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Odissea Ver. 190-340

greco



Odissea

Ver. 190-340


1) Fai le tue osservazioni sul tema della tempesta nell'episodio di Ulisse.

Ulisse è finalmente lasciato andare via dall'isola di Ogigia. Calipso, per ordine di Ermes, mandato da Zeus, è costretta a lasciar partire Ulisse dopo la sua permanenza con lei sull'isola. Anche se Calipso non potrà mai più rivedere Ulisse e quindi non potrà averlo come suo sposo, tuttavia, dando prova del suo amore per lui, gli fornisce tutto il materiale e gli attrezzi necessari per costruire e armare una zattera e per equipaggiarla dei viveri necessari per il viaggio. Ulisse parte e, con lo zefiro benevolo mandato da Calipso in poppa, salpa alla volta di Itaca. Ulisse però non conosce bene il suo destino, benché gliene avesse già parlato Tiresia e glielo avesse ricordato Calipso. Giunto all'isola dei Feaci, infatti, avrebbe posto fine alle sue sciagure per mare, ma, durante il suo viaggio, si sarebbero completati i mali a lui destinati. Quest'ultimo particolare non sfugge invece a Poseidone che, tornato dall'ecatombe presso gli Etiopi, vede Ulisse avvicinarsi alla terra della sua salvezza e decide di ritardare ancora un po' il suo destino, facendolo soffrire ancora, per quanto possibile, sul mare. Poseidone scatena così una terribile tempesta che distrugge la zattera di Ulisse facendolo temere per il peggio.



Il tema dell'uomo in mezzo alla tempesta è comunque affascinante, anche se probabilmente il poeta, in questo caso non aveva nessuna intenzione di conferirle un significato metaforico. Ad ogni modo, questo essere in balìa della natura dell'uomo è un argomento che affascina e atterrisce al punto stesso e suggerisce facilmente similitudini con la vita reale. La tempesta è simbolo del male, ma più che del male, è il simbolo della potenza di Dio e della natura che fanno sembrare minuscolo l'uomo al confronto. Ulisse, sballottato di qua e di là da forze incontrollabili, rivive forse in un ultimo episodio il sentimento principale che ha caratterizzato tutto il suo vagare attraverso il mare. La paura che gli fa rimpiangere di non essere morto in battaglia, onorato e glorificato a Troia, l'angoscia di una sorte imprevedibile e avversa, sono sentimenti che accomunano tutto il suo viaggio, e che, in un ultimo duro colpo, prima del lieto fine previsto dal fato, si scatenano ancora  una volta sotto la spinta di Poseidone. La volontà disperata di vendetta di Poseidone viene a scontrarsi con l'irrevocabilità del destino, generando quest'ultima avventura per mare di Ulisse. Infine, il destino dimostrerà ancora tutta la sua rigidità e, nonostante l'avversità di Poseidone, Ulisse, grazie all'aiuto di Inò, approderà, stanco, spossato, incrostato dalla salsedine, ma salvo, all'isola dei Feaci.


Testo di riferimento: libro quinto dell'Odissea


LIBRO QUINTO



Già l'Aurora, levandosi a Titone

D'allato, abbandonava il croceo letto,

E ai dèi portava ed ai mortali il giorno;

E già tutti a concilio i dèi beati

Sedean con Giove altitonante in mezzo,

Cui di possanza cede ogni altro nume.

Memore Palla dell'egregio Ulisse,

Che mal suo grado appo la ninfa scorge,

I molti ritesseane acerbi casi:

"O Giove", disse, "e voi tutti d'Olimpo

Concittadini, che in eterno siete,

Spoglisi di giustizia e di pietade,

E iniquitate e crudeltà si vesta

D'ora innanzi ogni re, quando l'imago

D'Ulisse più non vive in un sol core

Di quella gente ch'ei reggea da padre.

Ei nell'isola intanto, ove Calipso

In cave grotte ripugnante il tiene,

Giorni oziosi e travagliosi mena;

E del tornare alla sua patria è nulla,

Poiché navi non ha, non ha compagni, 535d35f

Che il carreggin del mar su l'ampio tergo.

