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IL PASSATO DI UN'ILLUSIONE - L'idea comunista nel XX secolo

sociologia



RELAZIONE





IL PASSATO DI UN'ILLUSIONE

- L'idea comunista nel XX secolo -


di François Fouret












curata da FERRARA Luigi




BREVE CENNO BIOGRAFICO

François Furet (1927-1997), storico di fama internazionale, noto pe 444j97e r le sue opere fondamentali sulla Rivoluzione francese, ha diretto a Parigi la Scuola degli alti studi in Scienze sociali (Ecole des hautes études en sciences sociales). Ha insegnato all'università di Chicago ed è stato presidente della Fondazione Saint-Simon. Tra le sue opere tradotte in Italia, Critica della Rivoluzione francese, Il laboratorio della storia, Marx e la Rivoluzione francese, il secolo della Rivoluzione.


L'opera "IL PASSATO DI UN'ILLUSIONE" si compone di 12 capitoli (La passione rivoluzionaria nel XX secolo, La prima guerra mondiale, L'universale fascino dell'Ottobre - Credenti e disincantati - Il socialismo in un solo paese - Comunismo e Fascismo - Comunismo e antifascismo - La cultura antifascista - La seconda guerra mondiale - Lo stalinismo, ultimo stadio del comunismo - Il comunismo da guerra fredda - L'inizio della fine), una prefazione e un epilogo.






La storia dell'idea comunista, fatta da Francois Furet ne "Il passato di un'illusione", che è tema di questa relazione, è di grande interesse innanzitutto perché ci offre una visione complessiva su uno degli elementi fondamentali della storia del Novecento: il comunismo.

Furet offre concetti e interpretazioni da cui non si può prescindere nel momento in cui si vuole parlare di storia di questo secolo. Ha scritto una grande opera di sintesi su un argomento ancora oggi oggetto di passioni politiche. Un'opera di grande respiro, un'indagine che abbraccia gli ultimi due secoli, dalla Rivoluzione francese all caduta del muro di Berlino; "Il Passato di un'illusione" è un libro sulla storia dell'idea comunista. Si tratta di un'opera appassionata sull'ideologia comunista e sui regimi da essa realizzati dopo la Rivoluzione d'ottobre. E' l'opera di un intellettuale convinto della superiorità del sistema e delle istituzioni sorte in Europa dopo l'illuminismo e messe in pericolo dalla tentazione giacobina, che inizia già a prendere corpo con la Rivoluzione francese fino a realizzarsi compiutamente nel partito comunista di Lenin e nei regimi del socialismo reale. Per Furet l'idea comunista si è rivelata una illusione. Illusione non concepita come la fine di un sogno ma piuttosto come l'inizio di una riflessione sulla capacità di attrazione di una ideologia che, oltre a coinvolgere e mobilitare masse e intellettuali, si è dimostrata più resistente di quanto la semplice parola "illusione" lasci normalmente immaginare. Osserva Furet che "l'illusione non accompagna la storia comunista: ne è l'essenza". Il perché della forza d'attrazione di questa illusione è il vero tema dell'opera. Bisogna subito dire, però, che l'illusione non è un'esclusiva del comunismo. Essa è una dimensione all'interno della quale si muove anche l'altra grande ideologia del 900, il fascismo. Scrive Furet: "il fascismo, prima di venir disonorato dai propri crimini, è stato una speranza. Ha sedotto non solo milioni di uomini, ma anche molte personalità". Ecco che l'illusione nel XX secolo fa il suo ingresso nella storia e lo fa da protagonista assoluto e non da comprimario.

L'origine in cui si muove la storia del Novecento, oltre che quella dell'Ottocento, è la Rivoluzione francese. Il comunismo non fa eccezione; al contrario trae da essa la legittimazione a porsi come guida della storia. Furet roconosce quasi una sorta di transfert immaginario attraverso il quale la Francia consegna il testimone del progresso umano, conquistato dal 1789, alla Russia della rivoluzione d'ottobre. La stessa base ideologia del comunismo affonda le sue radici in una realtà politica che dai tempi di Luigi XIV ha visto interrotti i tradizionali canali di comunicazione tra società e stato e che perciò ha trovato nella dimensione intellettuale lo spazio della libertà. È però - secondo Furet - una libertà astratta: vive in un mondo fondato sull'opinione. Gli Illuministi producono opinione, non azione. Ma le circostanze che preparano e conducono al 1789 saldano opinione a azione, generando l'ideologia rivoluzionaria. La politica diventa la sfera del vero e del falso, del bene e del male. Nasce l'illusione della politica. L'opinione diventa potere e lo diventa in quanto è unita al popolo, lo rappresenta, ne è la voce. Così Furet spiega il carattere essenziale di ogni rivoluzione e, nel contempo, il motivo per il quale la rivoluzione francese è paradigma di ogni rivoluzione.

