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LETTERATURA GRECA - LETTERATURA DEL V SECOLO - LA TRAGEDIA - EURIPIDE

greco



LETTERATURA GRECA



LETTERATURA DEL V SECOLO

LA TRAGEDIA

EURIPIDE


Premessa




Euripide è l'unico degli altri tragediografi del periodo (Eschilo e Sofocle) a rendersi conto di dover adattare la sua tragedia alla crisi della cultura di quel periodo. Ma il suo tentativo do evolvere la tragedia è mal inteso: molti infatti sono coloro che pensano che egli sia un eversore della tragedia.

Questa nuova situazione problematica, comunque, non dà più spazio all'indagine sulla razionalità umana, ma è ora il momento do affrontare problematiche quali la condizione della donna, dello straniero, la parola come strumento di potere, . Quindi elemento principale delle tragedie di Euripide saranno i drammi quotidiani e i rapporti tra gli uomini, e la problematica maggiore sarà non più il confronto con il volere della divinità, ma con le scelte degli altri uomini. La figura degli dei non viene eliminata, ma diviene metafora delle istituzioni e delle convenzioni sociali.

Euripide elabora numerose innovazioni: introduzione di lunghi prologhi che anticipano la conclusione, ampio spazio ai discorsi, il frequente tema del riconoscimento tra persone che ignoravano la loro identità, che esprime la fiducia nella possibilità di scopri


re la realtà dei rapporti umani.

La tragedia di Euripide oppone dunque da un lato la considerazione depressa della miseria dell'uomo e dall'altro la convinzione ottimistica che valga la pena lottare per annientare tutti i pregiudizi.


La vita e le opere


Euripide nasce intorno al 485 a.C. Fu sempre preso di mira dai commediografi, che trasformavano suo padre (proprietario terriero) in un bottegaio e sua madre (nobile) in erbivendola, e parlavano delle sue disavventure coniugali.

La sua famiglia era molto ricca e per questo Euripide fu educato dai migliori maestri. Non fu mai molto amato dai suoi concittadini che lo fecero attendere molto prima di concedergli i dovuti onori, forse perché

senza tanti giri di parole Euripide criticava i comportamenti di molti di loro. Comunque in vita Euripide non fu una persona socievole: è ricordato come un intellettuale solitario che componeva in una grotta in riva al mare, non prendeva parte alla vita pubblica.

Morì presso la reggia di Archelao (a cui dedicò una tragedia), re di Macedonia. Su di lui erano narrate leggende sulla sua misoginia (avversione pregiudiziale per le donne) e sul suo ateismo (si diceva infatti che il suo cenotafio era stato distrutto da un fulmine).

Fu tanto poco amato nella vita quanto fu onorato dopo la morte, tramite la rilettura delle opere che soppiantarono la fama di altri tragici. Di lui ci restano 10 drammi e 10 tragedie (in tutto 19 perché Ecuba compare due volte).


I drammi di Euripide (scheda)


Alcesti: Admeto può sfuggire alla morte, grazie ad una concessione di Apollo, solo se qualcuno accetterà di morire al suo posto: questo qualcuno è sua moglie Alcesti. Dopo una tragica scena di addio, arrivano Eracle e poi il padre di Admeto, che questi attacca per non aver voluto morire al suo posto. Eracle, che se ne era andato, torna del tutto ubriaco e scopre che Alcesti è morta. Riesce a rapirla dall'aldilà e a riportarla a Admeto.


Medea: Medea ha seguito io marito Giasone a Corinto con i figli, e qui viene a sapere che Giasone vuole cacciare lei stessa dalla città e sposare la figlia del re Creonte. Si vuole vendicare: ottiene che la sua partenza sia rimandata di un giorno e di essere ospitata in Atene dal re Egeo. A questo punto finge di riconciliarsi con Giasone e manda alla sposa dei regali portati dai figli: dei vestiti bellissimi, imbevuti di veleno. Dopo la morte di re Creonte e di sua figlia, Medea uccide i suoi stessi figli e fugge.


Baccanti: a Tebe è giunto Dioniso con le sue seguaci, le Baccanti, che formano il coro. Le donne della famiglia reale e soprattutto la regina Agave dubitano della sua divinità. Il re Penteo vuole impedire la diffusione del suo culto, nonostante gli avvertimenti del nonno Cadmo e dell'indovino Tiresia. Dioniso, sotto aspetto umano, si lascia catturare e portare davanti al re, dove viene sottoposto ad un interrogatorio durante il quale si libera agilmente dalle catene con gioia delle sue devote. Intanto un messaggero racconta al re le gesta straordinarie delle Baccanti sul monte di Tebe. Viene convinto da Dioniso a spiarle travestito da menade. Ma Penteo è scoperto dalle Baccanti, scambiato per un leone e fatto a pezzi: fra di esse sono anche la madre e la zia di Penteo. Agave porta, credendolo un trofeo di caccia, la testa del figlio fra le mani, ma quando si accorge della triste realtà si dispera. A questo punto Dioniso caccia Agave e le sorelle per aver dubitato della sua divinità e conforta Cadmo che sarà accolto nel paese dei beati con la moglie.


(leggi le altre tragedie sul libro a pag. 226)


La drammaturgia di Euripide


La prima fase della sua carriera è caratterizzata dai drammi ad azione unica, svolta attraverso un'evoluzione del comportamento dei personaggi e delle situazioni. Quindi è la volta dei drammi a doppia azione, consistente da scene concluse in se stesse riunite tramite il protagonista attorno ad un unico nucleo tematico, e poi dell'intreccio vero e proprio.

Questi diversi modi di presentare la tragedia mostrano una forte tendenza alla sperimentazione, sia per l'irrequietezza spirituale del poeta, sia per il cambiamento dei tempi (riguardo a quest'ultimo punto si è già parlato: Euripide tenta non di dissolvere la tragedia, ma di salvarla).

Per quanto riguarda la struttura interna del dramma, questa non si regge più sulla figura dell'eroe, ma sul rispondersi delle azioni degli uomini. Il dialogo è l'espressione dominante, per cui il ruolo del coro è messo in secondo piano. Le trame di Euripide derivano esclusivamente dalla sua fantasia, e ciò grazie all'interesse per gli aspetti spettacolari del dramma e per l'accentuazione degli aspetti umani. Per questo Euripide non usa il patrimonio mitico, per la prevedibilità delle conclusioni e per l'irrealtà delle situazioni. Il mito è usato solo come spunto tematico.

Lo stile di Euripide


Il linguaggio di Euripide è ispirato al quotidiano, chiaro e concreto, secondo lo schema geometrico della linea retta. Il frutto della riflessione del personaggio è riassunto in sentenze definitive, le gnomai, di cui si sono fatte varie raccolte autonome.

Anche se la funzione del coro è molto meno essenziale rispetto agli altri tragici, il coro di Euripide è ben curato e diviene un momento di evasione malinconica (tema ricorrente è il volare lontano).


Il mondo concettuale di Euripide


Il pensiero di Euripide non può essere circoscritto né alla sola corrente illuministica (mette in dubbio la presenza degli dei), né alla corrente irrazionale (esistenza di forze mistiche). Il segno del suo pensiero è il dubbio, in un oscillare tra posizioni diverse e contrastanti, di fraintendimenti. Per questo, accade che proprio lui che conosce profondamente la psicologia femminile e inquadra le donne come le vittime di una società profondamente maschilista, è accusato di misoginia; lui che era capace di addentrarsi nelle più remote profondità del sentimento umano fosse accusato di essere un gelido retore.

Euripide è soprattutto uno scrittore di teatro, sede della sua sperimentazione e della ricerca del vero, in cui i personaggi sono metafora dello scontro di due pensieri. E' un disperato ottimista: crede che all'individuo debba essere concesso di scoprire la propria dignità nella realizzazione del proprio destino; ma contemporaneamente conosce la debolezza e precarietà dell'uomo: per questo i suoi drammi sono impregnati da un'infinita compassione e partecipazione al dolore di vivere.

LA COMMEDIA "ANTICA" (no)


I PRIMORDI DELLA COMMEDIA (no)


Premessa

In Atene la tragedia e la commedia avvengono in ambito di feste dionisiache, e in esse acquisiscono i loro tratti caratteristici: a causa delle regole delle feste sacre, la commedia e la tragedia devono, per esempio, essere in rapporto di continuità, da cui risale il parallelismo fra i termini. Ma questo non vuol dire che le due rappresentazioni siano nate contemporaneamente, anzi sono indipendenti l'una dall'altra. La tragedia assunse dignità e proprietà a 444g61e rtistica solo nel teatro ateniese, mentre la commedia era già una forma d'arte; mentre la produzione tragica vive ad altissimi livelli per almeno un secolo e si mantiene sempre omogenea, ma poi subisce un tragico (già che siamo in tema) tracollo, la commedia sopravvive per oltre un secolo più della tragedia, anche nel periodo della crisi politica, sociale e culturale, e tutto ciò grazie alle numerose trasformazioni a cui era andata incontro, che l'avevano resa resistente a qualunque situazione. Per la lunga storia della commedia se ne rende necessaria una periodizzazione in "antica", "di mezzo" e "nuova".


Le origini della commedia

La sua origine non è sicura, ma i primi concorsi comici si ebbero sicuramente nel V secolo e il primo vincitore fu Chionide.

Aristotele ci propone due ipotesi riguardo all'origine della commedia:

ipotesi dionisiaca: dice che probabilmente la commedia ebbe origine dall'improvvisazione dei canti fallici, eseguiti nelle falloforie (da Fallo, simbolo della fertilità), processioni in cui si propiziava la fecondità. Veniva eseguito in esse un canto in onore di Dioniso, quindi i partecipanti procedevano beffeggiando tutti quelli che gli capitavano a tiro. Infatti l'origine del nome "commedia" è riferito a KOMOS, ossia il corteo festoso dei seguaci ubriachi di Dioniso, occasione di canti corali e scherzosi. Così ecco le principali caratteristiche della commedia: il canto corale, il rapporto con Dioniso, l'irrisione e il riferimento alla sfera sessuale.

ipotesi dorica: il termine "commedia" derive


rebbe da KOME, che vuol dire in dorico "villaggio". I primi attori comici sarebbero andati in giro per le campagne a presentare i loro primi spettacoli, perché erano respinti nelle città. Gli abitanti di Megara sostenevano che la commedia era nata presso di loro, perché erano famose le rappresentazioni di quel tipo a Megara, con attori che rappresentavano scenette realistiche. Anche qui le principali caratteristiche della commedia: una trama e degli attori, la tematica realistica e l'influsso della politica. Si tratta comunque di una ipotesi considerata inattendibile.


Inizialmente la protocommedia si trovava in una fase fluida, da cui acquistò pian piano autonomia e consapevolezza della propria natura teatrale, distinguendosi dai rituali e adattando una dimensione più drammatica. Per giungere alla vera realizzazione della commedia occorreva farla incontrare con la letteratura. La commedia prese spunto dal dramma siceliota e dalla tragedia: da uno prese la vicenda coerente e compiuta, dall'altra la struttura scenica, che era già in vigore da 50 anni. La tragedia ha dato molto alla commedia: l'alternanza delle sezioni parlate e cantate, l'alternanza della lingua, nel coro dorica, nel resto attica, la metrica, il ricorso al prologo e alla pàrodo.

La poesia giambica ha dato lo stimolo all'utilizzo degli argomenti derisori e osceni, oltre che del realismo (che è più evidente nella commedia nuova, mentre in quella antica le situazioni sono un po' assurda. Comunque vengono sempre utilizzati dei personaggi comuni, non degli eroi).

Dovrebbe aver influito sulla commedia anche l'oratoria, per la suggestione dei discorsi e per gli elementi tipici della contesa politica e giudiziaria.


La struttura della commedia "antica"


La commedia ha struttura dinamica, per cui non sempre le varie opere seguono la stessa andatura.

La nostra conoscenza della commedia "antica" può essere riassunta nel nome di Aristofane, per cui noi ipotizziamo che anche gli altri drammaturghi abbiano utilizzato le sue stesse tecniche.

La commedia antica si apre con un prologo molto ampio, recitato dai personaggi, in cui  si narra sia la situazione iniziale sia il piano che il protagonista si propone per modificarla. Segue l'entrata dal coro, il pàrodo, e poi si sviluppa l'azione del protagonista, il contrasto con i personaggi o con il coro, il confronto delle opinioni nell'agone.

L'aspetto più caratteristico di questa commedia è la parabasi: la scena ad un tratto era apriva di attori, mentre il coro si spogliava del travestimento e sfilava davanti agli spettatori, finché non si fermava e cantava o recitava di fronte ad esso un ampio brano. In questo genere di commedia antica, il coro si esprimeva in prima persona e discuteva di svariati argomenti riferendosi all'attualità.

La parabasi può precedere o seguire l'agone, in cui l'eroe riporta il successo e il nuovo ordine. Il proseguimento della commedia ne rappresenterà le conseguenze, in genere di carattere buffonesco e narrate ad episodi. Infine veniva l'esodo, una gioiosa processione in cui era celebrato il definitivo trionfo del protagonista.

Le maschere degli attori rappresentavano una deformazione della fisionomia umana ma, se i personaggi che esistevano davvero, la maschera li riproduceva realisticamente. Il coro poteva rappresentare persone come anche animali o fenomeni naturali, come segni allegorici della nostalgia per la perduta simbiosi con le forze del cosmo e della natura ( e tale è il significato profondo della commedia).


EPICARMO e il teatro in Sicilia e Magna Grecia


Il teatro locale si sviluppa seguendo un tipo di spettacolo caricaturale e popolaresco, ricco di mimica, incline alla demitizzazione e alla rappresentazione della quotidianità. Si astiene dal riferimento personale e politico per considerare invece un riferimento più generale e una riflessione su grandi temi etici, religiosi o politici riportati sulla scena comune.

Aristotele considera precursore della commedia attica Epicarmo, che visse dalla seconda metà del VI secolo a.C. alla prima del successivo. Essendo in stretto contatto con l'alta cultura della madrepatria egli riuscì a maturare una forte consapevolezza poetica che dona eleganza e padronanza tecnica alla sua opera.

Di Epicarmo ci restano alcuni frammenti molto brevi e altri provenienti dai papiri, di maggiore estensione ma assai malridotti. Si occupò di tre settori tematici principali:

la parodia mitologica ed epica: dei ed eroi erano raffigurati in situazioni grottesche, pavidi o irresponsabili. Protagonisti prediletti di questo genere sono Odisseo ed Eracle.

il portare sulla scena figure o episodi della vita quotidiana, in cui va annoverata l'opera più famosa di Epicarmo, Speranza o ricchezza: un parassita che, dopo aver perlato delle gioie della propria vita e della sua astuzia, si ritrova nella notte solo e insonne sul giaciglio della propria casa. Quest'opera ha una forte valenza psicologica, in cui si condanna la vanteria che porta a miseria materiale e morale.

l'invenzione di pura fantasia


Le opere di Epicarmo sono denominate "drammi". Sono composte in dialetto dorico e in metri vari, forse venivano interpretate da tre attori, la presenza del coro è incerta e il tipo di scena è ignoto.

Motivo caro a Epicarmo è il compiacimento gastronomico, ma ancora più tipico è l'atteggiamento filosofico o etico, attraverso il quale riesce a guardare con sottile ironia la condizione umana. Sembra essere il primo ad aver capito che la deformazione comica può coincidere con il realismo, e anche per questo può essere considerato il progenitore della commedia.

Anche il mimo nasce con Epicarmo, ma il primo a celebrarne la fioritura è SOFRONE, in Sicilia. Egli costituì una lettura prediletta da Platone, che da lui prese la tecnica di raffigurazione psicologica dei personaggi. I suoi mimi erano maschili e femminili, a seconda del sesso, ma non si sa se fossero in forma di monologo o rappresentati con una dimensione scenica. La prosa era ritmica, i brani brevi e si riferivano alla vita comune.

Alla sfera popolare appartiene una forma di teatro comico che si diffuse soprattutto in Magna Grecia: è la farsa filiacica o ilarotragedia, introdotta da Rintone, che parodizza le grandi tragedie. Gli attori avevano un costume caratterizzato da un grosso fallo e da imbottiture esagerate, e salivano su un palcoscenico formato più che altro da una piattaforma movibile a cui si accedeva con una scaletta, tipico di attori girovaghi.


I poeti della commedia "antica"


Secondo Aristotele i primi comici ateniesi furono Chionide e Magnete, delle cui opere ci resta ben poco. Comunque sappiamo che consistevano probabilmente in prevalenza di parti corali inframmezzate da scene legate da un sottile filo conduttore.

Cratete fu il primo a costruire una commedia con un vero filo conduttore. Conosciamo, fra le altre, una sua commedia intitolata Bestie, in cui veniva descritta la vita semplice vista come un'utopia in cui l'uomo riceveva dalla natura tutto ciò di cui aveva bisogno, gli attrezzi lavoravano da soli e i pesci si cucinavano da soli, mentre un coro di animali celebrava la cucina vegetariana.

Ma il pubblico ateniese, alla semplicità di Cratete preferiva la polemica e i temi attuali di Ferecrate, della generazione successiva a Cratete. Il tema di fondo è sempre la comicità d'evasione e di fantasia, ma è posta in un ambiente diverso, si parla di civiltà, di regge,. Comunque Ferecrate è famoso soprattutto per la purezza della lingua.

Colui che condusse alla pienezza la commedia attica fu CRATINO (e non Cretino), la cui attività inizia con la seconda generazione dei comici (contemporaneo di Ferecrate). Abbiamo vari frammenti ma di un papiro riusciamo a ricostruire la storia. Si tratta di Dionisalessandro: Dioniso, travestito da Alessandro (Paride), giudica il concorso di bellezza tra le tre dee facendo vincere Afrodite. Rapisce Elena ma, sorpreso, la camuffa da oca e la nasconde in una cesta, trasformandosi a sua volta in un montone, ma veniva ugualmente scoperto da Paride. La commedia è attualissima, perché dietro le figure di Dioniso e Elena si nascondono Pericle e Aspasia, poiché Pericle era stato accusato di aver scatenato la guerra del Peloponneso per i suoi amori. Pericle viene spesso preso in giro da Cratino che lo beffeggia una volta per la testa a forma di cipolla.

Ma Cratino non ci parla solo di Pericle. Il suo capolavoro si intitola la Bottiglia: nei Cavalieri Aristofane, rivale ma anche ammiratore di Cratino (poiché da lui riprende molti temi), celebra il vigore giovanile del rivale che abbatteva con impeto ogni avversario, mentre ora si era ridotto ad essere un vecchio ubriacone passato di moda. Cratino risponde con grande fantasia, fingendo di essere stato chiamato in giudizio da sua moglie Commedia che lo accusava di averla abbandonata per Bottiglia: ma Cratino risponde con una lunga orazione in cui dice di non aver mai trascurato Commedia, mentre Bottiglia è un dono offertogli dal dio della commedia per sostentare la sua creazione, perché "il bevitore d'acqua non crea mai cose belle". Dopo la sua morte, Cratino verrà denominato da Aristofane "sbranatore del toro", un epiteto di Dioniso, attraverso il quale viene celebrata la sua divinizzazione e il furore della sua poesia.

Contemporaneo di Aristofane e suo maggior rivale fu EUPOLI, appartenente alla terza generazione di comici. Composte 14 commedie e per la metà vinse un premio. Dapprima era amico di Aristofane, ma poi si accusarono a vicenda di plagio e litigarono. Con Eupoli la commedia esalta il suo carattere battagliero contro la prevaricazione del potere politico r la degenerazione in cui la città era trascinata dai demagoghi: nei Battezzatori si accusava Alcibiade di aver partecipato al culto orgiastico della dea Cotitto; nella Città si denunciava lo sfruttamento da parte di Atene delle città alleate. La più importante opera sono i Demi, densa di amarezza patriottica ma anche di speranza. La salvezza si trova solo nell'oltretomba e il buon governo è vivo solo nel ricordo.

ARISTOFANE (no)


(pagine grigie)


Acarnesi: il contadino Diceopoli vorrebbe che in assemblea si discutesse della pace e non si facessero buoni affari con la guerra,. Poiché nessuno lo ascolta decide di stipulare un accordo di pace personale di 30 anni con Sparta, azione vista come un tradimento. Ma Diceopoli riesce a convincere coloro che lo accusano alla causa della pace e apre un mercato libero al quale accorrono tutti i venditori della Grecia. Rimpilzatosi di leccornie, Diceopoli si


reca ad un banchetto di una festa, mentre il guerrafondaio Lamaco parte per la guerra: nella scena finale sono contrapposte le immagini di Lamaco ferito e sorretto dai compagni e quella di Diceopoli ubriaco sorretto da due ragazze.


