I
due pellegrini lasciano la bolgia dei ladri e riprendono il faticoso cammino.
DalI'alto del ponte che sovrasta l'ottava bolgia questa appare loro percorsa
da fiamme simili alle lucciole che il contadino vede nella valle quando si
riposa, alla sera, sulla sommità della collina. Ogni fiamma nasconde un
peccatore. In una di esse, che si distingue dalle 515c26f altre per il fatto di
terminare con due punte, scontano le loro colpe - l'inganno che costrinse
Achille a partecipare alla guerra di Troia, il ratto fraudolento del
Palladio, lo stratagemma che causò la rovina del regno di Priamo - due Greci:
Ulisse e Diomede. Poiché Dante ha manifestato il desiderio di udirli parlare,
Virgilio si rivolge alla fiamma biforcuta pregando affinché uno dei due eroi
riveli il luogo della sua morte. Dalla punta più alta esce allora la voce di
Ulisse. Egli racconta che, dopo la sosta presso la maga Circe, nulla poté
trattenerlo dall'esplorare il Mediterraneo occidentale fino alle colonne
d'Ercole, limite del mondo conoscibile. Qui giunto, si rivolse ai fedeli
compagni, come lui invecchiati nelle fatiche e nei rischi: << Fratelli,
nel poco tempo che ci rimane da vivere, non vogliate che ci resti preclusa la
possibilità di conoscere il mondo disabitato. Seguiamo il sole nel suo
cammino. La vita non ci fu data perché fosse da noi consumata nell'inerzia,
ma perché l'arricchissimo attraverso la validità delle nostre azioni e delle
conoscenze da noi raggiunte >>. Questo breve discorso infiammò a tal
punto i membri dell'equipaggio, che i remi parvero trasformarsi in ali e la
nave volare sulla superficie dell'oceano inesplorato. Cinque mesi dopo il
passaggio attraverso lo stretto di Gibilterra una montagna altissima si
mostrò all'orizzonte. Da questa ebbe origine un turbine; la nave girò tre
volte nel vortice delle onde, poi si inabissò; il mare si chiuse sopra di
essa. |
Quasi
tutti i personaggi della prima cantica appaiono consapevoli, in forme più o
meno esplicite, del male compiuto: il rimorso è alla radice del loro modo di
manifestarsi anche là dove, disperatamente, cercano di soffocarne la voce.
Nell'episodio di Ulisse tuttavia l'elemento tragico non è rappresentato dal
peccato. Per quanto gravi siano infatti le colpe che condannano, nella bolgia
dei consiglieri fraudolenti, l'ideatore dell'agguato che pose termine
all'orgoglioso dominio dei Troiani, ad esse il Poeta dedica appena un cenno
di carattere informativo (versi 58-63), destinato a non riproporsi, nemmeno
come motivo marginale, nel racconto della corsa disperata di questo peccatore
di retro al sol. Vigorosamente emblematica, questa espressione riassume il
senso dell'intero episodio. Essa non si limita ad indicare una direzione
nell'universo fisico (uno dei quattro punti cardinali); proclama, oltre il
suo orizzonte più immediato, l'ineluttabilità dell'imperativo morale,
additando "una via tracciata nel cielo, che invita l'uomo a percorrerne
una parallela sulla terra" (Fattori).
