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LE ATTIVITÀ INDUSTRIALI - LE BASI E LE FORME DELL'INDUSTRIA

geografia



le attività industriali


le basi e le forme dell'industria

Dall'artigianato all'industria moderna

Quasi tutte le materie prime possono essere utilizzate soltanto at­traverso la trasformazione in "semilavorati" e in "prodotti finiti": que­sti assumono un aumento di valore (il "valore aggiunto") come frutto della tecnica, deI capitale investito, del lavoro che vi si è incorporato. Per il processo lavorativo gli uomini usa­no strumenti perfezionati e mettono in piedi organizzazio­ni complesse. A differenza dell'artigianato, che ha limiti tecnici e dimensionali, l'industria implica sistemi che coinvolgono tutta l'organizzazione sociale: il ritmo della vita è cadenzato dai turni di lavoro con spostamenti in massa tra abitazione e fabbrica. L'industria presuppone intensi scambi sia a monte che a valle della fase produttiva e dà luogo a una serie di attività commerciali che evolvono in simbiosi con essa.



Nella preistoria ognuno fabbricava, nell'ambito della propria organizzazione familiare, gli oggetti di cui aveva bisogno. Più tardi alcuni uomini si specializzarono nella creazione di manufatti che poi scambiavano con prodotti alimentari: gli artigiani. Produzione e scambi mantennero dimensioni modeste fintantoché le tecniche si limitarono all'uso di strumenti manuali e della forza muscolare. L'invenzione di macchine adatte a moltiplicare le forze e ad utilizzare altri tipi di energia accelerarono il processo di sviluppo.

In Europa l'artigianato raggiuns 747f52h e l'apogeo nel Medioevo con le corporazioni di arti e mestieri. Le attività di trasformazione si svolgevano in semplici laboratori. Nonostante l'introduzione di alcune macchine e di nuove tecniche, tutto si presentava ad una scala modesta; il lavoro era caratterizzato da un'ampia dispersione geografica. Un altro sistema tradizionale di attività era quello delle corporazio­ni, cioè delle organizzazioni professionali di artigiani specializzati in un certo mestiere. Gli arti­giani delle corporazioni svolgevano il proprio lavoro a tempo pieno e vivevano in città.

Quando si fu esteso l'uso dell'energia idraulica per azionare le macchine tessili, il sistema di telai sparsi entrò in crisi: l'alto costo degli impianti e la possibilità di sfruttare una sola sorgente energetica per tutto un complesso di macchinari determinarono una prima concentrazione dell'attività produttiva nelle "manifatture". Tra il XVII e il XVIII secolo cominciarono ad apparire in Europa i primi abbozzi di fabbriche: all'attività individuale si sostituisce l'attività collettiva, e viene introdotta la divisione del lavoro poiché ogni unità operativa è specializzata in una particolare fase del ciclo di fabbricazione. Ma molte operazioni sono ancora fatte a mano.

L'introduzione della macchina a vapore, insieme al per­fezionamento delle macchine tessili e ad altre innovazioni tecniche, inaugura agli inizi del XIX secolo la prima rivoluzione industriale, basata sul carbonfossile. Il carbone diviene un'immensa fonte di energia e, potendo essere trasportato a distanza, libera dai vincoli di localizzazione imposti dall'uso della forza idraulica; permette di collocare apparati pro­duttivi anche nelle città. In questo modo cominciano a formarsi le "zone industriali", caratterizzate dall'affollamento di masse operaie attorno alle fabbriche.

La rivoluzione industriale è da porre tra gli avvenimenti che hanno dato una spinta decisiva all'affermazione del capitalismo e del sistema liberal-borghese. Essa ha impo­sto nuove forme di attività economica che hanno moltiplicato i mezzi di produzione e i beni di consumo; ha sconvolto le strutture sociali, ha segnato la nascita della classe operaia e l'affermazione della borghesia.

L'analisi delle condizioni che resero possibile sostituire il sistema della fabbrica al sistema artigianale di produzione aiuta a spiegare perché il processo abbia preso avvio in Inghilterra. Qui, a par­tire dal XVII secolo, una rivoluzione politico-sociale aveva favorito l'ascesa della borghesia, estendendo al censo il potere che prima appar­teneva alla nobiltà. Contemporaneamente nelle campagne si svolgeva un processo di privatizzazione capitalistica della terra attra­verso le leggi delle enclosures e la distruzione dell'openfield. Questo processo, da una parte aveva portato all'adozione di tecniche più progredite con un aumento della produttività e con una maggiore concentrazione di reddito nelle mani dei proprietari impren­ditori; d'altra parte aveva provocato la trasformazione dei contadini in salariati dipendenti dai grandi proprietari e disponibili al passaggio ad attività non agricole. Un secondo accumulo di capitali derivava dal commercio coloniale favorito dall'avere assicurati i rifornimenti di materie prime e i mercati di vendita dei manufatti.

La condizione preliminare dello sviluppo capitalistico, l'"accumulazione originaria", trovò nelle innovazioni tecniche la via maestra degli investimenti per una crescita rapida dei ritmi produttivi.