Come nella concezione religiosa vi è una costante consapevolezza del nemico, che è il male, così è fondamentale per il nuovo immaginario politico la figura del nemico, del traditore. Il XIX secolo dà piena vita anche al nemico di cui la rivoluzione, ogni rivoluzione, ha bisogno. Il nemico di un evento universale deve essere un nemico universale, deve sempre accompagnare la rivoluzione avendo caratteristiche contrapposte, proprio come il male si oppone al bene, consentendogli tuttavia di trionfare. Un compito troppo grande, nel XIX secolo, per l'aristocrazia. Un nemico con queste caratteristiche può scaturire solo da un evento di assoluta portata storica. L'evento storico della rivoluzione industriale ha in sé il soggetto che può rivestire quel ruolo: la borghesia. La borghesia è l'unica in grado di creare un mondo "a sua immagine e somiglianza". E lo fa mediante lo sfruttamento della classe proletaria, cioè dell'unico altro soggetto storico universale nato dalla economia capitalista. È perciò ancora una volta il marxismo a dare sviluppo all'idea di rivoluzione, individuando con precisione il nemico. Ma - secondo Furet - che il vero nemico fosse il borghese era già stato in qualche modo anticipato, paradossalmente, dalla rivoluzione "borghese". Egli scrive: "I giacobini francesi del 1793, ritenuti gli iniziatori del regno della borghesia, offrono il primo concreto esempio di borghesi che detestano i borghesi in nome di principi borghesi". La figura del borghese soffre infatti di una forma di schizofrenia: da un lato, tende all'eguaglianza, dall'altro è caratterizzata dall'individualismo. La lotta contro la borghesia nasce sempre all'interno della borghesia e non rimane prerogativa del marxismo. Ogni tentativo di costruzione di una socialità totalmente nuova non potrà non vedere nell'egoismo borghese l'ostacolo fondamentale a che una somma di individui diventi corpo, organismo. In questa valutazione non differiscono fascismo e comunismo. Ma nell'800 manca lo spunto storico che possa dare sfogo a questa passione rivoluzionaria. Dei due grandi ideali consacrati dalla rivoluzione francese, l'uguaglianza e la nazione, gli Stati dell'800 fanno proprio il secondo, ma non secondo le modalità rivoluzionarie, bensì usandolo in senso controrivoluzionario. Esso diventa nazionalismo, cioè negazione dell'universale in nome del particolare: nazione e rivoluzione si separano. Ma quegli stessi Stati non capiscono che, proprio attraverso il nazionalismo, l'universale e perciò la rivoluzione sono destinati a prendersi la rivincita. Il nazionalismo, infatti, contribuisce a determinare quell'evento, la Grande Guerra, che riporta sulla scena della storia la rivoluzione.

E' solo la rivoluzione d'Ottobre che pone fine alla rivoluzione francese. Il 1917 consacra la rivoluzione francese come madre di un evento reale definitivamente liberatore. Il fascino del bolscevismo vittorioso è vivo e potente da subito non tanto per una effettiva conoscenza di ciò che esso è, bensì per il fatto che esso, nell'immaginario delle masse realizza la promessa di universale rigenerazione dell'umanità contenuta nell'evento rivoluzione dal 1789 in poi. La rivoluzione d'Ottobre viene promossa a speranza del genere umano. Si capisce allora lo strano paradosso per cui la Russia - paese definito più di ogni altro come "arretrato" - compie improvvisamente il gran balzo da retroguardia ad avanguardia dell'umanità. Ed anche l'altro paradosso, per cui l'idea leninista, proprio nel momento in cui instaura il potere del partito unico, acquista una certa credibilità anche in chi non è comunista. La Russia di Lenin è da subito un simbolo, il quale più si mostra come evento di liberazione reale e storica, più risulta intoccabile dalla realtà e dalla storia. Gode di una sorta di impunità: vi è e vi sarà sempre una giustificazione ai suoi atti, anche ai più inconfessabili. Basta - osserva Furet - ritornare allo schema mentale giacobino del paese eletto dalla storia, novello Israele laico. Così un primo elemento che va ad accrescere il significato universale del comunismo reale è proprio ciò che a prima vista sembra negarlo: la sua limitazione alla Russia, che strizza l'occhio al secolare panslavismo. Ad universalismo fatto di pace e scienza, successivamente, e lo vedremo, Stalin aggiunge l'idea di nazione eletta. E il nemico della storia, come abbiamo già detto, in attesa che Hitler faccia parte della compagnia - è lì, ben identificabile: il capitalismo. Ne scaturisce una miscela fatta di pace, scienza, nazione, volontà e odio del nemico. Una miscela resa ancor più forte dalla depressione economica americana del 1929. I terribili anni trenta, gli anni del Terrore staliniano, si apprestano a diventare anni formidabili per l'idea comunista.


