, sulla totalità esistenziale dell'individuo, sulla sua nuova dimensione ambientale.

Ciò che accomuna molti artisti contemporanei è l'evidente intento di scardinare i canoni estetici dell'arte, rivoluzionare il sentire artistico, il percorso creativo e la produzione. Questi artisti, tra i quali Giger è uno dei casi più rappresentativi, possono non usare direttamente il proprio corpo, ma creano immagini volutamente provocatorie colpendo i simboli inconsci dell'immaginario comune, scardinando tabù ancestrali legati al sesso come alla morte.


Giger precursore di nuove forme espressive, ha seguito l'evoluzione di quelle forme d'arte che dalla pittura alla scultura sono passate in brevissimo tempo al computer image e all'olografia. Egli ha saputo dimostrare come fare arte attraverso gli strumenti tradizionali non significhi affatto rinunciare alle grandi questioni teoriche, alla contemporaneità, trovando, in un perfetto equilibrio "ispirativo" tra passato e futuro, un modo estremamente originale per farlo.

Nel 1973, Giger dipinse un'opera che chiamò Paesaggio XVIII: al posto degli alberi che qualcuno avrebbe potuto aspettarsi, erano raffigurati con maniacale precisione dei bambini dall'aria malaticcia, ripetuti all'infinito, come un mosaico di facce. Alcuni con la bocca spalancata, altri coperte di bolle gonfie, gli occhi chiusi in fessure, le manine costrette accanto ai corpi seminascosta da una sostanza simile alla mucosa, quasi fossero cellule di un organismo. Il buio, le armi da fuoco, gli ambienti apparentemente privi di dimensioni, la paura e la sofferenza, certe pose erotiche, ibridi biomeccanici: queste cose ossessionano la sua mente instabile, ammalata di depressione.

L'opera di Giger ci sconcerta perché, per dirla con le parole di Timothy Leary, uno dei protagonisti del Cyber psichedelico, "Ci mostra fin troppo chiaramente da dove veniamo e dove andiamo". Nei suoi dipinti è come se Giger sezionasse tessuto cellulare per mostrarlo al mondo; ci vediamo come embrioni striscianti, creature larvali o fetali in attesa del momento della metamorfosi e della rinascita biomeccanica. Sono immagini colorate e visionarie, dove le nostre città e la nostra civiltà diventano arnie popolate da creature striscianti, (si pensi a "Alien" di Ridley Scott), che sono in parte biologiche e in parte circuiti e meccanismi. Nei quadri di Giger, lo sfondo si ibrida spesso con i soggetti ritratti, inglobandoli e nutrendosene. E a volte sono gli stessi soggetti a costituire lo sfondo dell'opera, come nella serie dei Paesaggi biomeccanici. Ossa ed endoscheletri al titanio, carne e membrane elastiche, tubi e vene emergono indifferenziati a costituire corpi-macchina, corridoi di nervi e muscoli, cyborg torturati, atmosfere che sembrano usciti dal Mondo nuovo di Huxley.

Le tele gigantesche spruzzate con l'aerografo sono veri e propri ipertesti che illustrano la "trasmigrazione biomeccanica dell'anima" (titolo di un quadro di Giger), la mutazione dei nostri corpi e dei nostri strumenti in una nuova entità. Come un cancro creatore, il metallo degli oggetti di cui ci circondiamo si insinua sotto la pelle e ci modifica, arricchendo i nostri corpi di nuovi, infiniti sensi.

Le strutture raffigurate nelle opere di Giger sembrano parti di immense macchine, di cui gli esseri viventi sono parte integrante. E l'artista non sembra essere attratto tanto dalla funzione della macchina, quanto dalla sua fattibilità, almeno artistica. Ma la visione, pur in apparenza da incubo, non è da vedersi in chiave pessimistica, come profezia di una tecnologia che asserve l'uomo. Come ha scritto Timothy Leary, "... in queste opere ci vediamo come embrioni striscianti, come creature fetali, larvali, protette dall'involucro dei nostri ego, in attesa del momento della metamorfosi e della rinascita... Giger ci dà il coraggio di salutare il nostro io insettoide".


"The Master of Fantastic Art." - Omni Magazine

"Giger, you are an alien lurking inside my body, laying you futique eggs of wonder." - Timothy Leary

"His machine-like humans, or 'biomechanoids', have had a profound influence on science fiction." - Penthouse Magazine

"Giger surely has one of the most original visions in late 20th-century art." - Clive Barker

"A mysterious blend of erotic beauty and ferocity." - New York Times

Circa due secoli prima Johann Heinrich Fussli dipingeva "La favola del bambino cambiato", ispirata alle inquietanti leggende secondo cui i Demoni della notte, con un incantesimo, mutano l'indole dei bambini nella culla, rendendoli infanti malefici. A questa stessa leggenda farà in seguito riferimento, all'inizio del nostro secolo, lo scrittore H.P.Lovecraft: in un suo racconto egli narrò la discesa nell'inferno e la follia di un pittore decisamente troppo bravo nel creare quadri allucinanti e spaventosi, tento verosimili da sembrare fotografie. Lovecraft è stato anche autore del famosissimo Necronomicon, il libro delle "anime perdute"; e Giger, dal canto suo, pubblicò negli anni '70 una raccolta di dipinti che si intitolava proprio Giger's Necronomicon... difficile definirle coincidenze. Tutto ebbe inizio alla fine del '700. Ormai estranei al freddo razionalismo di quel secolo prossimo al tramonto, i primissimi Romantici, che ancora non sapevano di chiamarsi così, persero ogni fiducia nelle certezze e nelle cose del mondo, e si tuffarono in se stessi, riscoprendo il valore della soggettività, della passione e del sentimento più profondo e ardente. Alla consapevolezza della genesi emozionale dell'Arte seguì l'esaltazione della creatività, come tramite fra l'artista e la realtà trascendente, e del divino dono dell'artista, il Genio. Fu allora che intuirono l'esistenza dell'inconscio. La Voragine accanto all'Io. L'Altro. La coscienza dell'inconscio fu la scintilla che accese nei loro cuori il desiderio di esplorare le zone inesplorate della mente: le zone più remote, le più oscure. Dal Buio emerse allora l'amore; l'amore per il simbolismo e le forme d'espressione primordiali, per gli archetipi (come i vampiri, demoni di origine popolare); per il Sublime (che è immenso e lascia l'uomo senza fiato), per la Bellezza trascendente e l'Oltre; e naturalmente l'amore per la notte ed i sogni. La notte rappresenta non solo il prevalere delle tenebre sulla luce, ma anche l'oscurità più antica, e pura, il buio profondo che cela in sé l'origine caotica delle forze vitali. Gli Scapigliati erano soliti riunirsi nei cimiteri di notte, per godere dell'incanto lugubre di tombe ed angeli di pietra. Poe e Lovecraft, dal canto loro, ambientarono la maggior parte dei loro racconti di notte, o in luoghi estremamente bui e cupi. A mio parere, l'opera più incantevole di Fussli è L'incubo.


Il tema dell'incubo notturno si prestava particolarmente allo spirito romantico e visionario di Fussli, che lo trattò diverse volte seguendo uno stesso modulo compositivo. In Fussli, ricordi della classicità -la donna richiama figure dell'arte greca- rivivono interpretate in chiave fantastica e grottesca. L'uso del colore aumenta la dimensione onirica del quadro: la pennellata liquida disegna figure sfumate, mentre l'inserzione di poche note di colore in un dipinto quasi monocromo -il rosa delle carni e dei calzari della donna, sottolinea la componente sensuale dell'opera. La donna è maestosa, distesa sul letto mentre è preda di incubi notturni. La posizione del corpo e l'espressione dolorosa del volto indicano il tormento, accentuato dalla forte illuminazione che contrasta con le tinte cupe che dominano il quadro. Lo sfondo scuro del dipinto allude a uno spazio appena conoscibile, ma acquista una forte valenza simbolica: dal buio profondo e sfumato che avvolge la scena, emerge il muso della Cavalla nera della notte, la night mare.