Che più? Il figliuol, che all'arenosa Pilo

Mosse ed a Sparta, onde saver di lui,

Tôr di vita si brama al suo ritorno.

"Figlia, qual ti sentii fuggir parola

Dal recinto de' denti?" a lei rispose

L'adunator di nubi Olimpio Giove;

"Tu stessa in te non divisavi, come

Rieda Ulisse alla patria, e di que' tristi

Vendetta faccia? In Itaca il figliuolo

Per opra tua, chi tel contende? salvo

Rïentri, e l'onde navigate indarno

Rinavighi de' proci il reo naviglio.

Disse, e a Mercurio, sua diletta prole,

Così si rivolgea: "Mercurio, antico

De' miei comandi apportator fedele,

Vanne, alla ninfa dalle crespe chiome

Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse

Le native contrade omai rivegga,

Ma nol guidi uom, né dio. Parta su travi,

Con multiplici nodi in un congiunte,

E il ventesimo dì della feconda

Scheria le rive, sospirando, attinga;

E i Feaci l'accolgano, che quasi

Degl'immortali al par vivon felici.

Essi qual nume onoreranlo, e al dolce

Nativo loco il manderan per nave;

Rame in copia darangli, ed oro e vesti,

Quanto al fin seco dalla vinta Troia

Condotto non avrìa, se con la preda,

Che gli toccò, ne ritornava illeso:

Ché la patria così, gli amici e l'alto

Riveder suo palagio, è a lui destino".

Obbedì il prode messaggiero. Al piede

S'avvinse i talar belli, aurei, immortali,

Che sul mare il portavano, e su i campi

Della terra infiniti, al par col vento.

Poi, l'aurea verga nelle man recossi,

Onde i mortali dolcemente assonna,

Quanti gli piace, e li dissonna ancora,

E con quella tra man l'aure fendea.

Come presi ebbe di Pïeria i gioghi,

Si calò d'alto, e si gettò sul mare:

Indi l'acque radea velocemente,

Simile al laro, che pe' vasti golfi

S'aggira in traccia de' minuti pesci,

E spesso nel gran sale i vanni bagna.

Non altrimenti sen venìa radendo

Molte onde e molte l'Argicìda Ermete.

Ma tosto che fu all'isola remota,

Salendo allor dagli azzurrini flutti,

Lungo il lido ei sen gìa, finché vicina

S'offerse a lui la spazïosa grotta,

Soggiorno della ninfa il crin ricciuta,

Cui trovò il nume alla sua grotta in seno.

Grande vi splendea foco, e la fragranza

Del cedro ardente e dell'ardente tio

Per tutta si spargea l'isola intorno.

Ella, cantando con leggiadra voce,

Fra i tesi fili dell'ordìta tela

Lucida spola d'ôr lanciando andava.

Selva ognor verde l'incavato speco

Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni

E gli spiranti odor bruni cipressi:

E tra i lor rami fabbricato il nido

S'aveano augelli dalle lunghe penne,

Il gufo, lo sparviere e la loquace

Delle rive del mar cornacchia amica.

Giovane vite di purpurei grappi

S'ornava e tutto rivestìa lo speco.

Volvean quattro bei fonti acque d'argento,

Tra sé vicini prima, e poi divisi

L'un dall'altro e fuggenti; e di vïole

Ricca si dispiegava in ogni dove

De' molli prati l'immortal verzura.

Questa scena era tal, che sino a un nume

Non potea farsi ad essa, e non sentirsi

Di maraviglia colmo e di dolcezza.

Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto

Lodatola in suo core, all'antro cavo,

Non indugiando più, dentro si mise.

Calipso, inclita dea, non ebbe in lui

Gli occhi affissati, che il conobbe: quando,

Per distante che l'un dall'altro alberghi,

Celarsi l'uno all'altro i dèi non ponno.