Ma il sogno per realizzarsi ha bisogno delle due massime divinità terrene della storia: Stalin e Hitler. In altre parole, il comunismo riceve dal fascismo - e poi dal nazismo - una nuova dimensione culturale e politica, che ne consacra definitivamente l'universalità. Tra i molti delitti del fascismo - suggerisce Furet - c'è anche quello di aver dato la patente di difensore della libertà ad un regime che nulla gli doveva invidiare in termini di illibertà. Vi è già la percezione, in sostanza, che con fascismo e comunismo ci si trova di fronte a qualcosa di mai visto prima. Non è più solo il potere di un despota, di un re tiranno, ma il potere di uno Stato che controlla tutto e tutti. Ma qual è il metodo da seguire per effettuare questa analisi comparata e quindi determinare con precisione questa novità che accomuna i due sistemi contrapposti? Furet pone molta attenzione al dato cronologico; egli individua un'origine, una madre dei totalitarismi: è la I^ Guerra Mondiale: Egli afferma: "bolscevismo e fascismo nascono dallo stesso terreno, la guerra. Trasferiscono nella politica quanto imparato in trincea: l'abitudine alla violenza, la semplicità delle passioni profonde, la sottomissione dell'individuo al collettivo, infine, ma questo lo si valuterà col senno del poi, l'amarezza dei sacrifici inutili e traditi". Da qui, Furet, prosegue nel confronto prendendo in esame due coppie: Lenin e Mussolini prima, Stalin e Hitler poi. Mussolini e Lenin sono entrambi radicati nel socialismo rivoluzionario; la rivoluzione è il loro credo al punto da poter parlare del primo Mussolini niente affatto lontano dal bolscevismo. Furet non valuta il repentino passaggio dello stesso Mussolini dal pacifismo all'interventismo come un rinnegamento della idea rivoluzionaria; al contrario, lo vede come il tentativo del futuro duce di coniugare rivoluzione e idea nazionale. Questa unione genera il fascismo. Anche il nemico del fascismo sono il parlamentarismo, le democrazie plutocratiche, la borghesia; anche per il fascismo la storia è fatta di conflitti, da rapporti di forza tra soggetti collettivi e lo stato di diritto è una copertura del potere. La guerra ha insegnato al fascismo a interpretare la politica come lotta senza quartiere contro il nemico e a coltivare il culto della violenza. Ciò che esso vuole realizzare non è affatto un qualche ritorno al passato, ma - come il bolscevismo - l'uomo nuovo. Questa creazione di una destra rivoluzionaria è ciò che spiega l'unicità del fascismo e insieme ciò che lo connette al leninismo: la loro comune fede è la trasformazione del mondo per mezzo dell'azione, ed è comune la fede nella efficacia "redentrice" della rivoluzione. Ma quello che Lenin e Mussolini preannunciano è portato a compimento da Stalin e da Hitler. Un certo antifascismo non sa spiegare perché questi due uomini, e solo questi due uomini, abbiano creato un tale sistema repressivo da causare la morte di milioni di persone. Sa solo soffermarsi su quanto riguarda Hitler, rimanendo più o meno nettamente in imbarazzo di fronte a Stalin. Eppure il primo dato da questo punto di vista, e cioè l'omicidio di massa, è dato comune, come sono in buona parte comuni i mezzi con i quali è stato perpetrato. Entrambe le ideologie promettono la salvezza nella storia. Hitler è - nella visione di Furet - "ideologo puro": dice e scrive da subito quello che farà. Il fatto è che milioni di persone gli danno il loro consenso, perché li sa rappresentare nelle loro paure e nel loro bisogno di avere un nemico. Anch'egli, come Mussolini, esalta il particolare; ma il suo nazionalismo ha qualcosa in più, la razza, che diventa il chiavistello per rendere il particolare universale. La distruzione dell'onnipresente congiura ebraica e il predominio sulle razze inferiori fondano, nella prospettiva nazionalsocialista, il ruolo universale dell'uomo ariano. L'universalismo razzista ripercorre gli schemi dell'universalismo di classe bolscevico e più si contrappone ad esso, più gli assomiglia. Nel contrapporsi, si alimentano. Ma ad uscirne vittoriosa sarà l'idea comunista. Si tratta ora di capire come e Furet ci da una mano. La crisi del capitalismo determinata dal crollo di Wall street aveva già dato un certo vantaggio al sistema comunista. È forse questo l'unico momento in cui si crede davvero che il collettivismo sia superiore all'economia di mercato anche sul piano strettamente economico. Ma la chiave che apre le porte a Stalin nel mondo democratico è l'antifascismo. La contrapposizione con Hitler è giocata infatti da lui, strumento il Comintern o III^ Internazionale (*) combinando abilmente le sue interpretazioni del nazismo e del fascismo


