LA QUESTIONE PALESTINESE
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Il conflitto tra israeliani e palestinesi è entrato in un vortice
di violenze dal quale sembra impossibile uscire. Il dato che colpisce
maggiormente è l'impossibilità di risolvere una situazione conflittuale che
ormai, da più di mezzo secolo, semina odio religioso e violenza, non solo
nella regione mediorientale, ma nel mondo intero. La questione
mediorientale infatti è un forte fattore destabilizzante
all'interno dei rapporti internazionali, ma tutti i tentativi finora fatti
tra israeliani e palestinesi per arrivare ad un accordo duraturo sono
crollati, colpiti all'interno dagli estremismi religiosi di entrambe le
parti, e all'esterno da una sostanziale crisi decisionale e politica della
comunità internazionale, riunita nell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
L'inizio della controversia arabo-israeliana può essere fatta risalire
alla fine della Prima Guerra Mondiale. Le zone oggi contese facevano parte
dell'Impero ottomano, ma, in seguito alla sua sconfitta, tutti i Paesi
arabi (Egitto, Arabia e zona della Mezzaluna fertile) cessarono di
appartenere alla Turchia. La Società delle Nazioni (SdN) attraverso il
sistema dei mandati incaricò la Gran Bretagna e la Francia della creazione e
dell'amministrazione di nuovi Stati nei territori appartenuti all'Impero
ottomano, tenendo conto delle differenti culture e religioni che lì
risiedevano, ma ignorando così il diritto all'autodeterminazione dei popoli
espresso da Wilson nei suoi "14 Punti".
Un documento molto 747e41h importante nell'affidamento alla Gran Bretagna del mandato
sulla Palestina fu la dichiarazione del 1917 del ministro degli esteri
inglese, Lord Arthur J. Balfour, detta Dichiarazione di
Balfour. In essa vi si annunciava la disponibilità alla creazione in
Palestina di un "focolare nazionale per il popolo ebraico", che non
avrebbe però leso i diritti delle popolazioni non ebraiche. |
Durante il primo mandato inglese in Palestina (1920-1922, poi
rinnovato periodicamente fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale), fu
attuata una stabile presenza militare per il controllo strategico dei
traffici commerciali del Canale di Suez e, con l'adozione della precedente
legislazione ottomana, si accentuarono i contrasti tra i notabili musulmani e
la popolazione rurale palestinese.
Nel frattempo alimentato dal sionismo, una tendenza politica e
ideologica il cui obiettivo principale era la creazione di uno Stato ebraico,
un consistente flusso di immigrati ebrei cominciò ad arrivare nelle zone dei
luoghi santi e a stabilirvisi acquistando terre, spinti dal mito del ritorno
alle origini.
L'ascesa del sionismo ricompattò il fronte sociale arabo che si avviava verso
un nazionalismo in funzione antiebraica e anticolonialista, guidato
dal Partito dell'indipendenza araba, fondato nel 1932. La situazione esplose
durante la Rivolta araba in Palestina (1936-1939), anni in cui si
scatenò l'odio nazionalistico e religioso degli arabi nei confronti degli
inglesi e degli ebrei, ma che non espresse un indirizzo univoco, anzi si
frammentò tra le diverse fazioni.
Con la Seconda Guerra Mondiale, dopo la scoperta del tragico destino
di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti, si impose con
più forza l'idea della costituzione di uno Stato ebraico. Nel novembre del
'47, con la risoluzione n.181, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite
accettò il piano di spartizione della Palestina presentato da una apposita
commissione: sarebbero sorti uno affianco all'altro due Stati indipendenti,
uno arabo e uno ebraico, con un regime internazionale speciale per la città
di Gerusalemme, ponendo così fine al mandato inglese sulla Palestina.
La tragedia della Shoah aveva avuto il suo peso nell'accelerazione di
questo processo, ma con l'instaurarsi della guerra fredda si
delineavano anche gli interessi, i quali ruotavano attorno al controllo dei
traffici commerciali e petroliferi che transitavano per il Canale di Suez,
delle due superpotenze: gli Stati Uniti, schierandosi con Israele intendevano
conquistare un prezioso alleato in una regione strategica del globo, mentre l'Unione
Sovietica si avvicinò ai Paesi arabi, soprattutto l'Egitto di Nasser,
cercando di sfruttare la loro avversione ad Israele per i propri interessi in
quelle zone.
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Il 14 maggio 1948 ci fu la proclamazione dello Stato
di Israele, con un eccezionale accordo tra USA e URSS. Il giorno
successivo si scatenò però la reazione degli Stati arabi, riuniti nella Lega
Araba (fondata nel marzo del 1945 e a cui aderivano Egitto, Iraq, Arabia
saudita, Libano, Yemen, Siria), che invasero Israele. Fu il primo conflitto
arabo- israeliano (1948-1949).