La notte impressiona notevolmente la mente di questo pittore, ma non solo la sua mente: è il momento in cui si sogna e il sogno è il momento in cui il nostro inconscio può esprimersi liberamente e fluire verso altri mondi: i nostri sensi sono liberi da ogni legame. Il sogno quindi è l'attimo della verità, il tunnel che innalza la nostra mente oltre queste spoglie mortali. Le poesie di Rimbaud sono per certi versi l'emblema dell'Oscurità innalzata ad opera d'Arte. Il tormentato poeta fu una candela che bruciando il doppio, bruciò per metà tempo. Le sue poesie sono illuminazioni, alchimie del Verbo, ardenti capolavori che ci catapultano nella spirale della perdizione (prima di morire, giovane, affermerà, nauseato: "Merda anche alla poesia!"), nel confronto eterno dell'artista col Genio. Fra stagioni all'Inferno ed attimi di estasi al cospetto dell'assoluto, il poeta "malato" dipinge il suo delirio artistico con versi in cui realtà e sogno si fondono di continuo, come in una sublime allucinazione costantemente sospesa fra due mondi (Rimbaud tra l'altro aveva decisamente in simpatia certe sostanze allucinogene, che senz'altro non sono estranee al clima di molte sue poesie).

Per quanto riguarda la musica, molti artisti hanno cantato, come Rimbaud il loro lato più oscuro, scavando dannatamente nella loro anima per far emergere tutto quello che avevano di più buio, di più nero, di più perverso: fra questi Nick Cave ha tutti i connotati del poeta maledetto: lunga chioma nera, viso emaciato, sguardo tetro.

E il suo repertorio non e' da meno: disperazione, orrore e morte si inseguono in canzoni malate, ossessive, ma sempre pervase da un'ansia di redenzione. Ma l'immagine vampiresca, per il quarantaduenne cantautore australiano, e' diventata un peso: "Chiamatemi pure cupo e disperato, ma credetemi, faccio di tutto per uscire da questo mito". I tabloid inglesi sono arrivati perfino a dargli del satanista. "Balle offensive", ha ribattuto.

E' destino degli autori controcorrente come Cave essere fraintesi. Ma l'ambiguità, tra bene e male, vita e morte, follia e lucidità, ha sempre segnato l'opera del "bardo di Melbourne".


Gotico, poesia e dintorni

"Tutto conduce a Edgar Allan Poe", disse una volta Allen Ginsberg, poeta della beat generation. Si riferiva a Baudelaire e, nella musica, a Dylan. Oggi, nel rock, e' proprio Cave, con le sue ballate ossessive, con le sue poesie funeree e con le tinte malate del suo teatro, ad aver tradotto in musica lo spirito dannato del padre della letteratura gotica. Ma i riferimenti letterari non sono solo Poe; i versi di Cave rievocano le apocalissi di Milton, la delicata disperazione di Keats, le profezie di Blake, il teatro della crudeltà di Artaud, la maestosità delle Sacre Scritture. Ma è anche l'amore, un amore straziante, atroce, folle, a caratterizzare le sue storie. Storie che non si esprimono soltanto sotto forma di canzoni.

Il cantautore australiano è stato anche protagonista di manifestazioni letterarie, come il "Festivaletteratura" di Mantova. Già, perchè Cave e' anzitutto un poeta: "Non so se la frattura che la tv ha creato nel linguaggio della comunicazione sia insanabile - osserva -. La gente e' derubata del linguaggio lirico, dell'immaginazione. Ma se c'è anche una sola speranza di tornare alla cultura dell'intensità, bisogna provarci: Poe, Eliot, Dickinson, non importa chi. Bisogna dare luce alla poesia, perchè la poesia invoca luce, anche se, in fondo, la poesia migliore e' sempre quella dell'oscurità".

Sembra cosi' una sorta di affronto il fatto che nel disco ideato da Hal Willner con le poesie di Poe recitate anche da musicisti, manchi all'appello proprio la voce cupa di Cave. Una voce che continua a incantare il pubblico mondiale, che assapora con passione il suo canzoniere cupo e dolente, inframezzato dai suoi tipici (e spaventosi) deliqui, che sprofondano in gospel viscerali e blues forsennati. Un "demone" che Cave ha portato anche sul grande schermo. Nei panni di se' stesso, si e' esibito nel film di Wim Wenders "Il cielo sopra Berlino". Poi, ha interpretato un detenuto psicotico in "Ghosts... of the civil dead" di John Hillcoat, di cui ha curato anche la sceneggiatura. E un memorabile videoclip lo ha visto protagonista di una stralunatissima versione del classico di Louis Armstrong "What a wonderful world", in compagnia del suo amico iper-alcolizzato Shane MacGowan (ex-Pogues).


La voce dell'apocalisse

"Nick Cave è il più importante cantante degli anni Novanta, il più magico sciamano dai tempi di Jim Morrison e uno dei pochi musicisti rock a scrivere liriche che valga la pena di leggere". Lo scrive Piero Scaruffi nella sua imponente Storia del rock, piena di stroncature eccellenti e controverse. Si, perchè rispetto ai suoi colleghi, il cantautore australiano va più a fondo. Sa esplorare gli abissi della mente, ai confini con (e spesso oltre) la follia. Sa terrorizzare e illuminare, sconcertare e commuovere.

Un clima da apocalisse pervade From her to eternity, il suo primo album solista. "Cave - scrive ancora Scaruffi - canta come una bestia in gabbia, producendo deliqui di una depressione maniacale, a meta' tra l'invettiva punk, l'ultimo spasimo di un moribondo e l'urlo di uno psicopatico". Il tutto reso ancor più incisivo da una voce baritonale, profonda, inquietante. Uno stile che ritorna in The firstborn is dead, il secondo disco, in cui Cave da' sfogo a una delle sue ossessioni: l'America del profondo Sud, della frontiera, quella dei predicatori folli, dei "desperado" e dei miti di cartone. Così in "Tupelo", il "messia" Elvis Presley diventa la trasfigurazione rock di Gesu'. Ma per un australiano gli States sono difficili da capire: "Gli americani mi piacciono, ma hanno un fottuto sistema di valori; non riuscirei a sopportarlo per una vita intera", dice Cave che ha dedicato anche una canzone - "The mercy seat", "la sedia della misericordia" - al dramma della pena di morte. Così è arrivato il successo anche per lui, scontroso, introverso. Ha rifiutato di partecipare agli Mtv Music Awards. Anzi, ha chiesto perfino di essere cancellato dalle nomination perchè la sua musica "non vuole essere in competizione con nessuno". Difficili anche i suoi rapporti con stampa e pubblico. Un pubblico che comunque lo idolatra e si preoccupa perfino della sua salute. "Non fumare, ti fa male", gli ha gridato uno spettatore durante lo show di Mantova. In risposta ha ricevuto una boccata di fumo e un gestaccio; ma forse era proprio quello che si aspettava. Impossibile, durante i concerti, distogliere lo sguardo da questo allampanato cantastorie, che riempie il suo pianoforte di cenere e bigliettini di appunti. I suoi show, infatti, hanno una forza ipnotica che va al di la' delle canzoni. E riescono a mantenere un clima da thriller anche nei momenti più morbidi.


Donne e diavolesse

Sempre imprevedibile, insomma, questo cantore dell'apocalisse, in perenne conflitto tra l'ossessione per tutto cio' che e' turpe e malato, e una disperata ansia di redenzione. E la conflittualita' ha segnato anche il suo rapporto con le donne. Un rapporto che, nel fervore allucinato dei suoi versi, si e' tradotto in una galleria di prostitute fatali, mogli perfide, diavolesse. Come nelle sue Murder ballads, "ballate omicide" dal bilancio inquietante: sette assassini, tre assassine e sessantasei vittime. Fedele a un tema tipico del folk anglosassone, e' uno dei suoi dischi piu' fortunati (circa un milione di copie vendute) e l'apice della sua passione per il thriller. Le protagoniste? Sono vittime incantevoli, come Elisa Day, uccisa dal suo primo amante (e intrepretata dalla popstar Kylie Minogue nel magico duetto "Where the wild roses grow"); o come Mary Bellows, ammanettata al letto con un proiettile in testa. Ma sono anche efferate carnefici, come l'amante delusa di "Henry Lee", cui da' voce la cantautrice inglese PJ Harvey. O come la quindicenne Lottie di "The curse of the Millhaven", che da' fuoco a un quartiere di baraccati, uccidendo venti bambini. Troppo odio? In un'intervista a Melody Maker, Cave chiedera' scusa: "So di aver mal rappresentato le donne nelle mie canzoni e di aver descritto male i miei sentimenti verso di loro. Ho inventato un tipo di donna da usare per fini artistici, per scaricare i miei sentimenti negativi. Sento di dovermi scusare. C'era una perversa vendicativita' in molte cose che ho scritto: l'ho fatto solo per ferire delle persone".


