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LA RESPONSABILITA' E LE VICENDE - L'INADEMPIMENTO E I DANNI

diritto



LA RESPONSABILITA' E LE VICENDE

L'INADEMPIMENTO E I DANNI

Con l'espressione "inadempimento" si allude sia al caso in cui il debitore non abbia eseguito la prestazione dovuta sia al caso in cui non l'abbia eseguita esattamente (1218). Il codice civile tedesco non contempla la figura generale dell'inadempimento, poiché si limita a regolare le conseguenze dell'inadempimento derivante da un evento impeditivo imputabile al debitore e gli effetti della mora. L'inadempimento, che non presupponga la mancanza definitiva della prestazione ma derivi da un differimento della medesima, si configura come una particolare ipotesi di inesattezza. Dove non vengano in considerazione le disposizioni sulla risoluzione del rapporto contrattuale per inadempimento, il debitore, sin quando la prestazione non sia divenuta impossibile, è tenuto ad adempiere; a sua volta il creditore non può rifiutare l'adempimento tardivo, pretendendo in sostituzione il risarcimento del danno per equivalente. Se è stata preventivamente pattuita una penale (1382), quest'ultima può cumularsi con la pretesa alla prestazione principale, soltanto se la penale sia stata prevista per il semplice ritardo (1383). L'inesatto adempimento non è ristretto soltanto al caso del mancato rispetto della scadenza prevista. Si è visto difatti che può aversi inadempimento per inesattezza anche nelle ipotesi in cui la prestazione non corrisponda per quantità al contenuto del rapporto (1181) ovvero sia qualitativamente diversa nella stessa identità (aliud pro alio art. 1197) o anche rispetto alle qualità promesse o essenziali per l'uso a cui la cosa sia destinata.

LA MORA DEL DEBITORE

1) IL RITARDO SEMPLICE

Il ritardo in quanto tale è un inadempimento di regola imprevedibile nel suo esito ultimo. Lo stato di incertezza si risolve: con l'adempimento tardivo; con la certezza dell'inadempimento definitivo ossia dell'impossibilità dell'adempimento. La responsabilità autonoma per ritardo si manifesta solo nel caso dell'adempimento tardivo: nelle altre ipotesi, è ricompresa nell'inadempimento definitivo. Il ritardo dovuto a colpa del debitore nell'esecuzione della prestazione dovuta costituisce una figura di inesatta attuazione del rapporto, ossia si atteggia come un inadempimento provvisorio con riguardo alla modalità temporale dell'obbligazione. È quanto si deduce dalla formulazione letterale dell'art. 1218: il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Nelle disposizioni successive all'art. 1218 è regolata la mora del debitore. La mora è senza dubbio un ritardo, come è attestato dall'etimologia non dubbia del vocabolo. Nell'ipotesi del ritardo semplice è sufficiente una richiesta anche informale affinché sorga a carico del debitore colpevole dell'indugio l'obbligo di risarcire i danni derivanti dal ritardo, sebbene l'ipotesi possa verificarsi soltanto nei casi marginali; se si tratta di un contratto con prestazioni corrispettive, è possibile chiedere, ove esistano gli altri requisiti, la risoluzione del contratto per inadempimento; se nel contratto è prevista una clausola penale per il ritardo, è dato avvalersene. Nell'ipotesi di ritardo qualificato sono necessari i presupposti legali che si trovano riassunti nella rubrica dell'art. 1219 con la formula della costituzione in mora; si producono alcuni effetti specialmente miranti ad offrire al creditore una tutela immediata nella quale è stata talvolta rinvenuta una duplice funzione: di carattere conservativo-cautelare; di reintegrazione dell'interesse leso. Gli effetti caratteristici della mora del debitore si producono in via automatica o in conseguenza di una "intimazione" o richiesta scritta. La mora automatica (mora ex re) ha luogo in tre ordini di ipotesi:



obbligazioni derivanti da fatto illecito;

dichiarazione scritta del debitore di non voler adempiere;

mancata esecuzione, dopo la scadenza, dell'obbligazione portable, ossia della prestazione che deve eseguirsi al domicilio del creditore quale è il pagamento del debito liquido di denaro.

La costituzione in mora per intimazione o richiesta scritta è necessaria in tutte le altre ipotesi: vi è ricompreso l'intero genere delle obbligazioni querables e tra le obblig 626j91g azioni portables, soltanto quelle in cui il termine scada dopo la morte del debitore, con la conseguente necessità che gi eredi, previa intimazione o richiesta scritta, siano posti in grado, di provvedere all'esecuzione dell'obbligo nel quale sono subentrati (1219 comma 2 e 3). Nelle altre ipotesi di obbligazioni già scadute non vi è tuttavia ragione di escludere la prova del danno da ritardo, la quale è pur sempre possibile in base ai principi generali, sebbene non si producano tutti gli effetti che deriverebbero da un atto formale di costituzione in mora. Resta da chiedersi su quali basi possa attribuirsi rilievo al semplice ritardo. Le massime della giurisprudenza, in apparenza conformi all'opinione che distingue il semplice ritardo dal ritardo qualificato come mora del debitore, sono state sottoposte a un severo vaglio critico. L'autonomo rilievo dell'inadempimento da semplice ritardo potrebbe ulteriormente ridursi, se si aderisse all'opinione secondo cui, ove sia presupposta dalla legge un'intimazione o richiesta ai fini della costituzione in mora, al requisito formale dovrebbe attribuirsi il minor rilievo possibile. Certo, è significativo che nell'ordinamento tedesco, ove non esistano le basi testuali per distinguere il ritardo semplice dal ritardo qualificato, la letteratura e la giurisprudenza ammettano che l'intimazione possa essere  perfino surrogata da un comportamento concludente del creditore. L'autonomia dell'inadempimento derivante da semplice ritardo è meno controversa quando si proceda alla risoluzione del contratto per inadempimento. La mora del debitore può aversi soltanto con riguardo a quelle ipotesi rispetto alle quali abbia senso prefigurare un'esecuzione inesatta a causa di un ritardo nell'inadempimento. La legge espressamente prevede che la situazione di mora non possa originarsi con riguardo alle obbligazioni di non fare (1222). Se l'imprenditore ha assunto l'obbligo di non fare concorrenza a un altro imprenditore, intraprende l'attività vietata, è palese che l'inadempimento non ha alcun rapporto con le modalità temporali dell'esecuzione dell'obbligo. Semmai è possibile una sorta di inadempimento parziale. Difatti, l'attività contrastante con il contenuto omissivo della prestazione potrebbe cessare. E in tal caso potrebbe riprendere vigore l'interesse del creditore all'astensione dalla condotta. Nella giurisprudenza pratica si suole richiamare una sola pronuncia, la cui massima si riferisce alla diversa ipotesi dell'impossibilità non imputabile di adempiere l'obbligazione di non fare. Contro tale massima, la norma dell'art. 1222 non prevede una deroga alla possibilità che il debitore si liberi invocando un'impossibilità non imputabile di adempiere, sebbene possa condividersi, nelle circostanze del fatto, la soluzione del caso di specie. I presupposti per la costituzione in mora variano a seconda che tale situazione abbia a prodursi in via automatica ovvero sia necessaria un'intimazione o richiesta scritta. Un'intimazione o richiesta anticipata non è priva di rilievo giuridico, ma gli effetti della costituzione in mora si producono soltanto dalla scadenza del debito, che è anche la data da cui decorre la situazione di mora nel caso di obbligazioni portable. La richiesta del creditore (intimazione) si presenta come un atto volontario e unilaterale, rispetto al quale è indifferente l'intento del creditore di provocare gli effetti tipici della situazione di mora. Può darsi che il creditore intenda limitarsi a sollecitare il debitore affinché adempia: gli effetti della mora si producono ugualmente se la dichiarazione è in tal senso non equivoca e indica con sufficiente certezza l'entità delle prestazione dovuta. Si richiede il requisito formale della scrittura a cui talvolta è stata attribuita soltanto una funzione probatoria, sebbene la legge non offra appigli decisivi per una simile interpretazione. È unanime il riconoscimento del carattere unilaterale della dichiarazione e della sua natura ricettizia. È necessario che l'atto sia indirizzato al legittimo destinatario, né rileva la conoscenza comunque acquisita da quest'ultimo. Il problema si è posto soprattutto con riguardo al caso dell'indirizzo della richiesta al debitore incapace e non al suo rappresentante; e si afferma che non è sufficiente la prova che il domicilio del debitore è il medesimo del rappresentante legale. La dichiarazione del debitore, di non voler adempiere, deve essere successiva alla scadenza dell'obbligazione, eseguita con atto scritto e sorretta da precisa manifestazione di volontà negativa (cioè l'intento di non voler adempiere). Un'eventuale dichiarazione di potere eseguire la prestazione rientra nei comportamenti relativi alla relazione reciproca tra il debitore e il creditore. È ancora oggetto di discussione il problema dell'eventuale rilevanza di una manifestazione di non voler adempiere che non presenti i caratteri legalmente richiesti. L'unica ricostruzione compatibile con il sistema inquadra il fenomeno nell'ambito della relazione dei correttezza tra le parti: il debitore, alla scadenza, è pur sempre libero di ripensarci e di offrire l'adempimento; ma del suo comportamento contraddittorio potrà tenersi conto nelle circostanze del caso, allo scopo di evitare che si risolva in un pregiudizio per il creditore. Le ipotesi in cui il debitore si avvale di un diritto che la legge gli conferisce a tutela della sua concorrente posizione di creditore nel contesto di un rapporto con prestazioni corrispettive, sono nettamente distinte da quelle esaminate. Il rifiuto di adempiere o la sospensione dell'esecuzione della prestazione sono l'oggetto di altrettanti diritti di natura potestativa, il cui esercizio integra gli estremi di una speciale autotutela del creditore. La prima ipotesi ricorre nel caso in cui le prestazioni debbano eseguirsi contestualmente: di fronte al mancato adempimento il creditore si cautela rifiutando di eseguire la prestazione da lui dovuta. Diversi sono i presupposti della seconda ipotesi, che pure rientra nelle ipotesi di tutela conservativa della posizione di una delle parti di un rapporto con prestazioni corrispettive: peggioramento delle condizioni patrimoniali di un contraente prima della scadenza del termine; previsione di termini di scadenza diversi per l'adempimento delle prestazioni contrapposte. La parte, la cui prestazione scada prima, di fronte all'insolvenza ha diritto di sospendere l'esecuzione della propria prestazione fino alla scadenza del contrapposto obbligo. Alla scadenza si applicherà la regola per cui le parti saranno tenute ad adempiere; se la parte non proceda all'offerta, il creditore, che si è avvalso della sospensione di cui all'art. 1461, potrà persistere nel suo atteggiamento di rifiuto, salva la facoltà di recedere secondo le regole generali. Il primo degli effetti della mora è il passaggio del rischio dal creditore al debitore (1221) nel caso in cui la prestazione sia divenuta impossibile, dopo la mora, per una causa non imputabile al debitore. Alla prestazione divenuta impossibile subentra l'obbligo di risarcire il danno. Soltanto in questi termini può parlarsi di una sorta di forzato prolungamento del rapporto. La cosa perisce a carico del debitore in virtù di un effetto legale che dipende bensì dalla situazione di mora ma non si spiega sulla base di un'imputabilità che nascerebbe all'atto dell'inadempimento derivante dal ritardo e si propagherebbe fino all'evento da cui deriva l'impossibilità della prestazione. Tale deroga al principio generale "res perit creditori" non è assoluta; ma il limite previsto si riferisce a ipotesi non molto consuete e comporta un gravoso onere probatorio per il debitore. Costui è liberato ove riesca a dimostrare che, se l'adempimento fosse stato tempestivo e se la cosa fosse entrata nella disponibilità del creditore, quest'ultima sarebbe ugualmente perita presso di lui (1221). La prova è parsa diabolica per due ordini di motivi: la necessità di rifarsi a eventi impeditivi fortuiti del tutto eccezionali; l'esigenza di dimostrare che il creditore non avrebbe disposto della cosa in altro modo se avesse conseguito per tempo l'oggetto della prestazione. Anche questa eccezionale prova liberatoria è preclusa, allo scopo di sanzionare più severamente l'autore di un furto, se la prestazione sia costituita dalla consegna di una cosa illecitamente sottratta: l'obbligo della restituzione del valore della cosa, insieme con l'obbligo di risarcire i danni, resta fermo, quale che sia il modo del perimento o dello smarrimento della cosa. Gli altri effetti della situazione di mora del debitore sono costituiti dal risarcimento del danno e dalla necessità che il debitore corrisponda al creditore gli interessi dal giorno della mora (1224). La mora del debitore può essere impedita da una tempestiva offerta anche non formale della prestazione dovuta (1220); può aver fine: per il verificarsi di una causa estintiva dell'obbligazione; per un atto dispositivo del creditore. In primo luogo, può evitarsi la mora, se il debitore proceda tempestivamente a un'offerta non formale della prestazione. E la stessa offerta, se successiva, fa cessare per il futuro gli effetti già prodotti. La regola della correttezza si specifica in quest'ordine d'ipotesi con riguardo a fattori strettamente inerenti alla prestazione dovuta. Nel caso dell'offerta di cui all'art. 1220 si tratta di evitare, in quel lasso di tempo che secondo buona fede deve essere concesso al debitore pur dopo la richiesta, che costui subisca gli effetti negativi della mora. Il rifiuto del creditore è giustificato soltanto se il motivo legittimo si riferisce a un elemento che influisce sull'esattezza dell'adempimento. Il creditore il quale non intenda accettare per un motivo legittimo l'offerta diretta a costituirlo in mora, potrebbe invocare, alla stregua della correttezza, circostanze estranee all'esattezza dell'offerta. A maggior ragione, la situazione di mora può porre fine un adempimento tardivo, purché la prestazione ricomprenda anche il risarcimento del danno che si è prodotto in conseguenza del ritardo. Su di un piano nettamente diverso si pone l'estinzione della mora per atto dispositivo del creditore. Si tratta delle ipotesi in cui il creditore decida, con atto di rinuncia, di far cessare gli effetti della mora dal momento in cui la situazione si è prodotta (remissione in termini, con efficacia retroattiva). La distinzione tra le due ipotesi è chiara: nel primo la fine avviene per cause normali e senza effetto retroattivo; nell'altro è cancellata l'intera situazione nel suo complesso e alla fine si aggiunge eccezionalmente una soppressione della situazione giuridica pregressa. L'inadempimento dovuto a tardiva o difettosa esecuzione della prestazione può distinguersi dall'inadempimento dovuto alla definitiva e totale mancanza dell'esecuzione, soprattutto ai fini del risarcimento del danno e particolarmente ai fini della sua determinazione. Dall'inadempimento si distingue il mancato adempimento dovuto a un'impossibilità sopravvenuta derivante da causa non imputabile al debitore ovvero il mancato adempimento che sia altrimenti giustificato per legge. Resta da chiedersi se non vi siano ipotesi in cui il debitore risponda contrattualmente del mancato adempimento senza neppure poter invocare un'impossibilità derivante da causa a lui non imputabile. In tal linea è stata talvolta esaminata, tra molti contrasti, anche la disciplina che il codice detta con riguardo alla responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari (1228).

