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CANTO I - CANTO III, CANTO VI

dante



CANTO I


1-36. PROEMIO AL PARADISO. Dichiarato l'argomento del suo canto, Dante invoca Apollo: se il dio della poesia lo aiuterà nel suo compito, egli potrà sperare nella corona d'alloro, il cui solo desiderio sarà al nume tanto più gradito quanto più raro è sulla terra, «colpa e vergogna de l'umane voglie».

37-81. TRASUMANAZIONE E ASCENSIONE DI DANTE. Riprende la narrazione del viaggio rimasta

interrotta con la fine della seconda cantica e il proemio della terza. Indicato il momento

cronologico dell'azione, Dante narra che, tornato dall'Eunoé, vede Beatrice volta a

sinistra a fissare il sole. Anch'egli fa altrettanto e, riuscendo a figgervi gli occhi,

scorge una grande luce. Tornato con lo sguardo a Beatrice si sente trasumanare: pur non



accorgendosene, sta salendo con la sua donna verso il cielo; solo da un fatto nuovo è colpito: una dolce armonia e una straordinaria luminosità.

82-93. PRIMO DUBBIO DI DANTE. La novità della dolce armonia e della grande luminosità suscita in Dante il desiderio di conoscerne la ragione, poiché egli crede di essere ancora sulla terra. Beatrice che legge il dubbio nella mente di Dante, senza essere interrogata, gli spiega che essi stanno salendo velocissimamente verso il cielo.

94-142. SECONDO DUBBIO E SOLUZIONE DI BEATRICE: L'ORDINE DELL'UNIVERSO. Sorge in Dante un nuovo dubbio: come mai egli, corpo pesante, possa trascendere « questi corpi levi ». Ne chiede la ragione a Beatrice e questa gli spiega come tutte le cose siano ordinate e dirette al proprio fine, per raggiungere il quale una forza speciale 525g61f , l'istinto, dà loro l'impulso. Il fine dell'uomo è Dio, da cui però la creatura può, ingannata da beni fallaci, deviare volontariamente. Ma Dante è purificato e libero di ogni legame terreno e per questa forza naturale tende verso Dio: ci sarebbe invece da meravigliarsi se in tale rinnovellata

condizione fosse rimasto sulla terra, come se la fiamma viva non tendesse in alto verso la propria sfera.


CANTO III


1-33. APPARIZIONE DELLE ANIME BEATE. Dante alza il capo verso Beatrice per dichiarare di aver compreso la verità sulle macchie lunari, ma una improvvisa visione lo distrae. Gli appaiono i volti di varie anime, ma così tenui da sembrare immagini riflesse in un vetro trasparente o in acque nitide. Credendo appunto di vedere delle immagini riflesse, Dante si volge indietro, ma non scorge nulla. Stupito, guarda Beatrice che, sorridendo, gli spiega che si tratta veramente di spiriti beati relegati qui per non aver adempiuto ai voti fatti, e lo invita a parlare con essi fiduciosamente.

34-57. PICCARDA DONATI. Dante si rivolge a quell'anima che dimostra più intensamente il

desiderio di parlare e le chiede chi sia e quale è la situazione dei beati in quel cielo.

L'anima dichiara di essere Piccarda Donati e spiega come essa e gli altri spiriti che la

circondano siano in quel cielo, che è il più basso di tutti, per non aver adempiuto sino

alla fine ai voti fatti.

58-90. PICCARDA SPIEGA A DANTE I VARI GRADI DI BEATITUDINE. Dante, dopo aver dichiarato che la nuova bellezza di Piccarda gli aveva impedito un pronto riconoscimento, chiede se queste

anime, collocate nel più basso dei cieli, non sentano il desiderio di stare in un cielo più

alto. Piccarda, insieme con le altre anime, sorride e poi risponde che i beati vogliono ciò

che Dio vuole, e proprio in tale adeguarsi della loro volontà alla volontà  divina sta la

loro beatitudine.

91-108. SPIEGAZIONE DELL'INADEMPIENZA DEL VOTO. Dante ringrazia della spiegazione ottenuta, e chiede ancora a Piccarda quale sia stato il voto da lei non adempiuto. Essa narra allora di essersi da giovane ritirata dal mondo, facendosi suora nell'ordine di S, Chiara; ma purtroppo uomini, adusati al male, la trassero violentemente dal chiostro e solo Dio sa la

tristezza della sua vita successiva.