La redenzione

Non deve sorprendere questo "mea culpa": e' un Cave quantomai riflessivo quello che si affaccia sul nuovo secolo. Un Cave che si rifa' alle "ballate della redenzione" del maestro canadese Leonard Cohen e cerca conforto nel Cristianesimo. Lo sciamano sacrilego degli esordi, insomma, si sta trasformando in un sommesso predicatore. Cosi', nel suo ultimo album The Boatman's call, colui che cantava il "Re dei cieli" nato a Tupelo, ovvero Elvis Presley, esorta ad ascoltare il richiamo di Gesu' "the boatman", l'uomo della barca, che invita alla consolazione tra gli uomini. "L'amore e la teologia sono gli unici temi che mi interessano - ha dichiarato in una recente intervista -. Le mie responsabilita' di artista sono di cantare e suonare il piano; il resto spetta a Dio". Niente male, come atto di fede, per un'anima dannata.

Un Cave cristiano, dunque, ma non credente in senso stretto. "Non credo in un Dio interventista", precisa in "Into my arms". "Per Cave l'amore umano e' grande, ma se ne va. Dio e' grande e affidabile, ma non esiste, o, se esiste, non fa nulla per dimostrare la sua potenza", scrive Phil Sutcliffe sul mensile britannico "Q".

Prima della svolta, il rocker di Melbourne ha rischiato di finire nel pantheon delle "vite bruciate" del rock. Nel 1988 e' entrato in clinica per disintossicarsi dall'eroina. E il ricovero nell'austera Broadway Lodge Clinic, necessario per scampare a una pesante condanna penale (era stato arrestato per possesso di 884 grammi di eroina), ha segnato anche l'inizio di una fase nuova, piu' matura, della sua odissea. Mentre il mondo oscuro e appassionante del cantautore australiano veniva raccolto nel doppio cd-antologia The best of Nick Cave & The Bad Seeds (sedici successi, piu' sei brani registrati dal vivo alla Royal Albert Hall di Londra), la sua musica subiva una lenta trasformazione. E oggi Nick Cave sembra aver definitivamente abbandonato gli eccessi e la foga punk degli esordi per abbracciare un cantautorato assai più morbido, meditato e austero. Ed è la sensazione che trapela anche dal suo ultimo lavoro, No more shall we apart.

Nick Cave e' ormai un "classico" come, in fondo, sono sempre stati i suoi modelli: Cohen, Dylan, Waits, Cale, Beefheart. E' un rocker esperto, che ha fatto tesoro degli insegnamenti del fosco mondo biblico e mitico in cui ha vissuto per anni: "Un mondo mitologico in cui potevo a tutti gli effetti vivere e in cui bene e male non si incontravano mai".

Non puo' stupire, quindi, vedere l'ex-istrione delle cantine punk australiane passeggiare a Portobello Road, Londra, tenendo per mano il piccolo Luke, il figlio nato dalla relazione con Viviane Carneiro. Passati i baccanali della giovinezza, e' il tempo dell'auto-ironia: "Il vantaggio di invecchiare e' che non si devono piu' frequentare i giovani". Parola di Nick "the good son".


PINK FLOYD: The Dark Side Of The Moon


Ventinove anni fa usciva "The dark side the moon", uno fra i dischi più tenebrosi della storia del rock



Uno sfondo nero. Un raggio di luce che colpisce un prisma e si scompone nei colori secondo il principio fisico della rifrazione. Questa è l'immagine effigiata sulla copertina di "The dark Side of the moon", uno dei dischi più belli, visionari e tenebrosi della storia del rock.

L'album della "perfezione", della maturità artistica del visionario gruppo dei Pink Floyd. Quando la band di Roger Waters, il 24 marzo del 1973, diede alle stampe questo album non poteva certo immaginare che sarebbe diventato il manifesto della musica degli anni Settanta come nessuno avrebbe mai potuto prevederne il successo planetario.
I numeri parlano fin troppo chiaro: 30 milioni di copie vendute nella confezione in vinile, oltre 700 settimane ininterrottamente in classifica negli Stati Uniti. Fino a quando la rivista Billboard, nel 1998, decise che i dischi con più di dieci anni di vita dovevano essere eliminati dalla graduatoria. Ancora oggi, a distanza di 29 anni, "quest'opera" vende in media un milione di copie l'anno.
"The dark side of the moon" (Il lato oscuro della luna), è permeato dal fascino tenebroso del demone della follia, teso a rappresentare la parte nascosta dell'animo umano, quella che quasi mai vede la luce, dove convogliano le ossessioni, le paure e i vaneggiamenti. Quella ai confini della pazzia. "La pazzia nei Pink Floyd - scrive Gino Castaldo nel libro "La mela canterina" - è un fulgido diamante che brilla, che abbacina, che acceca, che produce fascino e perdizione, nostalgia e rimpianto. La follia rimane la musa inquietante del gruppo. L'ombra di Syd Barrett rimane ad aleggiare in tutta la produzione dei Floyd ed è minacciosa in "The dark Side of The Moon"".

A 7 anni dal loro esordio e ormai orfani da tempo del "pazzo diamante" Syd Barret, i Pink Floyd raggiungono l'apice del loro successo con il loro ottavo album, The Dark Side Of the Moon, un successo enorme che cambiò la vita del gruppo e il loro rapporto con il resto del mondo. "Dark Side Of the Moon" è una sorta di concept album e racchiude in se tutti gli elementi che nella vita possono indurre l'uomo alla pazzia, con il sole e la luna a simboleggiare la vita e la morte, la luce e l'oscurità. I temi che percorrono i testi amari e graffianti di Waters vanno dalla paranoia al terrore, dall'inesorabile scorrere del tempo che ti avvicina di un giorno alla morte, all'attaccamento al denaro, il tutto condito dalla classica eleganza musicale dei Pink Floyd, più che mai decisi ad abbandonare le suite sinfoniche e le stravaganti dissonanze che avevano caratterizzato gli anni precedenti.

"The Dark Side Of The Moon" proietta i Pink Floyd verso il definitivo status di rockstars, dopo anni di splendidi dischi alternati a prove meno entusiasmanti. La musica "cosmica" di Waters & Co., questo loro suono vagamente spaziale ed ultraterreno, viene improvvisamente adottato dalle masse, innamorate della chitarra di Gilmour, lancinante e pulitissima allo stesso tempo.

Certo, l'opera è trascinata verso la gloria dalla strafamosa "Money" - loro primo number one negli States - che è peraltro il pezzo più staccato ritmicamente dal contesto generale dell'opera (bellissima la frase finale che dice- I soldi, ci dicono, sono la ragione del male dei nostri giorni. Ma se chiedi un aumento, non stupirti se non ti concederanno nulla-). Il disco è un concept album sull'alienazione e la schizofrenia della società contemporanea, con la Morte come sfondo reale ed incombente. Il sound dei Floyd è lo specchio di tale angoscia e smarrimento, risultando spesso plumbeo, con rari scorci eterei che paiono comunque funzionali alla descrizione di un'umanità disumanizzata in mostruose ed inospitali metropoli.

Come abbiamo detto, "Money" è il rompighiaccio, mentre la flotta che lo segue è semplicemente una delle più straordinarie sequenze musicali della storia del rock. "Breathe", "Time" (assolo indimenticabile di Gilmour), la soffice ed inafferrabile "Us And Them", gli enigmi finali di "Brain damage" e "Eclipse" entrano di colpo nelle case di mezzo mondo occidentale, migliaia di camere da letto si tappezzano di strani poster raffiguranti le piramidi (di nuovo l'enigma...), il sofisticato e non facile congegno di Waters & Co. assurge a capolavoro e bestseller.