Cavalieri: è un attacco contro Cleone, uomo politico odiatissimo da Aristofane, rappresentato sotto le spoglie dello schiavo Paflagone, che con varie astuzie si è assicurato il favore del padrone (cioè il popolo). Altri due servi (tra cui anche uno che raffigura Demostene) ricorrono ad un Salsicciaio, ignorante e privo di freni morali, che si impone su Paflagone e ottiene al suo posto il favore del padrone. Nell'ultima scena viene esaltato Demos, che ora appare ringiovanito.


Nuvole: il contadino Strepsiade ha sposato una donna di alto rango e ne ha avuto un figlio, che però non ha freno nello spendere. Ossessionato dai debitori, Strepsiade vorrebbe imparare da Socrate e dai suoi discepoli assistiti dalle Nuvole (il coro) l'arte di truffare, ma non impara nulla. Per cui manda suo figlio Fidippide a imparare, ma questi è talmente bravo che in una lite con il padre finisce per bastonarlo e lo convince che i figli hanno il diritto di bastonare i genitori. Accortosi dell'errore che ha fatto, Strepsiade corre ad incendiare il Pensatoio di Socrate.


Vespe: le vespe, interpretate dal coro, rappresentano l'irascibilità dei politici e la litigiosità del popolo ateniese. Il vecchio Filocleone (cioè ammiratore di Cleone) è ossessionato dai processi e li vuole vedere tutti quanti. Per farlo restare un po' a casa, suo figlio Bdelicleone (cioè odiatore di Cleone) lo rinchiude in casa, mostrandogli l'assurdità del suo comporta


mento. Per calmare il vecchio che vuole fuggire in tribunale, Bdelicleone può solo improvvisare una causa contro un cane, dopodiché incita il padre a frequentare gente diversa. Ma in un banchetto il vecchio si comporta -orribilmente, portandosi via una flautista e provocando zuffe e disastri.


Pace: il vignaiolo Trigeo sale all'Olimpo per chiedere a Zeus quando ristabilirà la pace per i Greci. Ma al suo posto trova Ermes, che dice che Zeus e tutti gli dei se ne sono andati disgustati dal comportamento dei greci, ed è rimasto solo Polemos, dio della guerra, che ha imprigionato Eirene, la dea della pace e vuole mettere tutte le città della Grecia in un mortaio e ridurle in poltiglia. In un momento di distrazione di Polemos, Trigeo chiama tutti i Greci (il coro) per liberare la dea: ci riescono ed Eirene, accompagnata dalla dea dell'abbondanza e da quella della festa, porta la pace e la felicità ai Greci.


UCCELLI: due vecchi Ateniesi, Pisetero e Evelpide, disgustati dal comportamento dei cittadini, chiedono consiglio ad Upupa, che un tempo era stato il re Tereo. Insoddisfatto dei consigli dell'uccello, Pisetero decide di fondare nel cielo un regno degli uccelli riducendo così alla fame gli dei e Zeus, costringendolo a cedergli il suo potere. Il coro, formato dagli Uccelli, è d'accordo. Gli uomini perdono fiducia negli dei tradizionali che, alla fame, vengono ai patti: Pisetero, signore degli Uccelli, ha il diritto di succedere a Zeus.


Tesmoforiazuse: Euripide viene a sapere che le donne, da lui spesso calunniate nelle tragedie, hanno deciso di vendicarsi in occasione delle Tesmoforie, una festa femminile. Per questo decide di mandare una spia da loro: vorrebbe mandare un suo amico effemminato, ma questo non si lascia convincere costringendo Euripide a ripiegare sul suo amico Mnesiloco, che però prende a calunniare i vizi delle donne proprio davanti a loro ed è scoperto. Nella seconda parte dell'opera vengono descritti vari tentativi di Euripide di liberare il suo amico, finché non riesce a sedurre la guardia grazie ad una prostituta, aiutato dal coro a cui aveva promesso di non calunniare più le donne.


Lisistrata: l'ateniese Lisistrata, stanca della guerra, convince tutte le donne di Atene a non fare più l'amore con i mariti finché non sarà tornata la pace, e per di più nasconde il tesoro dello Stato necessario per la guerra. Forte è la contrapposizione tra i due cori (donne e vecchi di Atene) e fra Lisistrata e il funzionario che deve ritirare i soldi. Alla fine torna la pace e si festeggia.


RANE: Dioniso ha deciso di scendere nell'Ade per riportare sulla terra Euripide, che ha lasciato vuota la scena della tragedia. Travestitosi da Eracle compie il viaggio, infastidito dal rumore delle Rane (il secondo coro). Il travestimento gli crea non pochi problemi. Giunto a destinazione si trova di fronte ad una disputa di cui diventa giudice fra Eschilo ed Euripide, che vogliono entrambi ottenere il titolo di poeta massimo dell'Ade. Dopo molte incertezze, Dioniso sceglie Eschilo per l'impegno politico e civile.


Ecclesiazuse: le donne, insoddisfatte del governo maschile, si introducono travestite all'assemblea, guidate da Prassagora, per far passare proposte rivoluzionarie, tra cui quella di mettere tutti i beni in comune. Nella scena successiva vengono descritti gli esiti di questa proposta: alcuni tengono fede all'impegno, altri invece no. Buffa è la proposta che un giovane non possa fare l'amore con una ragazza se prima non ha soddisfatto una vecchia, per cui nella scena finale si vedono tre megere che si contendono i favori di un bel ragazzo.


Pluto: il vecchio Cremilo è andato a consultare l'oracolo di Apollo a Delfi, e gli è stato ordinato di ospitare in casa la prima persona incontrata davanti al tempio: è Plauto, il dio della ricchezza, la cui cecità crea le ingiustizie a riguardo sulla terra. Portato in un tempio, Plauto guarisce  e la ricchezza viene distribuita equamente. Lo stesso Zeus è costernato perché gli uomini non offrono più sacrifici agli dei. Cremilo, visti gli inconvenienti, decide di insediare il dio nel tempio di Atena. (embè?).



L'ORATORIA


L'oratoria è un mezzo per la trasmissione del pensiero e forte strumento di persuasione. Nei poemi omerici l'arte oratoria espressa nelle assemblee è tenuta in grande considerazione.

La letteratura oratoria è un esito della situazione politica e giudiziaria che si produsse nelle città nell'età successiva alle guerre persiane, in un clima di partecipazione totale alla vita pubblica.

Esistono tre tipi di oratoria: tipo deliberativo, cioè orazioni tenute in una sede e con finalità politiche; tipo giudiziario: discorsi d'accusa e difesa; oratoria epidittica o dimostrativa: discorsi pubblici in occasione di cerimonie e festività. Da questo tipo di oratoria si sviluppò poi la conferenza di parata, un esibizione di abilità su temi assurdi.

L'oratoria giudiziaria era per esigenza schematica, e formata da 4 fasi fondamentali:

1) introduzione, per propiziare l'attenzione e il preliminare favore dei giudici;

2) narrazione, cioè la rappresentazione dei fatti;

3) discussione propriamente giuridica, con l'eventuale interrogatorio dei testimoni;

4) perorazione, per ottenere definitivamente il voto favorevole .

Tecniche dell'oratoria giudiziaria erano quelle di ricorrere ad argomenti di carattere generale e astratto e cercare di coinvolgere emotivamente la giuria valorizzando il racconto. Spesso l'oratoria giudiziaria era affidata a dei professionisti, i logografi, che scrivevano l'accusa o la difesa immedesimandosi nel personaggio che poi doveva ripeterla a memoria in giudizio.

L'oratoria politica e quella epidittica erano meno schematiche e tendevano ad adattarsi ogni volta alla situazione, ed erano narrate in prima persona dall'autore, per cui la sua personalità acquista particolare rilievo.


ANTIFONTE

Nato verso il 480, fu protagonista della restaurazione oligarchica dei "Quattrocento". Dopo che fu ristabilita la democrazia, Antifonte fu condannato a morte per tradimento e giustiziato nello stesso anno. Tucidide fu suo allievo, e da lui sappiamo che il discorso che fece in sua difesa quel giorno è il migliore mai fatto da alcuno, ma a noi non è rimasto nulla di quel discorso. Noi conosciamo Antifonte solo come logografo, e abbiamo 15 orazioni, tra cui Sull'uccisione di Erode, in cui si difende un giovane di nome Mitilene accusato di aver ucciso in mare Erode.

Di Antifonte conserviamo anche le Tetralogie, che si riferiscono ognuna ad un processo criminale. Non comparendo nomi, è possibile pensare che funges-


sero semplicemente da modello per l'esercitazione retorica.

Testo: Una causa difficile (Contro la matrigna)

Si tratta di un discorso pronunciato da un giovane durante un processo: egli accusa la madre di aver ucciso suo padre. Non vorrebbe accusarla, ma ritiene peggiore non vendicare la morte del padre. Nel frattempo si difende anche dalle accuse che suo fratello gli ha mosso per aver portato in giudizio la madre.

I fatti si svolsero in questo modo: Filoneo, un amico di suo padre, aveva una concubina che voleva prostituire. Clitemnestra, sua madre, lo venne a sapere e, dicendo che anche lei aveva lo stesso problema, disse alla donna che con una certa pozione avrebbero ottenuto entrambe l'amore dei due uomini. In realtà si trattava di veleno, che la donna versò nei bicchieri dei due mentre stavano brindando ad un banchetto. Filoneo, che aveva ricevuto più pozione perché la donna credeva che così l'avrebbe amata di più, morì subito, il padre del ragazzo ci mise di più.

La donna venne uccisa, anche se era senza colpa. Il ragazzo chiede che anche la madre sia punita.


ANDOCIDE

Nato poco prima del 440, apparteneva all'aristocrazia ateniese. Venne coinvolto nell'accusa di aver partecipato assieme ad Alcibiade alla mutilazione delle Erme. Andocide si salvò con la delazione e andò in esilio volontario a Cipro, dove commerciò e accumulò molto denaro. Non riuscì a rientrare subito in patria (in questo periodo scrisse un'orazione Sul proprio ritorno), ma vi riuscì dopo la caduta dei 30 Tiranni, nel 403. Ma nel 399 i suoi nemici lo accusarono di empietà per aver assistito ai misteri Eleusi. Fu assolto grazie all'orazione Sui misteri. Partecipò, dopo riaver acquistato credibilità politica, ad un'ambasceria a Sparta che però fallì (Sulla pace con Sparta). Accusato di corruzione, Andocide dovette andare in esilio evitando la condanna a morte.

Egli non è un oratore di professione, ma scrive semplicemente per autodifesa. Ha una forte persona-



lità e un certo vigore espressivo e uno stile lineare perché vuole apparire un uomo semplice.


Testi: L'amnistia (Sui Misteri)


Un uomo si difende dall'accusa di un certo Cefisio di aver violato un decreto: si tratta del decreto di Isotimide che dice che chi ha commesso empietà è interdetto dai luoghi di culto. In realtà questo decreto era stato annullato dopo la battaglia di Egospotami: era stato deciso di restituire i diritti a tutti coloro che ne erano stati privati (gli atimoi). Quando rientrarono gli esuli accaddero brutti fatti. Gli Ateniesi ritennero di dover salvare la città e elessero venti uomini per prendersi cura della città. Questi uomini abolirono molte leggi che avrebbero implicato troppi procedimenti penali in seguito ai fatti accaduti.


LISIA

Lisia rappresenta la prima grande figura di artista nella letteratura greca. Scrive in gran parte discorsi giudiziari, in cui mostra una grande capacità di imitazione per l'esistenza quotidiana e i personaggi che la popolano, in uno stile molto elegante. Lisia appartiene all'alta letteratura.

Suo padre Cefalo si trasferì con la famiglia ad Atene, dove nel 445 nacque Lisia, che ben presto si recò in Magna Grecia per perfezionare la sua istruzione nella scuola retorica siciliana. Dopo la spedizione disastrosa in Sicilia del 415 tornò ad Atene, ma il nuovo governo dei Trenta lo accusò assieme al fratello Polemarco. Lisia riuscì a fuggire a Megara, ma il fratello fu ucciso. Tornò ad Atene dove fu costretto ad esercitare la professione del logografo. E' morto intorno al 380.

Scrisse moltissimo (si pensa 425 orazioni, di cui la metà sicuramente autentiche), in tutti i generi di oratoria: al genere epidittico apparteneva l'Olimpico, pronunciato alle Olimpiadi, mentre per


la retorica abbiamo l'Erotico.

Ma è l'oratoria giudiziaria il campo preferito da Lisia: egli è chiaro, con una straordinaria varietà di toni espressivi e una forte energia. La sua maestria risiede nell' "etopea", cioè la capacità di immedesimarsi in un'altra persona facendo in modo che il discorso scritto da Lisia sembri in realtà scritto da quella persona. Egli insisteva sulle apparenze negative del cliente per metterne in risalto la genuinità e acquistare così la simpatia dei giurati. Per esempio, nell'orazione Per l'olivo sacro, un possidente, accusato di aver abbattuto un olivo sacro, è rappresentato come un uomo all'antica, burbero e poco socievole, per cui sarà difficile che si tratti di un bugiardo.

In Per l'invalido, un uomo riesce con umorismo ad ottenere un contributo statale per la sua invalidità.

Lisia è anche dotato di un eccezionale talento narrativo, ed è capace di mettere in scena situazioni altamente drammatiche o molto spassose, per esempio nel discorso Per l'uccisione di Eratostene, in cui viene narrato un realismo quotidiano che è in genere inconsueto.

Più passionali i discorsi politici, in cui a volte parla lo stesso Lisia. Nell'orazione Contro Eratostene, egli comparve personalmente in tribunale per accusare quest'uomo di aver ucciso suo fratello Polemarco, parlando in uno stile crudamente oggettivo.

I suoi discorsi rappresentano un'evoluzione rispetto alla retorica tradizionale. L'enfasi fa sì che ogni singola causa risulti unica nel suo genere. Lisia scrive in un purissimo dialetto attico, caratterizzato dall'essenzialità e dalla precisione.


Testi: Per la difesa della "patrios politeia" in Atene (Contro una proposta tendente a distruggere in Atene la costituzione degli antenati)

Si tratta di un discorso deliberativo sull'inopportu-nità di abbattere ad Atene la patrios politeia.

Il popolo voleva un'amnistia generale e temeva che la democrazia potesse riprendere i soprusi contro i benestanti. Un uomo propose, rientrati gli esuli, di concedere i diritti politici solo ai proprietari terrieri: molte persone venivano così escluse dalla vita politica ateniese.

Lisia, per prevenire un evento del genere, pronunciò un discorso: quando era stata cambiata la costituzione, Atene aveva avuto molte disgrazie, e ora si vuole cambiarla di nuovo? L'unica salvezza per lo stato è che tutti gli Ateniesi partecipino alla vita politica



LETTERATURA DEL IV SECOLO


L'ORATORIA


ISOCRATE

L'opera di Isocrate si raccoglie tutta attorno al culto per la perfezione formale e per l'armonia dell'espressione, infatti spesso la ricercatezza dello stile prende il sopravvento sul contenuto.

Egli rappresentò un momento molto significativo per la storia dell'educazione e fu un profeta del futuro nella sua teoria civile e politica, per quanto riguarda l'egemonia macedone.

La civiltà greca del IV secolo è in profonda disarmonia a causa dell'incertezza politica, un periodo di crisi talmente forte che la parola scritta divenne una specie di recupero della razionalità.

Il programma pedagogico di Isocrate infatti si fonda sull'idea che l'arte della parola è segno distintivo della cultura greca e fondamento dell'istruzione e della civiltà. Egli nega all'uomo la possibilità della conoscenza assoluta, e pensa che la sapienza risieda non in questo, ma nella capacità di cogliere l'occasione sul fondamento della giusta opinione. Così la sua scuola diventa una preparazione alla vita quotidiana, un itinerario che porta l'uomo al successo e alla saggezza.

L'oratoria è essenziale in questo quadro, in quanto un giusto parlare conduce ad un giusto modo di agire. Ma la filosofia insegnata da Isocrate non è solo pratica: essa serve a conoscere le esigenze


della vita e ad adattarsi ad esse.

Isocrate continuò a perseguire i suoi principi per tutta la vita (dal 436 al 338). Nacque a una famiglia aristocratica, che lo aiutò negli studi, a si unì ad alcuni Sofisti, tra cui Gorgia. Le guerre distrussero il suo patrimonio, e per un po' di tempo fu costretto a seguire la professione del logografo. Stanco di questa carriera, decise di aprire una scuola, in cui spesso erano citati i suoi discorsi epidittici. E sono proprio questi discorsi a rappresentare il grosso della produzione isocratea, tra cui si ricordano l'orazione Contro i Sofisti, in cui Isocrate contrappone i suoi obiettivi a quelli platonici, e quella intitolata Sullo scambio, in cui Isocrate, accusato di aver tratto enormi guadagni dall'insegnamento e di non aver voluto per questo pagare una trireme come era la legge del tempo, si difende dicendo che egli ha già dato ciò che doveva diffondendo il proprio insegnamento, e descrive della propria missione in una specie di autobiografia.

Fu un sostenitore della democrazia moderata. A riguardo questo scrive l'Areopagitico e il Panatenaico, in cui le proposte costruttive cedono il posto ad un'ampia celebrazione di Atene, intrisa però di una forte delusione del presente.

Gli interessi politici di Isocrate sono però soprattutto in politica estera, rivolti a propugnare un'unità degli stati della Grecia lontana dalla polis, una specie di coalizione panellenica. Nel Panegirico sostiene che quest' unione deve essere fatta sotto l'egemonia marittima ateniese.

Poi, svanite le speranze di quest'unità, Isocrate scrive il Filippo, diventato protagonista del programma isocrateo, che gli propone di diventare guida delle genti greche contro i barbari: la profezia di Isocrate.

L'attività di Isocrate è tutta pregnata dalla convinzione della validità degli ideali che la cultura greca aveva prodotto.

Il suo stile è sontuoso ma limpido, fondato su un forte senso di equilibrio che esprime tutta la nostalgia per la vecchia cultura greca. Con le sue opere Isocrate influenzò molto la politica e lo stile.


Testo: Missione di Filippo e di Isocrate (Filippo)


Isocrate dice, rivolgendosi a Filippo, che se fino a questo punto ha trovato incongruenze è colpa della sua età, altrimenti è merito degli dei, che non ci fanno direttamente del bene o del male, ma ci predispongono in modo che compiamo noi stessi delle azioni che possono portarci al bene o al male. Così mentre Isocrate è predisposto a scrivere, Filippo lo è a combattere.

Essendo protetto dagli dei, dice Isocrate, è bene che Filippo ispiri a grandi mete: che sia benefattore dei Greci, regni sui Macedoni e domini su numerosi barbari, non da despota ma da re.

DEMOSTENE

Mentre Isocrate era stato il profeta del futuro (dato che ormai considerava già conclusa la storia della polis greca e accettava gli stranieri), Demostene è rivolto al passato, con un'accanita difesa della polis e nella speranza di una nuova grandezza di Atene. Egli fu incapace di comprendere le modernità che avrebbero introdotto l'ellenismo di Filippo e Alessandro (che crearono un regno compatto politicamente e culturalmente).

Sotto il suo nome abbiamo circa 60 orazioni.

Nacque ad Atene nel 384 da una ricca famiglia. Ben presto si cimentò nell'oratoria giudiziaria per cercare di riprendere il patrimonio famigliare, dilapidato da disonesti tutori dopo la morte del padre, ma probabilmente non riuscì nel suo intento. Cominciò presto la sua attività di logografo, in cui si nota una forte imitazione lisiana.

Il suo esordio nella vita politica fu in un periodo di grave crisi economica per Atene, in cui Demostene è d'accordo con la nuova politica che cerca di applicare realmente provvedimenti economici.

Scrisse sempre nello stesso periodo dei discorsi antispartani e antipersiani, confermando il suo integralismo democratico.