Qui aprirei una breve parentesi sulla definizione di Internazionale e sui contenuti che ne hanno caratterizzato i vari sviluppi a cavallo tra 1800 e 900.


La I^ Internazionale fu fondata a Londra nel 1864 come "Associazione Internazionale dei Lavoratori". Adottò le idee di Karl Marx, che ne formulò il programma. Propugnò l'abolizione degli eserciti permanenti e la conquista del potere per il controllo dei mezzi di produzione. Dopo una serie di vicissitudini si sciolse nel 1876.


La II^ Internazionale fu fondata nel 1889 al Congresso di Parigi allo scopo di collegare tra loro tutti i partiti socialisti del mondo. Dal 1890 organizzò la manifestazione annuale del 1° maggio, come giornata di protesta dei lavoratori. La II^ Internazionale rimase profondamente divisa al suo interno per le tendenze rivoluzionarie e riformiste. Riaffermò, comunque, all'unanimità la sua opposizione alla guerra nel congresso di Stoccarda del 1907. Lo scoppio della I guerra mondiale provocò la dissoluzione della II^ Internazionale. I rivoluzionari guidati da Lenin e Rosa Luxemburg (rivoluzionaria tedesca, nel 1918 partecipò alla costituzione del partito comunista tedesco. Antimilitarista convinta fu assassinata da alcuni ufficiale dell'esercito)  nel 1919 provocarono la scissione da cui sorse il Commintern o III^ Internazionale, privando la II^ I. dei comunisti.


La III^ Internazionale integrata con l'Internazionale Sindacale rossa (nel 1921) poi col Soccorso rosso e operaio internazionale, aveva come obiettivo la rivoluzione comunista mondiale con l'appoggio dell'Unione Sovietica. Stalin la soppresse nel 1943 per favorire gli alleati nella II Guerra mondiale. Successivi contrasti fra occidente e sovietici portarono alla costituzione del Cominform (nel 1947) che riuniva una serie di partiti comunisti europei; in seguito anche il Cominform fu sciolto (1956).


Facendo un passo indietro bisogna ricordare che nel 1938 fu fondata da Trozkij, espulso dal partito comunista alla fine del 1927, una IV^ Internazionale come reazione alle tendenze nazionalistiche di Stalin e si propose di attuare la rivoluzione mondiale e la costituzione della dittatura mondiale del proletariato. Raccolse tra i suoi membri molti comunisti dissidenti fuggiti dall'URSS dopo le "purghe" staliniane del 1936. Alla morte di Trozkij (avvenuta nel 1940) perse la sua carica vitale e rimase come punto di riferimento ideale di tutti coloro che si ispirarono alle teorie del comunismo internazionale.


Ritornando all'opera di Furet si è detto che la chiave del successo di Stalin è l'antifascismo. Stalin ha capito meglio di chiunque altro Hitler, ha capito che è una minaccia per la Russia. Ci si può difendere indicandolo come bersaglio principale oppure accordandosi. Dal 1933 al 1939 prevale la prima linea. Diventa quindi gioco-forza che la vittoria di uno dei contendenti sarebbe dovuta passare attraverso una momentanea alleanza. Questo contribuisce a spiegare il patto di non aggressione fra Germania nazista e URSS siglato il 23 agosto 1939 al quale segue, il 28 settembre, un trattato di amicizia fra i due Stati che stabilisce il confine fra i due paesi impegnandoli, come vedremo, in una lotta comune contro la resistenza polacca.