Questo disco, è diventato famoso soprattutto per gli effetti speciali in esso contenuti, dagli orologi che squillano alle monetine che cadono. Il disco inizia con il battito del cuore (la "pulsazione" che si vede all'interno della copertina) che sfocia in un crescendo in "Breathe". Segue "On the run" tutta strumentale. E qui subito una "chicca" da audiofilo pinkfloydiano: se ascoltata al contrario, questa canzone è praticamente identica!

Segue, introdotta dal ticchettio di innumerevoli orologi, "Time", sicuramente una delle canzoni più belle dell'album, che ci parla del trascorrere del tempo, che ci sfugge dalle dita, mentre invecchiamo e termina con una "Breathe repriese". La penultima canzone è "Brian Damage" che parla della pazzia e che sfuma in "Eclipse" che elenca tutte le cose che "lei" fa, sono belle sotto il sole, ma il sole è eclissato dalla luna..... "E tutto quanto sotto il sole è in sintonia, ma il sole è eclissato dalla luna". Con questa sorte di pessimismo cosmico Waters chiude uno degli album più belli di sempre. Il disco termina con la pulsazione con cui è iniziato, e se in questo momento alzate il volume dello stereo, sentirete una voce che dice "There's no dark side of the moon really but in fact it's all dark!"

Ritornando alla letteratura, Figli del Buio sono anche Baudelaire, con i suoi Fiori del Male, da molti considerati "il più grande esempio di poesia moderna" (Eliot), e Poe, famoso per i suoi racconti ricchi di suspense, che attinge continuamente dalle paure del lettore; ed è la situazione in cui si trova il protagonista, o meglio il suo stato mentale, a generare nel lettore un senso d'ansia quasi impalpabile.

Famosi e degni di nota sono i suoi racconti dell'orrore come il gatto nero, il cuore rivelatore, oppure Il pozzo e il pendolo, il mio racconto preferito.

E' il racconto più spaventoso che, secondo me, Poe abbia mai scritto. La condizione dell'uomo imprigionato nelle segrete e a dir poco spaventosa: e d'altronde Poe attraverso le sue paure, attraverso il suo lato oscuro, incute nei lettori terrore, fa emergere tutte le paure inconsce.

Poe fu anche un grandissimo poeta, anche se le sue poesie risultano meno conosciute e famose dei suoi racconti dell'orrore; è tradizionale parlare di Poe poeta come di un caso strano. Il nome tutelare della poesia moderna, Stéphane Mallarmé, lo ha definito una "eccezione e il caso letterario assoluto". Qualche decennio prima, Charles Baudelaire, facendosi il principale sostenitore di Poe in Europa, aveva scritto: "Come poeta Edgar Poe è un caso a sé". In che cosa consisterebbe la stranezza di Poe? In sostanza, nella sua implicita francesità, nel suo essere poco americano. D. H. Lawrence, nei suoi Studies in Classic American Literature (1923), scrive che Poe non ha nulla che fare con la cultura locale dell'America. Egli non è altro che un cronachista della sua dissoluzione psichica, una vittima predestinata del mal d'amore. Lawrence ha da ridire anche sull'abilità tecnica di Poe. Essa, per lui, non è che una specie di musicalità meccanica, un'attitudine alle associazioni automatiche di suoni e di rime. Insomma, nulla che abbia fondamento sulla necessità della passione. Poe componeva facilmente, senza sforzo. La posizione di Baudelaire è esattamente antitetica a quella di Lawrence. Impegnato in una rivoluzionaria riforma del lirismo romantico, l'autore dei Fleurs du mal ha trovato nell'opera di Poe, oltre che un esempio eccelso di "immaginazione" ("facoltà quasi divina che penetra all'istante, al di fuori dei metodi filosofici, i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie"), il modello di ciò che invano avrebbe cercato nei suoi connazionali più anziani: cioè, il culto dell'arte, l'identificazione del principio poetico con il fine della poesia - in nome del quale lo stesso Baudelaire, con Leopardi, Rimbaud e Mallarmé, doveva finire tra i padri del lirismo moderno. Il Poe di Baudelaire è un paradigma di controllo formale e di autocoscienza critica, secondo l'immagine che lo stesso Poe ha voluta dare di sé nei suoi scritti di poetica (in particolare Il principio poetico, ricordato da Baudelaire). Insomma, siamo di fronte a un essere che è tutt'altro che il versificatore facile e spontaneo dipinto da D. H. Lawrence. Anzi, questo Poe compone a fatica, è in costante lotta con l'ottusità della materia verbale. Per tale ragione non può dedicare tutta la sua vita alla scrittura di versi e a un certo punto deve darsi alla composizione di racconti. Il Poe di Mallarmé assomiglia, naturalmente, a quello di Baudelaire, con la differenza che Mallarmé insiste più sulla dissimulazione della progettualità che su quella della spontaneità. Ognuno, evidentemente, ha visto in Poe un suo doppio e si è sentito di sottolineare questa qualità più di un'altra. Dunque, Poe, secondo Mallarmé, fa sì mille calcoli prima di mettersi a scrivere, ma, una volta che ci si è messo, quei calcoli non li vediamo più.


Prefazione alle poesie (1845)


Queste mie inezie sono qui raccolte e ripubblicate allo scopo, soprattutto, di salvarle dai tanti "miglioramenti" cui sono andate soggette mentre vagavano, qua e là, "in giro per la stampa". E' mio ansioso desiderio, naturalmente, che quel che ho scritto circoli così come l'ho scritto, se circolazione deve avere. A difesa, tuttavia, del mio gusto mi corre l'obbligo di aggiungere che nulla vi è in questo volume che sia di molto valore per il pubblico o molto onorevole per me stesso. Avvenimenti al di fuori di ogni mio controllo mi hanno sempre impedito di fare un serio sforzo in quello che, in più felici circostanze, sarebbe stato il campo di mia elezione. Per me la poesia non è stata un proponimento, ma una passione; e le passioni dovrebbero sempre essere rispettate; esse non devono - esse non possono essere suscitate a volontà, con l'occhio rivolto a meschine ricompense, o agli encomi, ancor più meschini, dell'umanità.

E.A. Poe

Secondo Maria Luisa Belleli, saggista e poetessa, paragonando le poesie di Poe a quelle di Baudelaire troviamo essenziali differenze tra i due scrittori. Entrambi sono logici, lucidi e tuttavia ipersensibili e immaginativi. Ma Poe è inesauribile nelle trovate, negli sviluppi, nella ricchezza dei particolari. Baudelaire costruisce un suo blocco verticale con strati di spleen e di idéal. E' più chiuso in un suo mondo delimitato e intenso. Nessuno mai influenzò Baudelaire come Poe; quest'ultimo divenne nella sua vita una presenza dispotica. Ma il fenomeno fu speciale, in questo caso: Baudelaire ebbe l'impressione di una stupefacente somiglianza con l'altro e quindi di un accrescimento del suo proprio io, che si risolveva in una forma di narcisismo.

Lo attirarono in Poe la ricchezza dell'immaginazione, unita al rigore del ragionamento, la concezione della bellezza a cui deve accompagnarsi il senso del bizzarro, e quindi la continua tendenza a stupire; l'antiamericanismo, cioè l'utilitarismo; la presenza della perversità, come demone che può impadronirsi di chiunque; i gusto della fastosità negli interni e di una minacciosa tragicità negli aspetti della natura, una spiccata tendenza al macabro, non disgiunta da elementi sadici.

Ma prima di tutto vide in Poe un altro se stesso, un essere segnato dalla malasorte. Baudelaire stesso affermò che un modello al quale tutti i decadenti dovevano rifarsi era proprio Poe, il primo fra i poets maudit, il primo ad aver utilizzato il simbolismo come tecnica letteraria e non solo. Poe scovava le paure insite nei più remoti meandri dell'animo umano rendendole quasi reali e trasformandole in strumento per dare spiegazione del reale.

Baudelaire era già formato quando venne a conoscenza di Poe, ma certo sono state notate molte influenze e somiglianze, ma sembra che si possa mettere in luce che i due non appartengono alla stessa famiglia di scrittori. L'unione dell'insolito col quotidiano, s'è detto. Ma la formula s'adatta più a Baudelaire che a Poe, il quale per lo più prende già come punto di partenza l'atmosfera dell'insolito entro cui fin troppo puntualmente avverranno fatti insoliti.