In breve tempo la presenza di Filippo divenne un fattore determinante per la politica della Grecia, e Demostene interpretò questa situazione come la perdita dell'autonomia di Atene, cominciando così una dura lotta contro Filippo pronunciando la Prima Filippica, per ammonire gli Ateniesi a vigilare


sull'operato di Filippo. Si tratta di uno splendido saggio appassionato di oratoria. Nelle tre orazioni Olintiche, in occasione dell'assedio di Filippo ad Olinto, Demostene esorta gli Ateniesi a correre in aiuto degli assediati, come segno di una presa di coscienza della libertà comune. Ma Atene si mosse troppo tardi e Filippo vinse.

Dopo un tentativo fallito di trovare alleati, Atene dovette firmare accordi con Filippo. Dell'ambasceria fece parte anche Demostene.

Nella Seconda Filippica viene attaccato Eschine, responsabile di essersi fatto corrompere da Filippo. Così Filippo è il bersaglio estero, Eschine è quello interno. Contro Eschine Demostene tentò una denuncia (Sull'ambasceria corrotta), in cui parla con ardente passione del bene della città e del suo glorioso passato. Eschine fu assolto, ma l'orazione di Demostene risvegliò gli Ateniesi, che cominciarono un'opera di resistenza a Filippo. Così Demostene scrive la Terza Filippica, in cui Filippo è descritto con implacabile furore e come un tiranno immorale. Dello stesso periodo è la Quarta Filippica, dove si parla della cooperazione tra i Greci e si avanza la proposta di un'alleanza persiana.

Il sogno di Demostene si stava realizzando, ma quando fu il momento di assegnargli un'altra corona per i meriti verso la patria, Eschine lo accusò di illegalità. Abbiamo due discorsi: quello di Demostene Per la corona, e quello di Eschine Contro Ctesifonte. Demostene riesce a rovesciare i fatti parlando della sua convinzione ideale che Atene, senza interessarsi alle sconfitte subite, deve lottare per difendere la sua libertà oltre che la gloria. Demostene vinse ed Eschine si allontanò dalla città.

Ma gli ultimi anni dell'oratore non furono molto gloriosi: si trovò coinvolto in un affare di corruzione, perché nel 324 Arpalo, tesoriere di Alessandro, si rifugiò ad Atene con un grosso tesoro sottratto al re, che chiese la restituzione del denaro e l'estradizione del colpevole. Ma Arpalo riuscì a fuggire grazie all'aiuto di alcuni politici tra cui lo stesso Demostene, che ricevette in cambio del denaro. Il tribunale lo condannò a pagare una multa enorme e poiché Demostene non aveva una tale quantità di denaro fu imprigionato, ma riuscì ad evadere.

Tornò ad Atene, che lottava per la libertà dopo la morte di Alessandro, ma l'insurrezione venne repressa e Demostene, per non cadere nelle mani del generale macedone, si uccise con del veleno nel 322.

L'inattualità del suo programma è una della parti essenziali del suo carattere. La sua oratoria sembra una poesia, grazie ad un ostile ardito e travolgente, fitto di metafore e iperboli, con rotture di simmetria e effetti drammatici di sorpresa.


Testo: Inevitabilità della guerra con Filippo (Terza Filippica)


In molte città greche la popolazione era divisa in due parti: alcuni erano al servizio di Filippo e calunniavano chi dava buoni consigli, altri cercavano di combattere per rendere i cittadini liberi.

Famoso è il caso di Eufreo, che predicava la libertà dei cittadini e per questo venne messo in prigione. Quindi i seguaci di Filippo potevano governare la città a piacimento perché nessuno osava mettersi contro di loro. Poi un giorno i soldati di Filippo assalirono le mura di questa città ed Eufreo, per testimoniare la sua perenne lotta contro Filippo, si suicidò.

Per paura erano molti di più i sostenitori di Filippo che non i sostenitori della libertà.

Purtroppo, dice Demostene, la stessa cosa stava accadendo ad Atene, e bisognava fare qualcosa perché non accadesse davvero, perché l'errore più grande sarebbe stato dire, a cose fatte, che forse bisognava agire in un altro modo.

Quindi secondo Demostene bisognava preparare le armi e mandare ambasciatori ovunque perché tutti seguissero l'esempio di Atene e si alleassero con essa; bisognava insegnare ai Greci ad essere uniti.

ESCHINE

Fu il principale avversario di Demostene. Nacque da una famiglia di modeste condizioni, era stato pubblico funzionario e aveva cercato di fare del teatro con scarsi risultati. Entrato in politica, fece parte dell'ambasceria che condusse trattative con Filippo (vedi brano). In questa circostanza venne accusato di corruzione da parte di Demostene. Non si sa se l'accusa fosse vera, ma Eschine sembrava davvero schierato dalla parte macedone. Demostene perse la causa per poco, e Eschine lo accusò per quel fatto della corona poetica (vedi testo), perdendo rovinosamente. Quindi partì e visse a Rodi dove insegnò la retorica.

Ci rimangono tre suoi discorsi:

Contro Timarco, un attacco al presentatore dell'accusa per l'ambasceria, di cui viene dimostrata l'indegnità morale;

Sull'ambasceria corrotta, in cui Eschine si difende dall'imputazione

Contro Ctesifonte, in cui è sottoposta a critica tutta l'azione di Demostene, da cui dipende la situa-


zione critica di Atene.


Eschine era convinto dell'egemonia macedone, per questo è in lotta con Demostene che fa sempre ricorso al richiamo dei valori ideali per salvare la situazione.

Non sempre Eschine è convinto di ciò che scrive, e per questo il suo stile risulta sì ben formulato e chiaro, ma spesso anche molto freddo.


Testi: Catastrofe oratoria di Demostene

(Sull'ambasceria corrotta)


Si tratta di un discorso fallito di Demostene al cospetto di Filippo. Infatti, agitatosi, non riuscì a pronunciare più una parola, mentre tutti conoscevano la sua fama e si aspettavano chissà che discorsi. Persino Filippo lo esortò a parlare e a non farsi intimidire. Demostene, ritrovatosi solo con gli altri compagni di ambasceria, dichiarò che la colpa di tutto era di Eschine (che parla in prima persona), che aveva fatto innervosire Filippo con proposte tali da far scaturire la guerra e non la pace che tanto anelavano.

Ma Filippo, richiamati gli ambasciatori, rispose a tutti (tranne che, naturalmente, a Demostene che non aveva detto nulla) e si soffermò a lungo sul discorso di Eschine, concludendo il discorso con frasi di amicizia e di pace. Così caddero le accuse di Demostene

Testi: Anticipazioni di argomenti dell'avversario

(Contro Ctesifonte)


Si parla del fatto che Ctesifonte voleva dare a Demostene la corona di poeta.  Egli ha infatti scritto in un decreto che la corona deve essere conferita a Demostene per le sue virtù, rettitudine morale e perché il poeta opera nell'interesse del popolo. L'accusa di Eschine si basa sulla dimostrazione che Demostene non ha fatto nulla di tutto ciò, e che dunque Ctesifonte deve essere condannato perché non si possono inserire menzogne nei decreti pubblici.

Quindi Eschine dice di non voler elencare le malefatte della vita di Demostene (processi, accuse, ingiustizie.) perché sa che tanto tutti quanti le conoscono bene. E allora, come si può pensare di dare la corona ad un uomo le cui malefatte sono talmente conosciute che non c'è bisogno di parlarne?

Ma riguardo all'attività politica di Demostene. Eschine non tralascia nulla. Egli già sapeva quale sarebbe stata la difesa del poeta, e cioè egli avrebbe chiesto ad Eschine quale dei quattro periodi in cui lui era in attività politica voleva criticare e, non ottenendo risposta, l'avrebbe umiliato e costretto a rispondere. Bene, prima che Demostene possa fare tutto questo Eschine gli "risponde": egli critica tutti e quattro i periodi: in quei periodi sono stati responsabili della pace solo gli dei e pochi altri, mentre tutte le sciagure sono state causa di Demostene. Quindi esamina tutti e quattro i periodi.


Testi: Il compianto per Tebe (Contro Ctesifonte)


La città di Atene non è in questo momento come le altre città: questo è un periodo di gloria, un periodo in cui tutti fanno opere magnifiche. Atene è qui a combattere per difendere il suolo della patria, e tutto a causa di Demostene.

Quindi Eschine recita dei versi, in cui si dice che spesso una città intera soffre per colpa di uno solo: gli dei puniscono la città intera, le mura sono distrutte, la flotta e l'esercito dispersi. Questa poesia sembra, dice, un oracolo contro la politica di Demostene: infatti grazie a lui è successo questo.


Testi: Perorazione (Contro Ctesifonte)


Eschine si rivolge a Ctesifonte e lo esorta a difendersi da solo e non chiederlo a Demostene, che sicuramente parlerebbe di sé stesso.

Ctesifonte, dice Iperide, è molto abile nel parlare e sicuramente saprà difendersi dall'accusa di aver presentato un decreto dietro compenso.

Perché scegliere Demostene che non ha compiuto nessuna nobile azione, ma anzi è un vigliacco, venale, disertore? Non bisogna conferire la corona ad uno che ha spinto a fare una spedizione che si è rivelata un disastro.

Se fosse incoronato i giovani si ispirerebbero a lui, e comunque lui rappresenterebbe una parte di tutti i cittadini di Atene.

Molte città hanno criticato la politica di Demostene: se il popolo ateniese lo voterà sarà come dire che è d'accordo con la sua politica.

Demostene non è un uomo di valore, non ha forza fisica, non vale come nessuno dei precedenti incoronati.


IPERIDE

Nacque ad Atene da famiglia facoltosa. Fu allievo di Isocrate e forse anche di Platone. Viene descritto come un uomo raffinato che amava le donne e i piaceri, un uomo vitale, che per questa sua qualità si trovava a lottare tenacemente contro i sovrani di Macedonia al fianco di Demostene. Ci fu un momento (vedi testo) in cui i due non erano più amici,


anzi si schierano uno contro l'altro, ma poi riuscirono a riconciliarsi.

L'opera di Iperide andò completamente perduta nel Medioevo, ma ora qualcosa è stato ritrovato (6 orazioni su 77). Una delle orazioni ritrovate si chiama Contro Atenogenee parla di un incauto possidente di campagna che, innamorato del suo schiavo, decide di comprarsi una bottega di profumi per piacergli, senza sapere che era coperta di debiti e scarsa di vendite. E' un capolavoro di oratoria per l'ironia, la leggerezza, la minuziosità con cui è narrato il fatto.

Iperide fu anche incaricato di scrivere l'orazione funebre per i morti durante un episodio della rivolta antimacedone, e vi riuscì benissimo, esaltando la nobiltà e la condotta di quegli uomini nel nome di Atene.

Ha uno stile brillante, spiritoso, raffinato, ricco di dettagli interessanti.


Testi: La corruzione dei politici (Contro Demostene)


Parlando della corruzione, per Iperide il fatto grave non è aver preso, ma aver preso da chi non si deve, e non è uguale la colpa dei privati che prendono soldi a quella degli oratori o degli strateghi, perché questi ultimi usano questi soldi per compiere una certa azione politica. D'altronde, solo oratori e strateghi possono essere condannati a morte per corruzione, mentre gli altri pagano multe.

Demostene e Demade, solo con i decreti che hanno fatto, hanno guadagnato moltissimo. E se questo guadagno non bastasse, e volessero , per averne altro, attentare alla vita dello stato? Perché non vengono puniti se l'hanno fatto? (questo brano non mi è chiaro: rileggerlo)

GLI ORATORI MINORI


Iseo: nato nell'Eubea, meteco, rimase escluso dalla politica ateniese. Fu logografo e tenne una scuola di retorica. Si ritiene che fosse stato maestro di Demostene. Ci rimangono 11 orazioni tutte relative a cause di eredità, di cui Iseo si occupava spesso. Si tratta di orazioni di grande interesse giuridico e storico, ma non molto artistico: Iseo appiattisce i personaggi, è arido e monotono.

Licurgo: fu un uomo politico intransigente e un bravissimo amministratore. Nacque ad Atene da famiglia di alta nobiltà e fu un patriota antimacedone. Venne eletto tesoriere dello stato e fu grazie a lui che Atene rinfoltì la sua flotta e si abbellì di molti edifici pubblici, tra cui la prima costruzione in pietra del teatro di Dioniso.Delle sue 15 orazioni ci


resta solo Contro Leocrate, che aveva disertato, colto dal panico, durante la battaglia di Cheronea, ed era rientrato ad Atene dopo sette anni sperando di non essere riconosciuto. L'orazione è scritta con toni altamente drammatici, con numerose citazioni poetiche. Comunque Leocrate fu assolto.

Demade: di grande fantasia e arguzia, è diventato famoso per queste sue qualità. Improvvisava i discorsi e non li trascriveva, per cui non abbiamo nessun testo, e forse per questo non viene annoverato fra i grandi oratori. Fu mediatore tra ateniesi e macedoni.

Alcidamante: fu avversario di Isocrate. Scrisse la raccolta Museion.


LA COMMEDIA "DI MEZZO" E "NUOVA" (no)


MENANDRO (no)


La commedia di Menandro apre un'epoca nuova, non tanto per il genere comico, quanto per l'orizzonte umano che porta in scena, in cui regna l'insicurezza e la dispersione. L'economia in grande sviluppo accentua il divario tra ricchi e poveri e incentra l'interesse sul lavoro, precludendo la partecipazione alla vita pubblica.

Ma il lato positivo di tutto questo c'è: tralasciando la vita pubblica si pensa di più alla propria famiglia, agli affetti e all'arte. Il rapporto tra padri e figli è più forte ed aumenta la responsabilità dell'uomo. Il rapporto con gli altri popoli si fa più amichevole perché si capisce che siamo tutti una sola essenza umana. Atene resta il centro culturale greco e Menandro segna la fine del periodo del disimpegno della commedia: egli inventa un'azione comica che parli delle frustrazioni e delle ansie di ognuno, con una differenza dalla realtà: le disgrazie possono solo scalfire il nucleo famigliare, non distruggerlo, rivendicando così la fiducia nella giustizia immanente.

I personaggi di Menandro non vivono la stessa esistenza del suo pubblico, ma quella che esso vorrebbe vivere, nei limiti del possibile.


La vita e le opere


Menandro nacque intorno al 342 a.C., da una famiglia ricca e nobile. Fu amico di Demetrio Felereo, un filosofo e uomo politico che resse il governo per 10 anni. In questo periodo è l'affermazione drammatica di Menandro. Sembra che non abbia partecipato alla vita pubblica di Atene. Si interessò molto di teatro e donne. Morì ad Atene a soli 50 anni..


La sua produzione fu fertilissima (circa 100 commedie) ma la maggior parte delle sue opere andarono disperse durante il Medioevo (come fu anche per molti altri autori). Comunque sono stati trovati dei papiri di 7 commedie. (vedi scheda grigia a pag.391).


La drammaturgia di Menandro


La commedia di Menandro è per lo più divisa in 5 atti intervallati da interventi corali. Il luogo è sempre uno spazio pubblico su cui si affacciano due o tre edifici, e l'azione si svolge in una sola giornata. Gli attori sono 3. Naturalmente tutto questo crea situazioni limitate o altrimenti poco verosimili (personaggi che non si vedono da anni che abitano in case vicinissime).

L'intreccio può essere di due tipi: nel primo la situazione iniziale tende ad evolversi per desiderio di un personaggio, ma naturalmente c'è qualche problema che non farà svolgere l'azione con facilità l'azione.

Nel secondo si incomincia con una situazione che non dovrebbe avere seguito, ma che viene turbata da una equivoco. Quando questo viene chiarito, si torna all'armonia iniziale.

Il teatro è occasione di diletto e questa schematicità consente allo spettatore di partecipare il meno possibile all'azione, per gustare l'allestimento scenico e la bravura nella recitazione.

La crisi che rappresenta il nucleo della vicenda può essere di due tipi: interna ai personaggi, ossia psicologica, oppure esterna, motivata cioè da eventi che impediscono il lineare sviluppo della vicenda. In entrambi i casi la crisi deriva da un errore di informazione, chiarito il quale tutto si risolve: ciò rappresenta una gratificante risposta all'ansia dello spettatore, che vede proiettati sulla scena i propri drammi.

Il valore  che Menandro cerca di rappresentare in maggior modo è la solidarietà umana, in cui è possibile trovare il modo di affrontare la vita. La consapevolezza dei valori avviene grazie al processo conoscitivo: infatti in tutte le commedie di Menandro si supera uno stato di ignoranza.


Lo stile di Menandro


Menandro riduce drasticamente l'aspetto attico della lingua, a causa dell'apertura di orizzonti della polis e del linguaggio colloquiale dei personaggi.

Il rapporto della parola con l'azione è molto importante e di natura dialettica: in esso appaiono interruzioni, sospiri, sorrisi, confidenze.


Il mondo concettuale di Menandro


La finalità primaria della commedia di Menandro è l'intrattenimento del pubblico, ma non si risolve solo in questo. Il tema più importante è la problematica del rapporto uomo-uomo (la dimensione sociale).

Il travaglio dei suoi concittadini si trasforma nei personaggi in pessimismo per la condizione umana. Vi è un'antitesi tra la volontà di ottenere il bene e le forze opposte. Comunque vi è una fiducia ottimistica nell'indole buona dell'uomo, a cui Menandro nelle sue opere affida ogni problema. Così la commedia diventa un'utopia.

E perché ciò accada davvero, dice Menandro, bisogna conoscere l'uomo. Ma ciò non è possibile perché bisogna superare gli opposti, dice la filosofia. E così ci si limita a vagheggiare.


Testi: Prologo di Pan e atto primo (Dyskolos)


Nel Dyskolos si descrive la nevrosi dell'insofferenza assoluta verso gli altri. Un vecchio, Cnemone, per sfiducia negli altri uomini, ha interrotto con essi ogni relazione. Ora vive con una figlia della quale si innamora, per volere di Pan, Sostrato.

Il testo comincia con una descrizione della chiusura di Cnemone, della moglie che lo ha lasciato per questo e di sua figlia. E' Pan che parla e dice che ha fatto, appunto innamorare Sostrato della ragazza. Questi sta parlando con Cherea, un suo amico, dopo aver mandato Pirria, un servo, a cercare informazioni sulla famiglia di lei. Pirria torna trafelato e inseguito da lontano da Cnemone, e sconsiglia Sostrato dal tentativo di parlargli. Cherea decide di provarci lui e se ne va. Nel frattempo arriva Cnemone che borbotta riguardo alla "folla" che lo è andato a disturbare. Sostrato, spaventato sotto la sua porta, giustifica la sua presenza dicendo che aspetta qualcuno, e anche su questo il vecchio ha da ridire.


Testi: Atto quarto: apologia di Cnemone (Dyskolos)


Cnemone è stato salvato da Sostrato e Gorgia, il suo figliastro, dopo essere caduto in un pozzo. Dopo quest'esperienza capisce che ha sbagliato a starsene solo così tanto tempo e che si dovrebbe sempre avere qualcuno vicino. E' stupito dalla bontà dei due, perché pensava che gli uomini non facessero niente per niente e pensassero solo al denaro. Affida, così, tutti i suoi beni a Gorgia e lo incarica di trovare un marito (che sarà naturalmente Sostrato) alla figlia. Quindi dice che comunque "se tutti fossero come me, non ci sarebbero  tribunali, né prigioni, né guerra, e tutti si accontenterebbero di poco.


LETTERATURA DELL'ETA' ELLENISTICA



LA POESIA DELL'ETA' ELLENISTICA

Caratteri generali della poesia ellenistica


Il passaggio al tipo di letteratura che viene chiamata ellenistica è lento e graduale: si nota nell'apertura di Isocrate oltre la poleis nella varietà di interessi di Senofonte, dai valori sociali della commedia di Menandro. Ed è appunto Menandro che supera cronologicamente il limite posto per l'inizio dell'età ellenistica (323, data della morte di Alessandro, a seguito della quale sorsero grandi regni). A ciò si contrappone il cambiamento traumatico delle strutture e dell'organizzazione del potere subito dopo l'inizio dell'ellenismo. Da queste due diverse forme di ellenismo, nasce un ellenismo universale: la Grecia è proiettata in un mondo di culture universali ed estranee. Sarà la cultura greca che le assoggetterà al proprio modello, grazie a questo lento e ragionato cambiamento: per esempio la scoperta che il sovrano non è una divinità viene tradotta dalla letteratura del periodo secondo uno schema che salvaguardi la tradizione, per imporre lentamente questo cambiamento.

