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I POETI ELEGIACI - TIBULLO

latino



I POETI ELEGIACI

L'elegia è un tipo di poesia formata dal "distico" (un'insieme di versi alternati tra esametri e pentametri) e si diffonde nell'età augustea tra i rappresentanti della poesia latina. L'elegia è di origine greca.

TIBULLO

Gli studiosi hanno attribuito a Tibullo  una raccolta di poesie distribuite in tre libri. Questa antologia, chiamata "Corpus Tibullianum", include nel III libro opere incerte e altre che non si possono attribuire a lui.

Le notizie sulla vita dell'autore è possibile ricavarle dalle sue opere: egli era in buoni rapporti con Messala, un uomo politico. Quest'ultimo era il rappresentante di un circolo di cui Tibullo 222b15c era l'esponente principale. Tibullo fece parte anche del "cohors amicorum" (ideato sempre da Messala) durante la spedizione nelle Gallie (30 a.C.) e in una missione in Asia Minore (28 a.C.): nella 7 elegia del libro I, il poeta celebra il patrono in occasione del suo trionfo e afferma di aver partecipato alla spedizione; invece, nell'elegia 3 del libro I, Tibullo ammalato è costretto a fermarsi a Corfù mentre Messala e i suoi compagni proseguono verso l'Oriente. Ciò vuol dire che il poeta nel 30 a.C. doveva avere circa 20 anni, quindi la sua nascita può essere collocata intorno al 50 a.C. Egli morì, ancora giovane, verso la fine del 19 a.C. e l'inizio del 18 a.C.



Per quanto riguarda la cronologia dei libri possiamo affermare che il primo libro è stato pubblicato poco dopo il 27 a.C. (data del trionfo di Messala di cui si parla nell'elegia 7); il libro II dev'essere stato pubblicato poco dopo. Dunque, la produzione del poeta si può collocare tra il 30 e il 20 a.C.

Il I libro comprende 10 elegie: cinque (le prime 3, la 5 e la 6) fanno riferimento alla danna amata che egli chiama Delia; tre (la 4, la 8 e la 9) si riferiscono ad un altro amore per un giovane di nome Marato; le due rimanenti (la 7 e la 10) non affrontano temi amorosi. Tibullo, prendendo ad esempio molti poeti greci e Catullo, scrive poesie anche per uomini. I tre carmi dedicati al ragazzo sono molto curati, ma convenzionali; quelli per Delia riprendono la poesia d'amore precedente (l'epigramma greco) e contemporanea (le elegie properziane), in particolare affronta il tema della gelosia e della sofferenza a causa dei tradimenti dell'amata. Nel carme 1 del libro I, Tibullo fa un confronto tra la sua vita (semplice e modesta, politicamente disimpegnata e occupata dall'amore) e la vita militare che egli critica in quanto è portatrice di ricchezze che non possono essere conciliate con l'amore e la tranquillità. Tibullo vorrebbe vivere serenamente in campagna venerando gli dei rurali e godendo dell'amore di Delia prima che la morte lo raggiunga.

Il II libro comprende 6 carmi. Il primo contiene la descrizione rurale di una fesat rurale con preghiere agli dei rurali ed elogi alla vita agreste. Il secondo è rivolto all'amico Cornuto per il suo compleanno. La 5 è una lunga elegia (122 versi) di argomento e toni più elevati, composta in occasione dell'ingresso di Messalino, figlio di Messala, in un collegio sacerdotale; dopo un'invocazione ad Apollo Palatino, Tibullo rievoca l'arrivo di Enea nel Lazio e descrive le Palilie. Cioè le feste dei pastori. Poi parla di Nemesi, la nuova donna di Messalino, di cui poi si innamorerà anche Tibullo. Anche questo amore sarà fonte di sofferenza, tanto che Tibullo parla di "servitium amoris" cioè lui si raffigura come schiavo dell'amore.

Il III libro è formato da 20 componimenti di cui solo gli ultimi due sono attribuiti a Tibullo. Nelle elegie 1-6 un poeta di nome Ligamo (che potrebbe essere Tibullo oppure Ovidio nato nel 43 a.C.) canta il suo amore per Neera, rimpiangendo la felicità perduta. Nell'elegia 7, invece, vi è il "Panegirico (cioè lode) di Messalla " (è in esametri ed è l'unico componimento dove non vi sono distici elegiaci) dove si lodano le doti e le imprese militari del patrono.