LA RESPONSABILITA' DEL DEBITORE PER FATTO DEGLI AUSILIARI

In mancanza di diverso accordo il debitore è responsabile dei fatti dolosi o colposi dei terzi di cui egli si sia avvalso al fine di adempiere l'obbligazione (1228). La responsabilità del debitore è diretta: il dolo e la colpa devono essere accertati con riguardo al comportamento degli ausiliari; sono irrilevanti con riguardo al comportamento del debitore, il quale può liberarsi fornendo la prova di essere quanto mai oculato nella scelta delle persone di cui si sia servito per dare esecuzione al suo obbligo. Una tale regola sembra giustificarsi in virtù della libera scelta del debitore stesso, il quale ha consapevolmente assunto il rischio del comportamento dei suoi ausiliari: l'inadempimento è interno alla sfera economica del debitore (non dipende da una causa estranea 1225). La responsabilità imputata al debitore sembra essere la conseguenza del fatto che egli ha scelto, per eseguire la prestazione dovuta, di ricorrere all'ausilio altrui, ma senza dismettere la posizione di titolare dell'obbligo. Le conseguenze negative dell'attività organizzativa non possono farsi gravare sul creditore che fa affidamento sull'impegno del debitore né entra in rapporto con altri soggetti: il creditore deve poter contare sulla responsabilità del debitore, tanto più è complessa l'esecuzione di certe prestazioni, come se si trattasse di responsabilità per fatto proprio. È significativo che il mandatario, il quale, nell'esecuzione dell'incarico, sostituisca a sé altri, senza il consenso del mandante, sia responsabile direttamente del comportamento dell'ausiliario (1717 comma 1). Considerazioni diverse devono farsi con riguardo alla responsabilità che è imputata ai padroni e ai committenti, nel caso di fatto illecito compiuto dai loro domestici o commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti (2049). Non ha alcun rilievo il comportamento che il padrone o il committente ha tenuto nella scelta dei suoi dipendenti o nella vigilanza degli stessi. Ma l'affinità tra le due ipotesi non può estendersi ulteriormente: la responsabilità del debitore dipende dall'imputazione dell'obbligo inadempiuto alla sua persona. L'ausiliario si atteggia quale strumento impiegato dal debitore per eseguire la prestazione che fa capo a quest'ultimo; del dolo e della colpa del sostituto il debitore risponde come di un fatto proprio. Nel caso della responsabilità per fatto illecito, la giustificazione della responsabilità del datore di lavoro si rinviene nel rapporto di dipendenza che l'autore del fatto illecito ha nei suoi confronti. All'origine della responsabilità contrattuale vi è pur sempre un problema di determinazione dell'obbligo nel caso di specie: il debitore può sottrarsi alle conseguenze imputabili a coloro dei quali si sia liberamente avvalso al fine di adempiere. Le disposizioni sulla responsabilità per fatto degli ausiliari ha dato luogo ad una casistica assai ricca, poiché sono sempre più rare le ipotesi in cui l'obbligazione è adempiuta dal debitore in persona. I giudici interpretano in senso ampio sia la nozione di obbligo inadempiuto sia la nozione di ausiliario, nella quale ormai si fanno rientrare anche gli ausiliari autonomi: il mandatario rispetto al mandante; il portiere rispetto al locatore. Con le clausole di "manleva" il debitore può pattuire un esonero da responsabilità per il fatto degli ausiliari: l'appaltatore si può accordare con il committente nel senso che sarà il subappaltatore, che abbia agito con colpa o con dolo, a rispondere contrattualmente. La clausola di manleva non deve essere confusa con la clausola di esonero o di limitazione della responsabilità contrattuale (1229): la prima influisce soltanto sulla determinazione del soggetto imputabile, ma le regole sulla responsabilità contrattuale restano immutate; la seconda tende ad escludere o a limitare la responsabilità in tutte le direzioni soggettive possibili.

CLAUSOLE DI ESONERO DALLA RESPONSABILITA'

La disciplina legale della responsabilità contrattuale non è inderogabile in maniera assoluta. Sono possibili infatti sia clausole che esonerano dalla responsabilità sia clausole che la limitano (1229 comma 1). Sono stati previsti alcuni limiti, sia in ordine al contenuto della clausola e alla rilevanza degli interessi da tutelare in via preminente sia in ordine alle modalità formali di accettazione. La clausola è di per sé nulla in due serie di ipotesi. Si ha la prima quando l'esonero o la limitazione si riferiscano ai casi in cui il debitore abbia agito con dolo, così da causare volontariamente l'inadempimento, sia ai casi in cui l'evento che ha impedito l'esecuzione della prestazione sia imputabile a una colpa grave, in quanto dipenda da una negligenza superiore a quella che già comporterebbe l'imputazione della responsabilità contrattuale (1229 comma 1). Il divieto generale ha applicazioni specifiche nel sistema del codice e della legislazione speciale. La seconda serie di ipotesi si ha quando l'esonero o la limitazione indeboliscano la tutela di quei diritti di credito la cui lesione è suscettibile di arrecare pregiudizio al alle persone dei consumatori o degli utenti, poiché comporterebbe danni all'integrità fisica o morale dei medesimi. La clausola dell'ordine pubblico, quale limite invalicabile del patto privato, ricomprende in sé sia l'istanza di difesa della persona sia l'istanza di protezione dell'interesse generale (1229 comma 2). In definitiva, l'ambito di autonomia concesso alle parti è ristretto: alle clausole che escludano o limitino la responsabilità per colpa non grave; che non siano contrarie all'ordine pubblico. Le finalità di tutela della persona hanno trovato applicazioni speciali nel contratto di locazione e nel rapporto di trasporto di persone. La finalità di protezione dell'interesse pubblico generale è richiamata dai giudici per escludere la validità di clausole predisposte dal venditore di opere d'arte e tali da infirmare l'esigenza di prevenzione e repressione di un fenomeno dilagante, relativo all'imitazione e alla contraffazione delle opere d'arte. Il secondo ordine di limiti assume rilievo soltanto con riguardo ai contratti con condizioni generali unilateralmente predisposte. Difatti, in tale settore di operazioni, le clausole di esonero o di limitazione della responsabilità sono sottoposte a un vincolo di forma: sono inefficaci se non siano specificamente sottoscritte dalla parte che non le ha predisposte (1341 comma 2). Delle clausole di esonero o di limitazione della responsabilità il codice si occupa con riguardo alla disciplina delle conseguenze derivanti dall'inadempimento. Nella prassi sono diffusi tuttavia anche i patti relativi alla sfera extracontrattuale; e si discute se nell'ordinamento debba reputarsi esistente un generale divieto implicito, in considerazione della natura di ordine pubblico che sarebbe di per sé caratteristica della disciplina relativa alla responsabilità civile. Si va affermando nondimeno un atteggiamento liberale; non già nel senso di un'automatica e illimitata validità: piuttosto in vista di una valutazione del singolo patto. Accadrà così che spesso clausole di tal natura siano da considerare incompatibili con l'art. 1229, in quanto contrarie all'ordine pubblico; ma una simile conclusione non dipenderà da dall'oggetto in quanto tale bensì dall'interesse di cui sia in tal modo resa più precaria la tutela. Una delle questioni generali che hanno assunto un notevole rilievo nelle regole applicate si riferisce alla distinzione, in sé concettualmente chiara e non controversa, tra la delimitazione dell'oggetto della prestazione e del contenuto del contratto per un verso e l'esonero o la limitazione della responsabilità da inadempimento per un altro verso. Esemplare in tal senso è il massimale di polizza delle società assicuratrici, nel quale è fissato un elemento essenziale del contratto assicurativo: l'entità del rischio assicurato. Non si tratta di una clausola ricompresa nella previsione dell'art. 1229; né si applica la disciplina prevista dall'art. 1341 comma 2. Non vi è dubbio che alcune operazioni economiche risulterebbero gravemente alterate se fosse possibile manipolare arbitrariamente l'oggetto tipicamente presupposto dallo schema legale: il risultato sarebbe incompatibile con l'esigenza di fornire adeguata tutela ai creditori. Esemplari sono i dubbi in materia di norme uniformi dell'Associazione Bancaria Italiana, a causa dei limiti convenzionali irrisori fissati con riguardo ai valori da custodire nelle cassette di sicurezza. L'opinione della nullità in base all'art. 1229 si trova talvolta affermata dai giudici con riguardo alla previsione di una corrispondente limitazione del risarcimento al valore assai modesto dell'oggetto che il cliente può chiudere in cassetta. Alcuni giudici di legittimità hanno ribadito la validità del patto dell'A.B.I. affermando che tale clausola comporta una delimitazione del contenuto del contratto e che quest'ultimo risponde pur sempre a un'esigenza meritevole di tutela anche con riguardo alla finalità di salvaguardare la segretezza della clientela. Una regola applicata si riferisce, infine, alla necessità che il debitore fornisca la prova che la clausola ben può essere invocata, poiché il comportamento è a lui imputabile soltanto a titolo di colpa non grave.

LE COSEGUENZE DELL'INADEMPIMENTO

La situazione che si viene a creare in conseguenza della lesione dell'interesse del creditore costituisce il presupposto immediato di un nuovo diritto di credito e il fondamento di una situazione che potrà farsi valere in sede giudiziale, anche nelle forme del processo esecutivo. L'aspetto costituito dall'effettiva soddisfazione dell'interesse del creditore, per tramite dello strumento di fatto più adeguato permane nel caso in cui il debitore non provveda spontaneamente all'attuazione degli obblighi che conseguano al suo inadempimento. Questa volta la via da percorrere necessariamente è costituita dall'esercizio dell'azione. Il creditore si rivolgerà al giudice al fine di ottenere una pronuncia che condanni il debitore, ove sia ancora possibile, a reintegrare il creditore dei danni subiti a causa dell'inadempimento. La pronuncia del giudice costituisce il titolo, ove il debitore resti ancora inerte, per procedere all'esecuzione forzata sui beni del debitore. Nel procedimento di esecuzione forzata torna a riproporsi la distinzione tra il conseguimento dell'oggetto corrispondente in natura all'adempimento della prestazione dovuta e il conseguimento di un equivalente. La prima ipotesi è prevista nelle forme dell'esecuzione forzata in forma specifica che si attua in maniera diversa a seconda che l'oggetto della prestazione sia costituito da una cosa determinata mobile o immobile ovvero da un fare fungibile o da un non fare. L'altra ipotesi presuppone che al creditore resti soltanto la possibilità di conseguire la soddisfazione per equivalente. Il meccanismo processuale previsto è costituito dall'espropriazione forzata dei beni del debitore che siano necessari e sufficienti a soddisfare il creditore (2910). Le tre fasi fondamentali dell'espropriazione sono costituite da: pignoramento dei beni; vendita forzata dei beni, salva in alternativa, la possibilità di un'assegnazione di questi ultimi (2912). Naturalmente anche questa misura di tutela potrebbe fallire in tutto o in parte, se il debitore non abbia beni o non né abbia nella misura sufficiente.