Ma nella grotta il generoso Ulisse

Non era: mesto sul deserto lido,

Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi

Con dolori, con gemiti, con pianti

Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare

Sempre agguardava, lagrime stillando.

La diva il nume interrogò, cui posto

Su mirabile avea seggio lucente:

"Mercurio, nume venerato e caro,

Che della verga d'ôr la man guernisci,

Qual mai cagione a me, che per l'addietro

Non visitavi, oggi t'addusse? Parla.

Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna,

Disdirti io non saprei, se il pur volessi.

Su via, ricevi l'ospital convito:

Poscia favellerai". Detto, la mensa,

Che ambrosia ricoprìa, gli pose avanti,

Ed il purpureo néttare versògli.

Questo il celere messaggiero e quella

Prendea; né prima nelle forze usate

Tornò, che aprìa le labbra in tali accenti:

"Tu dea me dio dunque richiedi? Il vero,

Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro.

Questo viaggio di Saturno il figlio

Mal mio grado mi diè. Chi vorrìa mai

Varcar tante onde salse, infinite onde,

Dove città non sorge, e sagrificî

Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?

Ma il precetto di Giove a un altro nume

Né vïolar, né oblïar lice. Teco,"

Disse l'Egidarmato, "i giorni mena

L'uom più gramo tra quanti alla cittade

Di Priamo innanzi combattean nove anni,

Finché il decimo alfin, Troia combusta,

Spiegâro in mar le ritornanti vele.



Ma nel cammino ingiurïar Minerva,

Che destò le bufere, e immensi flutti

Contra lor sollevò. Tutti perîro

Di quest'uomo i compagni; ed ei dal vento

Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato.

Or tu costui congederai di botto;

Ché non morir dalla sua terra lunge,

Ma la patria bensì, gli amici e l'alto

Riveder suo palagio, è a lui destino".

Inorridì Calipso, e con alate

Parole rispondendo: "Ah, numi ingiusti,"

Sclamò, "che invidia non più intesa è questa,

Che se una dea con maritale amplesso

Si congiunge a un mortal, voi non soffrite?

Quando la tinta di rosato Aurora

Orïone rapì, voi, dèi, cui vita

Facile scorre, acre livor mordea,

Finché in Ortigia il rintracciò la casta

Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa

Morte il colpì con invisibil dardo.

E allor che venne, inanellata il crine,

Cerere a Giasïon tutta amorosa,

E nel maggese, che il pesante aratro

Tre volte aperto avea, se gli concesse,

Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise

Giasïon con la folgore affocata.

Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco

Mi vedete un eroe da me serbato,

Che solo stava in su i meschini avanzi

Della nave, che il telo igneo di Giove

Nel mare oscuro gli percosse e sciolse.

Io raccogliealo amica, io lo nutria

Gelosamente, io prometteagli eterni

Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni.

Ma quando troppo è ver che alcun di Giove

Precetto vïolare a un altro nume

Non lice, od obblïar, parta egli e solchi,

Se il comandò l'Egidarmato, i campi

Non seminati. Io nol rimando certo;

Ché navi a me non sono e non compagni,

Che del mare il carreggino sul tergo.

Ben sovverrógli di consiglio, e il modo

Gli additerò, che alla sua dolce terra

Su i perigliosi flutti ei giunga illeso".

"Ogni modo il rimanda," l'Argicida

Soggiunse, "e pensa che infiammarsi d'ira

Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno".

E sul fin di tai detti a lei si tolse.

L'augusta ninfa, del Saturnio udita

la severa imbasciata, il prode Ulisse

Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso

Del mar in su la sponda, ove le guance

Di lagrime rigava, e consumava

Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;

Ché della ninfa non pungealo amore:

E se le notti nella cava grotta

Con lei vogliosa non voglioso passa,

Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,

Su i lidi assiso e su i romiti scogli,

Con dolori, con gemiti con pianti

Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,

Lagrime spesse lagrimando, agguarda.