Baudelaire, nei Saggi sulla letteratura, tesse una specie di elogio nei confronti di Poe. Riguardo la sua persona fisica, aggiunge che, tutto ciò che costituisce l'insieme del suo personaggio, ci appare tenebroso e brillante insieme. La sua persona era singolare, seducente, e, come le sue opere, marchiata da un indefinibile sigillo di malinconia.

Dice che Poe, malgrado la sua vita sregolata, ha prodotto molto, presentandosi sotto tre diversi aspetti: critico poeta e narratore; e ancora nel narratore c'è un filosofo. Baudelaire afferma che come poeta, Poe, rappresenta pressocchè, da solo il movimento romantico dall'altra parte dell'oceano. La sua poesia, profonda, dolorosa, è nondimeno lavorata, pura, corretta e brillante come un gioiello di cristallo. Il Corvo è un grande successo: il suo soggetto è esile, è una pura opera d'arte. In una notte di pioggia e di tempesta, uno studioso sente bussare alla sua finestra, poi alla porta; apre credendo ad una visita. E' un infelice corvo attirato dal lume della lampada. Questo corvo ammaestrato ha imparato a parlare da un altro padrone, e la prima parola che sfugge a caso dal becco del sinistro uccello colpisce proprio uno dei ricettacoli dell'anima dello studioso, e ne fa sgorgare una serie di tristi pensieri assopiti: una donna morta, mille aspirazioni tradite, mille desideri delusi, un'esistenza spezzata, un fiume di ricordi che si spande nella notte fredda, desolata. Il tono è grave e quasi sovrannaturale, come i pensieri dell'insonnia; i versi gocciano ad uno ad uno, come monotone lacrime. Altre poesie come Ulalume, Annabel Lee, godono di uguale celebrità. Ma il bagaglio poetico di Edgar Poe è leggero. La sua poesia, condensata e laboriosa, gli costava indubbiamente molta fatica, e lui aveva troppo spesso bisogno di denaro per potersi dedicare a questo infruttuoso dolore.


THE RAVEN (1845)


Once upon a midnight dreary, while I pondered, weak and weary,

Over many a quaint and curious volume of forgotten lore -

While I nodded, nearly napping, suddenly there came a tapping,

As of some one gently rapping, rapping at my chamber door.

" 'Tis some visiter," I muttered, "tapping at my chamber door -

Only this and nothing more."

Ah, distinctly I remember it was in the bleak December,

And each separate dying ember wrought its ghost upon the floor.

Eagerly I wished the morrow ; - vainly I had sought to borrow

From my books surcease of sorrow - sorrow for the lost Lenore -

For the rare and radiant maiden whom the angels name Lenore -

Nameless here for evermore.

And the silken sad uncertain rustling of each purple curtain

Thrilled me - filled me with fantastic terrors never felt before ;

So that now, to still the beating of my heart, I stood repeating

" 'Tis some visiter entreating entrance at my chamber door -

Some late visiter entreating entrance at my chamber door ;

This it is and nothing more."

Presently my soul grew stronger; hesitating then no longer,

"Sir," said I, "or Madam, truly your forgiveness I implore ;

But the fact is I was napping, and so gently you came rapping,

And so faintly you came tapping, tapping at my chamber door,

That I scarce was sure I heard you" - here I opened wide the door ; --

Darkness there and nothing more.

Deep into that darkness peering, long I stood there wondering, fearing,

Doubting, dreaming dreams no mortals ever dared to dream before;

But the silence was unbroken, and the darkness gave no token,

And the only word there spoken was the whispered word, "Lenore !"

This I whispered, and an echo murmured back the word, "Lenore !" -

Merely this, and nothing more.

Back into the chamber turning, all my soul within me burning,

Soon I heard again a tapping somewhat louder than before.

"Surely," said I, "surely that is something at my window lattice ;

Let me see, then, what thereat is, and this mystery explore -

Let my heart be still a moment and this mystery explore;-

"Tis the wind and nothing more !"

Open here I flung the shutter, when, with many a flirt and flutter,

In there stepped a stately Raven of the saintly days of yore ;

Not the least obeisance made he; not an instant stopped or stayed he;

But, with mien of lord or lady, perched above my chamber door -

Perched upon a bust of Pallas just above my chamber door -

Perched, and sat, and nothing more.

Then this ebony bird beguiling my sad fancy into smiling,

By the grave and stern decorum of the countenance it wore,

"Though thy crest be shorn and shaven, thou," I said, "art sure no craven,

Ghastly grim and ancient raven wandering from the Nightly shore -

Tell me what thy lordly name is on the Night's Plutonian shore !"

Quoth the Raven "Nevermore."

Much I marvelled this ungainly fowl to hear discourse so plainly,

Though its answer little meaning - little relevancy bore ;

For we cannot help agreeing that no living human being

Ever yet was blessed with seeing bird above his chamber door -

Bird or beast upon the sculptured bust above his chamber door,

With such name as "Nevermore."

But the Raven, sitting lonely on the placid bust, spoke only

That one word, as if his soul in that one word he did outpour.

Nothing farther then he uttered - not a feather then he fluttered -

Till I scarcely more than muttered "Other friends have flown before -

On the morrow he will leave me, as my hopes have flown before."

Then the bird said "Nevermore."

Startled at the stillness broken by reply so aptly spoken,

"Doubtless," said I, "what it utters is its only stock and store



Caught from some unhappy master whom unmerciful Disaster

Followed fast and followed faster till his songs one burden bore -

Till the dirges of his Hope that melancholy burden bore

Of "Never - nevermore."

But the raven still beguiling all my sad soul into smiling,

Straight I wheeled a cushioned seat in front of bird, and bust and door;

Then, upon the velvet sinking, I betook myself to linking

Fancy unto fancy, thinking what this ominous bird of yore -

What this grim, ungainly, ghastly, gaunt and ominous bird of yore

Meant in croaking "Nevermore."

This I sat engaged in guessing, but no syllable expressing

To the fowl whose fiery eyes now burned into my bosom's core;

This and more I sat divining, with my head at ease reclining

On the cushion's velvet lining that the lamplght gloated o'er,

But whose velvet violet lining with the lamplight gloating o'er,

She shall press, ah, nevermore !

Then, methought, the air grew denser, perfumed from an unseen censer

Swung by Angels whose faint foot-falls tinkled on the tufted floor.

"Wretch," I cried, "thy God hath lent thee - by these angels he hath sent thee

Respite - respite and nepenthe from thy memories of Lenore;

Quaff, oh quaff this kind nepenthe and forget this lost Lenore !"

Quoth the Raven, "Nevermore."

"Prophet!" said I, "thing of evil! - prophet still, if bird or devil! -

Whether Tempter sent, or whether tempest tossed thee here ashore,

Desolate yet all undaunted, on this desert land enchanted -

On this home by Horror haunted - tell me truly, I implore -

Is there - is there balm in Gilead ? - tell me - tell me, I implore !"

Quoth the Raven, "Nevermore."

"Prophet!" said I, "thing of evil - prophet still, if bird or devil !

By that Heaven that bends above us - by that God we both adore -

Tell this soul with sorrow laden if, within the distant Aidenn,

It shall clasp a sainted maiden whom the angels name Lenore -

Clasp a rare and radiant maiden whom the angels name Lenore."

Quoth the Raven, "Nevermore."

"Be that word our sign of parting, bird or fiend!" I shrieked, upstarting -

"Get thee back into the tempest and the Night's Plutonian shore !

Leave no black plume as a token of that lie thy soul hath spoken !

Leave my loneliness unbroken! - quit the bust above my door !

Take thy beak from out my heart, and take thy form from off my door !"

Quoth the Raven, "Nevermore."

And the Raven, never flitting, still is sitting, still is sitting

On the pallid bust of Pallas just above my chamber door;

And his eyes have all the seeming of a demon's that is dreaming,

And the lamp-light o'er him streaming throws his shadow on the floor;

And my soul from out that shadow that lies floating on the floor

Shall be lifted - nevermore !