I DANNI DA INADEMPIMENTO

La prima disposizione sui danni da inadempimento contrattuale fa espresso riferimento sia al danno emergente sia al lucro cessante: il risarcimento del danno per inadempimento o per ritardo deve comprendere tanto la perdita subita dal creditore quanto il mancato guadagno (1223). Il riferimento alle due distinte voci di danno non è, di per sé, equivoco. Si prenda il caso del compratore il quale riceva tardivamente la consegna di un'area edificabile dopo il regolare pagamento del prezzo. Il danno emergente è insito nella sfasatura cronologica tra l'immissione in possesso e il versamento del prezzo. Il lucro cessante è il mancato profitto: si manifesta nell'impossibilità di servirsi del bene per trarne ulteriori guadagni. A maggiori problemi dà luogo l'altra esigenza di fissare plausibili criteri di delimitazione dei danni risarcibili. Il codice civile vigente ha subordinato il risarcimento della perdita e del mancato guadagno alla circostanza che i danni siano conseguenza diretta e immediata dell'inadempimento (1223). I danni non prevedibili sono risarcibili solo nel caso dell'inadempimento intenzionale (1225). È presa espressamente in considerazione anche l'ipotesi del concorso di colpa del creditore nella produzione o nell'aggravamento del danno: sono esclusi i danni genericamente definiti come evitabili dal creditore (1227). La necessità di aprire il giudizio a duttili valutazioni casistiche trova infine un'eloquente fondamento nell'espresso rinvio all'equità del giudice (1226). La disposizione che consente di risarcire soltanto i danni che siano conseguenza "diretta e immediata" dell'inadempimento dovrebbe fornire indicazioni sul nesso di causalità che deve esistere tra l'illecito contrattuale e la determinazione della misura dell'obbligazione risarcitoria. Il ricorso ad una formula ridondante e la genericità stessa delle due qualificazioni del danno non si prestano a conclusioni univoche. Il senso pratico dell'enunciato è stato spesso interpretato come un invito a fare buon uso dell'inevitabile discrezionalità del giudizio. I giudici accolgono la teoria della regolarità causale, la quale appare come una formulazione vicina alla dottrina della causalità adeguata; e distinguono pertanto tra un inadempimento che è causa e un altro che è soltanto occasione del danno. Anche nel caso della responsabilità contrattuale a un uso meno generico e incerto delle pur necessarie valutazioni empiriche può inoltre contribuire il riferimento al contenuto dell'obbligo inadempiuto. Il criterio del nesso tra la natura e il contenuto della prestazione e le conseguenze negative che all'inadempimento della stessa sono giuridicamente ascrivibili sembra soddisfare in maniera più precisa la duplice esigenza di non predeterminare in maniera rigida l'area del danno risarcibile e al tempo stesso di circoscriverla, con un criterio sufficientemente controllabile, alla specifica ragion d'essere del fenomeno regolato. Danno risarcibile è quindi il danno che ha nel singolo inadempimento il suo presupposto secondo una serie causale normale anche nel senso di: danno normativamente imputabile a quel singolo inadempimento in relazione al titolo del rapporto. L'esempio più chiaro di danno soltanto mediato e indiretto è anche il più antico: risale alle note pagine di Pothier e influenza la norma del codice napoleonico che è all'origine del codice civile italiano del 1865 e alla base della disciplina vigente. La regola era: anche quando il debitore è in dolo, egli non è tenuto a risarcire i danni che non sono una conseguenza necessaria dell'inadempimento. Si afferma che non erano risarcibili i danni connessi all'espropriazione forzata. La distinzione tra la disciplina dei danni da inadempimento e dei danni aquiliani è testuale con riguardo a un ulteriore limite legale del risarcimento: l'esclusione della possibilità di pretendere il risarcimento dei danni che non siano prevedibili nel tempo in cui è sorta l'obbligazione. Il giudizio di prevedibilità del danno è una valutazione di probabilità da compiersi alla stregua della diligenza e dei parametri di riferimento oggettivi e normali ma adeguati alle circostanze. già si è accennato al fondamento razionale della regola: chi si assume contrattualmente un obbligo deve adottare le misure idonee ad assicurare probabilmente i risultati dovuti. I principali problemi ermeneutici a cui l'esclusione della risarcibilità dei danni imprevedibili ha dato luogo si riferiscono: alla possibilità di equiparare la colpa grave al dolo; alla necessità o non della consapevole volontà di arrecare danno rendendosi inadempienti; alla determinazione del momento a cui deve farsi risalire la prevedibilità del danno; all'oggetto di quest'ultima. Il danno imprevedibile è risarcibile quando sia la conseguenza di un inadempimento intenzionale; non si esige che sia stato voluto come tale dal debitore. Comunque nel nostro sistema l'interpretazione estensiva non può spingersi fino all'equiparazione del dolo alla colpa grave: la gravità di negligenza non è sufficiente a giustificare un ampliamento dell'applicazione della norma. La legge è chiara nell'identificare il momento della prevedibilità con il tempo in cui è sorta l'obbligazione. Si è infine affermato che anche l'ammontare del danno debba essere prevedibile e condizioni l'entità del risarcimento: gli aspetti su cui più labile è la capacità di previsione non si riferiscono infatti alla possibilità che un danno si verifichi, ma alla gravità delle conseguenze che l'inadempimento può produrre in relazione alle peculiari circostanze del fatto. L'ultima disposizione che fissa l'area dei danni risarcibili è diretta da escludere le conseguenze che non siano imputabili al comportamento del debitore, ma derivino anche a una condotta ascrivibile al creditore (1227) o da eventi successivi che il creditore stesso avrebbe potuto evitare con l'ordinaria diligenza. Una prima norma regola il concorso del comportamento del creditore nella produzione dell'evento dannoso. La legge è esplicita nell'affermare che il risarcimento dovrà essere diminuito secondo due parametri: l'uno è costituito dall'efficienza causale che il fatto colposo del creditore ha avuto nella sequenza che ha condotto all'inadempimento; l'altro è costituito dalla gravità della colpa del creditore stesso (1227). La previsione normativa assume un significato meno equivoco, ove si accolga l'opinione secondo cui la gravità della colpa sarebbe un presupposto per l'ammissibilità della riduzione del risarcimento e la rilevanza del comportamento imputabile, a titolo di autoresponsabilità, al creditore influirebbe soltanto sulla determinazione della misura quantitativa della riduzione. La casistica più discussa si riferisce al comportamento del danneggiato incapace d'intendere e di volere. Ove si ammetta che non vi sia colpa se il coautore non è imputabile, manca il presupposto stesso del fatto che la legge fa gravare sul creditore: il risarcimento dovrebbe essere integrale. La giurisprudenza attribuisce ugualmente rilievo al comportamento del danneggiato incapace: la norma farebbe riferimento a una nozione oggettiva di colpa intesa come autoresponsabilità, nella quale sarebbe ricompresa anche la trasgressione di una regola di diligenza da parte di un soggetto incapace di intendere e di volere. Una seconda norma presuppone che all'inadempimento e ai danni imputabili integralmente al debitore facciano seguito danni ulteriori imputabili alla condotta del creditore. La norma è più lineare: qui a maggior ragione si esce dal territorio intricato delle concause. L 'inadempimento e i danni conseguenti hanno come causa efficiente il comportamento del debitore; ma il creditore con il suo atteggiamento di colpevole inerzia, che gli è imputato a titolo di autoresponsabilità, non impedisce che i danni si aggravino. Il giudice deve pertanto valutare in linea di fatto tutti gli elementi di prova che consentano di distinguere il danno da inadempimento dall'aggravamento effettivamente imputabile alla negligente omissione del creditore. La letteratura ha ravvisato nell'art.1227 comma 2 una conferma di rilievo che, nella trama delle singole previsioni testuali e del loro presupposto politico, ha la normativa della correttezza: il richiamo alla buona fede oggettiva descrive soprattutto la ragion d'essere di una disposizione specifica. Altro problema è quello della liquidazione, ossia della determinazione della misura del danno. In alcune ipotesi legalmente previste la base del danno risarcibile è regolata in via preventiva; analoga possibilità è lasciata ai contraenti entro i limiti fissati dall'ordinamento; infine, è conferita al giudice la potestà di liquidare il danno con valutazione equitativa, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare (1226). Il giudizio di equità non ha un carattere alternativo rispetto allo "strictum jus"; ma completa il sistema. Due sono i presupposti: che vi sia la certezza sull'esistenza del danno; che vi sia l'impossibilità di valutare il danno nel suo preciso ammontare. L'intervento discrezionale del giudice trova una più puntuale determinazione all'art. 2056, dove si afferma che la valutazione equa deve tenere conto delle circostanze del caso e, in primo luogo, del necessario contemperamento tra gli interessi in conflitto. L'esemplarità del danno morale non esclude che sia un dato tipico e costante della valutazione equitativa, in termini generali, l'accertamento in concreto.

LA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE DEL DANNO

La liquidazione del danno può avvenire nel giudizio in cui è chiesta la condanna del debitore. Può anche compiersi in una fase diversa del giudizio o in un giudizio separato. È necessario tenere presente che l'obbligazione di risarcimento del danno non è determinata fin dall'inizio in denaro e secondo una misura fissa, ma pur sempre deve convertirsi in una somma determinata. È importante precisare il tempo in cui deve procedersi a tale accertamento. Occorre rifarsi al tempo in cui sia possibile conseguire il risultato atteso dal creditore né per tramite dell'esecuzione tardiva della prestazione originaria né per tramite di un'esecuzione in forma specifica. la differenza patrimoniale sarà calcolata in un momento che non coincide con 'inadempimenti in quanto tale ma coincide con l'esclusione, nei termini suddetti, di qualsiasi possibilità giuridica di soddisfare il credito per mezzo dell'adempimento della prestazione. Sul debito di valuta che sarà liquidato dal giudice al termine di una tale valutazione si calcoleranno gli interessi.



LA LIQUIDAZIONE PREVENTIVA E FORFETTARIA DEL DANNO

A un caso di liquidazione legale del danno in via forfettaria si è già accennato nel trattare gli interessi moratori, i quali sono dovuti dal giorno della mora del debitore senza bisogno che l'attore fornisca alcuna prova di aver sofferto un danno (1224). La prova che grava sul creditore si riferisce soltanto al maggior danno, che comprende il diritto al risarcimento non coperto dagli interessi moratori.

Sono ipotesi di preventiva liquidazione convenzionale e forfettaria dei danni contrattuali da inadempimento o da ritardo la clausola penale e la caparra confirmatoria (1382 e 1385). Nel caso di clausola penale il debitore inadempiente è tenuto a risarcire il danno nella misura fissata nel contratto. Il risarcimento dell'eventuale danno ulteriore è possibile soltanto se esista un'espressa pattuizione in tal senso; ma è subordinato alla prova, che dovrà essere fornita dal creditore secondo le regole generali. Nella diversa ipotesi della caparra confirmatoria assume rilievo l'importo in denaro o in altri beni fungibili che una delle parti versa all'altra al momento della conclusione di un contratto con prestazioni corrispettive. Il creditore è risarcito in via automatica senza bisogno di alcuna prova, ma può sempre pretendere i danni ulteriori conseguenti all'inadempimento. È possibile che la parte non inadempiente insista per l'esecuzione della prestazione, ovvero voglia avvalersi della generale disciplina della risoluzione per inadempimento. La liquidazione del danno avverrà in tal caso nella misura determinata dal giudice; e sulla base delle prove fornite dal creditore danneggiato, secondo le regole generali.

RESPONSABILITA' CONTRATTUALE E RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE: PRESUPPOSTI E LIMITI DELLA DISTINZIONE

La distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ha un solo fondamento concettuale possibile: il carattere derivato, nel primo caso, dell'obbligazione risarcitoria del soggetto, a cui la responsabilità stessa è imputabile. Le fonti delle obbligazioni diverse dal fatto illecito fondano uno specifico rapporto obbligatorio dal cui inadempimento si fa dipendere la nascita dell'obbligo sostitutivo di risarcire i danni. Il fatto illecito extracontrattuale è fonte diretta di un tale obbligo: è esclusa la preesistenza all'illecito di una vera e propria obbligazione del soggetto imputabile. In entrambi i casi l'obbligazione ha la finalità di reintegrare la sfera economica del danneggiato in relazione alla lesione di un interesse meritevole di tutela, ma soltanto nel primo vi è un obbligo non generico che funge da presupposto e da modello del successivo vincolo. Il fatto che la distinzione dipenda dall'esistenza o dalla mancanza di un credito primario rimasto insoddisfatto si riverbera sull'oggetto della prova, la quale varia soltanto in funzione della struttura del fatto costituivo. Si applica in entrambi i casi la regola generale dell'art. 2697 e il danneggiato prova tutti gli elementi da cui si origina il suo diritto al risarcimento; l'apparente diversità risiede nel fatto che quando non preesista l'obbligo violato il danneggiato deve provare oltre all'evento dannoso e al nesso di causalità il criterio di imputazione del fatto al danneggiante; quando il credito resti insoddisfatto è sufficiente provare che non è stato adempiuto l'obbligo preesistente. Sono esemplari in tal senso le regole dettate in materia do decorrenza degli interessi sulle somme dovute a titolo di risarcimento del danno extracontrattuale e del danno contrattuale: nel caso del fatto illecito svincolato dall'inadempimento di un obbligo preesistente, il rapporto primario e unico nasce come debito di valore, sempre produce interessi in maniera indipendente da un atto di costituzione in mora, è infine soggetto a rivalutazione automatica (1219). Esistono ulteriori differenze di disciplina che non hanno alcun rapporto con il carattere primario o meno dell'obbligazione risarcitoria: basti pensare ai termini diversi di prescrizione previsti in generale con riguardo ai due ordini di responsabilità e alla singole regole dettate, in entrambi i settori, con riguardo a talune ipotesi speciali. Vale allora l'ordinario termine decennale previsto per le obbligazioni risarcitorie da fatto illecito. Ma il quadro non sarebbe completo se non si tenesse conto della regola non scritta che consente al danneggiato, non soltanto di scegliere tra i due ordini ma perfino di cumularli. Alla base di un tale principio c'è la regola della massima tutela possibile per tutti i danneggiati, soprattutto quando sia compromessa l'integrità fisica della persona, quale che sia il fatto generatore della responsabilità; e un tale principio si rafforza con l'istanza della non irragionevole diversità di trattamento, soprattutto quando la dinamica dei fatti dannosi non presenti sensibili differenze. L'ampiezza dell'area della responsabilità contrattuale esclusiva e di quella cumulabile con la responsabilità extracontrattuale dipende quindi strettamente dalla notevole entità assunta dal fenomeno che potrebbe sinteticamente definirsi come la "contrattualizzazione" dei danni alla persona. Il fenomeno della contrattuzlizzazione della tutela dell'altrui integrità fisica e patrimoniale si manifesta anche nella nostra esperienza e ne amplia l'area di rilevanza, con la conseguenza di contribuire ulteriormente alla formazione di un sistema congegnato in modo tale da rendere possibile l'applicazione di tutte le regole disponibili a tutela dei danneggiati, soprattutto quando le lesioni si riferiscano alle persone.

MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL'ADEMPIMENTO

Il modo normale di estinzione del rapporto obbligatorio è costituito dalla regolare e esatta esecuzione dell'obbligo. L'adempimento è il modo principale: non l'unico di estinzione del rapporto obbligatorio. L'inadempimento non estingue l'obbligazione: crea un rapporto obbligatorio diretto al risarcimento del danno che è stato definito succedaneo in quanto sorge sulla base del precedente e può prenderne il posto. L'adempimento dell'obbligazione risarcitoria, in luogo dell'adempimento dell'obbligazione originaria, soddisfa per equivalente l'interesse del creditore; si ha ancora estinzione dell'obbligazione, quale possibile e normale esito finale della vicenda che prende origine dalla violazione dell'obbligo. Il codice vigente regola sotto il titolo dei modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento separatamente e nell'ordine: novazione; remissione; compensazione; confusione. Il rapporto può estinguersi, inoltre, nei casi: per il rilievo autonomo che assume la soddisfazione dell'interesse del creditore, nonostante la mancata esecuzione della prestazione dovuta da parte del debitore; a causa della rilevanza riconosciuta alla posizione del debitore, il quale abbia fatto quanto giuridicamente necessario al fine di adempiere ma non abbia potuto conseguire il risultato previsto a causa di una situazione a cui l'ordinamento ha riconosciuto un'efficacia liberatoria. Nel primo ordine di ipotesi, rientrano i casi in cui si abbia l'intervento intenzionale di un terzo che egualmente in tal modo soddisfi l'interesse del creditore, ovvero i casi in cui il creditore aderisca al pagamento non dovuto dal terzo o comunque ne profitti. Nel secondo ordine di ipotesi rientrano: la liberazione del debitore che paghi in buona fede e in base a circostanze univoche al legittimato apparente (1189), oltre che l'intera procedura di liberazione coattiva, a cui il debitore può far ricorso senza o anche contro la volontà del creditore, il quale persista in quell'ingiustificato rifiuto di ricevere la prestazione o di cooperare all'adempimento. Si tenga inoltre presente che la morte può essere causa di estinzione quando il rapporto obbligatorio si presenta con caratteristiche tali, dal punto di vista soggettivo, da determinarne l'intrasmissibilità. Esulano dalla materia qui trattata quei modi di estinzione che hanno un'applicazione non ristretta alle obbligazioni e che presentano un complesso meccanismo estintivo. Si pensi alla prescrizione. La comparazione dimostra piuttosto che in altri ordinamenti si è consolidata la tendenza a creare modi estintivi diversi dall'impossibilità di adempiere in base alla valutazione del comportamento del creditore contrario alla regola della buona fede. Strutturalmente i modi di estinzione dell'obbligazione sono incompatibili con sistemazioni unitarie, sia per il fatto che vi sono singoli modi di estinzione che al loro interno possono articolarsi in maniera diversa. Resta da chiedersi se si possa ancora accogliere l'insegnamento scolastico che porta a sistemare le cinque figure tipiche nel codice a seconda della natura satisfattoria o non satisfattoria che sarebbe ascrivibile ora all'uno ora all'altro dei modi di estinzione. Nella recente manualistica si legge, per esempio, che sono modi satisfattori, oltre all'adempimento e alla datio in solutum, la compensazione e la confusione (non satisfattori sarebbero la novazione, la remissione e l'impossibilità della prestazione. Ma, a parte l'incertezza insita nella nozione stessa di soddisfazione, sembra da approvare la scelta del legislatore che ha evitato di procedere a sistemazioni ulteriori, a cui non sembrano ricollegarsi conseguenze applicative di speciale rilievo.