Calipso, illustre dea, standogli appresso:

"Sciagurato", gli disse, in questi pianti

"Più non mi dar, né consumare i dolci

Tuoi begli anni così: la dipartita,

Non che vietarti, agevolarti io penso.

Su via, le travi nella selva tronche,

Larga e con alti palchi a te congegna

Zattera, che sul mar fosco ti porti.

Io di candido pan, che l'importuna

Fame rintuzzi, io di purissim'onda,

E di rosso licor, gioia dell'alma,

La carcherò: ti vestirò non vili

Panni, e ti manderò da tergo un vento,

Che alle contrade tue ti spinga illeso,

Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,

Con cui di senno in prova io già non vegno".

Raccapricciossi a questo il non mai vinto

Dalle sventure Ulisse, e: "O dea", rispose

Con alate parole, "altro di fermo,

Non il congedo mio, tu volgi in mente,

Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi

Del difficile mar flutti tremendi,

Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi

Munite, e liete di quel vento amico

Che da Giove partì, varcano appena.

No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,

Non salirò, dove tu pria non degni

Giurare a me con giuramento grande,

Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce".

Sorrise l'Atlantìde, e, della mano

Divina carezzandolo, la lingua

Sciolse in tai voci: "Un cattivello sei,

Né ciò che per te fa, scordi giammai.

Quali parole mi parlasti! Or sappia

Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,

Che sotterra si volve, acqua di Stige,

Di cui né più solenne han, né più sacro

Gl'Iddii beati giuramento; sappia,

Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.

Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io

Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.

Giustizia regge la mia mente, e un'alma

Pietosa, non di ferro, in me s'annida".

Ciò detto, abbandonava il lido in fretta

E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,

Colà, ond'era l'Argicida sorto,

S'adagiò il Laerziade; e la dea molti

Davante gli mettea cibi e licori,

Quali ricever può petto mortale.

Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle

L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.

Come ambo paghi per la mensa furo,

Con tali accenti cominciava l'alta

Di Calipso beltade: "O di Laerte

Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,

Così tu parti adunque, e alla nativa

Terra e alle case de' tuoi padri vai?

Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.

Ma se tu scorger col pensier potessi

Per quanti affanni ti comanda il fato

Prima passar, che al patrio suolo arrivi

Questa casa con me sempre vorresti

Custodir, ne son certa, e immortal vita

Da Calipso accettar: benché sì viva

Brama t'accenda della tua consorte,

A cui giorno non è che non sospiri.

Pur non cedere a lei né di statura

Mi vanto, né di volto; umana donna

Mal può con una dea, né le s'addice,

Di persona giostrare, o di sembianza".

"Venerabile iddia", riprese il ricco

D'ingegni Ulisse, "non voler di questo

Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,

Che la saggia Penelope tu vinci

Di persona non men che di sembianza,

Giudice il guardo che ti stia di contra.

Ella nacque mortale; e in te né morte

Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;

Questo il desìo che mi tormenta sempre:

Veder quel giorno al fin, che alle dilette

Piagge del mio natal mi riconduca.

Che se alcun me percoterà de' numi

Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo

Forte contra i disastri anima in petto.

Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,

Già ne sostenni; e sosterronne ancora".

Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno

Si ritira<ro della cava grotta,

Più interno e oscuro, e in dolce sonno avvolti,

Tutte le cure lor mandaro in bando.

Ma come del mattin la figlia, l'alma

Dalle dita di rose Aurora apparve,

Tunica e manto alle sue membra Ulisse,

E Calipso alle sue larga ravvolse

Bella gonna, sottil, bianca di neve;

Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo

Sovra l'ôr crespo della chioma impose.

Né d'Ulisse a ordinar la dipartita

Tardava. Scure di temprato rame,

Grande, manesca e d'ambo i lati aguzza,

Con leggiadro, d'oliva, e bene attato

Manubrio, presentògli, e una polita

Vi aggiunse ascia lucente; indi all'estremo

Dell'isola il guidò, dove alte piante

Crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti,

Ciascun risecco di gran tempo e arsiccio,



Che gli sdruccioli agevole sull'onda.