Lo sviluppo dell'industria manifatturiera è contrassegnato dalla specializzazione sia fra le unità locali, sia fra i reparti di uno stesso stabilimento. Si ottiene una produttività più elevata e si riduce il tempo richiesto ad ogni lavoratore per apprendere le cognizioni tecniche necessarie. Il passaggio da un'economia agricola ad un'economia industriale si differenzia in ragione delle caratteristiche geografiche e situazioni storico-sociaIi.

L'era paleotecnica basata sul carbone

La grande industria basata sul carbone manifestò subito una notevole concentrazione geografica in corrispondenza dei bacini carboniferi o dei porti fluviali e marittimi usati come scali dei carichi di carbone. Alla maggiore ca­pacità produttiva si accompagna un aumento dei capitali investiti nel­le zone più favorevoli, che attirarono masse di lavoratori dalle campagne: l'accelerazione dell'urbanesimo fu uno dei caratteri di questa era paleotecnica

L'apporto della siderurgia alla formazione del sistema industriale fu più tardo rispetto alla tessitura, e segna una nuova fase caratterizzata dal balzo in avanti dell'in­dustria metalmeccanica.

Nell'era delle ferrovie e della navigazione a vapore si intensificaro­no i rapporti commerciali; si affermò il principio che la prosperità economica dipendesse dal livello di industrializzazione. Lo sviluppo industriale fu accompagnato per tutto il XIX secolo da una fortissima concentrazione di uomini, oltreché da un grande incre­mento demografico.

In contrapposizione all'aristocrazia chiusa e conservatrice, la società borghese si mostrava aperta e dinamica secondo il principio indiscusso che il successo individuale sia il giusto risultato di un'accorta iniziativa e che coincida con il generale avanzamento della società nel suo insieme: il compito dello Stato rimarrebbe quello di garantire la libertà d'iniziati­va e di assicurare a questa le condizioni più favorevoli di sviluppo. Nella realtà, il successo della borghesia capitalistica comportava lo sfruttamento di una grande massa di lavoratori. All'ascesa di una ristretta classe di capitalisti imprenditori corrispose la formazione di un'immensa classe di operai salariati: l'operaio era assorbito dalla fabbrica e finiva col diventare un mero strumento di produzione in un meccanismo su cui non poteva esercitare alcun controllo.

L'era neotecnica nata dall'energia elettrica

L'era paleotecnica era nata dal carbonfossile. Il fatto che la macchina a vapore risultava tanto più economica quanto più era gros­sa, spinse gli imprenditori a concentrare gli operai in grandi fabbriche. E poiché si poteva ottenere un ulteriore risparmio tenendo costantemente le caldaie sotto pressione, fu ideato il ciclo continuo di lavoro con il sistema dei turni e la conseguente moltiplica­zione della manodopera impiegata. Questi fattori portarono alla nascita di vaste concentrazioni, specie in aree ricche di bacini carboniferi.

La fine del XIX secolo segna la seconda rivoluzione industriale ba­sata sull'utilizzazione dell'elettricità, che apre l'era neotecnica. L'elet­tricità è una nuova forma di energia facile da trasportare a grandi di­stanze, e perciò utilizzabile in industrie molto lontane dalle fonti ener­getiche. L'elettricità ha annullato uno dei più forti vincoli di loca­lizzazione delle industrie e ha permesso di generalizzare la divisione del lavoro e di impiantare industrie in funzione delle capacità imprenditoriali e della disponibilità di manodo­pera, cioè del binomio capitale-Iavoro.

Paesi poveri di carbone ma ricchi di fiumi hanno avviato un processo di industrializzazione uti­lizzando i salti d'acqua con turbine idrauliche per produrre energia idroelettrica. A loro volta il carbone e gli altri combustibili han­no conosciuto una crescente utilizzazione in apposite centrali per produrre energia termoelettrica

Nell'era neotecnica l'im­pegno a mantenere il passo del progresso tecnologico costrinse sia le imprese private sia quelle pubbliche a ricorrere al credito bancario. Un'importante via per il finanziamento di imprese indu­striali fu la nascita di società per azioni; successivamente, con lo sviluppo del mercato e del credito, prese corpo la tendenza alla coalizione tra ditte diverse (trust) o ad accordi commerciali tra ditte dello stesso ramo (cartello), allo scopo di eliminare la concorrenza.

Il capitale finanziario, basato sulla compenetrazione tra ban­che e industrie, allargò il raggio di investimenti e di profitti anche all'estero, indirizzandosi verso i paesi economicamente arretrati. In questi paesi i bassi salari e la larga disponibilità di materie prime erano condizioni favorevoli ad elevati profitti per le imprese; la protezione politica e militare della madrepatria erano una copertura e una garanzia contro eventuali rischi.