D'altronde la letteratura riesce ad abituarsi senza problemi a questo cambiamento repentino perché abbiamo visto che nel tempo è riuscita ad inventare un nuovo genere di espressione: cambia la tonalità, cambia il progetto, cambia (soprattutto) il rapporto con il pubblico: il potere ha reso sudditi e non più cittadini gli uomini, eliminando la fruizione collettiva della letteratura a vantaggio di quella privata (1), che è il nuovo campo della letteratura. Inoltre


variano le condizioni economiche, che mentre prima non erano un problema (lo stato pagava il biglietto), ora segnano una forte differenza di cultura: la classe media diventa il destinatario per eccellenza della nuova letteratura (2), perché è in grado di avere una buona istruzione e di comprare libri, che sono diventati praticamente l'unico mezzo di diffusione della letteratura a scapito del teatro (3). Inoltre, per questa nuova apertura a più culture, è necessario eliminare il dialetto preferendo la koinè (4), la lingua unificata. La koinè ha base prevalentemente attica con infiltrazioni sporadiche dialettali.


Le poetiche e le polemiche


La koinè rappresenta un'estensione dell'idea di grecità perché serve per essere letta da altri popoli, ma è anche una riduzione della sua specificità. Comunque, grazie alla koinè la prosa riesce a rivelare la propria inclinazione ad un genere letterario di tipo più diretto che si avvicina al linguaggio parlato, mente la poesia riesce ad accentuare il suo carattere di letteratura artistica. Ciò avviene anche grazie al nuovo tipo di linguaggio nato apposta per la poesia, quindi raffinato e artistico. Per questo la poesia comincia ad essere letta solo da pochi iniziati in grado di apprezzarla, e a sua volta questo carattere elitario dà alla poesia ellenistica un aspetto conservatore (per mantenere saldo il patrimonio culturale di fronte alla concorrenza di altre culture) e appartato, alla ricerca del raro (di minor conoscenza comune).

In questo periodo, legato al mantenimento della cultura, si manifesta una grande cura per la conservazione delle opere del passato, finanziata dai sovrani. I poeti, non potendo riprendere le ideologie degli antichi scrittori, vi si collegano tramite allusioni e citazioni.

Questa tendenza alla ripresa di tematiche astratte dalla concretezza dell'esistenza come era in passato, crea per opposizione un tipo di poesia del particolare, di tutto ciò che è quotidiano, minuscolo, che accentua la funzione privata della letteratura. Callimaco è il maggior esponente di questa opposizione. Egli afferma che la sua poesia non si rivolge alla folla ma percorre una via poco frequentata, perfetta e per questo circoscritta. Callimaco quindi odia i grandi libri e sembra che chiami coloro che invece la pensano diversamente da lui "Telchini", leggendari demoni maligni. Questi "Telchini" lo accusavano di non essere in grado di scrivere di grandi gesta e per questo si rifugiava nella scusa del perfetto. Soprattutto, Callimaco odia Apollonio Rodio (che scrisse le Argonautiche).


La poesia elegiaca e lirica


Fileta di Cos: scrisse una specie di manifesto programmatico della poesia elegiaca, per cui ne è considerato il maestro. Abbiamo poche notizie su di lui. Tolomeo lo chaima ad Alessandria per insegnare a suo figlio, il futuro Filadelfo. Era talmente debole e malato che una leggenda dice che dovesse portare dei pesi nei calzini per non volare via. Scrisse Ermes, che narra la storia di Polimela, figlia di Etolo, che si innamora di Odisseo.


Partenio di Nicea: fu prigioniero dei Romani e per questo visse sempre a Roma e Napoli come liberto. Ebbe un'enorme influenza sulla poesia latina (era in contatto anche con Virgilio). Scrisse Sofferenze d'amore, con storie di amori infelici.


Ermesianatte: vive a Cos (come Fileta con cui fu a contatto). Scrisse Leonzio, una raccolta di elegie, in cui molti spunti sono tratti da Esiodo.


Alessandro Etolo: è chiamato ad Alessandria a riordinare le opere drammatiche della Biblioteca. Era fra i sette della "Pleiade". Scrisse anch'egli storie di amori infelici.


CALLIMACO


La poesia di Callimaco non ha fini, è una forma autonoma ed esclusiva, quindi diversissima rispetto ai canoni poetici usati fino ad allora. Quest'evoluzione ha le sue radici nell'esclusione del cittadino alla vita politica, che quindi cerca un compenso nella letteratura: la poesia di Callimaco diventa così un colloquio tra due individui, poeta e lettore, colloquio fine a sé stesso, che fa maturare la personalità del lettore.

Questa relazione tra poeta e lettore è agevolata dalla scrittura. Nella poesia orale i momenti sono irripetibili (dopo che sono stati detti non vengono ripetuti) e ciò richiede il massimo dell'incisività. In Callimaco il tempo della lettura non è l'istante ma la durata: la parola scritta rimane e il lettore può tornare sui propri passi per riflettere quando vuole. Per questo la poesia callimachea è strutturata in modo che ogni parola abbia una certa valenza in relazione a ciò che la segue o che la precede, secondo una linea sempre varia.


La vita e le opere


Callimaco nacque intorno al 300 a.C. a Cirene, colonia greca in Libia. Per motivi economici fu costretto a trasferirsi ad Alessandria per insegnare. Ma la sua fama di grande poeta si diffuse in fretta ed egli fece il suo ingresso alla corte di Tolemeo II Filadelfo. Ebbe un incarico nella Biblioteca di Alessandria (anche se non si sa il motivo per cui non ne divenne il dirigente): il suo compito era quello di riordinare e catalogare l'enorme mole di opere antiche lì conservate. I risultati furono riportati nelle Tavole, un'opera monumentale, corredata da commenti e biografie di vari autori.

Callimaco divenne poeta di corte e celebrò tutti gli eventi della casa regnante. Al Filadelfo successe il foglio Tolemeo III Evergete, alla cui moglie il poeta dedicò la Chioma di Berenice, inclusa poi negli Aitia.

Morì molto vecchio, non si sa a quale età.


Ci sono rimaste, oltre ad alcune opere minori, sei Inni, circa 60 Epigrammi, il poemetto Ecale (frammenti), Aitia (frammenti), alcuni componimenti in metri giambici raccolti in Giambi.


La poesia in esametri


I 6 Inni di Callimaco sono stati scritti in epoche diverse e segnano una specie di evoluzione del poeta, anche se l'ispirazione è sempre la stessa: gli Inni di Omero, anche se le differenze non sono poche. Gli Inni di Omero sono invocazioni (nel caso di inni brevi) o narrazioni (nel caso di inni più lunghi). Il loro andamento è semplice e il racconto unitario. Gli Inni di Callimaco non vogliono essere religiosi anche se non mancano gli accenni al rituale. La forma del racconto è rapida, ricca di interventi personali, trapassi veloci e spunti attuali. Il linguaggio varia da elevato a popolaresco, fino ad un umorismo che si riferisce anche alle divinità. Gli dei di Callimaco non sono più oggetto di fede religiosa, ma esemplari della tradizione nazionale e culturale.

I titoli degli Inni sono: A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo, Lavacri di Pallade, A Demetra.

Ecale è l'opera più impegnativa di Callimaco nel campo della poesia esametrica. Il tema riguarda l'eroe Teseo. Egli si è allontanato di nascosto dalla casa del padre Egeo per combattere il Minotauro. Durante il viaggio un temporale lo costringe a rifugiarsi presso la vecchia Ecale. Ripartito e domato il toro, Teseo torna con questo da Ecale, ma la trova morta. La piange e dedica un santuario a Zeus Ecalio. Si tratta di un piccolo epos, un epillio: questa forma diminutiva è dovuta non solo alle dimensioni ridotte, ma anche al fatto che nella narrazione erano privilegiati gli aspetti intimi e domestici, il sentimento e i dettagli (viene persino introdotta una cornacchia che narrava leggende antichissime alla compagna, ma entrambe si addormentano a metà discorso). I maggiori elementi di fascino di questo poemetto sono l'arguzia, la commozione e l'ingenuità.


Gli Aitia e le opere minori


Gli Aitia sono scritti in metro elegiaco, sono composti da 4 libri di un migliaio di versi ciascuno e non possono essere definiti come un poema vero e proprio ma più come una raccolta di elegie, collegate tra di loro dal filo conduttore della narrazione di episodi mitici, origine di riti e feste (Aitia, infatti, vuol dire Causa o Origini).

Callimaco immagina che le Muse gli fossero apparse in sogno narrandogli le suddette leggende (come Virgilio, che nell'Egloga 6° dice che Apollo gli si era avvicinato per dirgli di non cantare fatti di guerra, ma agresti). Degli Aitia ci restano numerosi papiri, benché una cospicua parte sia andata perduta durante il Medioevo.

Non si può narrare la storia degli Aitia, perché non si tratta di una storia. Alcune delle leggende più importanti sono:

Aconzio e Cidippe: Aconzio si era innamorato di Cidippe e per averla in moglie Eros gli aveva consigliato di scrivere su una mela: "Lo giuro, per Artemide: sposerò Aconzio", e di gettarla alla ragazza. Così fece e quando la ragazza la vide e, ingenua, pronunciò il giuramento con l'intento di leggere la scritta. Ma il padre l'aveva promessa in sposa ad un altro uomo. Per tre volte Cidippe cercò di sposarsi, ma ogni volta si sentiva male. Così il padre si fece rivelare dall'oracolo di Delfi che cosa era successo e diede Cidippe in sposa ad Aconzio.

La chioma di Berenice: (conclusone del poema, non attinta dalla tradizione) Berenice, moglie dell'Evergete, aveva tagliato un ricciolo della sua chioma offrendolo come dono affinché suo marito tornasse salvo dalla guerra. Il ricciolo era scomparso e l'astronomo di corte lo spiegò con la formazione di una nuova costellazione, che porta ancora oggi il nome "Chioma di Berenice". Questa elegia fu interamente tradotta da Catullo nel carme 66, in risposta (carme 65) ad una lettera di Ortalo.


Nei Giambi vengono trattati gli argomenti più disparati, e il più interessante è il 4°, in cui un alloro e un ulivo si contendono i meriti per la vita dell'uomo.

Gli Epigrammi (raccolti nell'Antologia Palatina) seguono i temi della tradizione.


L'arte di Callimaco


Callimaco è un poeta molto moderno, per il suo sperimentalismo, per la creazione, per il carattere elitario. Eppure dai moderni è poco amato: dalla poesia ellenistica molti si aspettano un pensiero che scavi nella psiche umana, lo spasimo delle passioni, le nefandezze della storia.. La sapienza verbale di Callimaco o il suo umorismo intelligente non bastano. Sarà anche per lo stile estroso e difficile da seguire.

Callimaco non ignora le emozioni, le dissimula: sotto la sua poesia vibrano la pietà, la malinconia, la tenerezza. I suoi sentimenti pulsano nel fenomeno singolo, nel dettaglio.

A lui si ispirarono moltissimi poeti, tra cui Catullo, Properzio, Ennio (+ vedi il libro nuovo).


Testi: Proemio degli "Aitia"


I Telchini disprezzano Callimaco perché invece di scrivere delle gesta di grandi eroi scrive rotoli di poesia. Che altri parlino di poesia, dice, e che i Telchini imparino a giudicare l'arte: Callimaco non è un poeta di guerra; fare la guerra spetta a Zeus!

Apollo lo ha ispirato esortandolo a non scrivere di battaglie, come fanno tutti.


Testi: La chioma di Berenice


Anche Catullo dedica il Carme 66 alla storia della Chioma di Berenice. Callimaco racconta l'assunzione di questa chioma fra gli astri in modo molto originale, facendo cioè parlare la chioma che si rivolge al lettore: questa, tagliata dal ferro, ne dichiara l'onnipotenza e si dispera per la sua scoperta. Avrebbe preferito restare sul capo di Berenice.

Ma improvvisamente un dolce vento la portò fra le stelle, vicino all'Acquario e ad Orione.


Testi: Per il bagno di Pallade (no)


Ecco Pallade che scende dal cocchio per fare il bagno. Per prima cosa pulisce i cavalli; non bisogna portarle specchi né profumi perché lei non ne ha bisogno. Si unge solo di olio di oliva e si pettina con un pettine d'oro. Le viene portato lo scudo di Diomede. Tutto viene preparato.

Ma attenzione a non guardarla o si perderà la vista (come Ferecide aveva scritto riguardo alla cecità di Tiresia): allo stesso modo la perse Tiresia, anche se sua madre, una ninfa, era molto amica di Pallade. Quando Tiresia perse la vista, sua madre faceva il bagno con Pallade, la quale fu molto dispiaciuta di doverlo accecare, ma quella purtroppo era la legge degli dei. Meglio così, dice, piuttosto che ucciso come doveva essere. Per scusarsi, Pallade promette che Tiresia diventerà un grandissimo indovino.



APOLLONIO RODIO E LA POESIA EPICA E DIDASCALICA


La vita e l'opera di Apollonio Rodio


Callimaco e Apollonio Rodio sono due personaggi opposti, che anche in vita si odiavano fortemente.

Apollonio Rodio (AR) procede attraverso un'elaborazione estremamente minuziosa e raffinata, ricerca l'erudizione rara.

Ma AR riprende proprio quel "grande libro" che Callimaco aveva rifiutato, il poema epico.

Callimaco, poi, prende le distanze dall'oggetto della narrazione, lo guarda con ironia e allusioni; AR prende molto sul serio il suo progetto e vi si immerge completamente.


Nacque in Egitto ad Alessandria, intorno al 290 (forse fu allievo di Callimaco).Fu posto alla direzione della Biblioteca e nominato precettore di Evergete. Tuttavia, quando Evergete salì al trono, Apollonio fu sostituito, forse a causa di Callimaco che era in buoni contatti con il re.

Decise di andarsene da Alessandria e si ritirò a Rodi dove morì vecchio.


Ci restano vari titolo e pochi frammenti, ma l'opera della sua vita furono le Argonautiche (Imprese degli Argonauti), un poema epico in quattro libri che conserviamo integralmente. Ne scrisse una parte ad Alessandria e una a Rodi.


Tema ed episodi delle Argonautiche


L'antichissima leggenda degli Argonauti narrava l'impresa di Giasone e dei suoi compagni che, con la nave Argo, avevano raggiunto la Colchide. Volevano recuperare il vello aureo del montone su cui Frisso era volato dalla Grecia in Oriente. La spedizione era stata commissionata da Pelia, che aveva usurpato il trono.

Sembrava un parallelo dell'impresa troiana, i collegamenti con ogni scienza erano facili, si potevano fare numerosi riferimenti critici8. insomma, era la leggenda perfetta su cui basare un poema epico.

La struttura è molto complessa per le continue digressioni anche solo per spiegare l'origine di un nome.

La vicenda:

I)      Vengono descritti i preparativi e la partenza. La prima tappa è l'isola di Lemno, dove i marinai passano qualche giorno con delle donne. A Misia, il giovane Ila si innamora di una ninfa. Eracle, innamorato di lui, abbandona l'impresa per cercarlo.

II)    Il viaggio prosegue. Durante questa parte di viaggio gli Argonauti liberano dalle Arpie Fineo che gli predice le avventure che li aspettano e come superarle. Finalmente approdano alla Colchide.

III) Viene introdotta la figura di Medea, figlia del re Eeta. Medea si innamora di Giasone (come Nausicaa) e decide di aiutarlo: Giasone infatti deve arare un campo con due tori spiranti fuoco e con i piedi di bronzo, seminarci dei denti di drago e uccidere tutti i guerrieri nati dalla semina Medea è dotata di poteri magici e gli dà molti consigli. Quindi riesce a svelargli il suo amore e Giasone gli promette di portarla con sé in Grecia. Giasone riesce nella sua impresa.

IV) Il padre di Medea, Eeta, è furioso perché Medea ha aiutato Giasone a compiere l'impresa attraverso cui avrebbe ottenuto il vello. Durante la notte, Medea avverte una brutta sensazione e spinge Giasone a fuggire. Fa addormentare il drago che sorveglia il vello e la nave può finalmente salpare.

Durante il viaggio di ritorno gli Argonauti passano per gli stessi luoghi attraverso cui era passato Ulisse. Arrivato da Alcinno, questi dice di essere costretto a riconsegnare al padre Medea a meno che i due non consumino il matrimonio. Lo fanno. Naufragati poi in Africa, dopo altre mille peripezie e portando per un bel pezzo la nave a braccia, arrivano in Grecia.


L'arte di Apollonio Rodio


Per molto tempo l'arte di Apollonio Rodio non fu apprezzata perché la si vedeva troppo erudita, gratuitamente erudita. Ora invece si apprezza molto di più l'opera perché si è capito il motivo dell'erudizione (era la cultura del tempo).

Le Argonautiche sono narrate in modo assolutamente lineare, anche se attraverso vari giochi il futuro, presente e passato si mischiano dando un effetto di movimento interno dell'opera, in cui il dato erudito è essenziale per riportare in una dimensione reale.

La varietà è data anche dall'alternanza di narrazioni e dialoghi. I dialoghi riguardano le parti più importanti dell'opera: la storia d'amore di Medea è quasi interamente dialogata.

E' una storia d'amore che si evolve, dalla prima emozione alla vista di Giasone, al desiderio di morte al pensiero di veder partire Giasone, alla dichiarazione d'amore, alle riflessioni tenere di Medea. Ma tutto ha sempre sottinteso il presagio dell'abbandono di Medea da parte di Giasone e dell'uccisione del figlio per mano di Medea.

Giasone rappresenta l'antieroe, che seduce Medea , privo di valori, senza certezze, confuso fra i doveri morali e la necessità di sopravvivenza.

Lo stile di AR unisce tradizione e innovazione. Ad esempio evita le formule fisse, troppo arcaiche, ama le similitudini con le quali esalta l'evento.

Non sempre la lettura di AR può piacere, in genere si preferiscono i poemi di Virgilio o Omero ai quali è certamente inferiore.


TEOCRITO E LA POESIA BUCOLICA


Premessa


Per Teocrito la ricerca erudita non rappresenta un momento di sfoggio delle proprie capacità, ma è un semplice ingrediente della sua poesia. Questa situazione si riflette naturalmente sull'argomento scelto: i temi mitologici vengono usati solo raramente, mentre il tema bucolico è alla base della sua produzione.


Fin dall'antichità Teocrito viene considerato l'iniziatore della poesia bucolica, ossia quel genere letterario i cui personaggi provengono dai campi e che ha come argomento la vita agreste. Comunque in Teocrito si notano dei livelli di evoluzione che dimostrano che egli non fu il primo a scrivere in questo genere. Della poesia bucolica si sa per certo che nacque in ambito popolare in Sicilia, patria di Teocrito.

Oltre al poemetto bucolico e mitologico compare in Teocrito in mimo: tale genere riproduce scene di vita reale con personaggi di tipo comune. Esiste un rapporto tra la poesia bucolica e il mimo: il dialogo, la quotidianità delle situazioni e dei sentimenti, l'estrazione sociale dei personaggi e la nascita in Sicilia.

Non sappiamo se Teocrito scrive in forma drammatica per motivi di rappresentazione teatrale, ma fatto sta che essi ne risultano fortemente adatti, destinati ad un pubblico elitario. Bisogna tenere conto che queste rappresentazioni dovevano coesistere con la normale fruizione attraverso la lettura, per cui si tratta di un'opera intermedia fra la tradizione orale e scritta.

Per la scelta dei personaggi e delle scene Teocrito è un autore molto realista.

La scelta dell'ambiente bucolico è spiegabile in reazione al fenomeno dell'urbanesimo che si era enormemente diffuso dopo la fondazione di Alessandria e si rifletteva sulle abitudini di vita. Teocrito non è già un nostalgico della natura agreste, ma con le sue opere fa rivivere un tipo di paesaggio ormai perso, fatto di spazi aperti e verdi.


La vita e le opere di Teocrito


Si conosce pochissimo sulla biografia di Teocrito e quel poco che si sa è ricavato dai suoi scritti. Dovrebbe essere nato intorno al 300 a.C., sicuramente a Siracusa. Ottiene la protezione di Gerone II di Siracusa e dopo alcuni anni parte per Alessandria dove entra in contatto stretto con Callimaco. Dovrebbe essere morto intorno al 260 a.C.