IL CORVO


Una volta, in una tetra mezzanotte, mentre meditavo, stanco e sconsolato

su molti strani e astrusi volumi d'obliata sapienza,

mentre, sonnecchiando, già il capo mi si chinava, mi riscosse d'improvviso un battito leggero,

come d'uno che bussasse sommesso alla porta della mia stanza.

"E' un visitatore", borbottai, "che bussa alla porta della mia stanza -

solo questo e nulla più."

Ah, distintamente ricordo che si era in un desolato dicembre,

e che ogni stizzo morente disegnava, dal camino, un suo spettro sul mio pavimento.

Sospiravo ansioso il mattino; - giacché invano avevo chiesto

ai miei libri di lenire il mio dolore - il dolore per la perduta Lenora -

per la rara e radiosa fanciulla cui gli angeli dan nome Lenora -

ma che qui non avrà un nome mai più.

Il serico, triste fruscio dei drappeggi purpurei

mi suscitava un brivido - m'accendeva d'immaginari terrori mai prima avvertiti;

sicché infine, per placare il pulsare del cuore, m'alzai ripetendo:

"E un visitatore che insiste alla porta della mia stanza -

qualcuno che s'attarda e insiste alla mia porta; -

solo questo e nulla più."

Allora ripresi coraggio; e senza più esitare,

"Signore", dissi, "o signora, umilmente vi chiedo perdono;

ma è ch'io sonnecchiavo, e così sommesso fu il vostro bussare,

così fu leggero quel vostro battito, battito alla mia porta,

che appena ero certo d'averlo io inteso" - e tutta apersi la mia porta; -

solo tenebre e nulla più.

Scrutai a lungo in quelle tenebre, sostai a lungo con stupore e timore,

dubbioso, sognando sogni che mai un mortale osò prima sognare;

ma il silenzio era assoluto, e la muta aria, non dava alcun segno,

e una sola parola fu detta, fu bisbigliata: "Lenora!".

Fui io stesso a pronunciarla, e un'eco mi rimandò quella parola: "Lenora!".

Solo questo e nulla più.

Rientrai nella mia stanza, col cuore infiammato.

E di nuovo udii bussare, un po' più forte udii bussare.

"Certo", mi dissi, "c'è qualcosa alla finestra;

m'accerterò, dunque, esplorerò questo mistero; -

con cautela esplorerò questo mistero

sarà il vento e nulla più!"

Aprii la finestra: ed allora con strepito d'ali

entrò nella stanza un maestoso corvo dei sacrali giorni d'un tempo;

non fece alcun cenno d'ossequio, non un attimo s'arrestò o indugiò;

ma con portamento d'un gran signore o di dama si posò sulla mia porta -

si posò sul busto d'una Minerva, sopra la porta della mia stanza -

lassù si posò e nulla più.

Inducendo allora quest'uccello d'ebano un po' al sorriso i miei tristi pensieri,

con il grave e severo contegno che si dava,

"Per quanto", io dissi, "la tua cresta sia rasa e tagliata,

tu non sei certo né vile né spregevole,

orrido, cupo e antico corvo, qui giunto dalle rive della Notte;

dimmi qual nobile nome è il tuo sulle plutonie rive della Notte!"

Disse il corvo: "Mai più".

Molto fui stupito a udir parlare così distintamente quel goffo uccello,

quantunque non avesse molto senso, scarsa attinenza avesse anzi la sua risposta;

poiché certo ognuno converrà che a nessuna vivente persona

toccò mai di vedere un uccello sulla porta della sua stanza -

uccello o altro animale posato sul busto scultoreo sopra la porta della sua stanza,

e con un tale nome, "Mai più".

Ma il corvo, solitario sedendo sul placido busto, altro non disse

che quella sola parola, quasi che tutta la sua anima in quella sola parola avesse profuso.

Né altro più aggiunse - né piuma più scosse -

finché non diss'io in un soffio: "Altri amici già volaron via -

e domani anch'egli andrà via, come le speranze che già tutte volaron via".

Disse allora l'uccello: "Mai più".

Attonito per quell'appropriata risposta che così infrangeva il silenzio,

"Senza dubbio", io ripresi, "è quel che dice tutto quel che sa,

appreso da un qualche infelice padrone che la Sventura

strinse dappresso, sempre più, e più, finché ogni suo canto non si ridusse che a quel ritornello -

finché gli inni della sua mesta speranza non si ridussero che a quell'unico malinconico

"Mai - mai più"".

E mentre il corvo ancora m'induceva al sorriso i tristi pensieri,

io sospinsi la mia poltrona fino alla porta, innanzi al busto e innanzi a quell'uccello;

quindi, affondato nel velluto, mi diedi a collegare

pensiero a pensiero, domandandomi che cosa mai quel sinistro uccello d'altri tempi -

che cosa mai questo cupo, goffo, avido, infausto e sinistro uccello d'altri tempi

volesse dire, gracchiando "Mai più".

Così io sedevo, immerso in congetture, e non più mi volgevo

all'uccello, i cui fieri occhi ora nel petto mi bruciavano;

così io sedevo, su questo e su altro ancora pronosticando, chinata la testa

sul velluto del cuscino, su cui la lampada fissava il suo occhio di luce,

sul tessuto di viola che la lampada fissava col suo occhio di luce,

e che lei non toccherà mai più!

Poi, così mi parve, diventò l'aria più densa, quasi fosse profumata da un invisibile incensiere

da serafini agitato, col tintinnio dei loro passi che sfioravano il tappeto.

"Ah, misero", gridai, "t'offre Iddio per mano di questi angeli, ti offre Iddio

un sollievo - sollievo e nepente per il ricordo della tua Lenora;

sorseggia, oh sorseggia questo dolce nepente e dimentica questa tua perduta Lenora!"

Disse il corvo: "Mai più".

"Profeta!", io dissi, "mostro del male! - profeta pur sempre, uccello o demonio! -

sia che il Maligno stesso t'abbia mandato o la tempesta qui gettato sulla riva,

afflitto ma non domato, su questa deserta terra stregata -

su questa casa visitata dall'Orrore - dimmi ora, io t'imploro -

vi è - vi è un balsamo in Gilead? Dimmelo - dimmelo, io t'imploro!"

Disse il corvo: "Mai più".

"Profeta", io dissi, "mostro del male! - profeta pur sempre, uccello o demonio!

Per quel cielo che su noi s'incurva - per quel Dio che entrambi adoriamo

di' a quest'anima oppressa se mai nel remoto Eden

abbraccerà più mai una fanciulla beata che gli angeli chiaman Lenora -

abbraccerà più mai quella rara e radiosa fanciulla che gli angeli chiaman Lenora."

Disse il corvo: "Mai più".

"E sia questa tua parola per noi ora segno d'addio, uccello o demonio!" gridai e balzai in piedi.

Ritorna alle tue tempeste e alle plutonie rive della Notte!

Non lasciarmi nessuna tua nera piuma a significar la tua menzogna!

La mia solitudine lascia a me intoccata, e tu lascia il busto sopra la mia porta!

Porta via il tuo becco, dal mio cuore, porta via la tua figura da quella mia porta!

Disse il corvo: "Mai più".



E mai più volando via di lì, il corvo ancora lì posa, ancora

lì siede, sul pallido busto di Pallade, sopra la porta della mia stanza;

e sembrano i suoi gli occhi d'un demonio che sogni;

e la luce della lampada che l'investe ne getta l'ombra sul pavimento;

e la mia anima da quell'ombra che fluttua e tremola sul pavimento

non sarà sollevata - mai più!




Anche Baudelaire, come Poe, scava i lati oscuri del suo cuore e del cuore del mondo con enorme passione, con apparente perversione, mettendo in versi il Tedio, l'Amore, il desiderio d'innalzarsi, assassini e amanti, peccato e dannazione, suicidi, danze macabre e muse malate, la maledizione del Poeta, la Morte. E venendo condannato per questo.

"Libro atroce" è, per I fiori del male, una definizione dello stesso Baudelaire, che così si espresse in una lettera solo un anno prima di essere colpito dalla malattia che lo avrebbe portato alla morte. E che tolse la capacità di parlare proprio a chi con le parole, con la voce della poesia, aveva intrecciato la più disperata delle sue storie d'amore: "In questo libro atroce ho messo tutto il mio pensiero, tutto il mio cuore, tutta la mia religione, tutto il mio odio..."