Le condizioni create dal capitalismo monopolistico portaro­no le imprese a razionalizzare lo sfruttamento del lavoro mediante la regolamentazione del ritmo operativo e la compartimentazione delle fasi di produzione. Ogni reparto produce un pezzo determinato in migliaia di esem­plari identici; per ottenere il prodotto finito i diversi pezzi vengono "assemblati" nello stesso ordine, lungo il percorso della cate­na di montaggio. Con l'avvento dell'organizzazione scientifica del lavoro, chiamata fordismo perché propugnata da Henry Ford, il processo pro­duttivo si segmenta ulteriormente e il lavoro intellettuale si separa da quello manuale non solo in termini funzionali ma anche topograficamente.

Per diminuire i costi, si mira a limitare il numero dei modelli e a fabbricare un enorme numero di esemplari di uno stesso tipo (standard). I più recenti progressi tecnici derivano dai procedimenti di automazione.

Nei paesi industriali sopravvivono alcune forme di artigianato: questi articoli vengono prodot­ti in esemplari singoli e sono molto costosi. Nei paesi sottosviluppati l'artigianato rappresenta una par­te notevole della produzione manifatturiera.

Le moderne strutture industriali

L'industria rispecchia il continuo evolversi delle tecniche e delle strutture. La rivoluzione industriale s'incentra oggi sul progresso dell'elettronica e sulla utilizzazione di fonti energetiche alternative. Il rinnovamento è il risultato della convergenza di due forze: la spinta delle scoperte scientifiche e la domanda del mercato. Le innovazioni vengono applicate a prodotti di serie che sostituiscono vantaggiosamente i si­milari prodotti del passato.

Il mercato può domandare una grande quantità di un certo pro­dotto, o inversamente trovarsi saturo. Da siffatti condizionamenti na­scono periodi di fortuna e periodi di crisi delle varie branche indu­striali. Si chiama "strutturale" la crisi di lungo periodo legata alle condizioni tecniche di fabbricazione e di smercio di un prodotto; per "crisi congiunturale" s'intende quella di breve periodo dovuta a cause contingenti.



Si possono fare differenti classificazioni delle industrie a seconda degli elementi assunti come distintivi. In genere le statistiche ufficiali adottano una classificazione merceologica, cioè in base ai prodotti.

L'industria estrattiva, che riguarda l'estrazione dei minerali non è propriamente un'attività di trasformazione come le altre industrie, ma un'attività primaria come l'agricoltura.

La metallurgia ottiene i metalli dai minerali metalliferi e procede ad un'iniziale trasformazione; in particolare la si­derurgia riguarda la produzione di ferro, ghisa, acciaio. Questi semilavorati verranno successivamente trasfor­mati dall'industria meccanica in prodotti finiti.

L'industria chimica trasforma materie prime del suolo, dell'aria, delle foreste, del sottosuolo. Ne fanno parte i derivati dal carbone e dal petrolio e le produzioni "leggere" di medicinali e di profumi. Alle  industrie tessili si accompa­gnano le confezioni. Altri raggruppamenti sono le industrie di pelli, cuoio e calzature e le industrie del legno e del mobilio. Le indu­strie alimentari abbracciano la gamma delle lavorazioni dei prodotti della terra.

È quasi ovvia la distinzione tra grande e piccola industria: dei pos­sibili parametri di giudizio il più significativo è il numero dei dipendenti.

Sul piano funzionale, si dicono industrie di base quelle alla base della piramide di passaggi dalle materie prime ai prodotti finiti. Esse comprendono la fase iniziale di lavorazione fino allo stadio dei "semilavorati". Si parla anche di industrie pesanti con riferimento al grande peso della materia grezza in rapporto alla relativa pochezza del valore intrinseco.

Le industrie di beni strumentali, partendo dai semilavorati, produ­cono macchine utensili che servono da strumenti per fabbricare altre macchine.

Le industrie di beni di consumo costituiscono il vertice della pira­mide di passaggi: producono oggetti finiti, destinati alla diretta utilizzazione. Si chiamano anche industrie leggere in quanto trattano materiali già semilavorati, depurati dalle scorie e quin­di meno pesanti. Queste sono le industrie più differenziate ed occupano una manodopera numerosa e qualificata.

La cellula di base sia sul piano geografico che su quello funzionale è lo stabilimento: corrisponde all'unità locale definita come "l'impianto situato in un dato luo­go in cui si svolgono una o più attività economiche". Lo stabilimento può appartenere a un unico proprietario; ciò accade per unità di non grandi dimensioni e con un limitato investimento di ca­pitali.

Nel quadro della grande industria, una stessa impresa può posse­dere diversi stabilimenti, spesso complementari tra loro riguardo al cielo di lavorazione. Poiché il capitale necessario eccede le possibilità dell'imprenditore singolo, i finanziamenti vengono attinti attraverso la costituzione di società per azioni.

Negli Stati del "mondo occidentale" le società sono per la maggior parte a capitale privato; tuttavia alcuni governi hanno proceduto alla nazionalizzazione delle industrie-chiave e hanno assunto il controllo di altre industrie attraverso forme di partecipazione azionar­ia.