Il corpus di Teocrito a noi giunto comprende 30 carmi, 25 epigrammi e un carme "figurativo" (i versi sono scritti a forma di qualcosa) intitolato La Zampogna.

Non tutti i carmi sono autentici: 7 sono sicuramente spurii, la Zampogna e i carmi XXV e XXVI sono dubbi.

I suoi carmi sono differenti l'uno dall'altro sia per contenuto che per forma: sua caratteristica infatti è l'intensa sperimentazione formale, anche per quanto riguarda il dialetto.


Gli Idilli


Idillio deriva da eìdos (forma/aspetto), da cui deriva eidùlliov, che probabilmente indicava un breve componimento descrittivo.

Sembra che un tempo gli Idilli siano stati ordinati per argomento, ma ora si è perso questo ordine e così si va a caso.

I Vari generi sono:

encomiastici: Le Grazie e Encomio per Tolemeo, opere minori solenni e in cui prevale la finalità pratica;

erotici;

bucolici: hanno come motivo di sfondo l'amore eterosessuale. Uno è Tirsi (un guardiano di capre chiede al pastore-poeta Tirsi di cantare la morte per amore di Dafni, personaggio in cui si identificava la tradizione del genere bucolico. Per convincere Tirsi, il guardiano gli dona una tazza), poi Serenata (un innamorato invoca una fanciulla che lo sfugge), i Pastori (due mandriani che chiacchierano), Il capraio e il pastore (i due litigano e si prendono in giro, poi cominciano una gara di canto), Pastori poeti (sempre tipo la gara di prima, ma con un elemento mitologico: la storia d'amore di Polifemo e Galatea, ma stavolta è Polifemo che fa il ritroso).

Ma il carme di maggior impegno sono le Talisie: il narratore è Simichida. Sta camminando per la campagna quando incontra un capraio cantore e vuole gareggiare con lui. Prima di cominciare il suo canto Licinìda spiega che egli canta la poesia callimachea, delle piccole cose. Quindi egli canta un augurio di viaggio e Simichida una canzone d'amore efebico e vince il bastone di Licide, come dono delle Muse. Quindi procede per la sua strada e arriva ad una festa. Si tratta di un'identificazione di Teocrito in Simichida e quindi di una sua iniziazione poetica la consegna del bastone).

Di stampo teatrale è I mietitori: Milone, forte, e Buceo, smilzo, sono la lavoro e il primo deride il secondo perché non riesce a stare al pari con il lavoro degli altri. Buceo ne spiega la causa: è innamorato e canta la sua amata, mentre Milone elogia il lavoro campestre.

Anche nel Ciclope il tema fondamentale è l'amore: Polifemo, innamorato come sempre di Galatea, supera le pene d'amore con il canto (naturalmente il canto riguarda lei).

mimi: nell'Incantatrice una donna di nome Simeta tenta di ricondurre a sé l'amato con pratiche magiche, quindi narra in tutte le sue tappe la storia d'amore.

Secondo mimo è L'amore di Cinisca: Eschine racconta all'amico Tionico il tradimento di Cinisca e la sua gelosia. Ora lei l'ha piantato e lui partirà soldato.

Terzo e ultimo mimo: le Siracusane. Protagoniste due donne siciliane che vivono ad Alessandria: sono a casa di un'amica in cui si fanno mille pettegolezzi. Quindi escono per le strade per arrivare al palazzo di Tolemeo dove si svolge una festa (nel frattempo elogiano il re per la sicurezza delle strade e si spaventano per una truppa di soldati). Sono criticate per il loro accento dorico, ma si difendono bene. Ad un certo punto una delle due deve andare a preparare il pranzo per il marito, e il mimo si conclude con questa scena.

mitologici: rappresentano il punto di contatto tra Teocrito e lo stile di Callimaco. L'Ila riprende la storia delle Argonautiche in cui Eracle rapisce dalla ninfa di una fonte un giovinetto che ama.

L'Epitalamio di Elena è il canto nuziale spartano fra Elena e Menaleo (ripreso da Saffo). Nei Dioscuri ci sono due episodi di lotta, uno da parte di Castore e uno di Polluce (ripreso quest'ultimo dalle Argonautiche). Nell'Eracle bambino, Teocrito riprende Callimaco osservando con umorismo il mondo dell'infanzia: due serpenti cercano di stritolare Eracle nella culla. I genitori se ne accorgono e corrono spaventati dal figlio, ma inutilmente: Eracle ha già strozzato entrambi i serpenti.


L'arte di Teocrito


Teocrito non è il poeta delle tensioni sociali: i suoi personaggi sono umili, ma non oppressi e la polemica e la solidarietà mancano nelle sue opere.

I suoi personaggi hanno una vita individuale e ricca di amore. E il tema amoroso è il più importante elemento della poesia teocritea: è studiato in tutte le sue metamorfosi, manifestazioni e durata. E' un amore privo di appagamento ma non di speranza, anche se a volte prevale la disillusione. Chissà perché Teocrito ha questa visione tormentata dell'amore?

Nuova dimensione è la visione della natura come paradiso di contemplazione, unica sede di felicità, ed è qui che si fondono reale e immaginario: la poesia di Teocrito è aspirazione verso un "altrove" irreale, con i connotati dell'esperienza sensibile che dà la dimensione del vero.

Quello che nasce da questa simbiosi è l'illusione della realtà, per un gioco di partecipazione e distacco ben calcolato di Teocrito.


Testi: L'incantatrice (Idilli)


Come nel carme 64 Catullo ripete sempre uno stesso ritornello, così fa Teocrito in questo testo.

L'incantatrice, Simeta, sta preparando una pozione per il suo amante che non la visita da 12 giorni. Il rito procede bruciando orzo, cera, alloro, crusca, un pezzo del mantello di lui. Dopo una triplice libagione e un triplice scongiuro viene preparate una bevanda a base di lucertola (tossica o filtro d'amore). Bisognerà poi sfregare delle erbe magiche davanti alla porta di Delfide.

Lui era infatti innamorato di Eudamippo (non ne sono sicura): Simeta li vide insieme. Lei si ammalò e mandò la serva a dire a Delfide di visitarla.

Lui venne e le raccontò (cosa?). Passarono la notte insieme. Ma poi la madre di Simeta le raccontò che Delfide era innamorato di un altro.

Ed ecco Simeta si mise a preparare il filtro.


Testi: Le Siracusane (alla festa di Adone)


E' un dialogo. Parlano Gorgo (una donna) e Prassinoa. Gorgo è venuta a trovare dopo tanto tempo l'amica, che abita molto lontano perché il marito è molto geloso. Ne parlano un po', poi decidono di uscire per vedere le novità del palazzo reale. Complimenti vari per i vestiti fra le due amiche, Prassinoa tratta male la serva e esce.

Per strada c'è molta gente. Arrivano al palazzo ma, per entrare, si rompono i vestiti: è una calca.

Finalmente riescono ad entrare e a vedere il matrimonio in corso.

Quindi una cantante intona un bellissimo canto in onore del matrimonio di Adone.

Alla fine Gorgo e Prassinoa se ne vanno a preparare la cena.


ERODA


Anche Eroda, come Menandro, è stato scoperto grazie a dei papiri. Fu soprattutto il suo realismo foto-


grafico a colpire la critica.

Eroda scrive mimi, che probabilmente venivano recitati in cerchie ristrette. Nel racconto sulla mezzatrice, Eroda mostra un'approfondita conoscenza di Alessandria ed è il primo a citarne il Museo.


Testi: La tentatrice o la mezzana (Mimiambi)


E' un dialogo. Gillide, una donna, si reca a casa di


Metriche. Gillide, già anziana, parla a Metriche del fatto che è strano che suo marito, partito da 10 mesi, non le abbia mai scritto. In Egitto, dove è andato, ci sono moltissime cose meravigliose: forse si è dimenticato di lei. Le consiglia di trovarsi un altro uomo: Grillo, un ragazzo forte e ricco, l'aveva vista e se ne era innamorato.

Metriche risponde che, se si fosse trattato di un'altra donna, l'avrebbe già cacciata via per quei discorsi.

Poi le offre da bere e cambiano discorso.



L'EPIGRAMMA (cenni)


Premessa


Il primo epigramma di cui abbiamo testimonianza è la Coppa di Nestore, su cui sono incisi tre versi anonimi.

L'epigramma era inizialmente un'iscrizione su tombe, monumenti, offerte votive. Non un'iscrizione qualunque, perché ci da indicazioni sulle circostanze storiche in cui l'iscrizione è stata prodotta e sulla persona ricordata.

Nel V secolo la funzione dell'epigramma è celebrativa. Simonide fu uno dei maggiori epigrammisti.

E' con l'Ellenismo che l'epigramma ha la sua definitiva consacrazione e diventa un genere letterario di primo rilievo. Gli epigrammi vengono scritti sui libri anche se conservano l'uso pratico per cui erano nati.

Il tema amoroso è trattato sotto tutte le forme e sotto un aspetto nuovo, quello della malinconia.

I temi sono numerosissimi, ma alla fine possono anche ripetersi. Per questo molti epigrammi si basano su sottili variazioni di temi presi da altri.

Attraverso  il virtuosismo formale, l'epigramma trova il modo di esprimersi al meglio, sceglie le situazioni migliori che esprimono l'uomo in una dimensione quotidiana e non più eccezionale.

La metrica più usata è il distico elegiaco.


L'Antologia Palatina


La storia dell'epigramma greco dura un millennio, dal V secolo a.C. al v secolo d.C.

La produzione epigrammatica migliore è stata raccolta in un unico libro, l'Antologia Palatina, che contiene 3700 epigrammi!

L'Antologia è divisa in 15 libri divisi per genere. E' un po' un caos.


Le prime raccolte ebbero inizio sui monumenti e sugli oggetti. La prima raccolta è la Corona di Meleagro, in cui Meleagro aveva raccolto epigrammi suoi e di altri numerosi autori. L'organizzazione era per argomenti, con collegamenti vari.

Le raccolte sono molto numerose. Fra queste ricordiamo il Ciclo di Agatia, in 7 libri, e una raccolta di Filippo di Tessalonica.

Le raccolte di Meleagro, Filippo e Agatia contribuirono a formare la raccolta di Costantino di Cefala. Questa raccolta a sua volta è la base dell'Antologia.


Gli epigrammisti della prima età alessandrina


Il II secolo a.C. vide una grande fioritura di epigrammisti, tra cui Callimaco e Teocrito.

Le diverse tendenze degli epigrammisti di questo periodo hanno fatto pensare alla presenza di numerose scuole del genere. Una sicura divisione è fra gli epigrammisti che scrivono in dialetto dorico e quelli che scrivono in ionico: i dorici prediligono la natura e i dettagli e sono obiettivi; negli ionici è forte la componente soggettiva, parlano della vita cittadina e di eroi.

Tra gli epigrammisti di questo periodo ricordiamo Leonida di Taranto (corrente dorica- soprattutto epigrammi funerari di ambiente povero - propensione per l'orrido e il macabro) e Asclepiade di Samo (soprattutto simposio e amore - ionico - stile chiaro e essenziale).


Gli epigrammisti dell'Ellenismo maturo


La Grecia declina, ma gli epigrammi continuano ad essere numerosi. Purtroppo nella quantità, i bravi scrittori diventano sempre di meno.

Ricordiamo Meleagro, di cui abbiamo già parlato con la sua Corona. Il suo tema preferito è l'amore e il piacere.

Ricordiamo anche Filodemo di Gadara, famoso più che altro però per la sua attività di filosofo.



LA PROSA DELL'ETA' ELLENISTICA


POLIBIO


La vita e l'opera di Polibio


Polibio è il massimo esponente della storiografia ellenistica. Nacque in Arcadia verso la fine del III secolo a.C. da una famiglia nobile.

Ebbe un'educazione ottima, che lo preparò egregiamente in ogni campo, ma soprattutto nella conoscenza storica e militare.

Entrò a far parte della Lega, grazie alla quale si assicurò un patrimonio di conoscenze belliche e politiche molto vasto.

La vittoria romana su Macedonia costrinse molti della Lega ad essere deportati a Roma. Polibio non fu mandato poi in altre città e potè legarsi a Scipione di cui divenne il maestro. Grazie a questa amicizia potè studiare a fondo i costumi romani e grazie ai numerosi viaggi approfondì la sua conoscenza geografica. Seguì Scipione nella terza guerra punica ne assistette alla distruzione di Cartagine. Quando la Grecia passò sotto il dominio romano, Polibio fu un ottimo mediatore fra le parti.

Morì 82enne cadendo da cavallo.


La sua opera più importante sono le Storie, che vanno dal 264 (prima guerra punica) al 144 a.C. (due anni dopo la distruzione di Cartagine), il che fa pensare ad un collegamento all'opera di Timeo.

Ci sono rimasti solo i libri dall'I al V.

L'opera è stata scritta in vari momenti (ci sono vari ritocchi), e Polibio non fece a tempo a fare l'ultima revisione: l'edizione completa è infatti postuma.


Il programma storiografico di Polibio


Secondo Polibio la storia doveva essere narrata con omogeneità e coerenza. Per questo nella sua opera sono numerosi i riferimenti a tecniche storiografiche: la situazione della storiografia del tempo necessitava infatti una mano ferma che desse delle regole precise.

La storia deve essere innanzitutto pragmatica, cioè fondata sull'analisi di fatti politici e militari senza fantasia. Lo storico infatti deve solo ricercare la verità, e non attrarre il lettore. Per questa necessità di veridicità assoluta, Polibio evita di riportare discorsi diretti.

Poi la storia deve avere un'utilità pratica per i futuri generali o uomini di stato. Per questo non bisogna narrare i fatti separandolo uno dall'altro, ma in un contesto più universale: la storia ha dunque carattere universale.

Una larga parte della Storia è affidata alle cause che hanno prodotto la grandezza di Roma: l'organizzazione politica innanzitutto, che conciliava monarchia, aristocrazia e democrazia. Ma anche Roma sarà destinata al declino a causa dell'unica legge che regola la storia, la sua circolarità. Polibio non crede che gli eventi storici siano finalizzati a qualcosa e la religione ha nella sua opera solo valore pratico. Non esiste la divinità in un'opera storica.


Polibio scrittore


Polibio rinuncia ad ogni abbellimento stilistico, solo evita gli iati. E' la dimensione scientifica della sua opera che lo obbliga ad utilizzare un dizionario scarno, lo stesso dei documenti ufficiali.

I suoi pregi stilistici vanno dunque cercati nella precisione, nell'obiettività, nel richiamo ad un metodo rigoroso e nell'intuizione della funzione di Roma nella storia della civiltà, contribuendo così ad integrare cultura greca e romana nei secoli futuri.


Testo: Proemio delle Storie (I, 1-12)


Molti storici, dice Polibio, hanno fatto l'errore di non scrivere mai un eleogio alla storia che, tutti sanno, è la migliore maestra di vita.

Polibio narra la storia di come quasi tutte le regioni della terra siano cadute sotto il dominio di Roma e descrive prima i popoli più grandi che Roma ha dominato:

i Persiani, che avevano un grande dominio politico, ma si misero in pericolo superando i confini dell'Asia;

gli Saprtani, che mantennero incontrastata per 12 anni la loro supremazia sulla Grecia;

i Macedoni, che conquistarono una piccola parte del mondo, abbatterono i Perisiani ma poi furono sottomessi ai Romani.

I Romani hanno l'impero più grande di quelli che lo hanno preceduto.

La storia che descrive Polibio inizia con la 140° Olimpiade, lo stesso periodo della guerra cibvile greca e della guerra tra Romani e Cartaginesi.

Vinta la guerra con i Cartaginesi, i Romani si rivolsero alla Grecia. Polobio speiga allora la situazione politica, finanziaria e militare di Roma, perché molti greci del suo tempo non la conoscevano.

Polibio scrive un'opera storica universale, al contrario di come hanno fatto molti scrittori che narrano storie particolari, che di certo non possono avere una visione d'insieme.

La prima regione che i Romani attaccarono fuori dell'Italia è la Sicilia. Si narra una storia che è quasi la stessa per Messina e Reggio.

I Campani, che invidiavano la grandezza di Messina, la occuparono a tradimento. Saccheggiarono ogni cosa e trucidarono la popolazione. Ma i Reggini, spaventati dai Cartaginesi che si trovavano sul mare, chiesero ai Romani un aiuto. Inizialmente la truppa inviata fu fedele a Reggio, ma poi seguì l'esempio dei Campani e, cacciata la maggior parte della popolazione, la occuparono.

Il grosso dell'esercito romano, impegnato in una battaglia contro Pirro, fide di mal occhio questo atto. Finita la battaglia i Romani occuparono Reggio, presero i traditori e li uccisero nel Foro. Quindi riconsegnarono le terre ai Reggini e la città.

I Mamertini (ossia i Campani che avevano occupato Messina) si ritrovarono senza l'aiuto dei Campani di Reggio che erano assediati dai romani e furono scacciati dalla città dai Siracusani. Poco tempo prima infatti era accaduto che i soldati siracusani avessero delle divergenze con i Siracusani stessi. Quindi elessero a loro capo Gerone che, occupando Siracusa, divenne suo re. Gerone si accorse che ogni qual volta l'esercito e il re partivano epr qualche spedizione a Siracusa tirava aria di ribellione, Quindi sposò la figlia di Leptine, un uomo che godeva di grande fiducia presso il popolo, in modo che questo non gli si ribellasse mentre non era in città. Ma i mercenari non approvavano questo matrimonio e Gerone decise di fingere una spedizione militare contro i barbari che ocucpavano Messina. Al momento dell'attacco, mandò avanti solo i mercenari, che furono massacrati tutti. Nel frattempo l'esercito cittadino tornava a Siracusa. Ma poiché i Mamertini si erano insuperbiti per il facile successo, decise di scacciarli dal loro territorio.

Alcuni Mamertini allora chiesero aiuto ai Romani, altri ai Cartaginesi. I Romani inizialmente non volevano intervenire, perché era assurdo prestare aiuto ad un popolo che aveva compiuto lo stesso tradimento dei soldati romani penetrati a Reggio. Ma temevanbo che i Cartaginesi si sarebbero impadroniti della Sicilia.

Il senato dunque era contrario al'intervento, ma il popolo adduceva motivazioni finanziarie che alla fine fecero accettare la proposta dei Mamertini. Fu inviato a Messina Appio Claudio.

I Cartaginesi premevano su Messina, mentre Gerone si alleava con questi. Appio Claudio tentò prima di allearsi con Siracusani e Cartaginesi per placare la guerra a Messina, ma non ottenendo risposta attaccò i Siracusani, che persero la battaglia (Gerone tornò di corsa a Siracusa). Appio Claudio allora entrò a Messina.

Questa è stata la prima spedizione dei Romani fuori dell'Italia.


Testo: Scipione e Polibio: nascita di un'amicizia durevole


Ho già parlato, nel precedente libro, di come l'amicizia tra Scipione e Polibio, nota non solo in Italia e in Grecia ma anche in luoghi più lontani, sia nata dalla discussione su alcuni libri prestati.

Polibio era un ostaggio acheo che rimase a Roma su insistenza di Fabio e Scipione, figli del console Lucio. Un giorno, uscendo dalla casa di Fabio, Polibio e Scipione rimasero soli e Scipione espresse a Polibio tutto il suo dolore perché egli parlava sempre e solo con Fabio, trascurandolo. "Probabilmente anche tu, come tutti i romani, credi che io sia troppo pigro e tranquillo, mentre Roma ha bisogno di uomini attivi ed energici.

Polibio rassicurò con forza Scipione che lui parlava con Fabio solo perché era maggiore di età e che si complimentava per la sua mitezza perché era indice di magmanimità. Scipine, disse, avrebbe trovato in lui un aiutante ed un collaboratore per accrescere la sua cultura e renderlo capace di compiere azioni degne dei suoi antenati.

Scipione gli strinse affettuosamente la mano e dichiarò la sua speranza che Polibio dedicasse a lui le sue cure.

Da quel momento Scipione non si staccò più dal fianco di Polibio e fu pronto a trascurare ogni cosa piuttosto che la sua compagnia.



LETTERATURA DELL'ETA' IMPERIALE


LA SECONDA SOFISTICA


Caratteri generali

La denominazione "Seconda Sofistica" è usata per indicare un periodo di straordinaria fortuna per l'eloquenza come fatto della cultura pubblica. Ha il suo apice nel II secolo d.C.

