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La disciplina normativa del collocamento, il "sistema istituzionale-normativo predisposto per lo svolgimento dell'intermediazione fra domanda e offerta di lavoro, in vista della collocazione o assunzione della manodopera"[1], nucleo centrale ed essenziale dell'intervento pubblico sul mercato del lavoro, ha ancora oggi come base la l. 29 aprile 1949, n°264 ("Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati") . Tale legge, che mira a regolare il complesso sistema dell'incontro della domanda e dell'offerta sul mercato del lavoro, riproduce largamente la precedente disciplina emanata nel periodo corporativo (R.D.L. 21 dicembre 1938, n°1934 che aveva sostituito il R.D.L. 29 marzo 1928, n°1003), durante il quale la funzione del collocamento era svolta dai sindacati corporativi, soggetti di diritto pubblico.
Caratteristica fondamentale della normativa introdotta durante il periodo fascista era costituita dal principio del monopolio pubblico del collocamento, principio ribadito dalla legge n°264 e rimasto inalterato per quasi cinquant'anni[3].
Il collocamento è qualificato funzione pubblica, esercitata dallo Stato tramite gli uffici del lavoro e della massima occupazione: lo Stato, quindi, riserva a se stesso la funzione di mediazione fra la domanda e l'offerta di lavoro, sancendo così il divieto di mediazione da parte di soggetti privati o da parte di enti pubblici diversi dallo Stato medesimo e provvedendo ad assistere tale divieto con una sanzione penale (artt. 11, comma 1°, e 27, comma 1°).
Si tratta di una scelta che, al momento in cui la legge fu emanata, si presentava come tutt'altro che scontata.
Nel gennaio del 1945, durante il primo congresso della C.G.I.L. svoltosi a Napoli, Di Vittorio definiva il collocamento come "naturale funzione del sindacato"[4], collocando la questione del nuovo assetto da dare al collocamento della manodopera in Italia fra le questioni di maggiore rilevanza per il movimento sindacale. Del resto nel periodo prefascista la funzione del collocamento era stata una delle più importanti fra quelle svolte dalle Camere del lavoro .
Sino alla conclusione del primo conflitto mondiale era mancato, da parte del pubblico potere, un qualsiasi tipo di intervento su un mercato del lavoro che presentava fortissimi sintomi di alterazione. Benché sin dai primi anni del secolo si fosse reso evidente il carattere strutturale della sperequazione fra domanda e offerta di lavoro, la legislazione italiana aveva del tutto ignorato la questione di una disciplina del collocamento che potesse, in qualche modo, riequilibrare la posizione della parte più debole del rapporto di prestazione d'opera. Mancavano, peraltro, i più semplici strumenti di conoscenza e di rilevazione statistica della disoccupazione, nonché di assistenza ed indirizzo dei lavoratori nella ricerca di un'occupazione.
Contemporaneamente negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia operavano appositi uffici statali con il compito di analisi della struttura del mercato del lavoro e dei problemi inerenti all'avviamento al lavoro.
Il collocamento rientrava nella sfera di competenza della libera iniziativa e poteva essere esercitato a scopo di lucro, alla stregua di una qualsiasi mediazione. Nel settore dell'avviamento al lavoro operava, pertanto, una pluralità di soggetti: le organizzazioni dei lavoratori, intermediari privati, istituzioni create e dirette dalle organizzazioni padronali, organizzazioni di carattere assistenziale e filantropico, nonché, limitatamente al nord del Paese, uffici di collocamento istituiti da alcune amministrazioni comunali.
In un mercato della manodopera tanto alterato, quale quello di allora, il controllo dell'avviamento al lavoro rappresentava una fonte di grande potere. Di questo si erano presto resi conto sia le organizzazioni dei lavoratori sia gli imprenditori. Per questi ultimi, conservare una completa libertà di manovra in materia di assunzioni, significava poter alimentare, esasperandola, la concorrenza tra i lavoratori, stroncando così ogni azione rivendicativa; poter determinare unilateralmente le condizioni salariali e normative; discriminare i lavoratori più combattivi e organizzati.
Per il sindacato, quindi, lo sviluppo dell'azione rivendicativa non poteva non passare attraverso la conquista del controllo dei flussi di lavoro. Le Camere del lavoro nascevano con lo scopo dichiarato di svolgere anche attività di intermediazione fra offerta e domanda di manodopera e di offrire servizi qualificati di informazione sulle condizioni del mercato del lavoro e di assistenza agli operai nella ricerca di un'occupazione.