L'ammaliante mistero dei "fiori del male" è già racchiuso nel titolo: sta nel conflitto fra opposti, nella doppia anima delle cose, nell'esplorare il lato oscuro della bellezza, contemplandolo e quasi subendolo come uno splendido maleficio. Il mondo è un ribollire di occasioni, un succedersi di eventi, colori, odori, tutti saldamente uniti, a darsi forza e senso l'un l'altro, nella reciproca esistenza. Baudelaire vive ogni singola emozione che rappresenta e descrive, ma prima ancora la sogna: le sue poesie nascono, fioriscono dalla stessa terra, dallo stesso humus che contiene tutto, che contiene l'infinito. Di lui si può definitivamente dire che ha lo spirito, o forse meglio, che ha l'istinto del poeta: le sue parole si staccano per mitosi dalla sua anima, esattamente come avviene per le cellule umane e la sua poesia porta per sempre un marchio genetico indelebile.


Nonostante la "scabrosità" dei temi spesso e volentieri trattati, non si può dire che Baudelaire non sia alla ricerca dell'ideale, del Sublime. E lo trova; lo trova nell'opposto della visione classica della bellezza; lo trova là dove ogni cosa, giunta al suo massimo, muta forma, distorce come una nota troppo acuta. E' così che la sua poesia acquisisce i toni della malinconia, spesso della disperazione, non ha mezza misura e non può fare a meno di colpire. E' sorprendente come i punti più drammatici e più alti allo stesso tempo il lettore li provi nel leggere lunghi tratti di descrizione di Noia, Angoscia (spesso trattati da Baudelaire come allegorie). Ma a pensarci bene è naturale: dalla condizione umana, limitata, condizionata dalle coordinate spazio-temporali, in cui l'aspirazione a qualcosa di più, di eterno è inevitabile, nasce, al suo massimo dilatarsi, una sorta di autocompiacimento, e sentirsi parte di un destino comune accentua la sensazione di titanismo che deriva da questa lotta contro la caducità dell'essere umano.
Credo che sia questo il sentimento insopprimibile che ha portato Baudelaire a dar vita alle pagine memorabili dei "Fiori del male". Non a caso la più nota delle sue composizioni, lo "Spleen", sconvolgente ritratto di un mondo chiuso, soffocante, greve, torna in quattro versioni differenti e bellissime. Altre poesie molto note sono "Al Lettore", poesia d'apertura ai Fiori del Male, "Corrispondenze", in cui la natura è vista come un tempio in cui ogni singola parte è strettamente legata e richiama le altre e "L'albatro", metafora del poeta prigioniero di emozioni così grandi da rimanere isolato dal mondo concreto. Ma le pagine migliori sono, secondo me, nei momenti in cui Parigi si riempie di mendicanti, cani randagi, prostitute, pioggia, odori malsani, oppure quando, più di una volta, ritornano le descrizioni di misteriosi e affascinanti gatti, dagli occhi screziati d'oro e dalle pose pigre, simili a sfingi, imponenti pur nella loro piccolezza.

Come ho già detto, I Fiori del Male si aprono appunto con la meravigliosa poesia Al Lettore, dove si parla del peccato, di Satana, del diavolo: "regge il Diavolo i fili che ci muovono! Un fascino troviamo in ogni cosa ripugnante; ogni giorno, senza orrore, tra il puzzo delle tenebre di un passo verso l'Inferno discendiamo". La vita è dunque una discesa verso il basso.

La dinamica della poesia dell'800-'900 è sempre più discendente: un andare a sondare, a scandagliare le profondità della terra per poi salire verso il cielo, verso la speranza. Andare a vedere la profondità di noi non accontentandoci più della superficie. "Nei cervelli ci gozzoviglia un popolo di demoni" (da Al lettore) come "un popolo silente di infami ragni tende le sue reti In fondo ad i cervelli nostri" (Spleen). L'uomo Baudelaire si ritrova cosi: con dentro un principio negativo, diabolico.

Ancora Al lettore: "ma fra gli sciacalli, le pantere, le cagne, gli scorpioni, le scimmie ( ... ) dei quattro nostri vizi, uno ve n'è più orribile, più maligno, più immondo. E' il tedio. Un tal soave mostro lettore lo conosci, ipocrita lettore, o mio simile o fratello".

In "Al lettore" Baudelaire ci invita a fare un rischioso e lungo viaggio: sentirci in ogni parola dei versi di questa poesia, perché ognuno di noi è tutto ciò che in essa lui ha descritto.


La "Noia" è la ripugnante e grottesca immagine che il poeta francese ha innalzato a figura dominante di questo suo canto, che ha rappresentato come la più immonda delle celle in cui ci chiudiamo, come una figura mitologica dalle sembianze umane, perché è l'uomo a modellarla e partorirla, quindi altro aspetto non potrebbe avere.

L'impegno da doversi prendere consiste nell'ammettere la mostruosità della condizione umana, ignorante per stanchezza, per debolezza, e da questa miseria recuperare la propria esistenza e gravarsi della responsabilità di raggiungere la piena consapevolezza delle proprie ragioni, delle sensazioni che ci muovono e ci governano, cambiare sempre con partecipazione al cambiamento voluto, evitando di abbandonarsi con inerzia al tempo e al potere.

L'uomo deve combattere per non essere oltremodo schiavo, e la poesia, la scrittura, quali motivo d'insegnamento di esperienze da cui ottenere una ricchezza diversa da quella economica che viene proposta come fine della vita, in questo modo devono essere sfruttate e assorbite.

Le emozioni che sensibilmente decifriamo quali "negative", derivano non solo da una reazione istintiva a eventi da cui esse scaturiscono, ma dal genere di lavoro che facciamo su noi stessi dall'istante in cui siamo coscienti della nostra ragione, della nostra crescita, dalle personali necessità che ci trasportano fino alla realizzazione dei nostri desideri. Siamo noi i soli responsabili della nostra insofferenza, della "Noia", del dolore che appare sempre più premeditato, e Charles Baudelaire prova a dirci di uscire da quest'indifferenza e capire di essere gli unici artefici della propria vita.

Per quanto riguarda Corrispondenze, una delle poesie più note.

La Natura è un tempio dove pilastri vivi

mormorano a tratti indistinte parole;

l'uomo passa, lì, attraverso foreste di simboli

che l'osservano con sguardi familiari.

Come echi che a lungo e da lontano

tendono a una profonda, tenebrosa unità,

grande come le tenebre ,o luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Profumi freschi come la carne d'un bambino,

dolci come l'oboe, verdi come i prati -

e altri d'una corrotta, trionfante ricchezza,

con tutta l'espansione delle cose infinite:

l'ambra e il muschio, l'incenso e il benzoino,

che cantano i trasporti della mente e dei sensi.


. vanno sottolineati due aspetti fondamentali. Uno sguardo alla natura: tutti noi abbiamo vivo nel ricordo un'immagine della natura che ci ha dato Leopardi, cioè madre da una parte e matrigna dall'altra.

Qui, invece, troviamo una nuova immagine. La natura non è né madre né matrigna, ma è "tempio".

La parola "tempio" immediatamente ci fa pensare ad una struttura religiosa, sconfinata, grandissima, ove i pilastri sono gli alberi. Questo grande tempio, nel quale si muove in adorazione l'uomo, è pieno di segni, e pieno di messaggi; da questi viventi pilastri escono a volte confuse parole.

La natura e la natura umana appaiono nei "Fiori del male" luogo di corruzione, spettacolo orrido e ripugnante: carogne putrefatte, vecchi rattrappiti, terre sfigurate, città livide.

Una carogna è in questo senso una poesia emblematica. Il poeta non può ritrarre il reale in forme sublimi, che non esistono più, ma può solo trattenerne delle impressioni di morte, qui designate dall'immagine del cadavere.

Lungi dal rimuovere lo squallore quotidiano, Baudelaire lo assume fino in fondo. In Paesaggio non dominano prati e boschi, ma la Parigi industriale, dove le ciminiere sono gli alberi della città e fiumi di carbone salgono fino in cielo. L'opera dell'uomo cancella le tracce della natura. Il poeta è cosciente del definitivo distacco dalla natura, che rende impossibile l'idillio romantico e il paesaggio stato-d'animo.