A differenza della Prima Sofistica, la Seconda non è un movimento di pensiero ed è collegata alla Prima solo dall'interesse per la retorica. I nuovi sofisti sono avvocato, conferenzieri, non filosofi; parlano nelle scuole, nei tribunali, hanno un pubblico selezionato.

I nuovi sofisti dovevano saper recitare orazioni scritte o improvvisare. Dunque la Seconda Sofistica ha carattere molto edonistico, perché attraverso le varie esibizioni il pubblico soddisfaceva la sua voglia di una spettacolarità culturalmente qualificata.

Per la loro grande popolarità, gli oratori della SS svolsero un ruolo molto importante per la cultura e società del tempo.

Non portarono molte novità, ma mantennero viva la tradizione. Si continuò il dibattito tra i sostenitori della retorica asiana (sbalordire il pubblico con ricercatezze artificiose) e quelli della retorica attica (lingua pura), ma non giunse a termine.


GLI STORICI DELL'ETA' AUGUSTEA


DIODORO SICULO


Nato ad Agirio, visse nel I sec. a.C. Dedicò 30 anni della propria vita a realizzare la Biblioteca, una storia universale dalle origini del mondo alle campagne di Cesare in Gallia e Britannia. L'opera era composta da 40 libri. Nell'introduzione Diodoro espone le finalità della sua opera: giovare agli uomini garantendo la conoscenza della storia, esperienza umana comune, e offrire agli studiosi una visione di sintesi. Dice di aver compiuto molti viaggi per completare la sua opera, che è un'antologia di varie fonti. La Biblioteca cerca di mettere in sincronia storia greca e romana, senza particolari commenti, il che ha garantito la trasmissione di testi inalterati. La lingua di Diodoro è la koinè, anche se spesso si deve adattare alle fonti da lui trovate.


Testi: Proemio (Biblioteca)


Giustamente gli storici che hanno scritto le storie universali hanno avuto i maggiori riconoscimenti,


scrive Diodoro, perché è attraverso queste che si ricevono i maggiori insegnamenti. Gli insegnamenti della storia guidano la vita dei singoli cittadini ma anche quella dei governanti nell'emanare le leggi.

La storia permette di vivere in eterno a coloro che hanno compiuto grandi imprese, il che naturalmente spinge a compierle.

La storia contribuisce al potere della parola e per questo gli uomini educati sono superiori agli analfabeti, i Greci ai barbari; è grazie alla parola che un singolo può prevalere su molti. La storia indirizza alla giustizia, accusa i malvagi ed elogia gli uomini giusti: dà ai lettori la maggiore esperienza.

Osservando le opere dei precedenti storici, gli storici contemporanei si sono accorti delle lacune e degli errori da questi compiuti nel trattare singole storie staccate da un contesto più universale. Hanno scelto di scrivere un'opera storica con minor fatica e per questo hanno ottenuto un risultato più esiguo. La scrittura della Biblioteca ha impiegato trent'anni di lavoro e numerosi viaggi in Asia ed Europa. Inoltre, trattare una storia eccezionale come quella di Roma richiedeva un numero di informazioni ancora maggiore del solito.

Diodoro espone quindi la divisione dell'opera:

i primi sei libri trattano gli anni precedenti alla guerra di Troia (i primi tre le antichità dei popoli barbari, gli altri quelle dei Greci);

i seguenti undici libri trattano della storia universale della guerra di Troia fino alla morte di Alessandro;

negli altri ventitré libri si espongono tutti i fatti avvenuti fino all'inizio della guerra tra Romani e Galli.

Le date relative ai vari eventi o sono approssimative o sono tratte da fonti certe: in tutto si tratta di 1138 anni.

Quest'ultimo appunto è utile sia per i lettori, sia per sconsigliare i copisti dal commettere errori.

NICOLA DAMASCENO


Nacque a Damasco nel 64 a.C. Fu precettore dei figli di Antonio e Cleopatra, passò sotto la corte di Erode il Grande e si recò spesso a Roma, dove ottenne la stima e l'amicizia di Augusto. La data di morte è ignota.


Scrisse una Storia universale in 144 libri, dalle origini alla morte di Erode. Purtroppo è andata perduta quasi tutta: una parte ci viene tramandata da Giuseppe Flavio. Scrisse anche l'importantissima Vita di Augusto, con scopi encomiastici.


Testi. L'uccisione di Cesare (Vita di Augusto)


Alcuni pensavano di ucciderlo quando passeggiava sulla via Sacra, altri durante i comizi elettorali, altri in Senato, dove tutti avevano un pugnale e erano senza seguito.

In realtà tutti gli amici di Cesare, i medici e la moglie


sentivano brutti presagi e gli chiesero di restare a casa, ma Bruto lo convinse ad andare lo stesso. Anche all'ingresso del Senato gli indovini gli diedero cattivi presagi. Sempre Bruto convinse Cesare ad entrare. In fretta i cesaricidi lo pugnalarono, in una gran mischia: ebbe trentacinque pugnalate.

Roma era in preda al panico e la gente scappava ovunque. Bruto spingeva alla calma e si vantava di aver ucciso un tiranno. I cesaricidi si rifugiarono in Campidoglio.

Nessuno aveva il coraggio di portare via il cadavere. Alla fine dei servi lo portarono a casa, fra i lamenti dei passanti. La moglie di Cesare, quando lo vide, pianse moltissimo.

I cesaricidi scesero dal Campidoglio accompagnati da alcuni gladiatori e Bruto pronunciò un discorso.

Poi decisero che il giorno dopo avrebbero deciso ciò che era utile per il bene della città.

DIONIGI DI ALICARNASSO


Nato intorno al 60 a.C., si trasferì a Roma nel 30, dove fu ben accolto e divenne uno dei capiscuola dell'atticismo. Dopo l'anno di pubblicazione della sua opera, le Antichità di Roma, il 7 a.C., non sappiamo più nulla di lui.

Nelle Antichità, Dionigi esponeva la storia della città dalle origini all'inizio della prima guerra punica (264 a.C.), completando così l'opera di Polibio. Questo trattato era composto da 20 libri. Ma Dionigi non pensava ad un semplice trattato, voleva di più: voleva presentare i fatti di Roma ai Greci, ma anche offrire un esempio pratico delle sue dottrine atticistiche, scrivendo in stile dei grandi prosatori attici. Quindi l'attendibilità delle sue fonti non è tenuta molto in considerazione, e pure il suo progetto


vero e proprio non è realizzato: il livello della sua prosa è modesto e ci sono numerose infiltrazioni di koinè.

Per quanto riguarda la retorica, egli scrisse un trattato Sugli oratori antichi dedicato a Lisia, Isocrate, e Iseo, dove per ogni autore sono offerte numerose notizie. Scrisse anche un saggio Sullo stile di Demostene, in cui è palese l'ammirazione per l'oratore. Ma difetto di Dionigi era la mancanza di obiettività, e così nel saggio Su Tucidide mostra una disastrosa incomprensione della grande arte tucididea.

La trattatistica è esposta negli scritti Sulla disposizione delle parole e Sull'imitazione. Nel primo Dionigi esamina come dalla scelta e dalla combinazione delle parole derivi la bellezza del testo. Tratta anche dell'armonia del testo, e ne individua tre tipi. Nel trattato Sull'imitazione,  si sistemava la teoria della mimesi e precisava i modelli a cui attingere.

Dionigi cercò nella sua carriera di recuperare i valori classici, ma lo fece in modo troppo rigido, e per questo fallì.


Testi: Proemio (Storia di Roma arcaica)


Uno storico, dice Dionigi, deve innanzitutto essere in grado di curare le proprie fonti e di scrivere di argomenti elevati, altrimenti la sua storia non ha valore, per un motivo o un altro. Parlare della storia romana vuol dire trattare un argomento elevatissimo, perché i Romani sono il più grande e potente popolo mai esistito. Dionigi dunque elenca le maggiori imprese dei più grandi popoli (Ateniesi, Macedoni, Persiani, Assiri, Spartani, .) ma riconosce che dopo un certo periodo di tempo i loro imperi decadevano, o che non erano stati in grado di conquistare un impero abbastanza vasto.

Roma ha spazzato via dai mari i Cartaginesi, sottomesso i Macedoni.

Dionigi scrive della Roma arcaica anche se molti storici greci sostengono che solo dall'età recente Roma è degna di essere celebrata come una grande città. Circolavano infatti allora molte false tradizioni sulla fondazione di Roma e su come abbia conquistato le genti del Lazio, tradizioni che alcuni hanno addirittura scritto come vere. Tutto questo perché i Greci finora non hanno conosciuto uno storico all'altezza di tale compito: per questo Dionigi si propone di narrare la storia dei fondatori di Roma e di come hanno cominciato ad espandere il loro dominio.

E' importante che i posteri abbiano una chiara e veritiera visione dell'antica storia di Roma, affinché i discendenti dei grandi protagonisti di questa storia non adottino uno stile di vita indegno dei progenitori. Da questa storia devono trarre profitto tutte le persone oneste che provano ammirazione per gesti nobili e coraggiosi.

Dionigi elenca dunque tutte le sue fonti e descrive l'arco di tempo che narrerà: dalla fondazione di Roma alla prima guerra punica; narrerà tutte le guerre esterne a Roma avvenute nello stesso periodo, le sue forme di governo, le usanze principali.


APPIANO


Appiano nacque ad Alessandria alla fine del I secolo d.C. Fu un avvocato e un alto funzionario statale, a Roma e in Egitto. Scrisse un'opera storiografica che ha chiamato Storia romana, che si estendeva dai tempi della leggenda di Enea fino a Traiano (età contemporanea). Non ne restano molte parti.

Appiano è un dilettante, che si lascia prendere la mano dalla sua ammirazione per Roma.

Non segue uno schema analitico, ma procede raccontando storie locali. Appiano è la nostra fonte principale per quanto riguarda le guerre civili del 133-35 a.C.

La sua lingua è la koinè.


Testo: Tiberio Gracco. Guerre civili


Mano a mano che conquistavano le regioni d'Italia, i ramani creavano dei presidi e vendevano o affittavano il terreno coltivato: quello non coltivato lo lasciavano a chi voleva previo pagamento di un canone ( un decimo del prodotto per le seminagioni, un quinto per le culture arboree. Essi volevano che la popolazione italica crescesse e avere così alleati in casa. Ma le cose non andarono in questo modo perché i ricchi comprando o occupando, si impadronirono delle terre dandole a lavorare agli schiavi (non gravati da oblighi  militari e liberi di riprodursi creando altri schiavi): così gli italici diminuivano a causa della povertà, delle imposte e del servizio militare mentre aumentavano la ricchezza dei ricchi e gli schiavi. Allora venne approvata una legge che stabiliva che nessuno poteva occupare più di 500 iugeri di agro pubblico e possedere più di 100 capi di bestiame grosso o 500 di bestiame minuto e vi fu l'obbligo di utilizzare un certo numero di liberi. Ma nessuno si curò della legge o, se l'applicò, divise la terra fra i propri familiari.

Tiberio Sempronio Gracco, divenuto tribuno della plebe, chiese che la legge venisse nuovamente approvata con alcune modifiche: più terra per i familiari dei ricchi, ma una commissione di tre persone elette che decidesse la distribuzione della terra rimasta ai poveri.

Questa proposta fece accorrere a Roma molta gente interessata che si schierò dalla parte dei ricchi o da quella dei poveri per cui la legge non riusciva ad andare avanti.

Giunto il momento della votazione, Gracco illustrò la necessità di una tale legge insistendo sia sul lato glorioso e vantaggioso (beni comuni divisi in comune, gratitudine verso i cittadini, buona disposizione verso Roma da parte dei possessori dei beni) sia sui rischi che sarebbero derivati da possibili rivolte dei poveri o dall'odio verso Roma da parte delle popolazioni italiche private della terra. Ma i ricchi non rentivano ragioni e tramite il tribuno Marco Ottavio impedirono la votazione.

Nell'assembrlea successiva Gracco pose ai voti sia la legge che la destituzione di Marco Ottavio da tribuno. La legge venne approvata, Marco Ottavio destituito (al suo posto venne eletto Quinto Mummio)e nella Commissione per l'assegnazione delle terre, il popolo volle che ci fosse la famiglia di Gracco come garanzia di applicazione della legge. Ciò fece giurare ai ricchi che si sarebbero vendicati quando Gracco non fosse stato più tribuno.

Giunta la data delle nuove elezioni, Gracco rischiava di non venire eletto a causa delle azioni dei ricchi; egli cercò di riunire i propri seguaci e di condurre in porto la votazione ma vista la situazione occupò il tempio del Campidoglio e il centro dell'Assemblea e poiché i ricchi continuavano ad impedire la votazione dette ordine ai suoi seguaci di attaccare. Nel frattempo i senatori, riunitisi, decisero di muovere verso il Campidoglio preceduti da Corneglio Scipione Nasica, pontefice massimo. Egli, gridando che lo seguissero coloro che volevano salvare la patria, attaccò i seguaci di Gracco gettandoli giù dai dirupi. In questo tumulto morirono molti Graccani e lo stesso Gracco.


Testo: La rivolta di Apamea




ARRIANO


Arriano di Nicomedia (Bitinia), allievo di Epitteto, fu un abile politico e legato imperiale. Si stabilì ad Atene dove gli furono conferiti cariche e onori pubblici. Morì intorno al 180 d.C.

Arriano svolge le sue attività specularmente con Senofonte: stessa indole pratica (partecipazione alla vita pubblica), interessi filosofici e di vario tipo, stesso uso del dialettico attico limpido ed elegante.

Il suo rapporto con il maestro Epitteto era simile a quello tra Socrate e Senofonte: alla sua morte mise insieme una raccolta delle sue Diatribe.

Ma l'aspetto centrale della sua produzione riguarda la storiografia: ci resta per intero l'Anabasi di Alessandro, in 7 libri come Senofonte. Arriano si propone di liberare la storia di Alessandro da tutte le leggende e per questo cura molto le sue fonti. E' un narratore addirittura più abile del suo idolo.

Nella prefazione dell'Anabasi, Storia dell'India, arriva persino ad imitare nel suo artificioso dialetto attico Erodoto.




Testi: Gli storici di Alessandro (Storia di Alessandro)


Arriano espone quanto hanno scritto su Alessandro figlio di Filippo gli autori Tolemeo e Aristobulo. Dei fatti di cui erano incerti, dice, ha scelto quelli più credibili.

E' difficile trovare fonti concordi sulla storia di Alessandro, ma Tolemeo e Aristobulo sono gli autori che hanno descritto la storia fra loro più simile. Aristobulo infatti prese parte alle spedizioni di Alessandro, Tolemeo vi partecipò ed inoltre fu re lui stesso, per cui non gli era conveniente dire menzogne a riguardo. Al tempo in cui i due autori scrissero, poi, Alessandro era morto, per cui non avevano ragione di scriverne elogi.

Chi si meraviglia del fatto che anche Arriano dopo questa premessa abbia scritto una storia di Alessandro, esprima i suoi pensieri solo dopo aver letto la sua opera


CASSIO DIONE


Nacque in Bitinia nel 155 d.C. da una famiglia di alta condizione. Svolse una carriera politica di successo: fu senatore e due volte console. Dopo essersi attirato l'ostilità dell'esercito si ritirò a vita privata e in vecchiaia morì.

Scrisse la Storia di Roma dalle origini fino ai suoi giorni, opera che lo impegnò per 10 anni. Ci restano solo 25 libri degli 80 che componevano l'opera.

Fu un bravo storico e scelse bene le sue fonti, cercando comunque di farsi un'idea propria sugli avvenimenti, anche in relazione al fatto che ha partecipato da protagonista alla vita politica e militare e quindi ha potuto capire meglio certi eventi.

Purtroppo, credendo nei segni e prodigi, Cassio Dione attribuisce troppa importanza ad una parte della vita che non dovrebbe rientrare nella trattazione di un'opera storica.

La sua narrazione manca di drammaticità, ma comunque si tratta dell'ultimo grande storico dell'antichità e per la sua grossa opera merita una citazione.


Testo: Invettiva di Cicerone contro Antonio


Antonio si era fatto attribure le Gallie in luogo della Mesopotamia; poiché ciò era stato contestato, si era giunti ad uno scontro militare (guerra di Modena).

Non è grave che un magistrato governi una regione o l'altra; ciò che è terribile è che perquesto si scateni una guerra.

Antonio aveva il compito di garantire la pacificazione generale da voi decretata e invece proprio lui l'ha turbata.

Ha modificato gli acta caesaris che voi avevate approvato proprio per non creare turbative (nonostante non fossero certo perfetti) ha abrogato concessioni di territori a chi ne aveva diritto e li ha ceduti ad altri per proprio tornaconto personale e ha fatto tante altre cose simili ignorando le vostre richieste di chiarimenti e non rispettando la vostra autorità. Per tutto questo dovete odiare e punire Antonio.


Testo: Discorso di Mecenate ad Augusto

Se hai a cuore la patria devi riformarla e riordinarla. Infatti non è giusto che alcuni possano fare tutto ciò che vogliono perché questo sarà bene o male a seconda che siano saggi o stolti; perciò ritengo che devi affidare il governo dello stato a te e a tutti i migliori, in modo che a decidere siano i saggi e non la massa che costituirebbe la più amara schiavitù e danno per tutti. Non credere che io ti inviti ad asservire il popolo e ad instaurare la dittatura, ma il tuo governo, governo di saggi, costituirebbe il modo migliore di amministrare con successo gli affari pubblici evitando guerre pericolose ed empie contese civili.

Nella democrazia i più potenti aspirano ai primi posti e assoldano i più deboli per ottenerli; tra noi questo ha portato alle guerre civili e non vi è altro modo di farle cessare se non il tuo governo.

La causa di tutto questo è il gran numero degli uomini e la grandezza dell'impero.  Finchè eravamo pochi, fummo ben governati e conquistammo quasi tutta l'Italia. Ma quando abbiamo conquistato terre e continenti, ci siamo scontrati in patria e dentro le mura e abbiamo portato questa malattia tra le legioni. La nostra patria è diventata come una nave in una tempesta e ora tocca a te portarla in un porto sicuro.

Anche tu sei convinto che il mio consiglio di far governare il popolo da uno solo sia giusto. E allora accettane con entusiasmo la giuda e non permettere che sia il popolo ad assumerla o addirittura un altro: in tal caso i tanti che ti odiano si vendicherebbere e non vorrebbero lasciarti in vita come rivale (così è successo a Pompeo, a Cesare e a Mario e Silla). Non tradire te stesso e la patria e accetta il principato; noi obbediamo alla sorte che ti offre il potere assoluto e le siamo grati perché ti permette di porre fine alla guerra civile ha posto nelle tue mani la costituzione dello Stato. E non temere la grandezza dell'impero, perché più è grande e tanto maggiori sono i mezzi di cui dispone per sopravvivere.

Innanzitutto devi scegliere accuratamente e selezionare il Senato e i cavalieri, inserendo in essi rappresentanti di tutte le provincie in modo che diventino partecipi con te dell'Impero; più saranno gli uomini illustri che collaboreranno con te tanto più facilmente potrai governare. I cavalieri dovranno avere almeno 18 anni, i senatori almeno 25 e i pretori almeno 30. Gli uomini dovrai sceglierli tu, senza metterli alla mercè del popolo o del senato, e dovrai concedere loro il potere necessario per conservare la dignità ma tale da non permettere loro di ribellarsi.

Tra gli uomini più in vista che abbaino percorso tutte le magistrature, scegli un Prefetto che sovrintenda agli affari della città e giudichi i processi rinviati o in ritardo e un magistrato che censisca i beni dei senatori e dei cavalieri e giudichi i casi che non prevedono pene ma che potrebbero creare gravi danni; il loro incarico sia a vita, perché non hanno i mezzi per creare danno, ma avrebbero la forza per agire energicamente.

Per quanto riguarda l'impero, dividilo in distretti secondo le rispettive stirpi e nazionalità e stanzia qui le truppe e manda come governatori un ex-console e due ex-pretori, ciascuno con compiti ben definiti ma tali da non poter creare danni per l'impero. Tutti questi funzionari dovranno ricevere uno stipendio proporzionale al loro ruolo e dovranno restare in carica per almeno tre anni e per non più di cinque.