Un altro elemento strutturale dell'industria è il patrimonio tecnico. DaI meto­do di lavorazione dipendono certe proliferazioni di fabbriche di accessori attorno a grosse industrie meccaniche, o anche di industrie che riutilizzano i sottoprodotti di altre: è questa l'integrazione tecnica

Crescente peso va assumendo l'organizzazione aziendale, cioè la programmazione dei compiti delle diverse fabbriche di una stessa ditta o dei diversi reparti di una stessa fabbrica. La gestione si è modernizzata attraverso l'informatica.

La concentrazione è uno dei caratteri tipici della grande industria moderna: essa mira ad abbassare i costi per far crescere il margine di guadagno e per conquistare il mercato. Una ditta può contenere i costi realizzando nei suoi stabilimenti il ciclo completo di lavorazione dalla materia prima al prodotto finito: si tratta di integrazione verticale. La concentrazione orizzontale abbraccia una pluralità di "marche" tutte interessate allo stesso tipo di produzione.

Il nome di trust sta ad indicare una concentrazione di imprese sot­to la medesima direzione. Oggi la forma dominante non è più la concentrazione di logica industriale, ma la concentrazione di logica finanziaria - la hol­ding - che dirige un gruppo di aziende, delle quali possiede un pacchetto di azioni bastante per poterle "controllare".

Bisogna distinguere la concentrazione di produzione, che ha radici tecniche, dalla concentrazione di potere, che ha radici finanziarie.

Un ultimo tipo di concentrazione è il cartello, raggruppamento di diverse imprese similari che si accordano per una politica comune, specie nella fissazione dei prezzi.

Nei sistemi economici di stampo capitalistico, la concentrazione industriale deriva dall'azione congiunta del progresso tecnico e della concorrenza commerciale a vantaggio delle società private.


la localizzazione industriale

Ordinamento spaziale dell'industria

Lo spazio industriale è discontinuo, ed è sempre connesso ad una rete di relazioni a diverse scale: la scala locale o regionale è quella dei le­gami tecnici e dell'organiz­zazione dei servizi per il movimento delle merci e per il reclutamento della manodopera; la scala nazionale è quella delle relazioni funzionali; la scala intercontinentale è quella dei grandi mercati delle materie prime, delle società multina­zionali, della concorrenza al più alto livello.

Il passaggio dall'economia agricola all'economia industriale ha comportato una nuova organizzazione dello spazio. Nei paesi più avan­zati, grandi regioni industriali coincidono con grandi aree urbanizzate: le industrie attirano popolazione, innescano un processo di ur­banizzazione; le città, a loro volta, attirano gli impianti industriali per­ché sono serbatoi di manodopera e mercati di consumo.

La storia degli insediamenti industriali manifesta nel XIX secolo una localizzazione dovuta alle scelte di imprenditori borghesi che ap­plicavano nuove tecniche partendo dalla presenza di fonti di energia e dal possesso di materie prime. Oggi gli interessi delle industrie mirano ad orizzonti planetari: è su scala mondiale che si collocano i problemi della concorrenza tecni­ca, della redditività e del profitto d'impresa. È sempre più difficile per un solo paese mobilitare all'occorrenza quantità sufficien­ti di prodotti per tutti i rami industriali. La complementarietà sono la regola in tutti i campi.

A scala mondiale la distribuzione delle industrie manifesta un net­to contrasto tra i "paesi industriali" e i paesi in via di sviluppo, dove l'industria ha an­cora un carattere embrionale e frammentario. Tale contrasto è con­nesso in primo luogo all'enorme squilibrio nella ripartizione dell'energ­ia e delle industrie di base. Al momento attuale la dinamica dell'industria mondiale tende ad accentuare gli squilibri: il ritmo di crescita è più rapido nei paesi sviluppati che non in quelli "emergenti". I sette paesi "capitalisti" più industrializzati forniscono da soli il 60% della produzione industriale del mondo.

Sul piano regionale e locale lo spazio organizzato dell'industria si definisce per mezzo delle infrastrutture, che permettono il funzionamento degli impianti. In primo luogo si collocano i mezzi di produzione, le fonti di energia e le materie prime. Le vie di cir­colazione nelle regioni a forte concentrazione d'industrie occupano aree molto estese. Intervengono le rela­zioni con i serbatoi di manodopera, in particolare i collegamenti quo­tidiani tra il luogo di lavoro e il luogo di residenza.

La teoria di Weber sulla localizzazione delle industrie

La teoria più accreditata nel campo della localizzazione delle indu­strie è quella elaborata dall'economista tedesco Alfred Weber. La problematica neopositivista conferisce alla teoria il ruolo esplicativo e affida all'osservazione il compito di corroborare o rigettare le ipotesi avanzate dalla teoria. Weber si sofferma sul ruolo del costo di trasporto, che è una delle componenti più rilevanti del costo complessivo di produzione e rap­presenta un ruolo particolarmente geografico in quanto è commisura­to alla distanza.

La teoria di Weber si fonda sull'idea che per massimizzare l'utile bisogna minimizzare i costi di trasporto: pertanto il luogo ottimale di una fabbrica è il punto in cui la somma dei costi di trasporto (delle materie prime e del prodotto finito) risulti la più piccola possibile.