109-120. PICCARDA ADDITA LO SPIRITO DI COSTANZA IMPERATRICE. Piccarda indica un'anima luminosa sulla sua destra, che comprende bene ciò che essa dice di sè, perchè vittima lei pure della violenza: monaca, fu strappata al convento, anche se rimase nel cuore fedele alle «sacre bende ». Essa è la luce dell'imperatrice Costanza, che generò l'ultima possanza» dell'Impero.


CANTO VI


1-27. RISPOSTA ALLA PRIMA DOMANDA: GIUSTINIANO NARRA LA SUA VITA. Lo spirito, rispondendo alla prima domanda del poeta, dichiara di essere Giustiniano, portatore dell'Aquila romana dopo più di duecent'anni che Costantino ne aveva trasferito la sede in Oriente. Parla poi della sua conversione alla fede vera e della sua opera legislativa.

28-36. RAGIONI DELLA DIGRESSIONE SULL'IMPERO. Data risposta alla prima domanda del poeta,

Giustiniano afferma che la natura stessa di tale risposta, con l'accenno all'aquila romana, lo obbliga ad indicare come erroneamente agiscano i Guelfi e i Ghibellini, gli uni combattendo «il sacrosanto segno», gli altri indebitamente appropriandoselo. Si tratta della lunga storia dell'Impero, che lo rende degno di riverenza.

37-54. STORIA DELL'AQUILA ROMANA: L'ETA' DEI RE E DELLA REPUBBLICA. Giustiniano comincia il

racconto della storia del «sacrosanto segno»: fatta dimora in Alba per più di trecento anni, esso passò nelle mani di Roma con la lotta fra Orazi e Curiazi. Vinse i nemici vicini durante il periodo dei sette re e successivamente debellò i Galli e i Tarentini, e atterrò l'orgoglio dei Cartaginesi, che pure, dietro ad Annibale, erano giunti sino in Italia. Trionfarono sotto di lui, ancor giovani, Scipione e Pompeo, come prima erano rifulse le gesta di Torquato, di Cincinnato, del Deci e dei Fabi

55-96. STORIA DELL'AQUILA ROMANA: L'ETA' IMPERIALE. Giustiniano sintetizza poi le gesta

dell'aquila affermando che quando il Cielo stabilì che tutt'il mondo fosse in pace, Cesare

prese in mano il sacrosanto segno. Però la massima gloria toccò al terzo Cesare, Tiberio,

sotto il cui regno avvenne la Redenzione. Anche la vendetta dell'uccisione di Gesù fu opera del «sacrosanto segno», tenuto allora da Tito, e finalmente esso protesse la Chiesa, attaccata dal «dente longobardo», col concorso di Carlo Magno.

97-111. INVETTIVA CONTRO I GUELFI E I GHIBELLINI. Giustiniano conclude la digressione, ribadendo il suo rimprovero contro Guelfi e Ghibellini: i primi contrappongono al «sacrosanto segno» i gigli gialli di Francia, i secondi si appropriano di quel «segno», simbolo di giustizia, per ingiusti interessi di parte.

112-126. RISPOSTA ALLA SECONDA DOMANDA: CONDIZIONE DEGLI SPIRITI DEL CIELO DI MERCURIO.

Rispondendo alla seconda domanda, Giustiniano afferma che nel cielo di Mercurio sono apparse a Dante le anime di coloro che operarono il bene, ma per ambizione di gloria e di fama. Questa diminuisce i loro meriti, ma del grado della loro beatitudine essi sono contenti, perché vedono che la ricompensa è perfettamente pari a ciò che hanno meritato.

127-142. GIUSTINIANO INDICA LO SPIRITO DI ROMEO DI VILLANOVA. Giustiniano conclude dicendo che in questo cielo vi è anche l'anima di Romeo di Villanova che, giunto alla corte di Raimondo Berengario, seppe giovare grandemente al suo signore. Ma poi l'invidia dei cortigiani lo rese sospetto a Raimondo, per cui, partito vecchio e povero dalla corte, dovette andar mendicando, ma con animo saldo e dignitoso.


CANTO XI


1-12. CONTRASTO TRA LA VANITA' DELLE COSE UMANE E LA GLORIA CELESTE. Il poeta, accolto nel

cielo del Sole dall'ineffabile dolcezza del canto dei beati e dalla danza della «gloriosa

rota», pensa, per contrasto, alla vanità dei beni terreni, e commisera gli uomini per la

loro ottusa cecità.