NOVAZIONE

Il rapporto obbligatorio si estingue per novazione se il creditore e il debitore decidono di vincolarsi con un nuovo rapporto obbligatorio, che deve essere diverso dal precedente nel titolo e nell'oggetto (1230). Lo schema legale da rilievo alle due categorie di effetti costitutivi e estintivi, con l'ovvia precisazione che i medesimi si riferiscono a un rapporto di natura obbligatoria. La correlazione tra l'effetto estintivo e l'effetto costitutivo segna la differenza rispetto all'accordo che comporti la possibilità per il debitore di liberarsi con una prestazione diversa: nel primo caso, conforme allo schema della novazione, l'obbligazione precedente si estingue e nasce un'obbligazione nuova; nel secondo caso, corrispondente alla prestazione in luogo dell'adempimento, l'obbligazione resta in vita: il debitore si libera difatti soltanto se e quando esegua la prestazione diversa autorizzata dal creditore. All'art. 1230 si fa riferimento alla sostituzione di una nuova obbligazione alla precedente e si richiama la diversità del titolo e dell'oggetto, quali presupposti essenziali, idonei a qualificare il rapporto e a distinguerlo rispetto a qualsiasi altro. Inoltre, la novazione è contemplata tra i modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento: ne deriva la contraddittorietà di una novazione che non comporti automaticamente la fine del rapporto precedente. Il legislatore si è curato di precisare che non producono novazione il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l'apposizione o l'eliminazione di un termine e ogni altra modificazione accessoria dell'obbligazione (1231). Sono modificativi in linea generale tutti quegli accordi che si limitino a prevedere un mutamento delle modalità di attuazione dell'obbligo. Per espressa previsione di legge non sono accessorie le innovazioni relative all'oggetto o al titolo. La nozione di titolo sembra riferibili non soltanto al contenuto complessivo del contratto che ha determinato il sorgere dell'obbligazione, quanto piuttosto al fondamento del singolo rapporto (novazione causale). Ancor più lineare è lo schema della novazione per mutamento dell'oggetto (novazione reale): come nell'ipotesi in cui alla vecchia obbligazione di natura pecuniaria se ne sostituisca una nuova con riguardo alla consegna di una cosa determinata. La volontà di estinguere l'obbligazione precedente deve essere comune alle parti contraenti e deve risultare in modo non equivoco (1230 comma 2): ma può dedursi dalle circostanze in base a un comportamento concludente, ossia anche in mancanza di una dichiarazione delle parti in cui si manifesti l'intento di far cessare il vecchio rapporto e di far nascere un nuovo rapporto (animus novandi). L'indagine sull'intento di novare sarebbe superflua quando la nuova obbligazione non soltanto sia diversa nell'oggetto e nel titolo ma addirittura sia incompatibile con la precedente. Il legislatore ha attribuito rilievo a un mutamento oggettivo, che effettiva e non marginale: in caso contrario si dissolve la ragion d'essere del fenomeno, in termini economici; e fondato è il sospetto che l'operazione possa avere un senso soltanto in quanto persegua finalità fraudolente. L'opinione contraria si ispira all'esigenza di non porre inutili limitazioni all'autonomia contrattuale: se le parti vogliono estinguere l'obbligo di farne nascere uno nuovo poco importa, si dice, che il nuovo obbligo abbia un contenuto non molto diverso dal precedente; decisivo è l'interesse delle parti di assoggetarsi a un obbligo che le stesse in piena autonomia qualificano come nuovo rispetto al precedente, ormai estinto. Chi consideri l'istituto secondo valutazioni di utilità economica nota che l'effetto novativo si giustifica razionalmente in vista di un'esigenza di semplificazione nella vicenda di un rapporto obbligatorio. Ben si spiega quindi la cautela del legislatore nel richiedere che le parti abbiano piena consapevolezza delle conseguenze del loro comportamento; e difatti si è scritto che trova qui applicazione il principio secondo cui le rinunce no si presumono. La ridotta applicazione dell'istituto sembra confermare che i privati siano inclini alla conservazione dei rapporti obbligatori piuttosto che alla loro risoluzione se non sia realizzato o esaurito l'interesse che ne suscitò la costituzione. Esemplare in tal senso l'esperienza del diritto del lavoro: si pensi al lavoratore che aspiri a ricevere l'indennità di anzianità e alla prassi dei licenziamenti con successiva e immediata riassunzione: la pretesa novazione del rapporto, con il creare una discontinuità, comporta la perdita dei benefici connessi alla durata del vincolo. Nel caso di licenziamento la giurisprudenza ha preso posizioni molto rigorose; e si è affermato che spetta al lavoratore di dimostrare la non equivocità dell'intento sulla base dell'accordo che conduca ad innovazioni effettive e oggettivamente rilevanti, tali da vincere la presunzione dello scopo fraudolento. I giudici hanno precisato che il passaggio della categoria impiegatizia a quella dirigenziale non comportano di per sé novazione; e inoltre che il passaggio dal lavoro subordinato a quello autonomo deve accompagnarsi a una finalità novativa non equivoca. Si è affermato, infine, che l'effetto novativo può discendere non soltanto da una fonte contrattuale ma anche da fatti di natura diversa. di novazione legale si è parlato con riguardo a taluni provvedimenti legislativi che hanno cercato di sottoporre a controllo il fenomeno dell'interposizione nel contratto di lavoro. Dagli art. 1230 e 1231 si ricavano alcune regole generali: si presuppone una funzione novativa espressa con manifestazione non equivoca; si considera pertanto coessenziale una innovazione radicale con riguardo all'oggetto o al titolo e fissano alcuni criteri esemplificativi con riguardo alle modificazioni accessorie, che di per sé sono incompatibili con la nascita di una nuova obbligazione (animus novandi; aliquid novi).

Si è detto che l'innovazione che la legge presuppone è oggettiva: si riferisce al titolo e all'oggetto (1230 comma 1). D'altro canto non si può escludere che le parti decidano di estinguere l'obbligazione tra di loro e di farne nascere un'altra del tutto identica, ma con un nuovo debitore. Il creditore non può vedersi imporre un nuovo debitore: può tuttavia decidere di sostituire al vecchio il nuovo obbligato; e può dare il suo consenso alla liberazione del primo e alla conseguente estinzione del precedente rapporto. L'ipotesi è regolata nel codice per rinvio: quando un nuovo debitore è sostituito a quello originario che viene liberato, si osservano le norme che si riferiscono alla delegazione, all'espromissione e all'accollo (1235). Il problema principale, relativo alla sorte delle garanzie specifiche del credito, è risolto dalla legge in maniera identica sia nel caso della successione sia nel caso della novazione soggettiva: le garanzie si estinguono non soltanto se si tratti di novazione soggettiva ma anche in tutte le ipotesi in cui il creditore liberi il debitore originario nel quadro della delegazione, dell'accollo e dell'espromissione. La novazione presuppone l'esistenza dell'obbligo: in difetto del quale non ci può essere sostituzione di un nuovo obbligo al precedente. Se le parti sono a conoscenza sia dell'inesistenza attuale dell'obbligazione sia della possibilità che la stessa venga in vita nel futuro e vi è accordo sulla novazione di un tale rapporto non vi è ragione di considerare inefficace il patto. Considerazioni analoghe sono addotte, dalla letteratura sostanzialmente concorde, al fine di giustificare la novazione del debito sottoposto a termine iniziale o di quello che nascerà, se nascerà, in seguito all'avvalersi di una condizione sospensiva. A maggior ragione sono suscettibili di novazione le obbligazioni giuridicamente esistenti ma soggette ad eccezioni che possano comportarne l'estinzione con effetto retroattivo. In termini ben diversi si pone il problema della novazione di un dovere di natura morale o sociale che giuridicamente dovrebbe considerarsi inesistente. All'obbligazione naturale le parti possono voler sostituire un rapporto vincolante al quale intendono assoggettarsi senza limiti. La novazione sembra inefficace, non soltanto per il fatto che l'obbligazione naturale non può dirsi esistente, ma già per il fatto che l'unico effetto prodotto dalla legge consiste nell'esclusione della possibilità di pretendere la restituzione del pagamento, sì che comunque dovrebbe attendersi l'esecuzione della prestazione che è oggetto dell'accordo novativo.

La novazione è valida, se il titolo dell'obbligazione originaria è soltanto annullabile e se la nuova obbligazione è stata assunta nella consapevolezza del vizio che colpiva il debito da novare (1234 comma 2). Se la nuova obbligazione è stata assunta nella consapevolezza dell'annullabilità del titolo dell'obbligazione originaria, l'accordo diretto a sostituire il debito preesistente è valido già per il fatto che esistono gli estremi di una convalida tacita del titolo annullabile. Più vaga è la disciplina dell'ipotesi in cui la nuova obbligazione sia assunta nell'ignoranza dell'annullabilità del titolo dell'obbligazione originaria. Si è affermato che la novazione è annullabile nel termine che manchi al compimento della prescrizione per l'annullamento della stessa obbligazione originaria. La convalida è esclusa. Una volta annullato il titolo, cade anche la novazione; e si parla di inefficacia con effetto retroattivo derivante da una figura d'invalidità successiva. Se il titolo non è più annullabile a causa della prescrizione, la novazione si consolida, poiché ha un fondamento giustificativo non più precario. Non sono previste le ipotesi in cui il titolo dell'obbligazione originaria sia assoggettabile a un'impugnativa ovvero divenga inefficace per altra causa sopravvenuta. Devono rispettarsi le linee essenziali dei singoli rimedi: la rescissione non ammette convalida (1451) e l'accordo novativo non potrà prestarsi a eludere le norme inderogabili poste a tutela del contraente sfavorito; inoltre, dovrà tenersi presente che la risoluzione, al pari della rescissione, può comportare il venir meno, con efficacia retroattiva tra le parti, dell'obbligazione che ha già formato l'oggetto della novazione. L'effetto estintivo ha quale logico corollario l'estinzione delle garanzie del credito. La norma è derogabile, con patto anteriore o contestuale. Una disposizione specifica è prevista con riguardo alle ipotesi in cui l'accordo novativo sia posto in essere tra il creditore e uno dei suoi debitori, tra di loro uniti da un vincolo di solidarietà nella fase di attuazione del rapporto obbligatorio. Se l'accordo è destinato ad avere efficacia liberatoria per tutti i debitori solidali (1300), è conseguente la previsione dell'estinzione dei privilegi, del pegno e delle ipoteche del credito anteriore (1231). L'unica regola apparentemente peculiare sta nel fatto che l'accordo in deroga, destinato a tenere in vita le garanzie, può riferirsi soltanto al debitore che ha stipulato il patto e ai beni di lui, sebbene sia possibile che gli altri debitori acconsentano con accordo separato. Se l'accordo è concluso è concluso tra uno dei creditori in solido e il debitore, le garanzie originarie permangono e non si estendono al nuovo credito, salvo che gli altri creditori diano il loro consenso (1300). Se uno dei creditori di una prestazione indivisibile ha stipulato una novazione con l'unico debitore, costui resta tenuto per l'intera prestazione indivisibile nei confronti degli altri, i quali tuttavia non potranno arricchirsi nei confronti del concreditore che ha concluso la novazione (1320 comma 1 e 2).   

REMISSIONE

Con la remissione il creditore dispone volontariamente del diritto, purché non si tratti di un credito irrinunciabile (diritto agli alimenti) e libera di sua iniziativa il debitore, che può dichiarare di non volerne profittare (1236). La dichiarazione con cui il creditore rimette il debito, è efficace, quando è comunicata al debitore, salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne profittare. Prevale l'opinione della struttura unilaterale dell'atto proveniente dal creditore e della sua natura ricettizia, ove si consideri che l'effetto estintivo presuppone la semplice comunicazione al debitore: non anche il decorso del congruo termine previsto al fine di tutelare l'interesse del debitore che, per esempio, consideri umiliante o lesiva del proprio prestigio una simile modalità di liberazione dall'obbligo e pertanto decida di rifiutarla. L'opinione relativa alla natura contrattuale della remissione è stata difesa sulla base di un'originale ricostruzione della nozione di contratto, nel quadro della storia dell'istituto e della comparazione con gli altri ordinamenti. Ma nel nostro sistema è testuale la differenza di regime rispetto ai contratti con obbligazioni a carico del solo proponente (1333). Nel caso della remissione l'effetto estintivo segue alla comunicazione al debitore della dichiarazione del creditore. Il rifiuto del debitore, purché sopravvenga in un termine congruo, si riferisce a una conseguenza giuridica che già si è prodotta e che viene rimossa con efficacia retroattiva, secondo il meccanismo di una condizione risolutiva legale, ferma restando l'estinzione delle garanzie. A sua volta la mancata opposizione del debitore nel termine congruo è valutabile in termini oggettivi; e rende definitivi gli effetti. L'atto di remissione del debito può assumere profili causali diversi; talvolta, inoltre, la legge si limita a richiedere l'esistenza del semplice presupposto volontario dell'effetto estintivo legale che è proprio di una remissione senza esigere la presenza di un intento del creditore dichiaratamente rivolto alla remissione del debito. La remissione può rientrare nella categoria della liberalità non soggette, come tali, alla forma della donazione, ma a talune regole generalmente applicabili, per espressa previsione di legge, oltre che alle donazioni, a tutti gli altri atti provvisti di un tale carattere. E non si può escludere che la ragione giustificativa dell'iniziativa del creditore sia ricostruibile nel quadro di operazioni più complesse così da assumere natura diversa alla liberalità: si parla difatti di un negozio neutro "quod causam". Talvolta si fa perfino riferimento all'ipotesi della remissione verso corrispettivo (1240). L'effetto della remissione può prodursi in base a un comportamento volontario del creditore, valutato in maniera tipica dalla legge e tale da non comportare necessariamente l'intento di rimettere il debito (1237). È opportuno premettere che la remissione, già di per sé libera nella forma è compatibile anche con un comportamento concludente, sì che, come in ogni altra ipotesi del genere, la rinuncia che non dovrà mai presumersi, esigerà un rigoroso accertamento da compiersi sulla base dell'esperienza e delle circostanze di fatto. Il caso di rinuncia alle garanzie del credito non può essere interpretato come remissione del debito (1238). La rinuncia all'accessorio è compatibile con la permanenza del diritto principale. Un caso di valutazione legale tipica, che presuppone pur sempre l'intento di rimettere il debito, è costituito dalla consegna volontaria della copia spedita in forma esecutiva, ove il titolo stesso sia in forma pubblica: il legislatore vi ravvisa gli estremi di un comportamento concludente rivolto alla remissione del debito. L'effetto legale può essere precluso dalla prova contraria, la quale comporta anche la possibilità di dimostrare che, nonostante la consegna volontaria, il creditore non era animato allo scopo di rimettere il debito (1237). Una figura di valutazione legale tipica, che sembra prescindere dallo scopo di rimettere il debito, è costituita, invece, dalla restituzione volontaria del titolo originale del credito (1237). Non è ammessa la prova contraria. È sufficiente la sola volontarietà dell'atto; questi può fornire soltanto la prova della non volontarietà. L'effetto estintivo opera anche nei confronti dei condebitori in solido; ma, con espressa riserva, può essere limitato a uno soltanto di costoro, con la conseguenza che, nel rivolgersi agli altri, il creditore dovrà dettare la quota del debitore a favore del quale è avvenuta la remissione (1301). La remissione inoltre può provenire da uno dei concreditori; e in tal caso l'unico debitore non è liberato verso gli altri (1301). Se l'obbligazione è indivisibile, il debitore resta obbligato per l'intero nei confronti degli altri creditori, i quali nondimeno non possono arricchirsi a scapito del concreditore che abbia rimesso il debito (1320). Il legislatore si occupa inoltre degli effetti che la remissione accordata al debitore ha la sua posizione dei terzi garanti a titolo personale o fideiussori: l'accessorietà del loro debito comporta che l'effetto liberatorio abbia effetto anche verso di loro. Diverso è il caso in cui si abbia confideiussore e la liberazione riguardi soltanto uno dei fideiussori: gli altri sono liberati per la parte di costui, salvo che abbiano acconsentito alla sua liberazione. La rinuncia alla garanzia del credito è ipotesi chiaramente differente dalla remissione del debito.