Le altere piante gli additò col dito,

E alla sua grotta il pié torse la diva.

Egli a troncar cominciò il bosco: l'opra

Nelle man dell'eroe correa veloce;

Venti distese al suolo arbori interi,

Gli adeguò, li polì, l'un destramente

Con l'altro pareggiò. Calipso intanto

Recava seco gli appuntati succhi,

Ed ei forò le travi e insieme unille,

E con incastri assicurolle e chiovi.

Larghezza il tutto avea, quanta ne dánno

Di lata nave trafficante al fondo

Periti fabbri. Su le spesse travi

Combacianti tra sé lunghe stendea

Noderose assi, e il tavolato alzava.

L'albero con l'antenna ersevi ancora,

E costrusse il timon, che in ambo i lati

Armar gli piacque d'intrecciati salci

Contra il marino assalto, e molta selva

Gittò nel fondo per zavorra o stiva.

Le tue tele, o Calipso, in man gli andâro

E buona gli uscì pur di man la vela,

Cui le funi legò, legò le sarte,

La poggia e l'orza: al fin, possenti leve

Supposte, spinse il suo naviglio in mare,

Che il dì quarto splendea. La dea nel quinto

Congedollo dall'isola: odorate

Vesti gli cinse dopo un caldo bagno;

Due otri, l'un di rosseggiante vino,

Di limpid'acqua l'altro, e un zaino, in cui

Molte chiudeansi dilettose dapi,

Collocò nella barca; e fu suo dono

Un lenissimo ancor vento innocente,

Che mandò innanzi ad increspargli il mare.

Lieto l'eroe dell'innocente vento,

La vela dispiegò. Quindi al timone

Sedendo, il corso dirigea con arte,

Né gli cadea su le palpèbre il sonno

Mentre attento le Pleiadi mirava,

E il tardo a tramontar Boòte e l'Orsa

Che detta è pure il Carro, e là si gira,

Guardando sempre in Orïone, e sola

Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi

L'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca

Lasciar dovea, come la diva ingiunse.

Dieci pellegrinava e sette giorni

Su i campi d'Anfitrite. Il dì novello

Gli sorse incontro co' suoi monti ombrosi

L'isola de' Feaci, a cui la strada

Conducealo più corta, e che apparìa

Quasi uno scudo alle fosche onde sopra.

Sin dai monti di Solima lo scôrse

Veleggiar per le salse onde tranquille

Il possente Nettun, che ritornava

Dall'Etïopia, e nel profondo core

Più crucciato che mai squassando il capo:

"Poh!" disse dentro a sé, "nuovo decreto,

Mentr'io fui tra gli Etiopi, intorno a Ulisse

Fêr dunque i numi? Ei già la terra vede

De' Feáci, che il fato a lui per meta

Delle sue lunghe disventure assegna.

Pur molto, io credo, a tollerar gli resta".

Tacque; e, dato di piglio al gran tridente,

Le nubi radunò, sconvolse l'acque,

Tutte incitò di tutti i venti l'ire,

E la terra di nuvoli coverse;

Coverse il mar: notte di ciel giù scese.

S'avventaro sul mar, quasi in un groppo,

Ed Euro e Noto e il celebre Ponente

E Aquilon, che pruine aspre su l'ali

Reca, ed immensi flutti innalza e volve.

Discior sentissi le ginocchia e il core

Di Laerte il figliuol, che tal si dolse

Nel secreto dell'alma: "Ahi, me infelice!

Che di me sarà omai? Temo, non torni

Verace troppo della ninfa il detto,

Che al patrio nido io giungerei per mezzo

Delle fatiche solo e dell'angosce.

Di quai nuvole il ciel ampio inghirlanda

Giove, e il mar conturba? E come tutti

Fremono i venti? A certa morte io corro.

Oh tre fïate fortunati e quattro,

Cui perir fu concesso innanzi a Troia,

Per gli Atridi pugnando! E perché allora

Non caddi anch'io, che al morto Achille intorno

Tante i Troiani in me lance scagliaro?