Si parte dalla distinzione dei ma­teriali impiegati nel processo produttivo in due categorie: ubiquitari, cioè distribuiti ovunque e quindi ininfluenti sul costo di trasporto; ubicati, cioè distribuiti in un certo numero di luo­ghi. Gli stessi materiali possono essere puri se sono già rifiniti e non destinati a perdere peso durante il processo produttivo; lordi se perdono parte del loro peso nel corso della lavorazione. Se una fabbrica svolge un'attività a forte perdita di materia durante il processo di produzione, la sua localizzazione verrà attirata in vicinanza delle materie prime che pesano di più. Se l'attività impiega in gran parte materiali ubiquitari la localizzazione penderà verso il mercato del prodotto finale.

In una rappresentazione grafica (triangolo di Weber), dati su un piano i vertici A e B nei quali si trovano le materie prime e le fonti di energia, e il vertice C in cui si trova il mercato dei pro­dotti finiti, si ottiene il triangolo di localizzazione: la posizione ottimale della fabbrica sarà quel punto del piano in cui la somma dei prodotti delle distanze della fabbrica dai tre vertici per i pesi applicati agli stessi, vertici è la minima possibile.



La teoria di Weber ha aperto la strada agli studi sulla localizzazione industriale e continua ad essere un punto di riferimento anche per­ché il costo di trasporto costituisce sempre un onere decisivo.

Assumendo come principio logico che ogni impresa manifatturie­ra, in ragione dei propri caratteri produttivi e dei legami funzionali con il sistema economico, ricerchi una localizzazione che massimizzi i vantaggi e minimizzi i costi, si distinguono i seguenti tipi d'industrie:

Industrie orientate verso le materie prime. Poiché il costo di tra­sporto per certe materie prime è molto oneroso, le industrie di base che utilizzano una grande quantità di materie prime tendono a localizzarsi presso i giacimenti o nei luoghi d'arrivo dei materiali importati.

Industrie orientate verso le fonti d'energia. Le imprese grandi consumatrici d'energia tendono a localizzarsi nei pressi delle fonti energetiche.

Industrie orientate verso il mercato dei prodotto. Rientrano in questa categoria le imprese produttrici di beni di consumo finali e quelle che forniscono semilavorati destinati ad entrare nel ciclo pro­duttivo di altre imprese.

Industrie orientate verso il mercato del lavoro. Si tratta di impre­se che privilegiano la localizzazione in città fornitrici di manodopera abbondante e abbastan­za qualificata.

Successivamente Weber modificò lo schema originario per tener conto dell'attrazione della manodopera e del costo del lavoro. Tra le isodapane, cioè le curve congiungenti tutti i punti in cui sono uguali i costi di trasporto, vi è un'"isodapana critica" in corrispon­denza della quale l'aumento del costo di trasporto è compensato dal risparmio sul costo del lavoro. Weber introdusse un terzo elemento, l'agglomerazione: le strut­ture avanzate possono condizionare lo schema di localizzazione atti­rando il punto ottimale verso aree di concentrazione e attuando un'economia di agglomerazione. La teoria di Weber dimostra che le fabbriche hanno tendenza a collocarsi presso le fonti di materie prime quando queste sono molto pesanti e quando si riducono di peso durante il passaggio a prodotti finiti; al contrario sono sposta­te verso il mercato quando anche il prodotto finito è pesante; la manodopera attrae le industrie che incorporano nel manufatto molto lavoro. Le economie di scala sono capaci di rovesciare la situazione: i grossi trasporti per una grande fabbrica vanno meglio che una somma di costi unitari più bassi per piccole unità operative in cui la scala di produzione è inadeguata.

Fattori classici di localizzazione industriale

A livello regionale due ordini di cau­se presiedono alla localizzazione delle industrie: il primo è legato alle esigenze tecniche dei processi produttivi; il secondo muove dallo svi­luppo storico e interferisce sul valore degli stessi fattori tecnici.

Un tempo il principio fondamentale voleva che le industrie di base fossero localizzate il più vicino possibile ai luoghi di estrazione delle materie prime, per il risparmio sulle spese di trasporto. Sui grandi bacini carboniferi si sono formate le maggiori concentrazioni industriali del mondo; in secondo luogo presso i porti marittimi o lun­go i fiumi e i canali navigabili.

Per quanto concerne i minerali di ferro, il trasporto risulta tanto più gravoso quanto più basso è il "tenore" (percentuale di contenuto metallico). Le industrie siderurgiche si localizzano presso le miniere di ferro, ma solitamente è il minerale di ferro ad essere avviato alle zone carbonifere. I minerali metallici non ferrosi subiscono una prima raffinazione presso la miniera. Quando le raffinazioni richiedono molta energia elettrica tendono a localizzarsi presso le cen­trali idroelettriche.

A tutti i porti commerciali sono abbinate grosse industrie di trasformazione. L'acqua, oltreché per i trasporti, è un importante fattore di localizzazione industriale come ingrediente in vari processi produttivi.