COMPENSAZIONE

Quando ricorrono le condizioni richieste dal codice civile, la compensazione, estingue in tutto o in parte i rapporti reciproci di credito e di debito tra due soggetti, a seguito di un meccanismo legale complesso (compensazione legale), la pronuncia del giudice (compensazione giudiziale) o dell'accordo delle parti (compensazione volontaria). I presupposti economici sono quelli della agevolazione dei rapporti giuridici e la maggiore possibilità di soddisfare con sicurezza gli interessi dei creditori. Vi è perfino un tipo legale di contratto che si giustifica in funzione della compensazione globale e differita di tali complessi rapporti, alla cui annotazione si procede progressivamente in un conto che è definito quale conto corrente. Deve precisarsi che la compensazione resta comunque distinta da quelle semplici operazioni contabili di dare e di avere che si concludano in pareggio ovvero con il saldo attivo o passivo ma sulla base di un titolo giuridico che accomuni le due posizioni. Ai fini della compensazione è necessario che le persone obbligate l'una verso l'altra vantino titoli giuridici autonomi. L'ipotesi a cui i giuristi fanno più spesso riferimento al fine di escludere la compensabilità dei crediti che si originano da un medesimo titolo, è costituita dai rapporti con prestazioni corrispettive. Un problema diverso concerne la compensabilità dei debiti (relativi a sfere patrimoniali distinte) dei quali sia titolare un medesimo soggetto. In linea generale si può dire quindi che si richiedano i seguenti presupposti: soggetti distinti, titoli autonomi, debiti reciproci. I divieti di compensazione sono previsti da alcune puntuali disposizioni. Tali sono le ipotesi: della natura restitutoria dell'obbligo, purché si abbia riferimento a un credito per la restituzione di cose di cui il proprietario sia ingiustamente spogliato (1168) o di un credito per la restituzione di cose depositate o date in comodato (1768 e 1803); e soprattutto, ove si guardi alla gravità economica della previsione legale, dell'impignorabilità del credito, salvo che la compensazione sia opposta dal titolare del medesimo. Non è un divieto, sebbene impedisca la compensazione, la rinuncia preventiva del debitore, sia essa espressa o tacita. In tal caso la compensazione può essere opposta dalla parte non rinunciante. Gli altri casi di divieto legale o giudiziale di compensazione sono individuati per rinvio (1246 n. 5). I divieti sono previsti per i casi di compensazione volontaria; ma non si deve pensare che l'autoregolamentazione privata possa operare in tale materia anche al di fuori dei limiti fissati in generale dall'ordinamento. Esemplare è la figura del credito alimentare. Il profilo strettamente personale del diritto è inseparabile dall'aspetto patrimoniale, poiché il debito è strumentale alla soddisfazione di un interesse primario della vita. La compensazione, ancorché volontaria, non è compatibile con un'assoluta indisponibilità del credito, sì che, in tali ipotesi almeno, non dovrebbero esservi dubbi sull'esistenza di un implicito divieto legale.

La compensazione volontaria è disciplinata all'art. 1252. L'accordo rivolto alla compensazione dei debiti può essere occasionale e successivo alla coesistenza dei crediti o può rientrare in una generale preventiva pianificazione della sorte dei reciproci rapporti. La seconde eventualità è contemplata testualmente dall'art. 1252 comma 2 dove si afferma che le parti possono anche stabilire in via preventiva le condizioni della compensazione dei loro debiti reciproci. La derogabilità della disciplina della compensazione è confermata dall'espressa previsione che il debitore rinunci in via preventiva alla compensazione con il risultato di escludere la possibilità di avvalersi della compensazione legale o giudiziale. Ma è anche palese che l'incompensabilità volontaria possa essere messa nel nulla da un accordo successivo tra gli stessi soggetti. La rinuncia può infine consistere nel non avvalersi unilateralmente di una delle condizioni preclusive della compensazione legale: si parla allora di compensazione facoltativa, ma la formula è usata anche per descrivere l'ipotesi in cui il contratto rimetta a una delle parti il potere di compensare.

Nelle formule del tutto generiche con cui si apre la disciplina del codice sembra presupporsi un effetto estintivo automatico: i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti (1241), la compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza (1242 comma 1). La regolamentazione complessiva del fenomeno induce a riesaminare la prima impressione: non soltanto si afferma che l'estinzione avviene secondo le norme degli articoli che seguono (1241), ma si aggiunge che il giudice non può rilevare d'ufficio la compensazione (1242 comma 1). Le regole sulla produzione dell'effetto estintivo non sono uniformi. L'ipotesi più semplice è già nota. Nel caso della compensazione volontaria tutto dipende dall'accordo. Lo schema più discusso è costituito dalla compensazione legale. Questa figura opera sulla base di tre presupposti (1243): che si tratti di debiti di denaro o comunque di di cose fungibili appartenenti allo stesso genere (siano cioè omogenei); che ne sia determinato l'ammontare (liquidi); che possa pretendersene in via immediata l'adempimento, come nell'ipotesi in cui siano scaduti gli obblighi (esigibili). La compensazione giudiziale ha in comune con la compensazione legale i presupposti di omogeneità e delle esigibilità; non è richiesto il requisito della liquidità, purché il debito opposto in compensazione sia di facile e pronta liquidazione, sì che il giudice possa determinarne agevolmente l'ammontare. Pertanto, l'effetto estintivo non si produce dal momento della coesistenza ma dal momento, successivo alla liquidazione del giudice, nella quale i crediti omogenei, oltre a coesistere e ad essere esigibili, sono anche liquidi. Non sembra che l'esistenza dei requisiti legali conduca all'estinzione automatica o di diritto: occorre che almeno una delle parti si avvalga del diritto potestativo consistente nell'opporre, anche al di fuori del processo, la compensabilità dei debiti. Nel sistema tedesco è testuale il riferimento al diritto che ciascuna parte ha di procedere alla compensazione per il tramite di una dichiarazione unilaterale in tal senso. Dall'opposizione del contro-credito, dipende l'estinzione del debito: la quale, nel caso della compensazione legale, si produce bensì con efficacia retroattiva ma pur sempre richiede che ai già noti effetti di legge si aggiunga l'opposizione, ossia l'esercizio di un diritto dell'interessato (1241). Il riferimento alla coesistenza dei crediti, nel caso della compensazione legale, non allude dunque alla natura automatica dell'effetto ma soltanto al tempo al quale quest'ultimo può farsi risalire in virtù della funzione legale della retroattività. Nel caso della compensazione legale c'è una norma ancor meno equivoca nell'escludere che il pagamento del debito soggetto a compensazione legale sia un pagamento non dovuto. L'inammissibilità del diritto di chiedere la restituzione del pagamento è prevista non soltanto nell'ipotesi in cui il debitore abbia consapevolmente rinunciato a far valere l'eccezione di compensazione, ma perfino nell'ipotesi in cui dell'esistenza del credito opponibile alla controparte il debitore non fosse a conoscenza per giusti motivi. In ogni caso il pagamento resta fermo in quanto dovuto. Nel caso della compensazione legale, una regola del codice afferma che la prescrizione non impedisce la compensazione, se la prima non era compiuta quando si è verificata la coesistenza dei due debiti (1242 comma 2). Nel caso della compensazione giudiziale, ove la compensazione sia opposta invocando un credito che sia prescritto in un tempo successivo alla coesistenza dei rapporti, le conseguenze sono ben diverse. Una volta eccepita la prescrizione, il credito è considerato estinto al tempo del compimento della prescrizione, sì che la pronuncia giudiziale di compensazione, che non è retroattiva, risulterebbe priva del suo stesso presupposto. Naturalmente, se la prescrizione non è opposta, il giudice non potrà rilevarla d'ufficio; e potrà procedere alla liquidazione giudiziale del credito prescritto, a cui consegue la produzione non retroattiva di quell'effetto estintivo che è caratteristico della compensazione. La compensazione o la mancata compensazione possono avere riflessi nei confronti di alcuni terzi, che la legge distingue dagli altri con riguardo all'esistenza di un rapporto giuridico variamente collegato con una delle obbligazioni soggette a compensazione. Il codice detta regole speciali dirette a impedire che una tale categoria di soggetti abbia a risentire pregiudizio. Una norma di favore o di tutela, a cui si è già accennato, si riferisce in un primo luogo a terzi che abbiano concesso a un creditore diritti personali o diritti reali di garanzia. Di regola costoro potrebbero opporre in compensazione soltanto un debito che il garantito abbia nei loro confronti, non già un obbligo di costui nei confronti del debitore principale. Ma in tal caso si deroga alla regola generale: si consente al terzo garante di opporre una tale eccezione al creditore che voglia avvalersi del suo diritto di garanzia (1247). Il fatto è che la condizione del garante non può essere più onerosa di quella dell'obbligato principale: il primo deve poter opporre al creditore tutte le eccezioni spettanti al secondo. Si consideri anche il caso del debitore-ceduto che pretenda di opporre in compensazione al cessionario del credito un debito che il creditore-cedente ha nei confronti del medesimo debitore-ceduto. Il legislatore ha derogato alla regola generale secondo cui non è possibile opporre in compensazione un debito altrui; difatti, al cessionario che esiga dal debitore ceduto l'adempimento non è dato opporre la compensazione con il debitore cedente soltanto se il debitore ceduto abbia accettato puramente e semplicemente la cessione (1248). Il perfezionamento della cessione non impedisce al ceduto di opporre al cessionario il credito verso il cedente, purché si tratti di un credito sorto in data anteriore alla notificazione della cessione. Sono tutelati inoltre i terzi che abbiano acquistato diritti di usufrutto o di pegno su uno dei crediti in data anteriore alla loro coesistenza. Si dispone che la compensazione non si verifica in pregiudizio dei terzi (1250). La regola ha una funzione soprattutto esplicativa. Dalla disciplina dell'usufrutto e del pegno di crediti si deduce infatti che in tali ipotesi il credito non è esigibile autonomamente e pertanto non è compensabile. Con una norma di rinvio, destinata a togliere qualsiasi incertezza all'atto dell'individuazione dei debiti soggetti a compensazione, ove esista una pluralità di situazioni compensabili e suscettibili di essere confuse. Si applicano le regole sull'imputazione del pagamento.



I debiti verso un creditore fallito possono essere compensati con i crediti che i debitori vantino nei confronti di quest'ultimo, ancorché non si tratti di crediti scaduti prima della dichiarazione di fallimento. La regola potrebbe trovare una giustificazione nell'esigenza equitativa di non sacrificare l'interesse del creditore fallito, il quale si vedrebbe altrimenti costretto a pagare per intero il suo debito e a subire le decurtazioni del suo credito a causa della falcidia fallimentare. Si potrebbe nondimeno tentare di interpretare l'art. 2917 nel senso che i crediti anteriori al pignoramento sarebbero compensabili anche se i presupposti della compensazione abbiano a prodursi dopo il pignoramento stesso. Soltanto in tal caso compensazione fallimentare e civile potrebbero essere accostate. I giudici interpretano nondimeno l'art. 2917 nel senso che la compensazione legale possa essere bensì opposta in data successiva al pignoramento, ma a condizione che la coesistenza dei reciproci debiti-crediti, liquidi e esigibili, risalga a un tempo anteriore al pignoramento.

CONFUSIONE

La confusione è un modo di estinzione delle obbligazioni che sembra discendere già in via logica dall'impossibilità di concepire un rapporto obbligatorio quando il creditore e il debitore non sono più distinguibili, poiché le loro corrispondenti qualità si riuniscono nella stessa persona (1253). Una perdurante valutazione separata della qualità di debitore e creditore dopo la confusione è possibile in tre ordini di ipotesi: quando alla riunione delle qualità non corrisponda la riunione dei patrimoni che per legge siano tenuti separati; quando per coincidenza delle posizioni sia l'effetto soltanto provvisorio di un fenomeno giustificabile in virtù della speciale forza che il diritto attribuisca alla circolazione dei documenti che incorporano crediti; quando il legislatore intenda impedire che l'estinzione del rapporto obbligatorio pregiudichi i diritti di terzi sull'oggetto del credito (1254). La sopravvivenza non è tanto del rapporto quanto delle poste attive e passive riferibili oggettivamente a due sfere giuridiche distinte. L'esigenza di conservare taluni diritti sui beni che sono oggetto del credito è ben comprensibile se si tratti di impedire che i terzi possano essere pregiudicati. Il codice prende espressamente in considerazione l'ipotesi in cui il credito si estingue per confusione siano stati costituiti a favore di terzi diritti di uso, di usufrutto e di pegno (1254). Il credito si estingue; ma la legge evita che i terzi titolari di tali diritti sul credito abbiano a subire di riflesso un pregiudizio ingiusto; si è fatto quindi riferimento a un'efficacia relativa della confusione con possibilità di reviviscenza dell'obbligazione estinta. Non rientra nel quadro della confusione l'ipotesi della riunione nella stessa persona delle qualità di fideiussore e di debitore (1255). Il fondamento di una tale regola è intuitivo: il debitore non può essere fideiussore di sé stesso. L'obbligazione accessoria di garanzia cade: resta in vita soltanto il debitore principale. La fideiussione continua a esistere, con tipico effetto legale, per effetto legale, per ragioni ancora una volta piuttosto pratiche che logiche, grazie alla singolare forza delle costruzioni strettamente giuridiche. È semplice corollario della normale efficacia estintiva della confusione la previsione espressa della liberazione dei terzi che hanno prestato garanzia per il debitore. Non si può ricomprendere nella confusione la consolidazione, quale modo di estinzione dei diritti reali su cosa altrui.