13-27. DUE DUBBI DI DANTE. Dopo che la corona di spiriti luminosi ha compiuto un intero giro su sé stessa e ciascuno è tornato nel punto di partenza, S. Tommaso riprende il discorso e, leggendo nel pensiero di Dante, accenna ai due dubbi che tormentano il poeta, l'uno per la frase «u' ben s'impingua se non si vaneggia», detta a proposito dell'ordine domenicano (cfr. \Pd\ X 96), e l'altro per la frase «a veder tanto non surse il secondo» detta di Salomone (\Ibid\. 114) e dichiara che occorre innanzi tutto procedere distinguendo

28-42. S. TOMMASO COMINCIA IL CHIARIMENTO DEL PRIMO DUBBIO: I DUE CAMPIONI DELLA CHIESA. S.

Tommaso inizia il suo discorso premettendo che, per venire in aiuto della Chiesa, la

Provvidenza dispose il sorgere di due grandi campioni che le fossero di guida: S. Francesco

e S. Domenico, diversi fra loro, ma necessari entrambi. Dire dell'uno - prosegue l'Aquinate - e dire dell'altro è la stessa cosa, perché entrambi mirarono allo stesso fine: la salvezza della Chiesa.

43-117. VITA DI S. FRANCESCO. Con parole di alta ammirazione S. Tommaso traccia un quadro

delle grandi virtù di S. Francesco, della sua mirabile unione con Madonna Povertà e delle

straordinarie opere del suo apostolato.

118-139. BIASIMO AI DOMENICANI DEGENERI. Terminata l'esaltazione di S. Francesco, Tommaso ne prende lo spunto per elogiare l'altrettanta grandezza del fondatore del suo Ordine, S. Domenico, e per biasimare, con accorate e dure parole, la degenerazione del suoi seguaci. Pochi ormai si raccolgono vicino al pastore, la maggior parte si perde, attirata dai falsi beni della terra. Resta così spiegato, conclude l'Aquinate, il dubbio sorto a Dante all'espressione «u' ben s'impingua, se non si vaneggia».


CANTO XII


1-21. DANZA E APPARIZIONE DELLA SECONDA CORONA. Non appena Tommaso pronuncia l'ultima parola, la corona di spiriti ricomincia a girare e a cantare e, prima che il giro sia compiuto, esternamente ad essa appare una seconda corona di spiriti luminosi, concentrica alla prima, che, girando, canta all'unisono con quella.

22-45. BONAVENTURA COMINCIA L'ELOGIO DI S. DOMENICO. Appena concluso il canto e la danza

degli spiriti delle due corone, uno di essi, che si rivelerà poi (v. 127) per Bonaventura da Bagnoregio, rivolge a Dante la parola, affermando che lo spirito di carità che lo

infiamma lo spinge a parlare dell'altro campione, S. Domenico, poiché del fondatore del

suo Ordine è stato detto così bene. D'altronde è giusto che, quando si ragiona dell'uno, si

ragioni anche dell'altro, avendo entrambi avuto lo stesso fine, quello cioè di aiutare la

Chiesa.

46-105. VITA DI S. DOMENICO. Dopo aver descritto con ampia perifrasi la località della

Spagna dove nacque S. Domenico, Bonaventura passa a ricordare i momenti essenziali ed

esemplari della vita del santo, della sua azione e del suo Ordine.

106-126. BONAVENTURA BIASIMA LA DEGENERAZIONE DEI FRANCESCANI. Analogamente a quanto aveva

fatto Tommaso, Bonaventura, confermata la grandezza del fondatore del proprio Ordine,

biasima severamente la decadenza e la degenerazione dei suoi confratelli. Solo pochi

sono quelli che seguono ancora onestamente la regola di S. Francesco e tra questi non vi è

certamente Ubertino da Casale, né Matteo d'Acquasparta, che propugnano un irrigidimento

il primo, un rilassamento il secondo, della Regola lasciata dal fondatore.

127-145. PRESENTAZIONE DEGLI SPIRITI CHE FORMANO LA SECONDA CORONA. Terminato il biasimo

contro il proprio ordine, Bonaventura nomina sé stesso e i suoi compagni: Illuminato, Agostino, Ugo da S. Vittore, Pietro Mangiadore, Pietro Spano, Natan, Crisostomo, Anselmo d'Aosta, Donato, Rabano Mauro e Gioachino da Fiore.