Influiscono sulla localizzazione delle industrie non pochi fattori "umani": occorre lo spirito d'iniziativa e una manodopera sufficiente come numero e come abilità.

Con la diversificazione dei settori industriali è nata la necessità di poter disporre di una manodopera qualificata, adatta alle ricon­versioni tecniche. Questa manodopera la si è trovata nella grande cit­tà: i grandi agglomerati urbani sono poli d'attrazione delle industrie; tale attrazione viene rinforzata dal fatto che ogni città, con la sua massa di consumatori, rappresenta un mercato di assorbimento dei prodotti e offre una rete di infrastrutture già in esercizio. L'ambiente urbano si presta come luogo di gestione dei capitali: possono contare anch'essi come fattori di localizzazione.

I fattori favorevoli si possono ricondurre a tre tipi di localizzazione:

nascita d'industrie pesanti sui giacimenti di carbone o su vie d'acqua idonee al trasporto delle materie prime ponderose;

sviluppo di industrie leggere in aree di forte concentrazione de­mografica già interessate da una tradizione di attività artigianali;

addensamento di industrie legate al mercato di vendita delle grandi città e alla manodopera urbana con qualifiche differenziate.

Nuovi paradigmi di localizzazione

L'industrializzazione dei paesi ad economia liberale è avanzata attraverso fitte reti di comunicazioni, fondate sul sistema della complementarietà economica: ne è nato un sistema mondiale di relazioni marittime a vasto raggio con porti di spedizione, porti di appoggio e porti di arrivo nelle mani dei paesi capitalisti rappresentati da grandi compagnie speculative.

Il periodo tra la "grande crisi" e la seconda guerra mondiale ha rimesso tutto in discussione. Sono emerse nuove strutture industriali differenziate, tese a costituire cicli completi nei paesi poveri di carbo­ne. Due fatti sono all'origine della nuova svolta: l'impiego dell'elettrici­tà e la crescente utilizzazione degli idrocarburi. La forza idraulica tra­sformata in corrente trasportabile a grandi distanze colma il distacco iniziale rispetto ai paesi deI carbone e colloca l'industria in un contesto spaziale nuovo. L'utilizzazione degli idrocarburi costi­tuisce un ulteriore apporto di risorse naturali, esterne alle prime zone industriali carbonifere; gli idrocarburi hanno svolto un ruo­lo d'appoggio e di trasformazione delle tecniche produttive nelle vec­chie regioni carbonifere, ma soprattutto hanno permesso ai paesi privi di carbone di portare avanti la loro rivoluzione industriale.

Un fatto che si propone oggi come capace di profonde conseguenze è l'introduzione dell'energia atomica per usi pacifici.

Si viene elaborando una nuova geografia dello spazio industriale. Le odierne tecniche di trasporto possono rendere uguali molte posizioni geogra­fiche, al punto che la scelta dipende sempre meno dai vecchi paradigmi. Per le industrie ad alta tecnologia fattori come i trasporti pesa­no assai meno e intervengono solo in piccola misura in confronto al costo effettivo dei materiali e della manodopera. Se s'addensano fabbriche nelle classiche regioni industriali è perché possono beneficia­re delle infrastrutture già acquisite: fattore di localizzazione è la preesi­stenza di vecchie fabbriche (economia di agglomerazione).

Nei distretti siderurgici lo sviluppo industriale, dopo l'esaurimento delle miniere che l'avevano animato, ha potuto proseguire la sua marcia sull'inizio traente delle lavorazioni metalmeccani­che alimentate con minerali e semilavorati d'importazione. Invece l'estrazione dei minerali non ferrosi non dà luogo a una solida continuità: esau­riti i filoni, gli insediamenti industriali decadono o scom­paiono.

DaI momento che il ruolo della manodopera risulta più importante di quello dei mate­riali, le attrezzature scientifiche e socio-culturali prendono il soprav­vento sulle condizioni di trasporto e di uso della materia.

Il processo di localizzazione industriale avanza con un certo grado d'inerzia nel senso che le aree nelle quali si sono sviluppate le prime iniziative industriali hanno continuato ad attrarre successivi interven­ti. La concentrazione di industrie determina l'addensarsi di infrastrutture che nel loro insieme costi­tuiscono un vantaggio e un'attrattiva per nuove fabbriche.

All'interno della singola impresa, la riduzione dei costi di produzione può realizzarsi attraverso la standardizzazione e la produzione di massa (economie interne di scala

L'intensificarsi delle relazioni tra più imprese localizzate in una stessa area produce vantaggiose economie di agglomerazione: la singola impresa, inserita in un'agglomerazione già attiva, usufruisce di condi­zioni favorevoli. Agglomerandosi, le imprese possono realizzare risparmi o eco­nomie esterne di scala: diviene conveniente per un'azienda affidare un segmento deI ciclo produttivo ad altra azienda per una sua particolare specializzazione e quindi un minore costo di produzione.