IMPOSSIBILITA' SOPRAVVENUTA NON IMPUTABILE

Tra i modi di estinzione diversi dall'adempimento è ricompresa anche l'impossibilità sopravvenuta non imputabile quando sia totale e definitiva (1256-1259). All'impossibilità è equiparata per legge l'ipotesi dello smarrimento della cosa, ove non possa esserne provato il perimento (1257 comma 1). L'effetto estintivo totale (1256) è escluso quando l'impossibilità sia parziale. Si ha inoltre esonero da responsabilità per il ritardo per il tempo in cui l'impossibilità perdura, se l'impossibilità sia temporanea (1256), salvo che si protragga a tal punto da escludere che sia ancora doverosa o utile per il creditore. Oltre che totale e definitiva l'impossibilità deve essere oggettiva e relativa: due caratteri che non sono espressamente contemplati nella legge, ma sembrano desumibili da un'approfondita ricostruzione dell'intero sistema. La relatività della nozione di impossibilità trova conferma con riguardo alla disciplina dell'impossibilità temporanea (1256 comma 2). Finché perdura l'impossibilità, il debitore non è responsabile del ritardo nell'inadempimento ma di norma non si produce l'effetto estintivo. Il protrarsi dell'impossibilità, quand'anche non escluda una possibilità sopravvenuta può ugualmente condurre all'estinzione dell'obbligazione. Ma diventa decisiva a tal fine non già l'astratta nozione di impossibilità bensì la concreta valutazione degli interessi contrapposti, i quali, per espressa previsione normativa, devono essere considerati in relazione al titolo dell'obbligazione e alla natura dell'oggetto. Tale nozione di impossibilità trova conferma sia nella disposizione che alla stessa equipara lo smarrimento di cosa determinata, ove non sia dato provarne il perimento, sia nell'altra che consente di procedere, in caso di un ritrovamento successivo, alla valutazione degli interessi del creditore e del debitore in base al singolo rapporto. La norma ha trovato applicazione nell'ipotesi del furto. Sembra consolidarsi l'indirizzo diretto a imporre al debitore, in base al titolo del rapporto, la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenirlo. L'impossibilità parziale modifica il rapporto. Il debitore è ancora obbligato, ma si libera eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile. Tale disposizione, che si applica anche nelle ipotesi di deterioramento della cosa determinata o di un suo perimento non totale, presuppone: che l'impossibilità parziale non sia imputabile a colpa del debitore; che sia possibile e attuale la prestazione residua. In caso di impossibilità parziale, se la prestazione non è unita a un'altra da un nesso di corrispettività, il creditore non può rifiutare l'adempimento parziale, per deroga legale espressa alla regola generale. Come si è premesso, deve tenersi conto dell'ipotesi in cui la prestazione sia unita ad un'altra da un nesso di corrispettività. In tale caso l'obbligazione può estinguersi se il creditore, il quale non abbia un apprezzabile interesse a un adempimento parziale decida di sciogliersi dal rapporto contrattuale: ossia non eserciti il diritto alla corrispondente riduzione della controprestazione, ma si avvalga della singolare facoltà di recesso che gli è per legge attribuita. L'impossibilità totale, nei contratti con prestazioni corrispettive e con efficacia obbligatoria, comporta che il debitore liberato non possa pretendere la controprestazione e, se l'abbia ricevuta, debba restituirla secondo le regole della ripetizione dell'indebito. La disciplina dell'impossibilità totale o parziale deve coordinarsi con le disposizioni in materia di "mora del creditore": se l'impossibilità non imputabile sopravviene dopo la costituzione in mora, il creditore deve eseguire ugualmente la prestazione da lui dovuta o non può pretendere la restituzione di quella che già abbia posto in essere. L'estinzione dell'obbligazione per impossibilità sopravvenuta sacrifica l'interesse del creditore, il quale di mora sopporta il rischio degli eventi fortuiti (res perit creditori). Se la prestazione che abbia per oggetto una cosa determinata diventa impossibile per un fatto imputabile a un terzo, la legge prevede che il creditore subentri nei diritti vantati dal debitore nei confronti del terzo, in dipendenza del fatto che ha causato l'impossibilità (1259). L'ipotesi esemplare è costituita dal subingresso nelle pretese di carattere risarcitorio. Anzi, se il terzo abbia già provveduto a risarcire il danno, il creditore può pretendere che il debitore riversi a lui quel che il debitore stesso abbia conseguito a un tale titolo. Nei sistemi come il nostro che si ispirano al principio dell'efficacia traslativa del consenso (1376) la norma ha una limitata sfera di applicazione. Deve nondimeno ricordarsi che l'ambito di rilevanza dell'art. 1259 è oggetto di discussione. La possibilità di un'applicazione analogica non sembra preclusa in linea di principio, poiché l'opinione del carattere eccezionale della norma è per molti versi discutibile. Ove la prestazione impossibile sia contrattualmente unita a un'altra da un nesso di corrispettività, la regola dell'art. 1259 deve essere coordinata con la disciplina della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta. La parte che si avvalga dell'art. 1259 non vanterà alcuna azione o alcuna eccezione con riguardo alla prestazione che già abbia eseguito o che ancora debba eseguire. Altrimenti si applicherà in via esclusiva la disciplina degli art. 1463.

MODIFICAZIONI SOGGETTIVE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

Quando al precedente creditore subentra un nuovo creditore, che acquista lo stesso diritto di lui e le situazioni accessorie, si configura un fenomeno di subingresso nella titolarità di un credito; e si parla di modificazione soggettiva nel lato attivo del rapporto obbligatorio o più semplicemente di successione nel credito. Anche nel caso del credito la successione può essere a causa di morte o per atto tra vivi. La prima ipotesi rientra nel campo degli studi delle successioni: il credito ricompreso nell'eredità si trasmetterà al chiamato che abbia accettato l'eredità stessa o potrà essere l'oggetto di una disposizione a titolo particolare. La seconda ipotesi è oggetto di sistemazione nel quadro della teoria generale delle obbligazioni. La letteratura prevalente ha identificato tre figure di modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato del credito: la surrogazione per pagamento; la cessione del credito; la delegazione attiva. Questa sistemazione non è da tutti condivisa: vi è chi segue una diversa ricostruzione del pagamento con surrogazione e chi preferisce omettere l'esame della delegazione attiva, quale figura non prevista tipicamente dalla legge ma integralmente rimessa all'autonomia contrattuale. Anche la modificazione nella titolarità del debito può essere a causa di morte; è invece un tema dogmatico da sempre controverso la questione dei limiti entro i quali possa prodursi per atto tra vivi. Un'ipotesi autonoma è inoltre costituita dal fenomeno dell'ambulatorietà dell'obbligo, nei casi in cui tali posizioni seguano in via automatica i mutamenti nella titolarità del diritto di proprietà del diritto di proprietà o di un altro diritto reale di godimento su di una cosa. Sulle figure di mutamento dal lato dell'obbligo il quadro sistematico è nel diritto vigente sufficientemente delineato. Sono i casi in cui il creditore accetta di liberare il vecchio debitore e di assumerne uno nuovo: sia che tale effetto liberatorio segua all'esecuzione di una delega del debitore originario da parte del delegato-nuovo debitore; sia che dipenda dall'iniziativa di un terzo, il quale si accordi in maniera del tutto autonoma con il creditore, ossia senza far menzione di eventuali rapporti con il debitore originario; sia infine che si basi sull'adesione del creditore al contratto con il quale quest'ultimo si accolli il debito del primo. Se il trasferimento è previsto per contratto e si riferisce alla posizione complessiva di un contraente in un contratto con prestazioni corrispettive, il nuovo contraente subentra sia nei diritti sia negli obblighi che facevano capo al contraente originario. L'ipotesi è regolata dal codice civile nel quadro della disciplina generale del contratto (1406) sotto la denominazione di cessione del contratto. Incerta è l'area dei principi relativi alla successione nel debito. Pacifica è la generale rilevanza dl consenso del creditore, al quale mai può essere indifferente il mutamento della persona del debitore: tutto il sistema è orientato a evitare che il creditore si trovi di fronte a un rischio non previsto in ordine alla soddisfazione del suo diritto; e sarebbe inconcepibile che a una tale direttiva si derogasse attraverso il meccanismo della successione per atto tra vivi nel debito. Il creditore può ritrovarsi anche a sua insaputa di fronte a un debitore soltanto per effetto della successione a causa di morte e del subingresso dell'erede nella titolarità dei rapporti anche passivi che fanno capo al defunto: ma qui l'effetto è imposto dall'esigenza di assicurare la continuità nella titolarità del debito e risulta necessario già per evitare che il creditore abbia a risentire un sicuro e immediato pregiudizio per effetto della morte del suo debitore. Ma le perplessità più gravi si riferiscono al regime delle eccezioni, su cui inevitabilmente si riverberano le divergenze nella ricostruzione strutturale nelle singole figure: sullo sfondo è la problematica dell'astrazione della causa, poiché in alcune ipotesi l'obbligo è assunto senza alcun riferimento ai sottostanti rapporti giustificativi tra i soggetti interessati alla vicenda. Tra le principali differenze che contrappongono la cessione nel credito alla successione nel debito, di una soprattutto deve chiarirsi il fondamento razionale. Quando si ha successione, in senso lato, suole dirsi che il subingresso nella posizione precedente comporta che questa continui con gli accessori: come non si estingue il diritto ma continua nel nuovo titolare così non si estinguono le garanzie ma si trasferiscono al nuovo titolare. È quanto invece non avviene, per espressa previsione normativa, nei casi di successione nel debito: con il debito non passano anche le garanzie, se non vi è consenso del garante (1275). Questa regola, se non smentisce la natura del successoria del fenomeno, esige una giustificazione, che peraltro è intuitiva, ove si segua il ragionamento fin qui svolto: per chi ha dato una garanzia non è indifferente il mutamento della persona del debitore garantito; tale indifferenza esiste invece verso colui che riceve la garanzia come accessorio dell'acquisto di un credito. Si precisa tuttavia che nel caso della successione nel debito sopravviverebbero pur sempre i privilegi, poiché il trasferimento a differenza della novazione comporta che il debito resti disciplinato dalla sua fonte originaria.

SURROGAZIONE DI PAGAMENTO

Il pagamento con surrogazione o la surrogazione di pagamento è un istituto antico sulla cui configurazione strutturale non vi è unanimità di pensiero. Tre sono le teorie principali:

il pagamento con surrogazione darebbe luogo a una successione a titolo particolare nel lato attivo del rapporto obbligatorio. Si tratta di un fenomeno in apparenza analogo a una cessione del credito; ma la diversità è netta nei presupposti. La cessione si basa su di uno specifico accordo di natura contrattuale e al tempo stesso prescinde da qualsiasi soddisfazione dell'interesse del creditore. La surrogazione si giustifica per il fatto che il titolare originario del credito non può più farlo valere nei confronti del debitore, poiché ha conseguito per altra via quel che gli spetta. Il credito non si estingue ma si trasferisce al terzo, che può avvalersene per recuperare quel che è stato necessario a soddisfare l'interesse del creditore originario.

Secondo un'altra opinione la surrogazione sarebbe la conseguenza necessaria dell'estinzione dell'obbligazione. Il pagamento del terzo, nei casi di surrogazione, avrebbe la stessa efficacia estintiva del pagamento del debitore.

Tra le due contrapposte teorie si inserisce l'opinione secondo cui l'essenza del fenomeno sarebbe ravvisabile in una scissione tra l'estinzione del credito e la permanenza in vita dell'obbligo. Il debitore continuerebbe a essere vincolato dal titolo originario; il credito soltanto si estinguerebbe; al suo posto sorgerebbe un nuovo diritto in tutto identico al precedente.

Occorre comunque attenersi alla specifica regolamentazione del fenomeno: da quest'ultima semmai potranno trarsi alcune ragioni di conferma delle ricostruzioni di carattere più generale, oltre che i primi criteri di soluzione in merito ai più specifici problemi applicativi. Dalla disciplina della surrogazione si deducono due dati molto eloquenti. Il primo si riferisce al fatto che il credito in cui si surroga l'autore del pagamento continua a essere assistito dalle stesse garanzie e ad essere soggetto alle medesime eccezioni a cui era sottoposto. Il secondo concerne la possibilità che a seguito di un pagamento parziale si abbia una surrogazione parziale, con la conseguenza che, rispetto a un rapporto obbligatorio inalterato nel suo contenuto complessivo, si ha una modifica della titolarità, poiché al creditore originario si affianca per la parte relativa alla surroga un nuovo creditore. Il pagamento del terzo non è un regolare adempimento; ma al tempo stesso è un presupposto che giustifica la trasmissione legale del credito a colui che pur sempre ha soddisfatto l'interesse del creditore. Il quadro della disciplina legale si basa sulle seguenti regole fondamentali: la distinzione della surrogazione nelle tre figure della surrogazione per volontà del creditore (1201), per volontà del debitore (1202) e di diritto (1203); la previsione della permanenza delle garanzie anche contro i terzi garanti; e nel caso di un pagamento parziale, la possibilità, salvo patto contrario, di un concorso delle pretese del creditore originario e del creditore surrogato (1205).