Gli Stati arabi subirono una pesante sconfitta morale, oltre che forti
perdite territoriali a vantaggio di Israele, che arrivò fino a Gerusalemme.
Una delle principali conseguenze fu il problema dell'insediamento di 650.000
profughi palestinesi cacciati dalle loro terre, mentre Israele accolse
600.000 ebrei provenienti dagli Stati arabi.
Nel 1956, dopo un periodo di relativa stabilità interna, Israele partecipò
alla "campagna del Sinai" assieme alla Francia e all'Inghilterra
che volevano bloccare il processo di nazionalizzazione del Canale di Suez
avviato dal presidente egiziano Nasser. Le truppe israeliane occuparono il
Sinai, ma furono poi costrette al ritiro dal richiamo americano. L'ONU
inviò dei caschi blu per il controllo della tenuta dell'armistizio nel Sinai.
Per Nasser, l'insuccesso militare significò comunque un successo politico che
lo consacrò come un punto di riferimento della lotta anticolonialista e del
crescente movimento panarabo.
Nel 1964 nasceva l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP)
che raccoglieva formazioni politico-militari (la principale è Al Fatah,
fondata nel 1959 da Arafat e Wazir) di diverse tendenze, ma concordi nella
lotta ad Israele, fino alla sua eliminazione.
Intanto si moltiplicavano i segnali di ostilità dei Paesi arabi, con in testa
l'Egitto di Nasser e la Giordania di re Hussein, nei confronti di Israele. Le
tensioni sfociarono poi nella Guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967)
in cui Israele con una schiacciante vittoria, che significò l'occupazione
militare dei Territori palestinesi, impose un duro colpo al mito
panarabo.
Nel novembre del 1967 l'ONU approvò la Risoluzione 242, la quale
riconosceva il diritto ad un'esistenza pacifica per gli Stati della regione e
allo stesso tempo condannava le occupazioni israeliane dei Territori. La
Risoluzione però non venne riconosciuta né da Israele (che giudicava quei
territori, dove intanto cominciarono a formarsi degli insediamenti di coloni,
essenziali alla sua sopravvivenza) né dall'OLP (che non riconosceva il
diritto di Israele ad esistere come Stato).
C'è una differenza fondamentale tra la lotta ad Israele prima e dopo il
'67: mentre in precedenza essa aveva assunto caratteri anticolonialistici
e laici, trova ora forza nel fondamentalismo islamico e nella
radicalizzazione dello scontro.
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Sull'OLP ricadde tutto il peso della lotta contro Israele, in
Palestina e nei Territori occupati dagli israeliani, e scelse, dopo aver
nominato Yasser Arafat presidente (1968), la via terroristica
come metodo di lotta. Infatti i rapporti tra l'OLP e i Paesi arabi che
ospitavano le basi della guerriglia palestinese si fecero sempre più tesi,
fino a concludersi con la strage del Settembre nero del 1970 a partire
dalla quale i palestinesi vennero scacciati con grandi sofferenze dal
territorio della Giordania. Ciò rese evidente l'atteggiamento ambiguo della
Lega araba che mentre si proclamava difensore della causa palestinese, non
faceva nulla di concreto per risolvere la situazione dei profughi palestinesi,
abbandonati nei campi di raccolta di Gaza e della Cisgiordania.
Nel 1973 si ebbe l'ennesimo attacco ad Israele, durante la festività
religiosa del Kippur, da parte di Egitto, Siria e Giordania, con
l'appoggio della Libia. Anche questa volta Israele respinse gli attacchi ed
avanzò in territorio arabo, ma fu costretto ancora una volta al ritiro dalle
grandi potenze, preoccupate dal rialzo del prezzo del petrolio imposto dai
Paesi produttori, riuniti nell'OPEC.
Il 26 marzo 1979 il presidente egiziano Sadat, in seguito alla
mediazione americana che portò alla firma degli agli accordi di Camp David,
firmava una storica pace con Israele, riconoscendogli formalmente il diritto
all'esistenza. Sadat, che diede un impulso forte ai tentativi di pacificazione
tra arabi ed ebrei, pagò con la vita questa sua scelta: fu infatti ucciso nel
1981 dai fondamentalisti islamici della Jihad.Gli anni che seguirono furono
segnati dall'operazione israeliana, denominata "Pace in Galilea"
(1982), nel Libano meridionale contro basi terroristiche palestinesi. Essa
però sfociò nel massacro, a opera dei falangisti cristiano-libanesi e con la
complicità delle forze israeliane guidate dal generale Ariel Sharon,
di migliaia di palestinesi rinchiusi nei campi profughi di Sabra e Chatila.