Entrano in gioco gli effetti molti­plicatori, il ruolo delle economie esterne e l'impatto delle "industrie indotte"; si generano ordinamenti spaziali coagulativi mentre resta in po­sizione subordinata la diffusione industriale intesa come dispersione delle fabbriche in ambiente rurale e in piccoli centri.

Nel contesto di uno sviluppo industriale basato su impianti di grandi dimensioni, si è venuta elaborando la teoria del polo industriale, detta anche del polo di sviluppo. Il cuore deI sistema è l'industria mo­trice, cioè quelle attività manifatturiere che esercitano una funzione trainante per la città e per il territorio che gravita su di essa. Tre sono le caratteristiche di questo tipo d'industria: possiede grandi dimensio­ni occupazionali e produttive; è animata da un elevato dinamismo tec­nologico, sicché esercita una funzione di punta nell'innovazione deI settore cui appartiene; anima una grande mole di attività indotte.



Decentramento, processi diffusivi, politiche di riequilibrio

Un accumulo indiscriminato di fabbriche può ingenerare situazio­ni difficili a causa dell'eccessiva congestione.

L'elevata concentrazione determina congestione deI traffico, perdita di efficienza dei servizi, condizioni negative a causa dell'inqui­namento. La competizione tra le imprese per accaparrarsi le posizioni migliori fa crescere il prezzo deI suolo; il vantaggio di un mercato del lavoro ampio e flessibile nelle aree urbane si accompagna a una crescita dei livelli salariali che si traduce in costi crescenti per le imprese.

L'industria moderna tende verso forme spinte di automazione so­stituendo ai vecchi impianti macchine telecomandate elettronicamen­te, che richiedono soltanto operazioni di controllo e manutenzione. Lo scenario finale deI processo tecnologico è la fabbrica senza operai, il cui funzionamento è assi­curato da un ristretto numero di tecnici. La classificazione della ma­nodopera ne risulta cambiata: il lavoro a livello di of­ficina è sostituito dalle macchine automatiche e il lavoro amministra­tivo è sostenuto dall'informatica. Il criterio che orienta la localizza­zione degli stabilimenti produttivi è quello deI decentramento, che permette di liberarsi dalle costrizioni imposte dal prezzo dei suoli. Nonostante la facilità con cui circola l'informazione, resta dominante il concentramento delle attività di ricerca e direzione: si stabilisce una gerarchia tra i centri direttivi e i luoghi decentrati.

L'eccesso di concentrazione delle fabbriche trasforma i vantaggi agglomerativi in diseconomie, che danno origine alla ricerca di nuove localizzazioni esterne alle aree industriali troppo congestiona­te: si innescano diversi tipi di processi di deglomerazione.

Decentramento territoriale (o rilocalizzazione). Le imprese spo­stano la sede della propria attività produttiva dalle tradizionali aree urbane alle zone circostanti. Se il decentramento avviene nelle "cinture" periferiche, dove i suoli edificabi­li hanno costi inferiori, si parla di suburbanizzazione. Le imprese raggiungono il duplice scopo di avere costi meno elevati e di conservare i vantaggi derivanti dalla prossimità al vecchio centro urbano, dove rimangono localizzate le funzioni mena consumatrici di spazio. Il decentramento territoriale può sfociare in una rilocalizzazione a vasto raggio verso aree esterne all'agglomerazione originaria, verso piccoli centri o aree peri­feriche non ancora urbanizzate.

Decentramento produttivo. Le imprese decentrano parte della produzione verso imprese di più modeste dimensioni non necessariamente localizzate nella stessa area geografica. Il decentramento produttivo porta alla formazione di una rete d'imprese di piccola o media dimensione ­anche all'esterno delle aree metropolitane.

Formazione di sistemi industriali periferici. È una conse­guenza dei processi di decentramento, ma è anche il frutto di uno sviluppo industriale nel quadro dell'economia e dell'orga­nizzazione territoriale "periferica".

"Decentrare" significa liberare gli insediamenti industriali dagli imperativi tecnologici ed economici deI passato per alleggerire i carichi che pesano sui costi di produzione e sulla qualità della vita.

Le agglomerazioni industriali più dinamiche esercitano una forte attrazione di lavoratori da territori anche lontani, ridu­cendo in questi la capacità di futuro sviluppo. La tendenza di alcune regioni verso la crescita e di altre verso il declino è da inquadrare nel paradigma centro-periferia. Le aree centrali eserciterebbe­ro nei confronti della periferia funzioni di controllo e di dominanza. La capacità di creare innovazione all'interno delle aree centrali crea nuovi valori che, assieme all'accumulazione di capitale fisso, conferiscono ai gruppi centrali domi­nanti vantaggi che rafforza­no ulteriormente il rapporto di autorità-dipendenza nei confronti della periferia.