L'antifascismo consente a Stalin di assumere anche il ruolo di difensore della patria. Scrive Furet: "Grazie all'antifascismo i comunisti hanno acquistato benemerenza democratiche senza mai abbandonare le loro convinzioni.La rivoluzione russa, grazie al nazismo, ha ritrovato il modo per arricchire la propria universalità". Due piccioni con una fava: l'acquisizione di una credibilità democratica ("demonizzando il comunismo e designandolo come il nemico per eccellenza, Hitler lo segnala all'amicizia dei democratici; Hitler spinge l'URSS nel campo delle libertà: è una democrazia rivoluzionaria" e una sorta di copertura per i suoi crimini: il più grande sistema repressivo del mondo diventa la più grande forza di liberazione; il più feroce nemico della democrazia borghese capitalistica acquista in essa diritto di cittadinanza. Furet riesce a spiegare questa straordinaria dote del comunismo di sapersi presentare non per quello che è, bensì per quello che dice di essere, e l'ancor più incredibile capacità di farsi credere da milioni di persone. Riesce in questa "coincidenza degli opposti" perché vive in due dimensioni: oltre che nel modo reale, vive nel mondo delle idee. È reale, ma vuole restare una utopia. L'antifascismo diventa cibo per l'universalismo bolscevico. Consente di mantenere e rafforzare l'identità comunista e, nello stesso tempo, di fornirla di una sostanza democratica. Ciò rende la misura di quanto esso sia stato messo in pericolo dall'accordo russo-germanico Molotov-Ribbentrop del 39. In una sola volta rischiano di scomparire due dei suoi elementi essenziali sopra elencati, la pace e la stessa bandiera dell'antifascismo. L'accordo è un vero e proprio patto di spartizione dell'Europa centro orientale. Ora i due grandi totalitarismi sono simmetrici anche nel tempo e nello spazio. Ne sa qualcosa la Polonia, dove i massacri nazisti ad ovest sono contemporanei a quelli comunisti ad est. Per il momento, si sostengono a vicenda nella distruzione dell'Europa. Durante il periodo del patto tedesco-sovietico, scoppia la seconda guerra mondiale in seguito all'invasione tedesca della Polonia (1-9-1939) e alla successiva dichiarazione di guerra da parte di Inghilterra e Francia. Quest'ultima viene velocemente sconfitta e truppe tedesche ne occupano il territorio, mentre il 16 giugno 1940 si costituisce il governo del Maresciallo Petain con sede a Vichj, nel territorio non occupato dalle truppe tedesche: l'Inghilterra rimane per circa un anno da sola ad opporsi alla Germania di Hitler. Stalin è comunque in una posizione difficile, perché sa che Hitler non scherza e perché la resa della Francia ha modificato gli equilibri. Ciononostante, come è noto, l'operazione Barbarossa (l'invasione tedesca in territorio russo) lo coglie talmente di sorpresa da renderlo incapace di reagire per diversi giorni, anche se qualcuno ha sostenuto che l'opeazione di Hitler sarebbe stata preventiva rispetto a un attacco sovietico.

E' un momento drammatico per l'Unione Sovietica: ripetutamente sconfitto, il suo esercito è costretto ad arretrare verso est, mentre le truppe tedesche sono accolte come un'esercito di liberazione da molta parte della popolazione, da numerosi villaggi che offrono ai soldati tedeschi pane e sale secondo le sacre abitudini dell'ospitalità; infine, centinaia di migliaia di uomini chiedono di potersi arruolare in un esercito slavo anticomunista. Nel 1941, sessanta milioni di cittadini sovietici su centocinquanta non sono più sotto il controllo dell'URSS.

In pochi mesi la situazione cambiò completamente: Stalin accentua la componente nazionalista lancia continui appelli alla difesa della patria. Nasce un movimento partigiano che opera contro le truppe naziste e italiane; l'esercito tedesco viene sconfitto davanti a Mosca, da dove era addirittura fuggito il governo sovietico. Come Napoleone, anche Hitler comincia la sua disfatta dalla trappola russa.

Invece Stalin riceve dal nazionalsocialismo il miglior regalo della sua carriera politica: da complice della barbarie nazista e da traditore diventa in pochi mesi la vittima e l'eroe che resiste all'invasore e lentamente ma inesorabilmente lo ricaccia da dove era venuto.