I peccati che Ulisse sconta - immune, nel suo involucro di fuoco, da ogni
contatto con la cronaca dei tempi non eroici (in più di un luogo del suo
poema Dante contrappone il Medioevo all'antichità classica, oggettivandolo in
aspra "commedia" ) e da tale cronaca appartato anche per il fatto
che ignora il " volgare " in cui essa si esprime - sono presentati
in modo generico, inquadrati in uno schema astratto e come distaccati dalla
volontà viva e personale dell'eroe. "E se il Poeta non può non far
menzione della pena di questo suo personaggio e sembra anzi insistere su di
essa, quell'insistenza non è se non una retorica variatio... che non importa
una maggiore intensità di sentimento, poiché il si martire, il si geme, il
piangevisi, il pena vi si porta sono dei semplici sinonimi di un " è
punito ", e sarà anche da osservare la forma passiva, per cui non l'eroe
sofferente è presentato nel discorso come soggetto, bensì il peccato di cui
il discorso deve dar notizia. L'eroe, questo importa, pur dannato, rimane non
tocco nel suo intimo dalla dannazione." (Fubini)
La tragedia di Ulisse è nel suo naufragio, incidente ai suoi occhi fortuito,
dato di fatto nel quale sembra, inspiegabilmente, incarnarsi una volontà tesa
a negare l'ideale da lui perseguito oltre i limiti per tradizione assegnati
alle capacità umane. "Nell'istante medesimo in cui la incoercibile
potenza dell'umana attività, vicina ormai e quasi già tocca la meta,
risplende con tutta la sua luce, Iddio respinge duramente da sé la grandezza
e la passione dell'uomo, per travolgerle con impeto d'uragano nell'abisso del
nulla." (M. Rossi)
Per un cristiano non c'è evento, per quanto doloroso o ingiusto appaia, in
cui non rifulga la razionalità del divino: razionalità che guida e giudica
quella degli uomini e nella quale occorre credere, prima di poterla
interrogare. Ulisse non ha questa fede. Crudelmente enigmatico, nodo che la
ragione non sa sciogliere, "bruno" come il purgatorio intravisto
sulle soglie della morte, Dio appare ad Ulisse una forza destituita di
qualsiasi significato, oceano inconsapevole che turbina e semina morte per
poi placarsi in una inerzia remota da ogni dolore (infin che 'I mar fu sopra
noi richiuso), arbitrio che opprime, attraverso la distruzione della vita,
l'insorgere nella coscienza del richiamo del dovere (seguir virtute e canoscenza).
Nella dedizione a questo dovere ogni barriera che opponga l'uomo all'uomo,
chiudendolo nei termini aridi del suo sopravvivere animale (il prosperare dei
bruti), si rivela fallace, indegna di esistere: la cortesia e il rispetto (o
frati... non vogliate...) contraddistinguono l'orazion picciola che l'eroe
rivolge ai vecchi marinai nel momento in cui sta per decidersi il loro
destino.
Ulisse costata il reciso, brutale divieto opposto da " qualcuno " -
essere senza nome né volto né anima - all'ardore di conoscenza che lo ha
portato lontano da Circe, dal riposo negli itinerari noti, dal consenso di
affetti che rende sopportabile il tempo che conduce alla morte, senza mai
scorgere in questo " qualcuno " Dio, in questo essere la fonte di
ogni essere, in quella che può apparire crudeltà una sapienza e una carità
insondabili. Proprio perché Dio è, nelle parole di Ulisse, ignorato in quanto
tale, nessun accento di sfida intorbida la semplicità del suo dire (quale
contrasto fra il pudore del suo resoconto e il turgido proporsi della
superbia in Capaneo, adulatrice di se stessa, interpretante se stessa s'il
piano compiacente delle ipotesi!), impaziente, fin dal le prime parole, di
consumarsi in epilogo implacabile, sdegnoso dell'indugio nell'inessenziale
(tappe di un itinerario etico, i luoghi visitati dalla compagna picciola non
propongono al navigatore il tema delle lusinghe e della curiosità vagabonda)
In una penetrante analisi di quest'episodio M. Rossi scrive che nella
Commedia "dove l'offesa a Dio è anche sentita, insieme, come offesa alla
propria umana dignità... la voce della coscienza e la voce di Dio paiono
levarsi insieme concordi, come un'unica voce, alla condanna dal cuore del
colpevole... Ma qui Dio è nella coscienza solo come imperscrutabile ed inattingibile
da essa, ed sentito dallo spirito non... nella infinita ricchezza spirituale
del concetto di assoluto, nel quale lo spirito finito conquista la sua verità
e la sua pace... Qui il Dio della speculazione cristiana sembra assumere per
un istante innanzi allo spirito del Poeta la cupa e chiusa terribilità del
Fato". Queste osservazioni appaiono giustissime, ove si prescinda dal
fatto che ogni episodio della Commedia tende a risolversi entro una
prospettiva simbolica o più precisamente, secondo la definizione proposta
dall'Auerbach, "figurale", nel cui ambito ogni dubbio o
inquietudine in materia di fede si definisce e si placa.
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