CANTO XV


1-12. IL SILENZIO DEI BEATI. I beati interrompono il canto per permettere a Dante di esprimere i suoi desideri. Questo segno di carità ci dà la sicurezza che le anime beate non sono sorde alle nostre preghiere; è giusto perciò che colui che, per l'amore vano delle cose terrene ed effimere, rinuncia a questo vero amore sia dannato in eterno.

13-30. CACCIAGUIDA SI AVVICINA A DANTE E LO SALUTA. Una delle luci scorre lungo il braccio

destro, discende ai piedi della croce e, rivolgendosi in latino, saluta Dante come suo

discendente.

31-69. CACCIAGUIDA INVITA DANTE A PARLARE. Alle parole di quell'anima, Dante guarda stupito

Beatrice ed è colto da un nuovo stupore nel vedere la prodigiosa bellezza di lei. Intanto

l'anima riprende a parlare; ma le sue parole sono così alte, che Dante non riesce ad intenderle. Quando finalmente il discorso scende a un livello comprensibile ad un mortale, Dante sente che si tratta di un ringraziamento che Cacciaguida rivolge a Dio. L'avo invita quindi Dante a parlare e a chiedere ciò che desidera sapere: egli ha già pronta la risposta.

70-87. DANTE CHIEDE ALLO SPIRITO DI MANIFESTARSI. Dante si rivolge a Beatrice con lo sguardo, per avere l'assenso a parlare, ed ella, con un cenno, acconsente. Con un ampio discorso, costruito secondo i dettami della retorica, Dante si scusa di non potere ringraziare della festosa accoglienza con le parole, ma solo col cuore, e prega lo spirito di rivelarsi.

88-96. CACCIAGUIDA SI RIVELA. Dopo aver affermato di essere la sua  «radice», Cacciaguida prosegue ricordando a Dante che il primo di nome Alighiero fu suo figlio e bisavolo del poeta, che questi da più di cent'anni gira nella prima cornice del Purgatorio: è giusto quindi che, con le sue opere, Dante cerchi di accorciarne la pena.

97-129. L'ANTICA FIRENZE. Cacciaguida, prima di parlare di sé stesso, descrive la condizione felice e pacifica di Firenze al momento della sua nascita: in una vita patriarcale i costumi erano sobri e onesti e le donne fiorentine, pudiche e operose.

130-148. CACCIAGUIDA PARLA DI SE' DELLA SUA VITA. Descritta la felice condizione della Firenze antica, Cacciaguida aggiunge che, in quel periodo di pace e di probità, egli venne al mondo e, battezzato in S. Giovanni, ricevette il nome di Cacciaguida. Sposò poi una donna proveniente dalla Valle Padana: da lei si formò il cognome del poeta. Successivamente seguì l'imperatore Corrado e, armato cavaliere da questi, combatté contro gli infedeli e morì in battaglia. Martire, quindi, della fede, salì direttamente in Paradiso.


CANTO XVII


1-30. DANTE CHIEDE ALL'AVO NOTIZIE SULLA SUA VITA FUTURA. Dante ripensa alle oscure predizioni che gli erano state fatte nell'Inferno e nel Purgatorio e desidererebbe sapere qualche cosa dall'avo, ma si trattiene dal domandare. Cacciaguida e Beatrice leggono però il suo pensiero per cui quest'ultima invita a chiedere liberamente. Egli allora si rivolge all'avo, manifestando il desiderio di sapere ciò che il futuro gli riserba, pur dichiarando di essere pronto a sopportare i colpi della fortuna.

31-45. CACCIAGUIDA ACCENNA ALLA PRESCIENZA DIVINA. Cacciaguida premette alla sua Profezia

l'asserzione che, in realtà, tutta la contingenza futura è «dipinta nel cospetto etterno», anche se ciò non rende necessarie le cose, non diversamente dallo sguardo che vede la nave

scender secondo corrente, né per questo ne necessita l'andare. Egli pertanto vede in Dio le

vicende future della vita del poeta.

46-51. PROFEZIA DELL'ESILIO. Cacciaguida profetizza a Dante che dovrà allontanarsi da

Firenze, anche se innocente, come Ippolito ha dovuto abbandonare Atene; tutto ciò si cerca, si vuole e si otterrà presso la curia romana, dove ogni giorno si mercanteggia Cristo.