Sepolto i Greci co' funèbri onori

M'avriano, e alzato ne' lor canti al cielo.

Or per via così infausta ir deggio a Dite".

Mentre così doleasi, un'onda grande

Venne d'alto con furia e urtò la barca,

E rigirolla; e lui, che andar lasciossi

Dalle mani il timon, fuori ne spinse.

Turbine orrendo d'aggruppati venti

L'albero al mezzo gli fiaccò; lontane

Vela ed antenne caddero. Ei gran tempo

Stette di sotto, mal potendo il capo

Levar dall'onde impetuose e grosse;

Ché le vesti gravavanlo, che in dono

Da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta

Dalla bocca gli uscìa, gli piovea molta

Dalla testa e dal crine onda salata.

Non però della zatta il prese obblìo:

Ma, da sé i flutti respingendo, ratto

L'apprese, e già di sopra, il fin di morte

Schivando, vi sedea. Rapìala il fiotto

Qua e là per lo golfo. A quella guisa

Che sovra i campi il tramontan d'autunno

Fascio trabalza d'annodate spine,

I venti trabalzavanla sul mare.

Or Noto da portare a Borea l'offre,

Ed or, perché davanti a sé la cacci,

Euro la cede d'occidente al vento.

La bella il vide dal tallon di perla

Figlia di Cadmo, Ino chiamata, al tempo

Che vivea tra i mortali: or nel mar gode

Divini onori, e Leucotèa si noma.

Compunta il cor per lui d'alta pietade,

S'alzò dell'onda fuor, qual mergo a volo,

E su le travi bene avvinte assisa,

Così gli favellò: "Perché, meschino,

S'accese mai con te d'ira sì acerba

Lo Scotitor della terrena mole,

Che ti semina i mali? Ah! non fia certo,

Ch'ei, per quanto il desìi, spenga i tuoi giorni.

Fa, poiché vista m'hai d'uomo non folle,

Ciò ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti,

Lascia il naviglio da portarsi ai venti,

E a nuoto cerca il Feacese lido,

Che per mèta de' guai t'assegna il fato.

Ma questa prendi; e la t'avvolgi al petto,

Fascia immortal, né temer morte o danno.

Tocco della Feacia il lido appena,

Spogliala, e in mar dal continente lungi

La gitta, e torci nel gittarla il volto".

Ciò detto, e a lui l'immortal fascia data,

Rïentrò, pur qual mergo in seno al fosco

Mare ondeggiante, che su lei si chiuse.

Pensoso resta e in forse il pazïente

Laerziade divino, e con se stesso,

Raddoppiando i sospir, tal si consiglia:

"Ohimé! che nuovo non mi tessa inganno

De' Sempiterni alcun, che dal mio legno

Partir m'ingiunge. Io così tosto penso

Non ubbidirgli; ché la terra, dove

Di scampo ei m'affidò, troppo è lontana.

Ma ecco quel che ottimo parmi: quanto

Congiunte rimarran tra lor le travi,

Non abbandonerolle, e co' disastri

Fermo io combatterò. Sciorralle il flutto?

Porrommi a nuoto, né veder so meglio".

Tai cose in sé volgea, quando Nettuno

Sollevò un'onda immensa, orrenda, grave,

Di monte in guisa, e la sospinse. Come

Disperse qua e là vanno le secche

Paglie, di cui sorgea gran mucchio in prima,

Se mai le investe un furïoso turbo,

le tavole per mar disperse andaro.

Sovra un sol trave a cavalcioni Ulisse

Montava: i panni che la dea Calipso

Dati gli avea, svestì, s'avvolse al petto

l'immortal benda, e si gittò ne' gorghi

Boccon, le braccia per nôtare aprendo.

Né già s'ascose dal ceruleo iddio,

Che, la testa crollando: "A questo modo

Erra", dicea tra sé "di flutto in flutto

Dopo tante sciagure, e a genti arriva



Da Giove amate: benché speme io porti

Che né tra quelle brillerài di gioia".