All'art. 1201 è disciplinata la surrogazione per volontà del creditore. Il fondamento è stato distinto dall'ipotesi prevista dall'art. 1180, ove questa sia considerata nella linea dell'estinzione definitiva del vincolo obbligatorio: il terzo potrà costituire in mora il creditore, ma non potrà ottenere la surrogazione, e che è subordinata a un atto libero del creditore. La dichiarazione di surroga da parte del creditore rileva difatti nella fase della precostituzione o comunque della formazione del titolo traslativo del credito; e impedisce che il rapporto si estingua. Si è escluso, contro l'opinione forse prevalente, che a tale figura convenga l'attributo della negozialità. Gli effetti sono ormai noti: si ha una successione a titolo particolare per atto tra vivi nella titolarità dei diritti che fanno capo al creditore. All'art. 1202 è disciplinata la surrogazione per volontà del debitore. L debitore prende a mutuo una somma di denaro con l'intento di estinguere il suo debito. La surrogazione avviene automaticamente a vantaggio del mutuante, anche senza il consenso del creditore, purché esistano i presupposti formali diretti a garantire che l'operazione sia del tutto sicura. I requisiti sostanziali sono assai labili; comunque, quelli formali si riferiscono al contratto di mutuo e alla quietanza rilasciata dal creditore al debitore all'atto del pagamento. Comune all'uno e all'altro è l'esigenza che risultino da un atto di data certa (1202). Nell'atto di mutuo in particolare deve essere indicata espressamente la specifica destinazione della somma mutuata (mutuo di scopo). Nella quietanza deve farsi riferimento alla dichiarazione del debitore circa la provenienza della somma impiegata nel pagamento: il debitore ha diritto all'inserimento di una tale dichiarazione nella quietanza, anche contro la volontà del creditore. La surrogazione legale o di diritto (1203) non presuppone il consenso del creditore o del debitore e può operare contro la volontà di costoro. Il passaggio del credito e degli altri accessori, nel caso dell'art. 1203, è direttamente reso possibile dalla legge, nelle ipotesi della stessa predeterminate. I giudici talvolta hanno posto inoltre l'accento sulla necessità che il terzo manifesti l'intento di esercitare il diritto di surrogarsi al creditore. La ratio della  disciplina legale è parsa orientata in senso diverso; e le conseguenze teoriche e pratiche sarebbero in contraddizione con la storia e con la concreta vita del fenomeno. Il fatto che il legislatore si limiti ad affermare che la surrogazione legale ha dato luogo di diritto non è di per sé decisivo: ma di sicuro non conforta la costruzione opposta. Quattro sono le ipotesi di surrogazione legale contemplate dall'art. 1203; le altre sono richiamate per rinvio. In primo luogo i casi in cui la surrogazione è prevista a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse di soddisfarlo. (Il fideiussore che subentra nei diritti del creditore cambiario verso il debitore cambiario.) Ferme obiezioni sono state invece mosse con riguardo all'applicazione alle figure di vera contitolarità nel debito, a cui pure si riferirebbe la formula "essere tenuto con altri al pagamento del debito". Si è affermato in particolare che la contitolarità esclude che il condebitore adempia in qualità di terzo; e lo strumento a sua disposizione dovrebbe limitarsi all'azione di regresso: non già, a sua scelta, alla surrogazione o al regresso. L'opinione contraria è concettualmente labile e si trincera dietro il dato letterale, non senza far trapelare una considerazione di opportunità. La surrogazione è specificamente prevista inoltre a vantaggio dell'erede con beneficio d'inventario che paga con denaro proprio i debiti ereditari (1203). Tra gli altri casi di surrogazione stabiliti dalla legge una delle casistiche più ricche si riferisce al settore delle assicurazioni. L'assicuratore, che provveda a versare l'indennità spettante all'assicurato contro i danni, subentra nei diritti di questo vantati nei confronti dei terzi che abbiano danneggiato le cose assicurate. Molto significativa è l'ipotesi del terzo che paghi per errore l'obbligo altrui con l'intento di adempiere un obbligo proprio. In quanto non dovuto, un tale pagamento è di regola sottoposto alle regole sulla ripetizione dell'indebito (2036). Ma, ove l'errore dell'autore del pagamento non sia scusabile o il creditore abbia indebolito in buona fede la sua posizione nei confronti del debitore, con riguardo all'aspetto probatorio o alla tutela rafforzata del diritto, l'azione di ripetizione è esclusa; e il terzo subentra per legge nei diritti che il creditore vanti nei confronti del debitore (2036 comma 3).

Coerente con il meccanismo legale di trasferimento del credito è la previsione del passaggio automatico delle garanzie che assistevano il credito. È significativo che il legislatore abbia riprodotto la disposizione prevista in materia di cessione del credito con riguardo alla custodia del pegno. Se il debitore o il terzo datore di pegno non danno l'assenso al passaggio del pegno, il diritto di garanzia si trasferisce, ma il creditore originario rimane custode della cosa (1204 comma 2). Il subingresso nelle garanzie non ricomprende la promessa del fatto del terzo.

La disciplina si completa con la previsione che il creditore non abbia rifiutato il pagamento parziale del terzo (1181). In tale ipotesi è norma, pur derogabile con patto contrario, che il creditore e il terzo vengano a vantare pretese concorrenti nei confronti del debitore, in misura corrispondente alla parte spettante a ciascuno (1205).

CESSIONE DEL CREDITO

Il trasferimento del credito può avvenire in seguito all'accordo tra il creditore cedente e un soggetto, il cessionario, che subentra nella titolarità del diritto (cessione del credito). Tra le modificazioni soggettive del lato del credito la cessione ha il maggior rilievo pratico, oltre che sistematico, sebbene sia possibile che l'effetto della trasmissione del diritto si produca anche in base ai presupposti legali già considerati con riguardo alla surrogazione di pagamento. La cessione del credito si perfeziona anche senza il consenso del debitore (1260). Infatti si ritiene che per il debitore sia indifferente adempiere nei confronti del creditore o di altro soggetto. Diverso è il problema di una sicura identificazione del titolare del credito e della disciplina dei presupposti da cui dipende la liberazione del debitore. Nel codice civile vigente le disposizioni sulla cessione dei crediti precedono la regolamentazione delle ipotesi tradizionalmente indicate quali figure tipiche di modificazione o di successione tra vivi nel rapporto obbligatorio. La collocazione dell'istituto nel sistema ha indotto una parte della letteratura civilistica a guardare al fenomeno come a un insieme di effetti prodotti da singole figure contrattuali già regolate in maniera autonoma con la conseguenza che dovrà prevalere la disciplina o comunque la finalità che ha rilievo nelle singole ipotesi. Secondo un'altra opinione la legge si limiterebbe dare rilievo a un accordo contrattuale, il cui fondamento giustificativo tende a variare nei singoli casi (teoria della causa generica e variabile). Il codice stesso afferma che il titolo della cessione può essere a titolo oneroso o gratuito (1260). Vi è anche chi si esprime nel senso che la cessione sarebbe un contratto astratto, ma la formula spesso è usata in un'accezione non diversa rispetto all'opinione che ravvisa l'essenza del fenomeno nella variabilità o nella indeterminazione della causa. Per orientarsi tra le diverse teorie, è opportuno precisare che la cessione resta neutra, con riguardo al fondamento giustificativo, soltanto in quanto effetto legale, ma il singolo accordo rivolto alla cessione, una volta stipulato, è valido purché abbia una causa, per quanto quest'ultima possa assumere caratteri diversi in relazione al contenuto della singola operazione contrattuale. La giurisprudenza, con argomentazione che non sempre chiarisce la distinzione tra l'atto di cessione e il suo effetto automatico, tende a configurare la cessione come uno schema incompleto da integrare con riferimento a un sottostante contratto a titolo oneroso o a titolo gratuito. E non mancano le massime ove si afferma che la cessione è atto a produttivo di effetti traslativi indipendentemente dal carattere oneroso o gratuito, ovvero agli scopi perseguiti; e il cessionario sarebbe esonerato dalla prova della causa della cessione. Se la cessione è posta in essere per spirito di liberalità, è necessaria la forma prevista per la donazione. L'adesione del debitore alla cessione è prevista nella sede intitolata all'efficacia della cessione nei confronti del debitore ceduto (1264). Sono previste singole ipotesi speciali in cui l'accettazione del debitore ceduto è richiesta ai fini della validità della cessione: casi esemplari sono stati individuati con riguardo alla disciplina dei crediti derivanti da pubblici appalti. Come in ogni contratto che ha per oggetto il trasferimento di un diritto, anche nel caso della cessione il credito si acquista per il solo consenso delle parti legittimamente manifestato, secondo il principio dell'efficacia traslativa del consenso (1376). La regola generale deve essere posta a confronto con la disciplina della cessione del contratto, ove si afferma che "per effetto della cessione il credito è trasferito al cessionario", ma si aggiunge che la cessione è efficace nei confronti del debitore ceduto quando questi l'ha accettata o quando gli è stata notificata (1264 comma 1). Di tre ordini sono le ipotesi di incedibilità del diritto: per natura strettamente personale del credito; per specifico divieto legale; per patto tra creditore e debitore. Della seconda categoria accorre ricordare i diritti sui quali sia sorta contestazione davanti all'autorità giudiziaria (crediti litigiosi), ove la cessione venga disposta a favore di soggetti che fanno parte dell'autorità giudiziaria o che in tale area giurisdizionale esercitano la loro funzione (avvocati). Questi ultimi sono soggetti a un divieto di carattere ancor più generale: non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio (patto di quota-lite). I divieti relativi ai diritti litigiosi non si applicano in due ordini di ipotesi: quando la cessione riguardi una controversia tra coeredi e si riferisca alle azioni ereditarie tra costoro; quando la cessione sia diretta ad estinguere un debito o infine sia fatta per difesa di beni posseduti dal cessionario. Si tratta di eccezioni su cui non si è formata una sia pur minima casistica. I divieti di cui all'art. 1261 sono applicazioni specifiche dell'indirizzo generale seguito nei confronti dei rappresentanti legali dei minori con riguardo ai diritti di questi ultimi, nonché con riguardo alle categorie indicate all'art. 1471. Gli altri divieti legali espressamente previsti dall'ordinamento si giustificano in virtù di finalità sociali legate a quel carattere strettamente personale che già sarebbe sufficiente a escluderne la cedibilità, anche nel difetto di una previsione puntuale: tipica è l'ipotesi del credito alimentare. Diverso fondamento hanno i divieti di carattere volontario. Il patto che esclude la cedibilità del credito, per un verso, non è sottoposto ai limiti fissati per legge con riguardo al divieto di alienazione; per un altro, fermo il principio generale dell'efficacia ristretta alle parti, può essere opposto al cessionario, se il debitore prova che costui sapeva dell'esistenza della pattuita incedibilità al tempo della cessione. Per espressa previsione normativa, la trasgressione dei divieti legali di cessione comporta le conseguenze della nullità e dei danni (1261 comma 1). Vi è chi interpreta la disciplina nel senso della nullità relativa ovvero chi propende per una semplice inefficacia. Si tratta di costruzioni non giustificate dal tenore della disciplina legale; e concettualmente opinabili, oltre che scarsamente significative, soprattutto la seconda, nei riflessi pratici.

L'oggetto del trasferimento è in tutto o in parte una cessione del credito. Cedibile, in virtù di un'interpretazione estensiva, è l'aspettativa, in quanto situazione giuridica già esistente nella sfera giuridica del cedente. Poiché il credito acquistato sotto condizione sospensiva è soltanto eventuale, la cessione si riferirà non già al credito, ma alla posizione che è suscettibile di trasformarsi in un diritto di tale natura. Anche nel caso del credito futuro, il diritto non esiste al momento della cessione, ma in tale ipotesi non si ha l'immediato trasferimento di una situazione giuridica: l'effetto della cessione si produrrà soltanto se e quando il credito verrà ad esistenza in capo al cedente. Il problema più grave si riferisce alle conseguenze della cessione di un credito che risulti essere in realtà inesistente: in assoluto ovvero soltanto nel patrimonio giuridico del cedente. Può darsi che il diritto non sia sorto o che sia estinto. Manca l'oggetto stesso della cessione, che, secondo un'opinione molto discussa, dovrebbe essere nulla, secondo le regole generali in materia di contratto. Sembra invece che la disciplina speciale preveda che il cedente all'atto della cessione debba soltanto garantire che il credito esista (nomen verum). Come in ogni altro caso di violazione della garanzia, non si avrebbe la nullità del contratto, ma un obbligo di risarcimento del danno a carico del cedente.



Tra il cedente e il cessionario l'effetto traslativo è immediato quale conseguenza dell'accordo tra di loro, anche senza il consenso del debitore (1260 comma 1); nei confronti dei terzi a cui il medesimo credito sia stato ceduto o su cui sia stato costituito usufrutto o pegno l'effetto prevalente non è individuato in base al criterio cronologico ma in base al criterio dell'anteriorità della notificazione o dell'accettazione della cessione: tra due cessioni successive la legge dà preminenza non già alla cessione di data anteriore bensì a quella che in data anteriore certa è stata accettata dal debitore ceduto ovvero al medesimo è stata notificata (1256). L'aspetto più discusso si riferisce alla difficoltà di conciliare l'effetto immediato della cessione tra le parti con l'inefficacia della stessa nei confronti del debitore ceduto che sia all'oscuro della cessione. Prevale l'opinione che dopo la cessione, anche se non vi sia stata conoscenza, accettazione o notifica, egli sia debitore nei confronti del cessionario. Non si avrebbe contraddizione alcuna: l'effetto traslativo sarebbe immediato anche nei confronti del debitore. Il pagamento al cessionario sarebbe liberatorio in quanto dovuto, sebbene la cessione non sia stata accettata né notificata. Altri afferma nondimeno che il cessionario non potrebbe pretendere di essere pagato, se il debitore fosse ignaro della cessione. Inoltre per espressa previsione normativa, il pagamento eseguito, sempre in buona fede, al cedente è liberatorio (1264 comma 1 e 2). Ma la pretesa inefficacia nei confronti del debitore ceduto non comporterebbe, anche per costoro, un difetto di titolarità del credito. Si avrebbe piuttosto un limite legale all'esercizio del diritto. La prevalenza della cessione notificata per prima al debitore ceduto o da questi accettata per prima con atto di data certa, ancorché la cessione sia di data posteriore, non presuppone che la cessione sia efficace per terzi soltanto in seguito all'accettazione, alla notifica e più in generale all'effettiva conoscenza del debitore ceduto. Come avviene in altre ipotesi in cui gli interessi degli aventi causa siano in conflitto, il criterio dettato dalla legge non comporta l'originaria esclusione dell'efficacia del trasferimento consensuale di per sé considerato, ma corrisponde a una scelta legislativa diretta a dare prevalenza a uno schema complesso che resta all'esterno del meccanismo traslativo in quanto tale. Le nozione di accettazione e di notificazione della cessione devono essere interpretate secondo una direttiva che sia compatibile con il fondamento della disciplina legale. L'accettazione del debitore ceduto non presuppone necessariamente una manifestazione di consenso al trasferimento del credito. È sufficiente che il debitore dichiari di essere consapevole della cessione. Con riguardo alla notifica le regole applicate tengono conto dell'importanza che assume la conoscenza della cessione comunque acquistata dal debitore: è considerata sufficiente qualsiasi dichiarazione non equivoca con cui la cessione sia resa nota al ceduto.

La cessione comporta che al cessionario il diritto sia trasferito con tutti gli accessori, tra i quali sono da ricomprendere soprattutto i frutti e gli interessi, nonché le garanzie reali e personali (1263). Gli interessi e i frutti si trasferiscono soltanto con riguardo alla parte che deve ancora scadere. I diritti di garanzia si trasferiscono insieme con il credito, purché siano stati costituiti in data anteriore alla cessione. Se l'accessorio è costituito da un diritto di pegno sembra che sia eccezionalmente necessario il consenso del soggetto che ha concesso la garanzia reale e si è privato del bene mobile. Se il consenso è rifiutato, la garanzia si trasferisce ugualmente al cessionario. L'unica conseguenza è che il cedente rimane custode del pegno. Poiché alle parti è data in generale la facoltà di designare un terzo quale custode della cosa data in pegno, si può dire che nel caso del trasferimento del credito garantito da pegno si abbia un'applicazione di tale disciplina e al tempo stesso una deroga: la custodia del terzo è l'effetto di un dissenso delle parti sul passaggio al cessionario del bene pignorato. Non sono accessori del credito le azioni: di volta in volta dovrà accertarsi in via autonoma l'interesse del cessionario, in base al generale principio della tutela giurisdizionale dei diritti e nel rispetto delle posizioni delle posizioni del cedente e del ceduto.