52-69. AFFANNI DELL'ESILIO. All'aperta profezia della cacciata di Dante da Firenze, Cacciaguida fa seguire l'accenno ai gravi affanni che l'esilio porta con sé: il poeta lascerà «ogne cosa diletta», sarà costretto all'umiliazione del chiedere l'ospitalità altrui, e, cosa peggiore, dovrà accorgersi della stoltezza dei suoi compagni di partito in esilio, cosicché meglio sarà per lui farsi «parte per se stesso».

70-93. ALCUNI CONFORTI NELLE TRISTI VICENDE FUTURE. Proseguendo la sua profezia, Cacciaguida accenna poi a qualche conforto che pure avrà nel dolore dell'esilio. Predice dunque che Dante verrà ospitalmente accolto dal signore della Scala, dove potrà anche conoscere Cangrande, le cui «magnificenze» e il cui valore saranno palesi anche ai suoi nemici più tardi, prima che Clemente V inganni il grande Arrigo. Aggiunge poi altre Profezie su Cangrande, ma ordina a Dante di non rivelarle.

94-99. PAROLE DI CONFORTO DELL'AVO. A conclusione del suo dire, Cacciaguida esorta Dante a non portare invidia ai suoi concittadini che sono rimasti in patria; la sua vita si prolungherà nel futuro ben oltre alla giusta punizione che cadrà su di quelli.

100-120. DUBBIO DI DANTE. Come Dante si accorge che Cacciaguida ha terminato il suo dire, gli rivolge la parola per chiedergli un consiglio. Durante il viaggio nei due altri regni, egli ha visto e udito cose che, se dovesse riferirle, potrebbero inimicarlo con molta gente, cosa pericolosa proprio ora, che sarà costretto a richiedere l'aiuto altrui. D'altronde egli ben sa che, se sarà «timido amico» della verità, non potrà conseguire fama presso i posteri.

121-142. LA MISSIONE DEL POETA. Cacciaguida risponde invitando Dante a dire francamente la

verità. Anche se le parole del poeta riusciranno sgradite a molti, egli non deve tacere: anzi sarà per lui non poco onore se proprio i più grandi della terra sentiranno la sua «parola brusca». Proprio per questo nel viaggio ultraterreno gli sono state mostrate le anime «di fama note», perché il suo dovrà essere un salutare insegnamento per gli uomini.


CANTO XXII


1-21. BEATRICE SPIEGA LA RAGIONE DEL GRIDO. Al grido delle anime, Dante, stupito, si volge a Beatrice e questa gli ricorda che egli è in cielo, e che tutto ciò che qui avviene è sempre effetto di buon zelo. Se Dante avesse inteso - ella prosegue - le parole di quel grido, conoscerebbe la giusta vendetta che, prima di morire, vedrà attuarsi. Beatrice invita il poeta a volgersi e a guardare quegli spiriti.

22-51. INIZIO DEL COLLOQUIO CON S. BENEDETTO

Dante, dietro invito di Beatrice, rivolge lo sguardo allo scaleo d'oro e vede un gran numero di lucenti sfere, che s'illuminano vicendevolmente. Il più lucente di questi

spiriti, leggendo in Dio il pensiero di Dante, comincia a parlare, dichiarando di essere S.

Benedetto, di aver portato il cristianesimo presso i pagani di Monte Cassino, e gli indica le anime di S. Macario e di S. Romualdo. Gli dice ancora che qui stanno le anime dei suoi frati, che «tennero il cor saldo» nella vita contemplativa.

52-72. RICHIESTA PREMATURA DI DANTE. Dante chiede, fiducioso dell'amore che il santo già ha

dimostrato, di poterlo vedere «con imagine scoverta», cioè senza la luce che lo circonda.

Ma il santo risponde che ciò sarà possibile solo nell'Empireo, dove tutti i desideri sono appagati e dove termina quella scala d'oro, di cui Dante non vede la fine.

73-96. S. BENEDETTO RIMPROVERA LA CORRUZIONE DEI MONASTERI DEL SUO ORDINE. S. Benedetto,

accennando alla scala che sale all'Empireo, afferma che ben pochi sono ora coloro che vi

salgono, perché la sua Regola serve sulla terra, solo per sciupare inutilmente la carta su cui la si scrive. I monasteri non sono più luoghi di preghiera, ma spelonche; le tonache fratesche, sacchi di farina guasta. Tutti gli ordini sono degenerati: in essi domina l'avarizia e la rilassatezza dei costumi. Ma Dio non tarderà a porre rimedio a tanto male.