L'attività svolta dalle Camere del lavoro nel campo dell'avviamento al lavoro divenne presto cospicua, tanto da giustificare la loro aspirazione al monopolio di quella funzione. Alcune raggiunsero anche un'elevata efficienza tecnica, superiore a quella di uffici privati o padronali. Tutto ciò contribuì fortemente a far sì che grandi masse di lavoratori vedessero nelle C.d.L. l'istanza unionistica più congeniale alle loro esigenze.
Alle attività di reperimento delle notizie relative ai posti di lavoro disponibili, di educazione al solidarismo fra gli operai per realizzare un'equa distribuzione delle occasioni di lavoro, il sindacato arrivò poi ad aggiungere un'azione rivendicativa mirante a limitare la libertà imprenditoriale di scelta nelle assunzioni e conquistare la gestione del collocamento dei lavoratori. Sempre più spesso le organizzazioni del lavoro, attraverso il controllo dell'offerta e un'azione di pressione nei confronti della controparte, riuscirono ad imporre il controllo sindacale delle assunzioni ed il riconoscimento da parte degli imprenditori degli uffici sindacali di collocamento.
Tutto ciò spiega il fatto che nei primi anni del dopoguerra la C.G.I.L. lavorasse per riappropriarsi della funzione del collocamento della manodopera e per affermare il diritto dei lavoratori e del sindacato al controllo sugli uffici di collocamento. L'approvazione della legge 264/1949, dovuta all'allora Ministro del lavoro Fanfani, segnò quindi la sconfitta delle rivendicazioni sindacali in materia di collocamento, qualificato "funzione pubblica", e la conferma delle soluzioni sposate dalla disciplina previgente (R.D.L. n°1934/1938).
Le forze politiche della sinistra accolsero la legge sul collocamento come un compromesso fra le posizioni sostenute dal governo e quelle fatte proprie dalla C.G.I.L.[6], in quanto si prevedeva un controllo sindacale di tipo consultivo, realizzato attraverso l'inclusione di soggetti direttamente designati dal sindacato nelle commissioni istituite a livello centrale, provinciale e, in via eventuale, comunale. In realtà la partecipazione sindacale alla gestione del collocamento si rivelò sin da subito come puramente formale, anche perché i rappresentanti dei lavoratori costituivano la maggioranza solo nella commissione locale, la cui costituzione era affidata alla discrezionalità del Ministro del lavoro. La legge quindi conteneva già in sé la possibilità della sua elusione: cosa che, effettivamente, accadde, almeno fino all'approvazione dello Statuto dei lavoratori. Inoltre agli organi politico-partecipativi furono affidate funzioni poco significative, di modo che la concreta gestione del collocamento divenne senz'altro appannaggio dell'apparato burocratico: i collocatori.
In definitiva, nonostante le apparenze di una soluzione compromissoria, il risultato dello scontro politico sulla disciplina del collocamento fu l'esautoramento dei sindacati dei lavoratori dall'esercizio di quella che essi medesimi consideravano una loro "funzione naturale".
Una distinzione di fondo corre tra collocamento ordinario, che trova disciplina nella legge n°264/1949, e collocamenti cd. speciali. Il primo è il sistema normale, valido in generale, salvo diverso specifico regolamento introdotto per un particolare settore, fascia sociale, categoria: esso copre il grosso del mercato del lavoro privato extra-agricolo. Oltre al collocamento in agricoltura, disciplinato prima dalla stessa legge n°264 e poi dalla legge 11 marzo 1970, n° 83, esistono nel nostro ordinamento altri sistemi speciali di collocamento, istituiti per particolari categorie di lavoratori o collegati alla particolarità del rapporto di lavoro.
Tale principio, mai intaccato dalle riforme che hanno successivamente riguardato la materia dell'avviamento al lavoro, è stato recentemente abbandonato dal legislatore con l'approvazione del d.lgs. 23 dicembre 1997, n°469 ("Conferimento alle regioni e agli enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro, a norma dell'articolo 1 della legge 15 marzo 1997, n°59"), il cui art. 10 ("Attività di mediazione") prevede che imprese, gruppi di imprese ovvero enti non commerciali possano svolgere attività di mediazione fra domanda e offerta di lavoro, previa autorizzazione del Ministero del lavoro.
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