TITO LIVIO

Tito Livio nacque nel 59 a.C. a Padova. Egli venne soprannominato da Asinio Pollione come "Patavinitas" (cioè abitante di Padova) non si capisce se per la sua linguistica o per il suo moralismo. Le sue condizioni economiche furono agiate e, infatti, potè dedicare tutta la sua vita alla stesura delle sue opere. nel 30 e nel 29 a.C. andò a Roma per svolgere delle ricerche in modo da poter poi scrivere la sua opera. Il suo primo libro uscì tra il 27 e il 25 a.C. e colpì molto Augusto tanto che intrattenne un'amicizia con Livio. Dato che la parte conservata dell'opera ci perviene solo nel 167 a.C. non è possibile sapere cosa ne pensava Livio del principato; tuttavia, il pessimismo con cui, nella prefazione, parla dell'età contemporanea lascia capire che Livio non pensava che il principato potesse essere la soluzione migliore per salvare la repubblica in crisi. Perciò, Livio non fu mai portavoce dell'ideaologia di Augusto, tuttavia con la sua celebrazione delle virtù romane, risultava d'accordo con i temi della propaganda augustea. Morì a Padova nel 17 d.C.

Nella sua opera Livio tornò al modello annalistico e narrò tutta l'intera storia di Roma  a partire dalle origini. Dei 142 libri di cui era composta l'opera però a noi ne sono pervenuti solo 35: i primi 10 (dalle origini al 293 a.C.) e dal 21 al 45 (dalla seconda guerra punica al 167 a.C.).

IL CONTESTO CULTURALE

L'età di Augusto segna un cambiamento netto non solo nella storia politica ma anche nella storia della letteratura. Infatti, in seguito all'instaurazione del principato, la vita intellettuale diventa sempre più condizionata dal potere politico. La necessità dei letterati di protettori era stata rilevante anche in età repubblicana, ma sotto l'impero divenne molto più forte a causa dell'accentramento di tutte le attività nelle mani dell'imperatore. Mentre durante la repubblica molti uomini politici, oltre ad essere scrittori erano anche promotori di cultura, animatori di circoli letterari e protettori di poeti; sotto l'impero questa funzione spettava solo ai principi che controllavano tutta la vita intellettuale limitandone ancora di più la libertà e aumentandone il condizionamento. Già all'età di Augusto quando venne a mancare Mecenate, si ruppero un po' i rapporti tra il principe e gli intellettuali; poi negli ultimi anni del principato di Augusto tutto ciò si manifestò: Ovidio venne condannato con l'accusa di aver ostacolato con la sua opera il programma di restaurazione morale voluto dal principe. Sotto il successore di Augusto, Tiberio, si verificarono altri conflitti tra intellettuali e principe: furono condannate al rogo le opere di due uomini appartenenti all'aristocrazia senatoria uno perché nella sua opera aveva esaltato i cesaricidi e l'altro perchè nella sua opera vi erano allusioni antitiranniche. Lo stesso avvenne durante il regno di Calligola: egli condannò all'esilio un uomo perché era contro i tiranni e un altro perché conteneva un verso con un doppio senso. Questo però non deve essere inteso come un disprezzo nei confronti dell'attività letteraria, ma come una preoccupazione per impedire che essa divenisse stimolo, tramite o strumento di dissenso e di opposizione. Infatti, Tiberio, Calligola e Claudio furono tutti amanti della letteratura: Tiberio amava gli arcaismi e il purismo; Calligola fu un oratore facondo ed efficace; Claudio fu sempre portato per gli studi liberali.