97-111. SALITA AL CIELO DELLE STELLE FISSE. Terminato il suo discorso, S. Benedetto si

ricongiunge alle altre anime e tutti insieme, come un turbine, salgono verso l'Empireo.

Beatrice, con un cenno, spinge Dante sulla scala, e, con moto velocissimo, il poeta, con la sua guida, si trova nel cielo delle Stelle fisse, e precisamente nella costellazione dei Gemelli.

112-123. INVOCAZIONE ALLA COSTELLAZIONE DEI GEMELLI. Entrato nella costellazione dei Gemelli, Dante si rivolge ad essi, perché il sole era in tal segno al momento della sua nascita, e, riconoscendo nella loro influenza tutto il suo ingegno, li invoca per ottenerne l'aiuto, ora che sta per cominciare la descrizione più ardua del suo viaggio.

124-154. DANTE GUARDA IL CAMMINO PERCORSO. Beatrice invita Dante a volgere in basso lo

sguardo e a guardare quanto cammino ha percorso fino a quel punto. Dante obbedisce e vede,

nell'ordine, i vari pianeti, nelle loro orbite e nelle loro reciproche posizioni. Vede infine la Terra e ne nota, con lieve ironia, la piccolezza e la meschinita'. Di essa vede la piccola parte emersa dalle acque e abitata, sulla quale gli uomini inferociscono per folle ambizione.


CANTO XXVII


1-9. I BEATI INTONANO IL «GLORIA » Tutti i beati intonano l'inno del «Gloria», con un canto così dolce che Dante ne è inebriato. Ciò che il poeta vede davanti a sé pare «un riso de l'universo», così che egli esce in una esclamazione ammirativa, che è al tempo stesso espressione dell'intenso desiderio di possedere quella «ineffabile allegrezza», quella felicità perfetta e completa.

10-27. S. PIETRO CONDANNA LA CORRUZIONE DEL PAPATO. Davanti agli occhi di Dante stanno le

quattro luci di Pietro, di Iacopo, di Giovanni e di Adamo: quando improvvisamente la luce di S. Pietro si fa corrusca, e, come finisce il cantare dei beati, escono da quella luce queste parole: «Non meravigliarti se io trascoloro, perché mentre parlo vedrai trascolorare tutti i beati». S. Pietro continua dicendo che colui, che sulla terra usurpa il suo luogo, ha corrotto e guastato Roma, ov'egli è sepolto, facendone una cloaca di vizi, cosicché Lucifero, nell'Inferno, è soddisfatto.

28-36. INDIGNAZIONE DEI BEATI. Alle parole di S. Pietro, tutti i beati «trascolorano» e la loro luce diventa rossa come una nube opposta al sole, la mattina o la sera. Anche Beatrice «trascolora» come una donna onesta, che arrossisce all'udire il fallo altrui. Dante pensa che il trascolorare dei beati possa paragonarsi all'eclisse avvenuta alla morte di Cristo.

37-60. S. PIETRO CONTINUA L'INVETTIVA CONTRO LA CHIESA CORROTTA. Con la voce alterata non meno della luce della sua figura, S. Pietro continua l'aspra rampogna, affermando che il suo martirio e quello dei suoi successori nutrì, «allevò» la Chiesa per l'acquisto del tesoro spirituale del Cielo, non per quello dei tesori terreni, né fu intenzione dei primi pontefici favorire una parte del popolo cristiano (i Guelfi), per avversare un'altra (i Ghibellini), o che le chiavi a lui concesse diventassero emblemi di un vessillo per combattere i cristiani stessi. S. Pietro afferma di arrossire di vergogna nel vedere la sua figura diventata il sigillo per autenticare privilegi simoniaci: dall'alto del cielo - prosegue - si vedono dovunque i pastori diventare lupi rapaci e già i Caorsini e i Guaschi prepararsi a trarre vergognoso lucro dal sangue degli antichi pontefici, versato per la salute della Chiesa.

61-66. PROFEZIA DI UN FUTURO INTERVENTO PROVVIDENZIALE - MISSIONE DI DANTE. Terminata la

terribile requisitoria, S. Pietro accenna ad un prossimo futuro intervento della Provvidenza divina e invita il poeta, una volta ritornato sulla terra, a rivelare agli uomini ciò che egli non gli ha nascosto.