Così Nettuno; e della verde sferza

Toccò i cavalli alle leggiadre chiome,

Che il condussero ad Ega, ove gli splende

Nobile altezza di real palagio.

Pallade intanto, la prudente figlia

Di Giove, altro pensò. Fermò gli alati

Venti, e silenzio impose loro, e tutti

Gli avvinse di sopor, fuorché il veloce

Borea, che, da lei spinto, i vasti flutti

Dinanzi a Ulisse infranse ond'ei le rive

Del vago di remar popol Feace,

Pigliar potesse, ed ingannar la Parca.

Due giorni in cotal foggia, e tante notti

Per l'ampio golfo errava, e spesso il core

Morte gli presagìa. Ma quando l'Alba

Cinta la fronte di purpuree rose

Il dì terzo recò, tacquesi il vento,

E un tranquillo seren regnava intorno.

Ulisse allor, cui levò in alto un grosso

Flutto, la terra non lontana scôrse,

Forte aguzzando le bramose ciglia.

Quale appar dolce a un figliuol pio la vista

Del genitor, che su dolente letto

Scarno, smunto, distrutto, e da un maligno

Demone giacque lunghi dì percosso,

E poi del micidial morbo cortesi

Il disciolser gli dèi: tale ad Ulisse

La terra e il verde della selva apparve.

Quinci ei, nôtando, ambi movea di tutta

Sua forza i piedi a quella volta. Come

Presso ne fu, quanto d'uom corre un grido,

Fiero il colpì romor: poiché i ruttati

Sin dal fondo del mar flutti tremendi,

Che agli aspri si rompean lidi ronchiosi,

Strepitavan, mugghiavano, e di bianca

Spuma coprìan tutta la sponda, mentre

Porto capace di navigli, o seno

Non vi s'aprìa, ma littorali punte

Risaltavano in fuori, e scogli e sassi.

Le forze a tanto ed il coraggio Ulisse

Fallir si sente, e dice a sé, gemendo:

"Qual pro che Giove il disperato suolo

Mostri, e io m'abbia la via per l'onde aperta,

Se dell'uscirne fuor non veggio come?

Sporgon su l'onde acuti sassi, a cui

L'impetuoso flutto intorno freme,

E una rupe va su liscia e lucente:

Né così basso è il mar, che nell'arena

Fermare il pie' securamente io valga.

Quindi, s'io trar men voglio, un gran maroso

Sovra di sé può tormi, e in dura pietra

Cacciarmi; o s'io lungo le rupi cerco

Nôtando un porto, o una declìve schiena,

Temo, non procellosa onda m'avvolga,

E, sospirando gravemente, in grembo

Mi risospinga del pescoso mare.

Forse un de' mostri ancor, che molti nutre

Ne' gorghi suoi la nobile Anfitrite,

M'assalirà: ché l'odio io ben conobbi

Che m'ha quel dio, per cui la terra trema".

Stando egli in tai pensieri, una sconcia onda

Trasportollo con sé ver l'ineguale

Spiaggia, che lacerata in un sol punto

La pelle avrìagli, e sgretolate l'ossa,

Senza un consiglio che nel cor gli pose

L'occhicerulea diva. Afferrò ad ambe

Mani la rupe, in ch'ei già dava, e ad essa

Gemendo s'attenea. Deluso intanto

Gli passò su la testa il vïolento

Flutto: se non che poi, tornando indietro,

Con nuova furia il ripercosse, e lunge

Lo sbalzò della spiaggia al mare in grembo.

Polpo così dalla pietrosa tana

Strappato vien, salvo che a lui non pochi

Restan lapilli nelle branche infitti:

E Ulisse in vece la squarciata pelle

Delle nervose man lasciò alla rupe.