Riguardo ai cavalieri e ai senatori l'organizzazione dovrebbe essere questa: i due migliori cavalieri comandino la tua guardia del corpo, i pretoriani e tutte le truppe che sono in Italia. Ai cavalieri sia affidata l'amministrazione dei beni sia del popolo che imperiali e per questo ricevano uno stipendio.Tutti gli affari riguardanti l'impero devono essere trattati da più persone in modo che i sudditi, raccogliendo godimento dai beni comuni siano ben disposti verso di te. I cavalieri potranno diventare senatori, anche quelli che hanno militato come centurioni.

I ragazzi dovranno frequentare le scuole e, giovanetti, dedicarsi alle armi ed ai cavalli con istruttori statali stipendiati; infatti bisogna sospettare degli incolti e degli sfrontati che vengono indotti facilmente a compiere le cose più turpi verso se stessi e verso gli altri; color che hanno avuto una buona educazione, invece, non scelgono di fare un torto ad altri e men che mai a chi si occupa della loro educazione e della loro preparazione.

Per quanto riguarda i soldati, essi devono essere mantenuti permanentemente in ogni provincia reclutandoli tra i cittadini, i sudditi e gli alleati in quanto, date le dimensioni dell'impero, non è possibile provvedere alle necessità con truppe di riserva. Inoltre i soldati devono essere professionisti in modo che gli altri possano dedicarsi a tempo pieno ai loro lavori nella garanzia della sicurezza.

Per tutto questo servono soldi. Per procurarli innanzitutto metti in vendita i beni dell'erario e presta il denaro ricavato ad un interesse contenuto; poi calcola tutte le altre entrate che possono derivare dalle miniere e da qualsiasi altra fonte sicura. Calcola quindi le spese necessarie e vedi cosa ti manca e quindi quanto ti necessita. Per questo devi imporre una tassa su tutti quei beni, nessuno escluso, che procurano un qualche profitto a chi li possiede e fissare dei tributi per tutti i sudditi dell'impero. Per incassare tasse etributi devi istituire degli esattori.

Sicuramente molti si indigneranno una volta fissate tasse e tributi ma se vedranno che sarai parsimonioso nelle spese private e generoso in quelle per la comunità, alla fine si convinceranno della bontà del sistema.

Per quanto riguarda le altre cose, adorna la città con ogni magnificenza e rendila splendida con ogni genere di giochi. Per quanto riguarda le altre città, non dare potere al popolo e fa che non si possa riunire in assemblea; le città non dispongano di edifici pubblici più del necessario e non possano sperperare il denaro loro assegnato in spettacoli; nessuna deve possedere moneta, pesi o misure propri e per tutte le questioni dovranno fare riferimento al proprio governatore e non rivolgersi a te.

Tutte le altre cose potrebbero essere così ordinate:

affida al senato tutti gli affari più importanti che riguardano lo stato perché gli interessi comuni devono essere amministrati in comune e fai che il senato sia la suprema autorità dell'impero; per questo introduci in senato le ambascerie, sia quelle inviate dai nemici si quelle inviate da re e popoli nostri alleati, per mezzo dei senatori appronta tutte le leggi e sottoponi al giudizio del senato i membi de senato, i figli e le mogli colpiti da accuse talmente gravi da meritare la degradazione, l'esilio o la morte. Non dare ascolto a chi accusa un altro di averti offeso o di averti calunniato; se però uno è accusato di voler attentare alla tua vita, non giudicarlo direttamente, ma conducilo davanti al senato e se viene condannato cerca di attenuare la pena (mentre devi punire direttamente chi si sollevi contro di te disponendo di un esercito).

Giudica tu stesso i processi in appello e quelli rinviati a te, in modo che nessuno abbia una giurisdizione ne poteri tali da escludere qualsiasi processo d'appello dopo di lui. In questi giudizi associa i più stimati tra i senatori e i cavalieri. Garantisci a tutti libertà di parola e insieme l'impunità. Loda quelli che esprimono opinione giusta, ma non disonorare quelli che esprimono un'opinione sbagliata perché bisogna valutare le loro intenzioni. Segui questi principi anche per i successi e gli insuccessi in campo militare.

Tutto ciò che vuoi che pensino o facciano i sudditi, pensalo e fallo tu stesso, in modo che le loro iniziative derivino da emulazione e non dal timore delle leggi. E tutto ciò che fai, fallo scrupolosamente perché se anche una sola volta verranno a sapere che tu dici loro una cosa e ne fai un'altra, non temeranno più le tue minacce ma imiteranno il tuo comportamento. Nei tuoi giudizi non essere severo perché è natura dell'uomo commettere reati e se vengono puniti con moderazione possono redimersi mentre se vengono messi in piazza calpesteranno tutte le convenzioni e obbediranno solo agli istinti naturali. Per quanto riguarda te stesso, invece, non permettere che ti sia concesso alcunchè di speciale o di magnifico né dagli altri né dal senato: procurati tutta la gloria con le buone azioni. Non permettere mai che ti venga dedicato un tempio, perché queste cose dilapidano grandi ricchezze e non incrementano affatto la biona fama; infatti la virtù rende molti simili agli dei, ma mai nessuno è divenuto dio per alzata di mano. Quindi se vuoi divenire immortale, agisci con virtù , venera personalmente gli dei e obbliga gli altri ad onorarli.

Sii amante della pace nelle tue convinzioni ma prontissimo alla guerra quanto a mezzi. Per questo dovrai valutare attentamente le delazioni e le accuse. Non devi permettere che i ricchi commettano soprusi ma nemmeno che siano oggetti di accuse e delazione per il solo fatto di essere ricco. Quanto alla massa, difendi con forza quelli che subiscono ingiustizie ma non prestare eccessiva attenzione a coloro che muovono accuse.

Tutti ti ubbidiranno docilmente se non consentirai mai a nessuno, né in privato né in pubblico di violare queste regole, giacchè la disuguaglianza distrugge anche le cose ben connesse.

In generale ti consiglio di non abusare mai del potere e di interrogare sempre la tua coscienza se è giusto o no fare una certa cosa.

A conclusione di quanto detto, se farai spontaneamente ciò che vorresti facesse un altro se fosse un tuo superiore, non commetterai alcun errore, avrai successo in tutto e di conseguenza vivrai nella maniera più piacevole e priva di rischi



PLUTARCO


Premessa


Al contrario di tutti i nuovi Sofisti, Plutarco non viaggiò quasi per niente e non fu un personaggio dello spettacolo.

E' la personalità maggiore di tutta la vita greca, per le sue doti di scrittore, per l'ampiezza dei suoi interessi, per l'intensità intellettuale e umana.

Il suo influsso fu immenso: non per niente fu scelto come modello della Rivoluzione francese.

Egli propose uno stile di vita in cui la tradizione svolgeva un ruolo fondamentale per ritornare ai vecchi valori, ma rinnovati nell'attualità dei tempi: non è un nostalgico.

Plutarco individua nella filantropia, l'attenzione all'uomo in quanto uomo, il carattere della civiltà greca, che si rispecchia nel modo di vivere di tutta la popolazione e ridona dignità all'uomo.


La vita e le opere di Plutarco


Plutarco nacque a Cheronea in Beozia verso il 47 d.C. da famiglia agiata. Studiò ad Atene soprattutto Platone che lo influenzò molto.

Nei suoi scritti si vede l'attaccamento al nucleo famigliare; aveva numerosi amici. Ebbe numerose funzioni amministratore e fu sacerdote del santuario di Apollo a Delfi. Il santuario era in fase di decadenza in quel periodo, ma proprio quando Plutarco ne divenne sacerdote sembrò rifiorire. Fu una bellissima esperienza per Plutarco.

Morì verso gli 80 anni.

Ci sono rimaste solo 83 delle sue numerosissime pere, circa 260.

Questi tesi si dividono in due grandi sezioni di stessa estensione: le Vite parallele e i Moralia.


Vite parallele


Il titolo è dovuto allo schema usato da Plutarco per scrivere queste vite: è formata infatti da 22 coppie di biografie, in cui sono accostati un personaggio greco e uno romano. Alla fine della descrizione si spiega il motivo dell'accostamento, che può riuscire giusto o completamente sbagliato (Pericle e Fabio Massimo, basato sulla stessa tattica difensiva).

Plutarco voleva mostrare la complementarità della cultura greca e latina (anche se sapeva che non era possibile fonderle completamente) e le differenze.

Egli era attaccato alla Grecia, ma sentiva l'irresistibile attrazione di Roma.

Non si tratta di un'opera a sfondo storico, perché Plutarco non si serve d tutte le fonti a disposizione: scarta tranquillamente ciò che potrebbe intralciare la sua coppia biografica. E' lo stesso genere biografico che si discosta molto dall'opera storica ( i Caratteri di Teofrasto): non si ricercano le grandi imprese, ma i gesti e le parole che tradiscono l'interiorità dell'uomo.


I Moralia


Comprendono circa 80 scritti, differenti per tematica, intonazione ed estensione. A differenza di quanto potrebbe suggerire il titolo, non si tratta di argomenti sono morali. Sono trattati veramente TUTTI gli argomenti.

Per le opere di maggiore impegno Plutarco usa la forma dialogata, che può essere narrativa, se c'è un solo interlocutore che parla; drammatica, se si susseguono le battute di più interlocutori; mista, se si hanno entrambi i casi.

Le infinite conoscenze di Plutarco sono dovute anche alla sua disponibilità ad accogliere le opinioni altrui. Egli riesce a vedere ogni argomento sotto moltissimi punti di vista, il proprio e quello degli altri. Questo atteggiamento di pluralità di visioni gli consente di avvicinarsi molto alla realtà e di fondare la sua visione scientifica con quella religiosa.

Per quanto riguarda la religione, egli afferma che la vita terrena è una prigione per l'anima che aspira a liberarsi da essa per tornare all'etere. Comunque egli esalta la bellezza del mondo, unendo così universale e individuale in modo armonico, così come prediceva la tradizione.


Plutarco scrittore


Questa tendenza ad unire tradizione e presente e a superare gli schemi fissi si ritrova nelle opere plutarchee. La sua personalità ha spesso deviato la critica dall'analisi letteraria delle sue opere, ma Plutarco è in realtà anche un ottimo scrittore.

Nelle sue biografie riesce ad essere molto eloquente, a rendere i racconti tesi ed emozionanti, a rendere ogni scena nel giusto modo.

Nei Moralia ogni argomento è descritto nel modo giusto, alternando erudizione e azione.

La sua lingua è di tonalità elevata, ma si adatta alla koinè. Evita assolutamente lo iato ed è privo di artifici retorici. Attraverso l'andamento articolato del periodo riesce a mostrare anche al lettore la sua visione tridimensionale dei fatti.


Testi: Confronto tra Nicia e Crasso

Nicia accumulò il suo patrimonio lealmente, Crasso no.

Crasso si trovava spesso in situazioni illegali da protagonista, Nicia mai.

Nicia spendeva per il bene comune, Crasso per i banchetti.

Nicia ebbe una carriera politica priva di slealtà o violenza, Crasso subì molte oscillazioni di carattere e si avventò sui suoi stessi amici.

Crasso era violento e tirannico, e di positivo aveva la mano ferma nelle situazioni difficili, Nicia tutto il contrario e spesso era troppo arrendevole.


Nicia ammetteva quando non era in grado di fare qualcosa che gli si richiedeva, Crasso partiva per grandiose imprese dicendo che erano facilissime e spesso non riusciva nel suo intento.



DIONE DI PRUSA


Dione di Prusa fu soprannominato Crisostomo ("Bocca d'oro") per la sua eccezionale capacità oratoria. Era vicino alla dottrina stoica.

Nacque in Bitinia nel 40 d.C. da una famiglia molto ricca. Si trasferì a Roma ma fu esiliato per sempre dall'Italia e dalla Bitinia da Domiziano. Visse vagando da un luogo all'altro secondo il modello stoico, adottato più per necessità che per libera scelta: gli uomini che lo vedevano così dismesso lo credevano un filosofo e gli ponevano domande sulla vita, il bene e il male, cosicché fu costretto a meditarci su.

Riottenne i suoi diritti grazie a Nerva.

Morì per cause ignote.

Tra le opere, troviamo uno scritto etnografico Sui Geti, di cui ci sono rimasti solo frammenti. Tra le opere di carattere sofistico troviamo i Troiani, in cui nega il valore della veridicità di Omero e della sua tradizione: Ilio, dice, non è mai stata conquistata dai Greci.

Abbiamo dei discorsi di tipo filosofico sulla ricchezza, la gloria, la libertà. Si ricorda l'Euboico (vedi Testi: La parabola del buon cacciatore).

I modelli preferiti di Dione sono Platone, Demostene e soprattutto Senofonte. Predilige le citazioni, gli aneddoti,.. sicuramente per un eco dell'educazione scolastica.


Testi: Vita di Dione di Prusa (da Filostrato, Vite dei sofisti)


Dione di Prusa fu eccellente in tutti i suoi studi. Aveva un temperamento mite, in grado di regolare l'ira, esprimeva bene il suo modo di pensare, sapeva trattare la storia. Ebbe rapporti di amicizia con alcuni filosofi del tempo.

Traeva la forza di studiare dal Fedone di Platone e dall'orazione Sull'ambasceria corrotta di Demostene. Frequentava gli accampamenti militari e, quando si accorse che i soldati si stavano per ammutinare, balzò nudo su un tumulo e, accusando il tiranno, convinse i romani che era meglio sottomettersi alla volontà del senato romano.

Con la sua forza di persuasione affascinava chiunque.


Testi: La parabola del buon cacciatore (Il cacciatore)


Dione si trova protagonista di un naufragio. Arrivato su una spiaggia vide un cacciatore che caccia un cervo. Il cacciatore lo invitò a casa sua e Dione accettò.

Durante il camminò gli parlò della sua famiglia semplice e dei genitori che pascolavano buoi. Alla morte dei suoi genitori, però, il bestiame fu rubato o abbattuto, e le due famiglie furono costrette a restare in quel luogo cacciando per vivere.

Il posto era meraviglioso. Se non potevano cacciare lavoravano la terra.

Un giorno un uomo venne a richiedere del denaro, ma loro di denaro non ne avevano perché lì non ce ne era bisogno. Il cacciatore fu portato in tribunale, dove fu accusato di sfruttare il suolo pubblico e accumulare grazie a questo moltissime ricchezze.

Un altro uomo intervenne, dicendo che coltivare la terra incolta era utilissimo, perché una terra lavorata acquista valore. Diceva che sarebbe stato meglio incitare la gente a fare cose simili, non portarla in tribunale.

Alla fine fu interpellato il cacciatore, che dichiarò che niente di quello che diceva il primo oratore era vero: lui aveva molte cose, ma assolutamente non aveva accumulato ricchezze. Lui era disponibile ad aiutare la città e non aveva mai cercato di far naufragare apposta le navi per depredarle, anzi spesso aveva aiutato dei naufraghi.

Improvvisamente (la scena è un racconto del cacciatore, ricordiamolo) un uomo riconobbe nel cacciatore l'uomo che lo aveva salvato da un naufragio e aveva levato a sua figlia la tunica per coprirlo. Il cacciatore fu acclamato e portato a festeggiare con un vestito nuovo.

Da allora nessuno lo disturbò più per casi del genere.

Il cacciatore finì la storia quando erano arrivati alla sua casa. Ci fu un allegro banchetto, alla fine del quale Dione chiese se la ragazza che era nella stanza era quella a cui era stato levato il mantello. Quella ragazza era sua sorella, che stava aspettando di sposarsi con un altro cacciatore.

Fu in questa occasione che il giovane spasimante riuscì a chiedere la mano della ragazza definitivamente, offrendo cioè una vittima grassa da sacrificare per il giorno delle nozze.

E lì, in cinque minuti, si organizzò il matrimonio che sarebbe avvenuto dopo due giorni. Dione restò affascinato dalla semplicità di quella gente.


IL ROMANZO E L'EPISTOLOGRAFIA


Il romanzo


Il romanzo rappresenta la letteratura d'evasione che, diceva anche Luciano nel suo Storia vera, era necessaria dopo un periodo di studio intenso.

Sempre Luciano ci rivela che a questa letteratura era vietato avere messaggi culturali ed è per questo che è un genere rimasto pressoché ignorato.

Non si sa quale nome era attribuito nell'antichità a


queste letture, ma noi le chiamiamo romanzi. Nell'antichità i generi romanzeschi non erano così numerosi come lo sono ora. Il romanzo greco si ispirava infatti praticamente solo alle tematiche dell'amore e dell'avventura, densissime di colpi di scena.

La storia bene o male riguardava sempre la separazione di due sposini o innamorati che, dopo mille peripezie, si ricongiungono con un lieto fine. Altro elemento costante è la fedeltà reciproca.

I testi di cui siamo a conoscenza appartengono quasi tutti all'epoca imperiale, anche se il romanzo nasce nell'Ellenismo. E' certo che l'Odissea, o racconti vari, resoconti di viaggi, leggende... abbiano rappresentato i precedenti del genere romanzesco greco.

E' durante l'età imperiale, appunto, che questo genere ha maggiore diffusione., perché era maggiore il bisogno di evasione, di fantasticare, di vivere avventurosamente pur conducendo vita sedentaria, di ritrovare i valori della famiglia o la sicurezza del caso benigno.


L'epistolografia


E' la corrispondenza di fantasia, tra personaggi storici o inventati. Nelle scuole di retorica scrivere lettere inventate a personaggi importanti per esercizio era un uso molto diffuso.

Ha spesso tematica erotica e si rifà ai modelli della "commedia nuova".


LUCIANO


Luciano nacque intorno al 120 d.C. in una città della Siria. Non si vergognò mai della sua origine barbara. Grazie agli studi in Asia Minore imparò alla perfezione la lingua e la cultura greca.

Viaggiò, da bravo Sofista, moltissimo (Asia Minore, Grecia, Italia, Gallia). Fu avvocato ad Antiochia e assistette al suicidio del santone stoico Proteo che si bruciò vivo durante i giochi olimpici. Ebbe un incarico pubblico in Egitto e finì la sua vita ad Atene, dove morì nel 180 d.C.


Di Luciano ci restano circa 80 scritti, ma 15 sono di dubbia autenticità. Durante i primi anni scrisse per lo più opere di retorica e uno scritto paradossale: l'Elogio della mosca. Di carattere storico, scrisse l'Astrologia e la Dea Siria.

Ma la fortuna di Luciano si deve soprattutto ai Dialoghi. Ne scrisse di quattro tipi: Dialoghi agli dei, marini, dei morti, delle cortigiane. Nei primi due vengono descritte delle scene della vita divina inventate, ma con una base mitologica: le divinità di Lucano dicono o fanno cose che avrebbero davvero potuto dire o fare. Si riallaccia molto all'arte e infatti a volte sembra che con le sue storie stia descrivendo un quadro famoso. Attraverso questa visione comica delle divinità, comunque, Luciano non vuole polemizzare sulla religione, ma divertire.

Impegno maggiore mostra nei Dialoghi dei morti, con protagonista il filosofo Menippo. Nei Dialoghi delle cortigiane si colgono gli aspetti più tipici della vita di queste (magia, gelosia, amore, .).

Altro gruppo di opere è di ispirazione platonica e parla d'amore, bellezza, amicizia, ginnastica, .

Altre opere sono di tendenza menippea. In tali opere Luciano critica le mistificazioni.

Nonostante i suoi rapporti con Roma, Luciano si


mostra critico rispetto ai suoi costumi. Ce lo mostra soprattutto nel trattato Come si deve scrivere la storia, in cui polemizza contro gli eccessi adulatori, contro la storiografia moderna, e delinea le virtù dello storico.

Con intento provocatorio scrive dunque la Storia vera, parodia dei romanzi d'avventura di moda allora: Luciano scrive un'opera fantastica in cui l'unica cosa vera che rivela è il suo intento: mentire.

Scrisse poi Lucio o l'asino, una storia molto simile a quella di Apuleio, che ha forse origini anche nell'opera di Lucio di Patre. I rapporti fra il Lucio di Apuleio e quello di Luciano non si conoscono.


Personalità e arte di Luciano


Gli interessi di Luciano sono numerosi e infatti abbiamo visto che scrisse opere di ogni genere.