L'Armata Rossa arriverà a Berlino come un esercito liberatore e Stalin siederà accanto a Churchill e a Roosevelt per operare la spartizione del mondo: vittime di Yalta, i popoli dell'Europa orientale diventeranno negli anni successivi alla fine della guerra schiavi di Mosca.

Ciò che, se coronato da successo, avrebbe potuto decretare la morte dell'idea comunista ridà un insperato vigore e una rinnovata credibilità. Il 22 giugno 1941, l'inizio di una sconfinata tragedia per il popolo russo, è, per tragica ironia della storia, il giorno della risurrezione dell'idea. La fiacca universalità che era riuscita a mantenere, si rinvigorisce, torna a essere "vera". Tutto quello che le aveva portato in dote l'antifascismo, e che sembrava irrimediabilmente perduto, è, senza il minimo sforzo (dice Furet: "senza aver nemmeno bisogno di volerlo") di nuovo a disposizione. "Ha pensato a tutto Hitler". La guerra nazionalsocialista assume una dimensione universale; chi gli è contro, per scelta o per necessità, deve mettersi allo stesso livello. Stalin, senza accorgersene, si trova nuovamente dalla parte della democrazia, dalla parte dei nemici e delle vittime, quando era stato fino al giorno prima amico e carnefice. Una guerra mondiale aveva creato le condizioni per la vittoria del bolscevismo; un'altra guerra mondiale lo riporta alla ribalta della storia. È ora più forte che mai, ideologicamente e politicamente. È forte e si permette il lusso di rappresentare la libertà, proprio ora che il potere di Stalin è ancor più assoluto. Il popolo russo ha salvato se stesso e l'Europa dal nazismo ma non dal comunismo. Al contrario, è talmente aumentata la potenza dell'Unione Sovietica da consentirle di competere con gli USA. E se il confronto non può reggere in termini economici, è invece a vantaggio dell'URSS in termini ideali. L'idealismo americano, che pure esiste, è svantaggiato, perché è facilmente presentabile solo come maschera del capitalismo, come la copertura dell'imperialismo del denaro. Come può avanzare pretese di universalità in un Europa in cui da decenni fascismo e comunismo hanno diffuso a piene mani l'odio per "il complotto plutocratico" variamente specificato? Quello che ha di buono, e cioè l'antifascismo, non è già rappresentato allo stato puro dall'idea comunista? Ritorna con una forza di persuasione enormemente aumentata l'identificazione "vero antifascismo = comunismo", e cioè l'accostamento "vera democrazia = comunismo". Se per ben due volte nel giro di una decina di anni uno dei più repressivi sistemi mai esistiti si è guadagnato la patente di democratico, o quantomeno di non contrario alla democrazia, e se ciò è avvenuto grazie all'opposizione a un sistema con cui in fondo condivideva più di quanto si pensasse, bisogna che, per l'idea comunista, il fascismo continui in una qualche maniera ad esistere per poterne vivere di rendita. Bisogna farne un pericolo permanente, un nemico costante, cui in fondo attribuire anche i propri crimini, come se non bastassero i suoi.

Come la prima guerra mondiale aveva reso possibile la Rivoluzione comunista in Russia, così la seconda permette l'esportazione del comunismo fuori dall'URSS. Stalin saprà approfittare del credito raccolto in Occidente con la guerra antinazista e nel giro di tre anni il regime comunista scenderà come la notte più buia sull'Albania, la Cecoslovacchia, la Polonia, l'Ungheria, la Bulgaria, la Romania, oltre che in Jugoslavia con modalità diverse. In tutti questi casi vale il principio spartitorio della logica di Yalta e le suddette nazioni diventano regimi comunisti nonostante i partiti comunisti locali siano rappresentativi di parti minoritarie, in alcuni casi addirittura minuscole, dell'opinione pubblica.