L'onde allora il copriro, e l'infelice

Contro il fato perìa: ma infuse a lui

Nuovo pensier l'Occhiazzurrina. Sorto

Dall'onde, il lido costeggiava, ai flutti

Che vel portavan contrastando, e attento

Mirando sempre, se da qualche parte

Scendesse una pendice, o un seno entrasse:

Né dall'opra cessò, che d'un bel fiume

Giunto si vide all'argentina foce.

Ottimo qui gli sembrò il loco al fine,

Siccome quel che né di sassi aspro era,

Né discoperto ai venti. Avvisò ratto

Il puro umor che devolveasi al mare,

E tal dentro di sé preghiera feo:

"O chiunque tu sii, re di quest'acque,

Odimi: a te, cui sospirai cotanto,

Gli sdegni di Nettuno e le minacce

Fuggendo, io m'appresento. È sacra cosa

Per gl'Immortali ancor l'uom, che d'altronde

Venga errando, com'io, che dopo molti

Durati affanni, ecco alla tua corrente

Giungo, e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse,

Che tuo supplice vedi, o re, ti prenda".

Disse, ed il nume acchetò il corso, e l'onda

Ritenne, sparsa una perfetta calma

E alla foce il salvò del suo bel fiume.

L'eroe, tocca la terra, ambo i ginocchi

Piegò, piegò le nerborute braccia:

Tanto il gran sale l'affliggeva. Gonfiava

Tutto quanto il suo corpo, e per la bocca

Molto mar gli sgorgava, e per le nari;

Ed ei senza respiro e senza voce

Giaceasi, e spento di vigore affatto:

Che troppa nel suo corpo entrò stanchezza.

Ma come il fiato ed il pensier rïebbe,

Tosto dal petto la divina benda

Sciolse, e gittolla ove amareggia il fiume.

La corrente rapivala, né tarda

A riprenderla fu con man la dea.

Ei dall'onda ritráttosi, chinossi

Su i molli giunchi, e baciò l'alma terra.

Poi nel secreto della sua grand'alma

Così parlava e sospirava insieme:

"Eterni dèi, che mi rimase ancora

Di periglioso a tollerar? Dov'io

Questa gravosa notte al fiume in riva

Vegghiassi, l'aer freddo e il molle guazzo

Potrian me di persona e d'alma infermo

Struggere al tutto, ché sui primi albori

Nemica brezza spirerà dal fiume.

Salirò al colle in vece, ed all'ombrosa

Selva, e m'addormirò tra i folti arbusti,

Sol che non vieti la fiacchezza o il ghiado,

Che il sonno in me passi furtivo? Preda

Diventar delle fere e pasto io temo".

Dopo molto dubbiar questo gli parve

Men reo partito. Si rivolse al bosco,

Che non lunge dall'acque a un poggio in cima

Fea di sé mostra, e s'internò tra due

Sì vicini arboscei, che dalla stessa

Radice uscir pareano, ambi d'ulivo,

Ma domestico l'un, l'altro selvaggio.

La forza non crollavali de' venti,

Né l'igneo Sole co' suoi raggi addentro

Li saettava, né le dense piogge

Penetravan tra lor; sì uniti insieme

Crebbero, e tanto s'intrecciaro i rami.

Ulisse sottentrovvi, e ammontichiossi

Di propria man comodo letto, quando

Tal ricchezza era qui di foglie sparse,

Che ripararvi uomini tre, non che uno,

Potuto avrìano ai più crudeli verni.

Gioì alla vista delle molte foglie

L'uom divino, e corcossi entro alle foglie,

E a sé di foglie sovrappose un monte.

Come se alcun, che solitaria suole

Condur la vita in sul confin d'un campo,

Tizzo nasconde fumeggiante ancora

Sotto la bruna cenere, e del foco,

Perché cercar da sé lungi nol debba,

Serba in tal modo il prezïoso seme:

Così celossi tra le foglie Ulisse.

Pallade allor che di sì rea fatica

Bramava torgli l'importuno senso,

Un sonno gli versò dolce negli occhi,

Le dilette palpèbre a lui velando.







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