SENECA

Seneca apparteneva ad una ricca famiglia provinciale. Nacque a Cordoba, in Spagna e fu condotto poco dopo a Roma dove ebbe un'istruzione retorica e filosofica. Qui conobbe il neopitagorico Sozione da cui apprese queste abitudini: la rinuncia al vino, ai profumi, ai funghi, alle ostriche, ai materassi morbidi, ai bagni caldi. Pur avendo fatto la scelta della vita contemplativa a cui lo indirizzavano i maestri di filosofia, egli abbandonò per non dispiacere il padre: intraprese il "cursus honorum" (la carriera politica) e rivestì la questura. Le sue eccezionali qualità oratorie lo destinavano ad una brillante carriera ma i suoi rapporti con gli imperatori furono difficili: Calligola fu convinto da una donna che Seneca era gravemente malato e sarebbe morto in breve tempo per questo progettò di ucciderlo; Claudio lo accusò di adulterio con Giulia Livella e lo condannò all'esilio in Corsica. Qui Seneca rimase fino al 49, data in cui fu richiamato a Roma per il matrimonio di Claudio con la nuova moglie Agrippina. Tornò a Roma quando aveva più di cinquant'anni e probabilmente non voleva più riprendere la carriera politica, tuttavia dovette accettare l'incarico di precettore di Nerone. Successivamente Seneca fu consigliere imperiale di un giovane non ancora diciottenne ed ebbe l'intero controllo dell'impero. La sua speranza però era quella di fare del giovane principe un sovrano esemplare ma fu una grande delusione. Nel 59 Nerone fece uccidere la madre con l'aiuto di Seneca. La sua posizione si fece sempre più debole per l'insofferenza da parte del principe e divenne insostenibile quando nel 62 Burro morì. A questo punto Seneca per ragioni di età e di salute chiese a Nerone il permesso di abbandonare ogni attività pubblica e ritirarsi a vita privata dedicandosi ai suoi studi. Morì nel 65 realizzando finalmente quella vita contemplativa a cui aspirava fin da giovane e si dedicò totalmente alla riflessione, allo studio, alla lettura e alla composizione delle sue opera. Tuttavia non riuscì a mettersi a riparo dalle ostilità di Nerone, infatti nel 65 fu scoperta la congiura contro l'imperatore e il filosofo fu considerato tra i complici e fu costretto a togliersi la vita. Oltre le opere conservate Seneca ne scrisse altre che purtroppo sono andate perdute.

FEDRO

Fedro è il principale rappresentante latino di un genere minore, che egli introdusse nella letteratura romana: la favola. Egli non solo non fu apprezzato dai contemporanei ma fu addirittura ignorato da Seneca. Dal corpus delle sue favole furono raccolte in prosa e pubblicate anonime alcune delle sue favole ed ebbero un grandissimo successo. Solo nel XVI secolo si ebbe la versione originale in  versi. Le notizie biografiche dell'autore si ricavano dalle sue opere: nacque in Macedonia, giunse a Roma da bambino come schiavo infatti veniva chiamato libertus Augusti. E' probabile che si sia dedicato all'insegnamento come molti liberti di quel tempo e la sua poetica è nata proprio dalla sua professione: le favole infatti erano usate come libri di testo nella scuole. Fedro sperava molto nelle ricompense dei suoi lavori ma fu perseguitato da Seiano, che urtato dal carattere satirico di alcuni componimenti lo fece processare e condannare. Di Fedro ci sono pervenuti 5 libri di favole in versi (senari giambici) per un totale di 100 componimenti. Altre 30 favole si ricavano dall'Appendix Perottina che l'umanista Niccolò Perotti, trascritte da un codice oggi perduto. Nonostante questo Fedro si ispira a Esopo, uno scrittore Greco. Secondo una tradizione che intreccia storia e leggenda Esopo, uno schiavo originario della Frigia vissuto nel VI secolo per primo avrebbe raccontato una favola. La favola divenne un vero e proprio genere costituito da brevi racconti di fantasia dotati di un significato pedagogico e morale ed essi proponevano infatti modelli di comportamento positivi o negativi. La forma più caratteristica assunta dalla favola Esotica è quella dell'apologo animalesco che ha per protagonisti gli animali parlanti. Tuttavia la tradizione esotica comprendeva però anche storielle di altro tipo tra cui una serie di aneddoti e di battute relativi allo stesso Esopo, l'umile schiavo assai più intelligente e saggio del suo padrone, intorno alla cui figura leggendaria era nata una sorta di biografia romanzata.







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