Il viale del tramonto comincia prima del previsto per l'idea comunista. Ha saputo unire, vincendo il nazismo, nazione e rivoluzione, particolare e universale, cioè - ribadisce Furet - le due grandi passioni politiche della democrazia del XX secolo. Ma proprio la vittoria porta con sé i germi di un nuovo e stridente contrasto tra idea e realtà. Semplificando, si può dire che l'idea, sempre più universale e attraente, si stabilisce nell'Europa occidentale, mentre la realtà mostra il suo duro volto nell'Europa orientale. L'Occidente inizia a riprendersi e si appresta a prosperare con i soldi e la protezione americana; eppure una larga fetta del mondo intellettuale non sposa il sogno americano, che pure ha una sua capacità di attrazione. Non è solo per il rifiuto del capitalismo. Furet aggiunge un'altra ragione, e cioè il fatto che l'idealismo americano è, nonostante tutto, troppo bigotto per essere accettato dai figli di una rivoluzione, quale è quella francese, che vuole sostituire la fede cristiana con la fede "democratica". La democrazia statunitense ha una genesi diversa, certo non radicalmente diversa, ma abbastanza per non suscitare gli stessi entusiasmi che suscita invece la politica così come è pensata e vissuta a partire dalla rivoluzione francese. La politica americana, sta più, per così dire, al suo posto, non è tutto. L'idea comunista ha invece tutti i requisiti per essere depositaria dell'eredità rivoluzionaria francese. Il problema è che la sua universalità si concretizza nella creazione di un impero. Per quale motivo è un problema? Perché in un impero, universale e nazionale non sono più conciliabili; o meglio, lo sono per chi nell'impero non vive e può allora continuare a idealizzare; non lo possono però essere per chi è sì comunista, ma nell'impero ci vive. L'universalità ottenuta con le armi non combacia con l'universalità dell'idea. In questo senso - secondo Furet - lo strappo di Tito, forte dei risultati ottenuti sul terreno contro il nazismo, ha un grande valore simbolico: l'idea non ha più una sola patria. È un evento capitale, perché segna l'inizio della pressione della realtà sull'idea.

Se nell'impero l'idea comincia a mostrare le prime discrepanze, al di fuori dell'impero essa, proprio perché non è applicata in profondo, vive anni di splendore, confermando che dà il meglio di sé quanto più è lontana dalla sua realizzazione. In Francia e in Italia ha monopolizzato culturalmente il campo democratico: chi è ostile al comunismo non può essere un sincero democratico e un sincero antifascista. E neanche la guerra fredda russo-americana ne intacca l'integrità dell'idea. Anzi, in quel contesto la crociata maccartista - in America in quel periodo si correva il rischio, anche solo indossando sbadatamente una cravatta di colore rosso, di essere schedati dalla CIA come comunista - la rafforza, in quanto fa passare per strumentale ogni posizione critica.

Ma è con la denuncia dei crimini di Stalin compiuta da Chruscev in occasione del XX congresso del PCUS che si sconvolge lo status dell'idea. È insieme però il tentativo estremo di salvarla.

Così la commenta Furet: "Stalin è stato troppo al centro del movimento comunista perché sia semplicemente possibile sbarazzarsene, anche se in pubblico. I suoi eredi, compagni o figli infedeli, non possono ucciderlo senza farsi del male". Ma Chruscev non si rivolgeva alla società bensì al partito e chiedeva non la fine dell'uso della violenza contro i popoli asserviti dall'URSS, ma soltanto la fine delle eliminazioni interne al partito. Infatti, solo pochi mesi dopo il discorso di Chruscev, l'URSS sopprime la protesta scoppiata in Polonia e soprattutto, nell'ottobre, invade l'Ungheria dove si sta verificando la più grande rivolta anticomunista nella storia dell'impero. Così, gli eredi di Stalin sono costretti a farsi del male per sbarazzarsi dell'ingombrante figura del "despota". l'URSS perde in Occidente l'immagine favorevole che aveva faticosamente riconquistato dopo la seconda guerra mondiale nonostante gli "errori" commessi nella guerra civile spagnola e l'ingombrante parentesi dell'alleanza col nazionalsocialismo dal 1939 al 1941.

L'idea universale, la grande utopia, comincia a dissolversi lentamente: non riesce più a tenersi lontana dal reale. Non vi sono profonde rotture nella politica sovietica. Continua a non essere tollerata alcuna opposizione, ma il solo fatto di porre fine al terrore di massa suscita il senso che una nuova stagione si stia aprendo. Furet ritiene che il potere sovietico è meno totalitario, perché la destalinizzazione posta in atta da Kruscev ha bisogno di uno spiraglio di libertà, soprattutto negli ambienti intellettuali. Non significa certo che vi sia libertà di parola - e lo testimonia lo "scandalo Pasternak"   -, ma, se non altro, Pasternak è ancora vivo, e non è un progresso insignificante. Vent'anni prima sarebbe stato rinchiuso in prigione, deportato e alla fine ammazzato.