I critici parlano addirittura di un probabile Luciano filosofo, date le sue conoscenze a riguardo, ma il suo antidogmatismo non permette di inquadrarlo in una dimensione specifica. Si può comunque parlare di una "morale del buon senso", priva di eccessi, secondo cui Luciano conduce la sua vita. Vedendo anche la religione sotto questa morale, l'autore la considera un delirante superamento dei limiti della ragione umana.

Luciano crea una nuova struttura stilistica fondendo la commedia e il dialogo filosofico. Inoltre ha uno stile elegante e semplice.


Testi: La smania storiografica (Come si deve comporre un'opera storica 1-2)


Luciano indirizza la sua opera a Filone. Ironicamente parla di un'epidemia a seguito della quale tutti avevano cominciato a comporre opere tragiche. Fortunatamente il sopraggiungere dell'inverno li aveva fatti smettere. La stessa malattia aveva contagiato, dice Luciano, i letterati del tempo, che si erano improvvisati tutti storici alla maniera di Erodoto, Tucidide e Senofonte.


Testi: Esempi di storiografia contemporanea (Come si deve comporre un'opera storica 15-31)


Parlando dei vari imitatori di Tucidide, Luciano si meraviglia del fatto che questi pensino che basti cambiare qualche frase dell'opera tucididea per proclamare di averne composta una nuova. Alcuni dei nuovi storici scrivono commentari degli avvenimenti in un modo tale che anche un soldato avrebbe potuto fare, altri procedono per sillogismi e adulazioni. Altri imitano Erodoto, altri si dilungano su minutissime descrizioni di armature. Alcuni ancora colorano il racconto con morti singolarissime, altri scrivono con registri discordanti. Ci sono certi che scrivono proemi smisurati e opere smilze, mentre gli epitaffi si sprecano. Uno addirittura, racconta Luciano, parlava di fatti non ancora accaduti.


Testi: Precetti (Come si deve comporre un'opera storica 41-51)


Uno storico deve essere invece impavido, incorruttibile, amico della verità, uno che non commenta ma riferisce. Questo è quello che predica Tucidide, puntualizzando che la veridicità dei fatti sarà indispensabile nel caso si presentasse un altro fatto simile.

L'opera deve iniziare con uno stile pacato ed estremamente chiaro. Solo raramente si può utilizzare il linguaggio poetico.

Il materiale da cui l'autore attinge la sua storia deve essere attendibile. Prima deve stendere un bozzetto dell'opera, e poi trattare la parte ritmica e stilistica.

Deve saper considerare gli eventi dall'alto e considerare soprattutto gli atti dei comandanti.

L'ascoltatore deve quasi vedere davanti ai suoi occhi l'evento in atto, e solo allora l'opera potrà essere lodata.


Testi: Alessandro, Annibale, Minosse e Scipione (Dialoghi dei morti)


Alessandro e Annibale litigano perché vogliono un posto in prima fila nel regno dei morti. Prendono Minosse come giudice.

Annibale dice di aver combattuto valorosamente sempre, mentre spesso Alessandro si è servito della fortuna. Alessandro pretendeva di essere adorato e governò con la forza, mentre Annibale mantenne i diritti di tutti i suoi sudditi.

Alessandro dice che, una volta giunto al potere, riportò l'ordine nella città, vendicò il padre, conquistò quasi tutta la terra, cosicché gli uomini lo credettero un dio. Accusa Annibale di essersi perso in mille piaceri.

Quindi interviene Scipione, che afferma di essere inferiore ad Alessandro ma superiore ad Annibale, che vinse.

Minosse giudica allora primo Alessandro, secondo Scipione e terzo Annibale.


Testi: Diogene e Alessandro (Dialoghi dei morti)


Diogene si meraviglia di vedere Alessandro, che credeva figlio di Ammone (e quindi un dio) nel regno dei morti. In realtà Alessandro fu figlio di Filippo.

Diogene si mostra divertito pensando ai Greci che lo adoravano e si diverte ancora di più quando Alessandro gli dice che il suo corpo verrà portato in Egitto per diventare una divinità egizia. Nessuno, dice Diogene, può uscire dal regno dei morti, quindi è impossibile. Gli chiede poi come si sente quando ripensa a tutto quello che ha perso. Aristotele gli avrebbe dovuto insegnare a non attaccarsi a tali cose. Alessandro invece disprezza Aristotele e dice di aver imparato il contrario.

Così Diogene gli suggerisce di bere MOLTA acqua del Lete, il fiume della dimenticanza, così forse si sentirà meglio.


Testi: Filippo e Alessandro (Dialoghi dei morti)


Filippo è felice di vedere Alessandro lì, perché così ha la certezza che fu suo figlio. Alessandro gli spiega che lui lo sapeva già, ma politicamente era più comodo essere creduto un dio: vinceva più facilmente.

Filippo allora si scaglia contro il figlio, accusandolo di aver compiuto solo misere imprese contro popoli vigliacchi e di aver ucciso un uomo che esaltava le imprese di Filippo più delle sue. Governò male, imitando i costumi dei popoli vinti. Quando veniva ferito tutti ridevano, perché sapevano che non era un dio. Anche lì nel regno dei morti, Alessandro si atteggia a dio. Ma quando la smetterà?


Testi: Menippo ed Ermete (Dialoghi dei morti)


Menippo cerca le famose bellezze greche, ed Ermete gli mostra Elena, Narciso, Leda, Achille e molti altri. Ora però sono solo ossa. Gli Achei non hanno capito di combattere per una cosa effimera e facilmente deperibile come il corpo umano.


Testi: Parodia tra storia e romanzo (Storia vera)


LE SCUOLE DI RETORICA E LA POLEMICA SULLO STILE


Nella seconda metà del I secolo a.C. si profila un'opposizione fra due diverse concezioni della retorica, che fanno capo una a Apollodoro di Pergamo e l'altra a Teodoro di Gadara.

Apollodoro di Pergamo scrisse una perduta Arte retorica e insegnò a Roma. Egli sosteneva che la retorica fosse una scienza e che la persuasione esercitata dalla parola non derivasse da emozioni ma da fattori scientifici. Per questo la retorica doveva essere esercitata con molto rigore. Esisteva uno stile preciso da usare per ogni caso.

Teodoro di Gadara, più giovane di Apollodoro, vedeva nella retorica un'arte, caratterizzata perciò da una libertà di ispirazione e di tecnica. Ogni singolo caso aveva le sue regole e importante era l'elemento emozionale.

Si crearono così due correnti, l'asianismo e l'atticismo.

L'asianismo prevedeva uno stile esuberante e ornato, quello che aveva ispirato i due secoli precedenti di retorica. A questa corrente aderirono i Teodorei.

L'atticismo, a cui aderirono gli Apollodorei, faceva capo a Dionigi di Alicarnasso e Cecilio di Calacte, di origini ebraiche, che scrisse, oltre ad alcune opere su vari oratori, anche un'opera chiamata Sul sublime, i cui contenuti sono discussi in un'altra opera dal medesimo titolo scritta da un anonimo. L'atticismo propugnava un ritorno agli autori attici come modelli di lingua e stile.



L'ANONIMO SUL SUBLIME


Questo scritto rientra nell'argomento della polemica sugli stili. L'autore di quest'opera sembra essere un certo Dionisio Longino. Se si vuole pensare che questo nome nasconda l'identità di Dionigi di Alicarnasso, ciò risulta inconciliabile con l'opposizione che quest'opera mostra con l'opera di Cecilio di Calacte (entrambi gli autori sarebbero atticisti). L'autore invece è vicino alle posizioni dell'asianismo. Comunque l'opera è ora assegnata ad un autore anonimo nato nel I secolo d.C.

Purtroppo un terzo dello scritto è andato perduto.

L'opera è indirizzata contro Sul sublime di Cecilio di Calacte che spiega che cos'è il sublime (l'arte della parola) ma non il modo di raggiungerlo.

Il sublime non è prodotto, dice l'anonimo, da menti meschine, è sintomo di grandezza d'animo, induce nell'ascoltatore una lunga meditazione.

Deriva dal convergere di alcune doti naturali e dello studio, tra cui l'emulazione degli scrittori del passato. La sua forza è nel pathos, la forza irrazionale dell'animo che genera la vera arte, la passione e l'entusiasmo.

Si insiste molto sul fatto che sia preferibile uno stile geniale e travolgente, magari con qualche errore, piuttosto che uno stile noioso ma perfetto.

L'anonimo aveva una profonda conoscenza della letteratura: ce lo dimostrano le numerosissime citazioni, Bibbia compresa. In queste citazioni, poi, l'anonimo mostra un forte spirito critico. Egli ama soprattutto Platone.

Il Sul sublime risulta un'opera di altissimo livello, un elevato documento di pensiero e di critica. L'anonimo doveva essere un grande.


Testo: Si può teorizzare il sublime


Alcuni sostengono che il genio sia una facoltà innata che non si può insegnare; irrigidire le opere della natura negli schemi di un manuale, significa guastarle e impoverirle.

Io invece ritengo che è vero il contrario. Infatti la natura procede con metodo e per quanto essa costituisca il principio di ogni creazione, è tuttavia il metodo a definirne ...........


Testo: Il sublime in Demostene e Cicerone


Grande è la differenza tra Demostene e Cicerone; il primo è sublime per la sua violenza oratoria, repentina e terribile che può essere paragonata ad un uragano o a una folgore, il secondo per la sua profusa eloquenza che può essere paragonata a un vasto incendio che si propaga tenace in ogni direzione.


Testo: Uso della fantasia da parte dei poeti e dei dotti


A differenza di quella poetica che ha un carattere eccessivamente favoloso e va al di la del probabile, la fantasia oratoria è realistica e verosimile e può convincere l'ascoltatore e soggiogarlo. Esempi di ciò possono essere trovati in Demostene (2se qualcuno gridasse che i carcerati stanno evadendo, tutti correrebbero in aiuto, ma se a questo qualcuno gridasse "ecco quello che li ha fatti fuggire", il malcapitato verrebbe immediatamente ucciso) o in Iperide.



LA LETTERATURA EBRAICA E CRISTIANA IN LINGUA GRECA


(pag. 533/535; 538/545)

FILONE DI ALESSANDRIA


Si deve a lui il più importante tentativo di fondere letteratura greca ed ebraica.

Nacque ad Alessandria da una nobile famiglia. Fu inviato a portare un'ambasceria alla comunità ebraica presso Caligola, per far cessare i soprusi del governatore Avillio Flacco sugli Ebrei di Alessandria, ma fallì.

Quando i due morirono in miseria, Filone pensò che era vero che Dio punisce gli empi: ne parla in Contro Flacco.

Una parte rilevante delle opere di Filone è dedicata all'esegesi biblica del Pentateuco, compiuta in più opere collegate però fra di loro: Sulla creazione del mondo, Sul decalogo, . Scrisse anche un'opera in cui venivano studiati i simbolismi dei sogni biblici (Sui sogni), una biografia di Abramo, una di Giuseppe e soprattutto la Vita di Mosè, che presentava ai pagani la figura del legislatore.

Scrisse anche delle opere in cui interpreta allegoricamente la filosofia stoica, ad esempio Alessandro (o Sul fatto che gli animali possiedono la ragione).

Nel suo pensiero compaiono lo stoicismo e il platonismo, soprattutto ripreso nella dottrina del dualismo fra spirito e materia. Dio è inconoscibile ma si manifesta attraverso il Logos e pervade tutte le creature. Dio si esprime nella Bibbia che ha pieno credito. Tutti i più grandi pensatori sono continuatori della scienza ebraica (ma non per questo Filone non apprezza la cultura ellenica).


Molto probabilmente gli scritti di Filone non sono andati persi come tutti quelli dei postaristotelici di questo filone perché contengono analogie rispetto alle dottrine del Nuovo Testamento, sebbene si esclude il contatto diretto. Comunque Filone è lontano dal cristianesimo: non accetterebbe mai l'idea di un dio che si fa uomo.

Filone è uno scritto un po' arido e pedante, privo di spontaneità, ma nobile di spirito. Scrive in una koinè elevata.


Testi: L'incontro con Caligola (Legatio ad Gaium)


Agrippa mandò una lettera a Gaio in cui gli chiedeva di non erigere una sua statua nel Tempio ebraico di Gerusalemme.

Da una parte Gaio apprezzava Agrippa perché non nascondeva i suoi sentimenti, dall'altra lo accusava di eccessiva condiscendenza verso la propria gente.

Alla fine decise di non erigere la statua, a patto che gli Ebrei non intralciassero chiunque volesse costruire altre statue o fare voti a lui stesso. Si trattava di una provocazione, perché sicuramente ci sarebbe stato qualcuno che, per far irritare gli Ebrei, avrebbe ostacolato il loro culto per venerare Gaio. Per fortuna non accadde niente del genere.

Ma era abitudine di Gaio pentirsi subito dopo un'azione buona e per questo ordinò che a Roma fosse eretta una statua maestosissima in suo onore. Spesso faceva delle concessioni e poi le ritirava peggiorando addirittura la situazione di chi le aveva richieste. Si comportava in questo modo specialmente con gli Ebrei, e riempiva le loro sinagoghe di immagini raffiguranti la sua persona.

Quando un'ambasciata ebrea (Filone compreso) si recò a chiedergli la cittadinanza, la situazione che si creò fu veramente incredibile: al posto di ascoltarli in tribunale li ascoltò mentre visitava e correggeva ville. Gaio pretendeva di essere venerato come un dio, ma gli Ebrei, al posto di pregare lui come dio, pregavano Dio per lui. Mentre Gaio parlava, gli ambasciatori temevano sempre più per la loro vita, mentre il seguito di Gaio li sbeffeggiava e faceva eco delle parole del re. Li prese un po' in giro per quanto riguarda la carne di maiale, quindi, non appena questi iniziarono a parlare del problema della cittadinanza, questi faceva finta di non ascoltarli e scappava da una stanza all'altra delle ville.

Alla fine, per fortuna, non furono uccisi ma allontanati.

Non si sapeva quale decisione Gaio aveva preso, ma da questa dipendeva la sorte di moltissimi Ebrei.



FLAVIO GIUSEPPE


Filone è un caso raro: è difficilissimo trovare un altro che abbia saputo conciliare così bene la cultura ellenistica e quella ebraica. L'antagonismo tra queste si manifesta al massimo grado nell'unico storico ebreo in lingua greca che conosciamo, Flavio Giuseppe.

Nacque a Gerusalemme nel 37-38 d.C. da una famiglia dell'aristocrazia sacerdotale. Studiò la Legge ebraica e la lingua greca.

Quando a Roma scoppiò una rivolta fomentata dagli Zeloti, che si appoggiavano alle classi più umili mentre i ceti più elevati assumevano un atteggiamento moderato e non contrario a Roma, Giuseppe tentò di mediare tra Roma  e le autorità ebraiche, ma senza successo. Gli fu affidato l'incarico di proteggere la fortezza di Iotapata, ma quando questa fu conquistata dal generale Vespasiano, si consegnò al vincitore. Ottenne la clemenza del re assicurandogli la futura ascesa al trono: la profezia si avverò e Giuseppe godette del favore dei Flavi e aggiunse il loro nome al suo.

Accompagnò Tito alla conquista di Gerusalemme, incontrando la critica di tutti i suoi compatrioti.

Morì intorno al II secolo d.C.

La sua prima opera è la Guerra giudaica, tradotta in greco: tratta della guerra tra Romani e Giudei ed è preceduta da un'introduzione in cui viene illustrata la storia degli ebrei (fonte: Nicola Damasceno). Ne approfitta per giustificare di fronte ai compatrioti il proprio comportamento: la guerra non era voluta da tutti i Giudei, ma solo dagli Zeloti. Nel discorso, però, si nota il contrasto tra la sicurezza che il predominio di Roma sia inevitabile e la dolorosa constatazione del disastro del suo popolo.


Quindi Giuseppe compose le Antichità dei Giudei, scritta in greco. E' una storia di Israele dalla creazione del mondo al 66 d.C. che segue il modello di Dionigi di Alicarnasso (fonte: Nicola Damasceno). Alla fine inserisce un'autobiografia in cui tenta nuovamente di discolparsi.

Le opere di Flavio Giuseppe sono molto importanti per documentare questo periodo. Inoltre, per la passione con cui affronta l'argomento e la sua forte capacità narrativa, la sua lettura è ancor oggi di estremo interesse.


Testi: Un rabbino a corte (Autobiografia)


Flavio Giuseppe deriva da una famiglia di dinastia sacerdotale. Sua madre era nobile di nascita, come suo padre.

Crescendo, Flavio sviluppava molte buone qualità. Decise di frequentare tutte e tre le sette ebraiche che esistevano; non ritenendosi soddisfatto, passò 3 anni con un eremita e poi entrò negli affari pubblici.

Si recò a Roma per salvare alcuni amici prigionieri. La sua nave fece naufragio ma riuscì a salvarsi.

A Roma conobbe Poppea, moglie di Cesare, attraverso la quale riuscì a far liberare i suoi amici.

Tornato in patria, però, trovò la gente cambiata: meditavano infatti la rivolta contro i Romani. Flavio tentò inutilmente di distoglierli.


Testi: La salvezza sospetta di Giuseppe (Guerra giudaica)


Vespasiano cercava Giuseppe. Durante l'espugnazione della città, Giuseppe si rifugiò in una cisterna assieme ad altre persone. Ma il suo nascondiglio fu scoperto.

I due tribuni che furono mandati non riuscirono a convincerlo ad uscire. Solo quando arrivò un amico di Giuseppe, anche se dopo molte esitazioni, questi decise di consegnarsi.

I compagni, che avevano sempre creduto in lui che era il loro capo, si sdegnarono e dissero che l'avrebbero ucciso loro se avesse tentato di consegnarsi: poteva solo suicidarsi, e con lui tutti quanti.

Con un abile discorso, Giuseppe seppe calmarli e, alla fine, trovò un modo per uscire salvo da quella situazione: a sorte veniva estratto qualcuno che sarebbe stato ucciso dal vicino, cosicché tutti sarebbero morti lo stesso ,ma non per mano propria.

Per un caso Giuseppe rimase ultimo con un compagno che riuscì a convincere a farsi consegnare.

Alla corte di Vespasiano, Giuseppe predisse una buonissima sorte per lui e suo figlio Tito.

Vespasiano, inizialmente scettico, credette e Giuseppe venne trattato con molto riguardo.


Testi: Le menzogne dei Greci (Contro Apione)


Giuseppe Flavio vuole dimostrare l'antichità del popolo ebraico: a riguardo chiama a testimoni i maggiori storici greci e spiega perché molti pochi parlino degli Ebrei.

Non si capisce perché per parlare della storia arcaica si presti più fede agli scrittori greci che non a quelli ebrei, che hanno una storia più antica, impararono prima a scrivere, sono vissuti in una terra più tranquilla e quindi hanno conservato anche scritti relativi a tempi molto antichi (quelli dei Greci sono andati persi).

E poi gli storici greci si attaccano a vicenda, si confutano uno con l'altro tenendo conto solo dei propri scritti e non di quelli scritti da altri popoli.

Tutto questo ha favorito coloro che vollero scrivere riguardo ai tempi più antichi, perché hanno avuto la libertà di inventare tutte le menzogne che volevano.



I VANGELI


Testi: IL I E II LIBRO DI LUCA: I PROEMI (Vangelo secondo Luca)


Luca scrive a Teofilo che cercherà di narrare con ordine alcuni fatti che lui già conosce.

Ai tempi di Erode vivevano il sacerdote Zaccaria e la moglie Elisabetta. Era persone giuste, che non avevano figlie perché Elisabetta era sterile ed erano già quasi anziani.

Un giorno toccò a Zaccaria entrare nel santuario del Signore.


Luca dice a Teofilo che nel primo libro ha parlato di tutto quello che ha fatto e insegnato Gesù. Dopo la resurrezione si presentò molte volte ai discepoli e gli promise lo Spirito Santo.


Testi: Discorso dell'apostolo Paolo in Atene: il "Dio ignoto" (Atti degli Apostoli)


Paolo non capiva il motivo per cui in Atene si celebrassero tanti culti. Alcuni gli chiesero di che parlava la dottrina che lui predicava. Paolo salì sull'Areopago e disse che apprezzava gli Ateniesi che tenevano così tanto alla religione da costruire un altare anche per "un Dio ignoto". Lui era venuto proprio per spiegare chi fosse questo Dio.

Quando parlò della risurrezione dei morti, qualcuno lo prese in giro, altri gli credettero e si unirono a lui.





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