Il decentramento e la diffusione industriale producono squilibri nei livelli di sviluppo. A scala interregionale vengono a coesistere, all'interno di uno stesso siste­ma economico, aree industrializzate (regioni forti) e aree arretrate (re­gioni deboli). Con la politica di piano i poteri pubblici s'impegnano a correggere gli squilibri territo­riali dello sviluppo e interferiscono sulla localizzazione selettiva, ispira­ta alle leggi deI profitto privato, favorendo la formazione di processi agglomerativi attraverso la creazione di incentivi per fabbri­che da impiantare in preordinati "poli di sviluppo", o in quelle "regioni industriali".

Forme di intervento indiretto deI potere pubblico possono essere: la predisposizione di infrastrutture adatte a rendere la regione attrattiva per l'industria; l'offerta di agevolazioni fiscali e finanziamenti alle imprese; interventi a favore della manodopera. L'intervento diretto può consistere nella creazione di imprese industriali di proprietà pubblica.

Le economie industriali contemporanee sono contras­segnate dalla crescente interazione fra la struttura produttiva e la struttura scientifica. L'interazione denota un orientamento verso la ricerca applicata e verso la trasforma­zione della conoscenza in capacità di produzione e di innovazione.


paesaggi industriali

L'innesto delle fabbriche nel territorio

Le prime manifatture e i laboratori artigianali non incidevano sul territorio: le industrie premoderne non ave­vano una forza tale da modellare il paesaggio.

La rivoluzione industriale ha creato una situazione nuova: ha ge­nerato installazioni vistose che aggrediscono il paesaggio, ha trasfor­mato radicalmente i modi di vita. L'industria moderna tende ad espandersi rapidamente, determinando la nascita di concentrazioni urbane che portano con sé l'inquinamento atmosferico e idrico.

La forte capacità espansiva nasce dal fatto che l'industria può accrescere in tempi brevi sia la quantità che la varietà dei prodotti.

La superficie investita dalle industrie rimane sempre una piccolissima porzione delle terre emerse; ma se l'allar­me è eccessivo per l'insieme delle terre emerse, è assai serio per non poche regioni industrializzate, dove impianti e sovrastrutture compromettono le condizioni abitative e i valori ambientali.

L'innesto delle fabbriche può apparire come un problema marginale nello studio dei paesaggi urbani. Tuttavia nella maggior parte dei casi le fabbriche hanno a che fare con gli agglomerati urbani; spesso, è l'industria stessa a creare la città.

Nei paesi sviluppati l'industria non soltanto ha plasmato nuovi paesaggi, ma ha suscitato un mutamento globale dell'economia e della società, così come dei modi di vita. Nei paesi sottosviluppati, la creazione di un certo numero di fabbriche coesiste con la sopravvivenza di una civiltà preindustriale.

l paesi progrediti dispongono di grandi regioni industriali e di "complessi integrati". L'Europa e gli Stati Uniti dispongono di centri contraddistinti da un'attività prevalente o da molteplici attività inte­grate, ma anche di vaste regioni industrializzate con imponenti con­centrazioni umane. l paesi emergenti presentano un tipo ben diverso di distribuzione delle industrie.

Paesaggi e distretti industriali

Carattere specifico dell'industria è la sua indipendenza dai ritmi stagionali; le fluttuazioni del lavoro industriale essenzialmente da fattori economici.

Un altro carattere dello stacco dell'economia industriale rispetto a quella agricola è la straordinaria mobilità nello spazio con notevoli riflessi in campo geografico.

Gli apparati industriali occupano uno spazio ristretto; ma se l'industria si connette alla superficie terrestre soltanto nei punti in cui gli stabilimenti aderiscono al suolo, in realtà i suoi rapporti col paesaggio sono molto più complessi. La più intensa occupazione di manodopera fa incrementare il tessuto abitati­vo; in secondo luogo le infra­strutture dell'attività industriale occupano spazi più estesi delle stesse fabbriche.

Non è soltanto il paesaggio percettibile ad essere plasmato dall'industria: tutta la vita della comunità è cadenzata sul suo ritmo e la società manifesta una differenziazione e un dinamismo ignoti al mondo agricolo.

Nel quadro dei continenti l'industria arriva a valorizzare aree che prima erano agli estremi margini o al di fuori dell'ecumene. Questi casi rappresentano i tipi più semplici di paesaggi industriali: gli stabilimenti isolati in vicinanza della materia grezza per una prima raffinazione di prodotti pondero­si.

Il centro industriale aggrega imprese di uno o più rami d'industrie e si colloca in una situazione di disponibilità di manodopera sul po­sto. Se all'origine c'è un'attività particolare, si forma un centro specializzato, che utilizza una sola categoria di materie prime. L'industria urbana prende vigore dal dinamismo della città: serbatoio di manodopera, mercato di consumo, fonte di capitali e di iniziative.

La concentrazione geografica di diverse industrie interdipendenti tra loro è alla base deI distretto industriale. Alla concentrazione degli apparati produttivi corrisponde l'imponente massa di manodopera impiegata, il forte investimento di capitali, l'elevato peso della produ­zione.

I paesaggi industriali non dipendono soltanto dalla natura delle industrie e dall'attitudine di queste a integrarsi nella città o a starne fuori: essi sono legati anche alle diverse generazioni di fabbriche.






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