Si ricorda che la pubblicazione, non autorizzata in URSS, del romanzo "il dottor Zivago" di Boris Pasternak provocò da parte delle autorità sovietiche vivaci polemiche e critiche che si acuirono allorché lo scrittore ricevette il premio Nobel per la letteratura nel 1958, cui poi fu costretto a rinunciare.

Inizia così il movimento - tutt'altro che unitario e compatto - dei dissidenti. Si affaccia sulla scena politica mondiale Breznev.

Conclude Furet: "Inizia in Occidente il funerale dell'idea comunista, che durerà trent'anni. Sarà seguito da una immensa folla in lacrime. Al corteo parteciperanno persino le giovani generazioni, cercando qui e là di farlo apparire come una rinascita" .

L'idea comunista avrebbe bisogno d'aria nuova, di svincolarsi dal territorio russo, sua fortuna, ma ora suo cimitero; sembra ringiovanire con Mao, ma il maoismo riesce al più a sedurre solo ristretti circoli studenteschi ( l'idea del comunismo in Cina è - sotiene Furet - un "calco antisovietico del sovietismo", un'"illusione sull'illusione"); si dà un volto latino con Castro e Che Guevara, ma perde in purezza per offrire utopie ai figli dei ricchi occidentali. Niente di ciò riuscirà a resuscitarla. La contestazione studentesca del '68 contiene tutte queste versioni dell'idea, ma "la fantasia al potere" - slogan tanto in voga in quel particolare momento storico - la rende solo strumento di denuncia del modo di vita borghese; non può più essere modello positivo.

I partiti comunisti europei cercano di salvare il salvabile: si vuole dare il messaggio che il comunismo è perfettibile, che può avere un volto umano.

Si prepara una nuova fase rivoluzionaria che prenderà il nome dall'anno, il 1968, in cui si verificano gravi e continui incidenti fra studenti parigini in rivolta contro autorità accademiche e forze dell'ordine. Per la verità, il fenomeno della cosiddetta contestazione proveniva dagli Stati Uniti, dai campus universitari, ma in Europa passerà alla storia attraverso il maggio francese, corrispondente nella mitologia rivoluzionaria alla presa della Bastiglia del 1789.

In estrema sintesi, si può definire il Sessantotto come una rivoluzione culturale che mira alla costruzione dell'uomo nuovo, grazie a "una ribellione totale", secondo l'espressione di Marcuse.

L'idea del comunismo conosce una nuova possibilità di universalità, incarnata da molti eredi del 68; quella costituita dal divieto di essere anticomunisti, in quanto il comunismo indica la direzione del progresso. Questa condizione consente l'ultimo, forse, "miracolo" ideologico-storico: quello di essere dalla parte della rivoluzione e nello stesso tempo perfettamente integrati nel sistema. Scrive Furet: "L'eredità più consistente dei fatti accaduti alla Sorbona, all'Università libera di Berlino, alla Scuola normale superiore di Pisa o a Oxford, non è né il maoismo, né il castrismo, ma un nuovo progressismo borghese. Gli ex sessantottini hanno fatto subito la pace col mercato, con la pubblicità, con la società dei consumi in cui spesso nuotano, come se ne avessero denunciato i difetti per adattarsi meglio. Ma pur nel loro inserimento sociale intendono conservare i benefici intellettuali dell'idea di rivoluzione".

Circa 20 anni dopo, sul finire degli anni '80, Il comunismo umano sembra installarsi nella patria della rivoluzione di Ottobre; Gorbacev, neo presidente dell'Unione Sovietica, non vuole seppellire l'idea, ma darle nuova vita. Essa però non può realmente convivere con la libertà. Se prova a farlo, di essa non rimane - sono parole di Furet - "altro se non ciò che ha distrutto": il comunismo muore per decomposizione interna. Passa dalla rivoluzione alla involuzione; e conclude Furet: "E' come se stesse per chiudersi la più grande strada mai aperta in fatto di felicità sociale all'immaginazione dell'uomo moderno". Ma aggiunge, subito dopo, che questo fallimento non riguarda solo i fedeli o i simpatizzanti dell'idea. Riguarda in qualche modo tutti perché pone in discussione l'esistenza di un senso realizzativo della storia. Qualcuno arriva persino a parlare di fine della storia. Il fatto è che nel XIX secolo la storia aveva preso il posto di Dio. Morto con le ideologie questo idolo, che cosa rimane?

Furet non ritiene che si possa sopportare a lungo questa situazione. Fa parte della democrazia l'esigenza di una società diversa.




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