Il rapporto con la città moderna è un rapporto di alienazione: questo senso di estraneità è alla base dello Spleen. Malinconia, lutto e indifferenza caratterizzano l'allegoria della noia nella poesia Al lettore. La serie di poesie intitolate Spleen rappresentano questo stato di angoscia come lacerazione fisico-psichica, sullo sfondo di una città piovosa, oppressiva, dove il senso di prigionia si trasforma in gusto dell'annientamento. Il vuoto, il buio, l'incerto non sono solo fuori del poeta: la stessa vita interiore risulta svuotata. Anche i ricordi o i sogni diventano oggetti morti (carri funebri), separati dall'esperienza.

Ed è proprio nella frenetica vita cittadina che il poeta ha perso l'aureola, gli è caduta nel fango; e ora racconta l'avvenimento a un amico incontrato in un bordello. Lo scenario cittadino non è casuale, come non è casuale l'ambientazione in un bordello: il poeta frequenta le prostitute perché è irresistibilmente attratto dall'analogia fra la loro situazione e la sua. D'altra parte la condizione del poeta è quella dell'anonimato. Non vive più nell'olimpo (non beve quintaessenza, né mangia ambrosia come gli dei cari alla poesia classica), ma è solo uno della folla. E' importante notare che la perdita dell'aureola viene sentita come qualificante; è la consapevolezza di tale perdita che determina la modernità e la qualità della poesia. Chi raccoglierà quell'aureola e se la metterà in testa potrà essere solo un poetastro, un artista arretrato.

L'aspetto che voglio sottolineare e che emerge con più ferocia dal suo lato oscuro è l'orrido, la più amara disperazione entro un dualismo esasperato, manicheo, di bene e male dove predomina ineluttabile il male, generato per Baudelaire, dal peccato originale. Non un male sociale (di tipo illuminista), generato dalla storia, bensì connaturale all'uomo, un male presente nell'uomo in quanto tale. Per questo Baudelaire si contrappone all'ideologia positivista del progresso e rinuncia ad ogni illusione di un alto destino dell'umanità. Dai Diari Intimi: "Periremo per colpa di ciò di cui abbiamo creduto vivere", (il progresso); ed ancora, profeticamente (questa affermazione è del 1866): "Avendo immaginato di sopprimere il peccato i liberi pensatori hanno creduto ingegnoso sopprimere il giudice e abolire il castigo, e proprio questo chiamano progresso. Per loro combattere l'ignoranza è ridurre Dio".

Baudelaire si pone dunque come pensatore antiilluminista e antiprogressista contestando così quella cultura, la presunzione di riempire la vita, di dar senso alla vita. E come se Baudelaire dicesse: "tu scienza e tu tecnica non mi bastate, ho bisogno di qualcosa di più ".

Il viaggio di Baudelaire non è in avanti verso le "magnifiche sorti e progressive", verso quello che Marx chiama " il sol dell'avvenire ", ma verso il profondo; è una discesa e un'attesa.


Ecco l'ultima parte del poema Il Viaggio, posto in chiusura dei I Fiori del Male:

"O Morte, vecchio capitano, è tempo! Sù l'ancora!

Ci tedia questa terra, o Morte!

Verso l'alto, a piene vele!

Se nero come inchiostro

è il mare e il cielo,

sono colmi di raggi

i nostri cuori, e tu lo sai!

Su, versaci il veleno

perché ci riconforti!

E tanto brucia nel cervello

il suo fuoco.

che vogliamo tuffarci nell'abisso

Inferno o Cielo cosa importa ? -

discendere l'Ignoto nel trovarvi

nel fondo alfine il nuovo!

Potremmo dire che il viaggio di Baudelaire è una "discesa verso l'alto". Andare al fondo per trovare "il nuovo": è questa sete di "novità" che anima tutta la dinamica di Baudelaire. Su questa speranza di novità si chiude il libro.

Un altro aspetto che vorrei sottolineare attraverso la nota poesia l'Albatro è che Baudelaire ha idolatrato l'arte come strada di salvezza, secondo la lezione del petrarchismo. Pensiamo in particolare alla poesia sopracitata: questo uccello dalle ali grandissime, bellissime quando vola in cielo ma meschino quando si posa sulla barca. Dice il poeta di essere come lui: ha bisogno di volare in cielo, ma quando si posa in terra diventa meschino e ridicolo. Baudelaire è stato forse superbo come artista, ma certamente umile come uomo e ha invitato all'umiltà intellettuale quella presuntuosa cultura dalla quale si sentiva continuamente sommerso.

In "Castigo dell'orgoglio": quell'uomo è simbolicamente l'intellettuale dell'800, dei suo tempo, l'uomo che sale troppo in alto ma a quel punto il sole scioglie la cera della sue ali ed egli precipita in basso. "Subito la ragione lo lasciò"; la ragione superba si muta in follia. Questo è il monito di Baudelaire, questa è la sua contestazione alla modernità, non in vista di una fuga nel passato, ma di una nuova modernità, di un nuovo umanesimo che sia integrale, totale, che non sviluppi solo la componente meccanica dell'uomo, ma ne sviluppi tutta la sua umanità e interiorità. Quella sua intelligenza che era un "vivo tempio", (notate la parola "tempio", usata già per la natura e qui per l'intelligenza umana), diviene caos. "In una cella la cui chiave è persa": ecco, questa è la prigione della vita, questa è la vita a cui si costringe un uomo che usa male la sua ragione, che ha un riduttivo concetto di ragione; egli diventa "simile alle bestie", "zimbello dei ragazzi": è il grande monito di Baudelaire alla nostra generazione.




"Ci sono giornalisti sia imbecilli che ridicoli, mentre Baudelaire sarà ricordato finché la lingua francese si parlerà e si scriverà" - Poulet-Malassis

"...il poeta che meglio ha parlato del popolo e dell'aldilà" - Marcel Proust

"...meravigliosa purezza del suo stile" - Paul Verlaine

"il poeta più grande e significativo dell'Ottocento... il poeta del Rimorso" - Paul Claudel

"...colossale, tragico, sublime... angelo ribelle" - Benedetto Croce

"Il nome di Baudelaire suona oggi puro come quello di Leopardi, e le varie polemiche, gli indirizzi diversi, il ritorno ad un'arte sociale non bastano a corromperlo" - Giovanni Macchia

"Ci sono momenti nei quali si dubita dello stato mentale del signor Baudelaire; ce ne sono altri nei quali non se ne dubita più... l'odioso si affianca all'ignobile; il ripugnante si allea all'infetto" - Gustave Bourdin




Nell'inconscio oscuro cadono le nostre maschere ed affiorano le nostre paure. È dal Buio che provengono le premonizioni biomeccaniche di Giger, e tutti gli Incubi di Fûssli. È dal Buio che sono giunte le rose selvatiche di Nick Cave, The dark side of the moon dei Pink Floyd. Sono figlie del Buio le Illuminazioni oscure, e gemelle della notte. Ed è nel Buio che vagano quei poeti, quei pittori, quegli scrittori, quei musicisti che, avendo elevato ad opera d'Arte le loro contraddizioni e le loro follie visionarie, sono stati chiamati "artisti maledetti". Non ci poteva essere definizione migliore.



"ho teso delle corde da campanile a campanile; delle ghirlande da finestra a finestra; delle catene d'oro da stella a stella, e danzo." Arthur Rimbaud, les illuminations.





Bibliografia


Baudelaire, opere. Saggi sulla letteratura, Edgar Allan Poe. La sua vita e i suoi scritti. Mondadori.

Filosofia della composizione di E.A.Poe.

La scrittura e l'interpretazione. Luperini, Cataldi, Marchiani. Palumbo.

La piccola Treccani.

Omnia, Enciclopedia Multimediale. Panorama.

Enciclopedia Multimediale Rizzoli-Larousse. Panorama.

Fantastico Poe. Nicola Gardini

Dal gotico alla fantascienza. Saggi di letteratura comparata a cura di Ruggero Bianchi. Mursia.








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