Furono anche gli anni di numerosi attentati (come quello all'aeroporto
romano di Fiumicino, nel 1985) e di dirottamenti di navi (come quello
dell'Achille Lauro) e aerei, avvenuti per lo più in Europa, a dimostrazione
dell'internazionalizzazione del fenomeno terroristico di matrice palestinese.
Inoltre nei territori di Gaza e di Cisgiordania scoppiò un'ondata di scontri,
denominata Intifadah, che assunse l'aspetto di un movimento popolare
di resistenza contro Israele e a favore dell'OLP. L'Intifadah, praticata
soprattutto dai giovani palestinesi con lanci di pietre verso i soldati e i
coloni israeliani, segnava l'iniziò di una forte movimento di protesta
e rivelava tragicamente l'impari lotta della popolazione palestinese, ferita
nella sua dignità e nei suoi diritti, da Israele ma anche dalla Lega araba.
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Nel 1990, durante la Guerra del Golfo, Arafat si schierò con il
dittatore iracheno Saddam Hussein, denunciando la "politica di due pesi
e due misure", attraverso la quale si interveniva in Kuwait per liberare
uno Stato occupato, ma che lasciava lettera morta le risoluzioni dell'ONU
sulla fine dell'occupazione israeliana in Palestina.
La svolta nei rapporti tra israeliani e palestinesi avvenne nel 1993,
quando dopo trattative tra il governo israeliano e l'OLP, presiedute dal
presidente americano Clinton a Washington, viene sottoscritta la dichiarazione
di principi sull'autonomia palestinese.
Da quel momento in poi si succederanno altri accordi di pace in un clima di
crescente tensione tra le due parti, esasperate dall'esplodere, ancora una
volta, della violenza dei fanatismi religiosi. Le stragi di Hebron ('93), in
cui un ebreo ortodosso spara all'interno di una moschea provocando numerose
vittime, e di Netanya ('95), con l'uccisione di giovani soldati israeliani,
preparano il terreno, in Israele, per l'ascesa nel 1996 del Likud, una
coalizione di partiti di destra che non vedono di buon grado le
trattative di pace avviate con i palestinesi. Il primo ministro Netanyahu
adotterà una strategia di rinvio dell'applicazione degli accordi con i
palestinesi, che esaspererà il processo di pace riportandolo ad una
situazione di stallo.
Le trattative ripresero lentamente grazie all'ennesimo intervento
internazionale condotto dagli USA, anche se la politica degli insediamenti
israeliani nei Territori occupati durante i precedenti conflitti non si
arrestò. La pace sembrò essere, però, molto vicina con l'elezione di Barak
a primo ministro d'Israele nel maggio 1999, ma degli accordi, che sul piano
dei principi furono molto avanzati rispetto a quelli del passato, non ci fu
una loro effettiva attuazione.
Nel settembre del 2000, dopo la visita provocatoria del leader del
Likud, Ariel Sharon, alla Spianata delle Moschee, scoppia una
nuova violenta Intifadah, ancora non sopita.
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Il processo di pace sembra oggi essere arrivato ad un punto di crisi
profonda: il progressivo irrigidimento del governo israeliano, dove nel febbraio
2001 Sharon è stato eletto primo ministro, nei confronti della pace con i
palestinesi, e la graduale perdita di autorità da parte del leader
dell'Autorità palestinese Arafat, che deve contrastare una sempre più
crescente opposizione interna, concorrono a questa crisi.
In tutto questo la comunità internazionale guarda impotente il
consumarsi di questa tragedia: mancano gli strumenti per una politica estera
veramente efficace, capace di vincolare gli stati contendenti al rispetto
delle decisioni dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Inoltre l'appoggio statunitense alla politica israeliana (che si esercita
tramite i veti alle risoluzioni ONU sfavorevoli ad Israele o con il loro
disattendimento) ha sostanzialmente impedito all'ONU di affrontare con
l'efficacia necessaria il problema dell'occupazione militare israeliana nei
Territori della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. La situazione si
intreccia dunque con il più ampio problema di una gestione della politica
internazionale più efficace e guidata da principi di egualitarismo
che finora sono venuti meno, soprattutto nella questione palestinese.
Gli appelli alla tregua si ripetono da più parti, ma su un registro ormai
sempre più consumato. La via della pace fra israeliani e palestinesi non
potrà che trovarsi nel ristabilimento della legalità internazionale e di
condizioni politiche serene, e per far ciò occorre che la comunità
internazionale riporti ad un tavolo i due contendenti e li assista
nell'elaborazione di un dialogo serio e costruttivo, evitando sterili
contrapposizioni e vecchie interpretazioni strategiche di stampo colonialista
che hanno dimostrato nel tempo la loro pericolosità.
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