67-75. SALITA DEI BEATI ALL'EMPIREO. Terminato di parlare, S. Pietro e gli apostoli con tutti i beati, che erano rimasti nel cielo delle Stelle fisse ad assistere all'esame di Dante, salgono all'Empireo. Dante li segue con lo sguardo finché può, poi la distanza li nasconde ai suoi occhi.


CANTO XXXIII


1-39. ORAZIONE DI S. BERNARDO ALLA VERGINE. Con ardente affetto S. Bernardo innalza alla Vergine un inno di lode, esaltando come la più alta tra le creature, destinata \ab aeterno\ ad esser madre di Gesù. Essa è «face di caritate» nel cielo e «fontana di speranza» sulla terra; la sua misericordia è così grande che soccorre gli uomini prima ancora di essere pregata. All'inno di lode S. Bernardo fa seguire la preghiera di intercedere presso Dio per Dante affinché questi possa alzare lo sguardo fino a Lui, e infine, invoca la protezione della Vergine finché il poeta resterà ancora sulla terra. Alla preghiera di S. Bernardo tutti i beati e Beatrice si associano.

40-45. INTERCESSIONE DI MARIA. Maria ha tenuto sinora fissi i suoi occhi in quelli di S.

Bernardo, segno che la preghiera le è tornata gradita. Poi rivolge lo sguardo a Dio per

intercedere a favore del poeta.

46-75. DANTE FISSA LO SGUARDO NEL LUME DIVINO. INSUFFICIENZA DEL RICORDO E INVOCAZIONE A DIO PER OTTENERNE L'AIUTO. Dante sente che il suo ardore sta raggiungendo il culmine della sua intensità. S. Bernardo, con un sorriso, gli fa cenno di guardare in alto, ma il poeta l'ha già fatto senza attendere esortazioni; il suo sguardo cerca di penetrare nella luce divina. A questo punto il poeta confessa che, ciò che ha visto, va tanto al di là delle possibilità umane, che è costretto a rinunciare di descriverlo. Anche se la visione è dileguata, il poeta nel momento della narrazione, sente ancora in sé la dolcezza provata e invoca Dio affinché gli conceda di lasciare ai posteri anche solo una pallida immagine di ciò che ha veduto.

76-108. VISIONE DI DIO E DELL'UNITA' DELL'UNIVERSO IN LUI. Dante afferma che se avesse

allontanato lo sguardo per un solo istante dall'acuto lume, in cui aveva fitto gli occhi, si sarebbe certamente smarrito; perciò continua a fissare quella luce per penetrarne l'essenza. Egli vede, legato in unità con amore, tutto ciò che appare molteplice nell'universo e crede di aver visto quella unità ineffabile perché sente, ricordandola, la dolcezza di quella visione. Ma naturalmente il mezzo, con cui egli cerca di esprimerla, è inadeguato.

109-126. TRINITA' DIVINA. Dante dichiara che i successivi aspetti della visione dei misteri

della divinità, prima dell'attimo miracoloso dell'intuizione suprema, non sono dovuti al

mutare di Dio, essenza semplice e immutabile: ciò che muta è la capacità visiva del poeta, che solo a gradi riesce a penetrarne l'essenza. Egli vede dunque tre cerchi di tre colori, ma assolutamente uguali: dal primo si riflette il secondo; e il terzo da entrambi: l'unità e la trinità divina. Il poeta ribadisce ancora una volta l'insufficienza del suo dire.

127-138. IL MISTERO DELL'INCARNAZIONE. Dante fissa attentamente il secondo dei tre giri,

quello che appare come «lume reflesso», e vi scorge, dipinta dello stesso colore, l'effige

umana. Egli si sforza di vedere come l'immagine si adatti e si unisca al cerchio, così come il geometra tenta di risolvere il problema della quadratura del cerchio, ma non riesce a trovare il dato che gli abbisogna.

139-145. FOLGORAZIONE E APPAGAMENTO SUPREMO DI DANTE. Tutto concentrato nella visione Dante

cerca invano di comprendere il mistero dell'Incarnazione, ma la sua mente, come ogni

mente umana, non lo può. Se non che, improvvisamente, è colpito come da un fulgore straordinario, ultima grazia divina, e intuisce la verità. A questo punto la visione scompare.





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