Gli obblighi di garanzia si specificano nelle due forme della garanzia dell'esistenza del credito e della garanzia per la solvibilità del debitore (1266 e 1267). È possibile che la garanzia sia esclusa per accordo tra il cedente e il cessionario, con il limite costituito dal fatto proprio del cedente, il quale è tenuto con riferimento a qualsiasi atto di disposizione che abbia modificato la condizione giuridica del credito trasferito. Nel caso della cessione a titolo gratuito, il richiamo esplicito alle norme in materia di evizione nella donazione rappresenta una conferma del possibile raccordo tra lo schema generale della cessione dei crediti e le figure tipiche già regolate dal codice. La garanzia è dovuta se l'evizione deriva da colpa grave o dolo del donante. La garanzia della solvenza del debitore (pro solvendo) è schema soltanto convenzionale, poiché deve essere espressamente previsto dal cedente e dal cessionario (1267). Il patto deve contenersi entro i confini prefissati allo scopo di evitare che il cedente assuma gravami eccessivi. Le conseguenze ammesse si riferiscono alla responsabilità del cedente, nel caso di insolvenza del ceduto, con riguardo al rimborso delle spese della cessione nonché il versamento degli interessi oltre al risarcimento del danno. Tale responsabilità può essere soltanto attenuata: ogni patto diretto ad aggravarla sarebbe nullo. Di cessione pro solvendo si parla con riguardo alle ipotesi regolate nel contesto della prestazione in luogo dell'adempimento (1197 e 1198).

Sul regime delle eccezioni il codice quasi non si pronuncia. Il cessionario si sostituisce al cedente e assume la sua stessa posizione. In virtù del principio generale, implicito ma indiscusso, il debitore non può in alcun caso subire, per effetto della cessione a cui non ha partecipato, un peggioramento della sua posizione originaria. Il debitore gli potrà opporre tutte le eccezioni che si riferiscono al titolo su cui si fonda il credito, con esclusione di quelle eccezioni che si basano su eventi modificativi o estintivi successivi al momento in cui la cessione stessa assume rilievo senza alcun limite nei confronti di tutti i soggetti interessati. Si è accennato alla possibilità che il debitore opponga in compensazione al cessionario un credito verso il cedente, sorto prima della notifica della cessione, salvo che, accettando questa in maniera pura e semplice, abbia implicitamente rinunciato a far valere il suo diritto. La ratio che presiede alle due norme è identica: in entrambi i casi si vuole evitare che il debitore subisca, per effetto della cessione, un aggravamento della posizione originaria o che comunque sia esposto a facili frodi in conseguenza di accordi tra il cedente e il cessionario.

La problematica della cessione dei crediti ha assunto nuovo risalto con riguardo a uno schema contrattuale, già molto diffuso nei rapporti tra le imprese, la cui regolamentazione legale tipica diverge in molti punti dalla generale disciplina del codice. Si allude al factoring che è un accordo in virtù del quale un'impresa gestisce in senso lato i crediti di altra impresa e assume l'impegno di rendersi cessionaria anche con riguardo a crediti futuri, in maniera quasi del tutto indipendente dal requisito della determinabilità, che tuttora assume rilievo con riguardo alle normali cessioni previste dal codice. Già era forte la tendenza nella prassi a un'applicazione costante della garanzia della solvenza: nella regolamentazione speciale quest'ultima, nei limiti del corrispettivo pattuito per la cessione, assurge al rango di un effetto legale tipico, salvo rinuncia totale o parziale del cessionario. Le altre disposizioni provvedono a regolare i principali problemi relativi all'interferenza tra il regime delle cessioni e la disciplina fallimentare: nel caso di fallimento del debitore ceduto, non è soggetto a revocatoria il pagamento del debitore fallito al cessionario, ma l'azione può essere proposta nei confronti del cedente che fosse consapevole dello stato di insolvenza del debitore ceduto al momento del pagamento al cessionario; nel caso di fallimento del cedente, il pagamento del corrispettivo della cessione da parte del cessionario non è opponibile al fallimento sia stato eseguito nell'anno anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento e prima della scadenza del credito ceduto e che il cessionario conosceva al momento del pagamento lo stato di insolvenza del cedente.

LA DELEGAZIONE ATTIVA

Una modifica dal lato attivo dell'obbligo sembra aversi nel caso della delegazione di pagamento. Il creditore delega un terzo a rendersi destinatario della promessa fatta dal debitore di adempiere l'identica obbligazione esistente nei confronti del creditore delegante. Il terzo delegatario assume insieme con il delegante che già è tale, la qualità di creditore dell'obbligato. La figura della delegazione attiva non è espressamente regolata nel codice civile. Secondo la relazione al codice non si tratta di una lacuna: il fenomeno rientra nella disciplina generale della delegazione. La delegazione attiva può anche presentarsi nella forma di una semplice delegazione attiva di pagamento (delegatio accipiendi) il terzo è autorizzato a ricevere un debito scaduto e al debitore è rivolto l'ordine di pagare al nuovo destinatario-delegatario. Quest'ultimo si aggiunge al creditore originario, ma in posizione preferenziale per quanto si riferisce all'offerta di pagamento.

LA DELEGAZIONE

La delegazione è descritta come una figura atre lati consistente nell'iniziativa di un soggetto (delegante), il quale incarica un altro soggetto (delegato) di obbligarsi nei confronti di un terzo soggetto ovvero di limitarsi a eseguire quest'ultimo (delegatario) un pagamento. Nel primo caso si tratta di delegatio promittendi, nel secondo di delegatio solvendi. Il debitore-delegante deve 100 al creditore-delegatario. A sua volta il debitore-delegante è creditore di 100 nei confronti del suo debitore-delegato. Il rapporto tra il debitore-delegante e il debitore-delegato prende il nome di rapporto di provvista. Il rapporto tra il debitore-delegante e il creditore-delegatario prende il nome di rapporto di valuta. La funzione economica della delegazione è quella di semplificare i rapporti di scambio agevolando i movimenti di ricchezza. Lo schema di base del codice presuppone l'esistenza di due rapporti obbligatori, ma non si dubita che lo strumento della delegazione possa applicarsi anche nel caso in cui non si tratti di estinguere obbligazioni ma si voglia dar vita a rapporti giuridici basati su titoli diversi. Quando la delegazione non è utilizzata per semplificare la fase di esecuzione del rapporto obbligatorio, l'incarico del delegante può portare alla nascita di due crediti in un solo atto. Nel caso delle delegazione di debito il delegato, che è libero di rifiutare, è invitato dal delegante a assumere un obbligo nei confronti del delegatario (1268 comma 1). Nel caso della delegazione di pagamento (1269) la delega del delegante non riguarda l'assunzione dell'obbligo ma la fase dell'esecuzione del rapporto obbligatorio, fermo restando che il delegato resta libero di non accettare di adempiere al delegatario, ancorché sia debitore del delegante (1269 comma 1). Tra delegante e delegato, se il delegato accetta l'incarico, si conclude un contratto che, nel caso della delegazione di pagamento, si configura come un contratto con prestazione al terzo, poiché il delegato adempie all'obbligo nei confronti del delegante (rapporto di provvista) e l'esecuzione verso il delegatario è soltanto una modalità del pagamento esatto, così come il delegante, a sua volta, esegue una prestazione al delegatario (rapporto di valuta) per mezzo del delegato. Un contratto tra il delegante e il delegato è sempre necessario. Discussa è la natura del fenomeno nell'ipotesi in cui il delegato a sua volta abbia assunto l'obbligo nei confronti del delegatario, così da chiudere quel rapporto a tre lati che è l'aspetto caratteristico dell'istituto considerato nel suo complesso. Tra la letteratura giuridica prevalente e la giurisprudenza non vi è consenso. La prima è ormai orientata decisamente in senso favorevole alla concezione del collegamento tra contratti dotati ciascuno di un autonomo rilievo. A una tale opinione atomistica si contrappone una massima giudiziale costante: la delegazione è negozio unitario a tre parti, poiché sono necessarie tre dichiarazioni interdipendenti, nel senso che l'efficacia di ciascuna è legata all'efficacia delle altre due. Il delegato che paga al delegatario o che assume l'obbligo nei suoi confronti può non fare alcun riferimento al rapporto di valuta ovvero al rapporto di provvista. Si dice che la delegazione è pura. Il delegato esegue il pagamento o è vincolato nei confronti del delegatario senza che abbia immediato rilievo giuridico il fondamento giustificativo sottostante alla prestazione eseguita o all'obbligo assunto. Se la delegazione è posta in essere con espresso riferimento al rapporto di provvista, al rapporto di valuta o a entrambi i rapporti, si suole dire che la delegazione è titolata, con un conseguente riflesso sul rapporto tra delegatario e delegato: il primo non è più indipendente dai rapporti sottostanti e viene ad essere ulteriormente individuato con riguardo alla causa. Dal lato dell'obbligo, la sostituzione di un nuovo debitore al debitore originario, potrebbe aversi soltanto se il creditore acconsenta espressamente, ossia se decida di liberare il delegante 8delegazione privativa). In caso contrario, la modifica consiste nella nascita di un ulteriore rapporto collegato al primo: al debitore originario si aggiunge il nuovo debitore. Coesistono due obbligazioni con prestazione identica sulle quali il creditore può contare nei confronti dei due soggetti distinti, sebbene l'obbligazione nei confronti dell'originario debitore assuma una funzione sussidiaria. La delegazione privativa presuppone invece che il creditore non si limiti ad accettare l'obbligo che il delegato assume nei suoi confronti, ma liberi il delegante-debitore originario con dichiarazione unilaterale. Tale ipotesi si avvicina a una remissione del debito, ma con la particolarità che il delegante già ha implicitamente dimostrato di volersi liberare dall'obbligo con il fatto stesso dell'incarico conferito al delegato, sì che egli non potrebbe opporsi alla liberazione offertagli dal creditore. La manifestazione deve essere non equivoca. La delegazione cumulativa, che è figura tipica vincola tanto il delegante quanto il delegato nei confronti del creditore. Sta di fatto che, per espressa previsione normativa, il delegato assume la posizione di obbligato principale: il creditore non può rivolgersi al delegante se prima non ha richiesto al delegato l'adempimento (1268 comma 2). Una particolare gravità può assumere il problema dell'insolvenza del nuovo debitore nel caso di delegazione privativa: sia nell'ipotesi in cui il debitore abbia indebolito la sua posizione nel liberare un debitore originario solvibile e nell'accettare il nuovo debitore insolvente, sia nell'ipotesi in cui il nuovo rapporto venga a cadere. L'assunzione del rischio da parte del creditore, impedisce che questi possa rivolgersi al delegante, ormai liberato, quand'anche il delegato sia divenuto insolvente sulla base di fatti accertati con prova sicura (1274). Il creditore, per ovviare a tali problemi, può riservarsi in maniera espressa la possibilità di rivolgersi al delegante. L'altra ipotesi in cui la legge ammette che il creditore possa rivolgersi al delegante è diretta a scongiurare possibili frodi ai suoi danni: è quanto può accadere se il delegato sia insolvente al tempo in cui assunse il debito. In tal caso il delegante non è liberato. Infine se il nuovo rapporto è nullo o annullabile, l'esigenza di tutela del creditore sembra manifestarsi nella reviviscenza dell'obbligazione originaria. Quest'ultimo aspetto consente di ricapitolare il quadro della sorte delle garanzie: si estinguono senza possibilità di reviviscenza se sono state costituite da un terzo; si estinguono, salva la possibilità di reviviscenza, ove il nuovo obbligo dipenda da un titolo nullo o annullato, se sono state costituite dall'obbligato; e naturalmente non si estinguono in ogni caso se colui che le ha costituite acconsenta a tenerle in vita.

Quando la delegazione è pura, il delegato si obbliga senza alcun riferimento ai rapporti di base: egli non può opporre al delegatario né le eccezioni che avrebbe potuto opporre al delegante, né le eccezioni relative al rapporto tra il delegante e il delegatario. Rimane soltanto il rapporto che si suole denominare finale, ossia il rapporto tra il delegato stesso e il delegatario, il quale resta indipendente dai rapporti di base non richiamati all'atto dell'assunzione dell'obbligo. Quando la delegazione è titolata, è possibile opporre le eccezioni relative al rapporto di base che è stato richiamato dalle parti all'atto dell'assunzione dell'obbligo ovvero le eccezioni relative a entrambi ove si ammetta una titolazione tanto al rapporto di provvista quanto a quello di valuta. C'è almeno un'ipotesi in cui l'autonomia della delegazione pura è esclusa per legge con la conseguenza che assumono in tale caso rilievo le eccezioni legate a un rapporto di base. Si tratta dell'eventualità in cui sia nullo il rapporto tra delegante e delegatario (rapporto di valuta). In tal caso, soltanto se sia pienamente valido il rapporto tra delegato e delegante (rapporto di provvista) il rapporto tra delegato e delegatario (rapporto finale) manterrà la sua indipendenza; altrimenti si avrà una ripercussione del vizio che inficia all'origine i rapporti di base anche sul rapporto tra delegato e delegatario. Il delegato potrà opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre al delegante. Altro dubbio si riferisce all'ipotesi, simmetrica a quella ora descritta, in cui l'eccezione, dal delegato opposta al delegatario, sia ascrivibile non già al rapporto di provvista ma al rapporto di valuta e concerna la validità o l'efficacia del titolo su cui quest'ultimo si basa (1271).

La delegazione di pagamento ha un ruolo autonomo nel sistema e si distingue da altre ipotesi strutturalmente affini. Si è detto che il delegato a pagare, una volta eseguita la prestazione, adempie sia all'obbligo a cui il debitore-delegante è tenuto nei confronti del delegatario sia all'obbligo a cui egli è tenuto nei confronti del delegante. Allorché il delegatario accetti di servirsi della delegazione, è inevitabile chiedersi se si applichi la disposizione secondo cui il creditore ha l'onere di rivolgersi prima al delegato e poi al delegante (1268 comma 2). Non pare che un'applicazione analogica della norma sia possibile. La giurisprudenza ha affermato che la domanda di pagamento al delegato non interrompe la prescrizione, in quanto non rivolta al debitore.

ESPROMISSIONE

L'espromissione è figura che si caratterizza per la mancanza di una partecipazione del debitore all'iniziativa del terzo, il quale assume nei confronti di un creditore l'obbligo del debitore medesimo. Il terzo che prende su di sé, senza far riferimento agli eventuali rapporti con il debitore, l'obbligo altrui prende il nome di espromittente; il debitore originario prende il nome di espromesso (1272). L'iniziativa dell'espromittente deve essere spontanea, nel senso che il debitore non prende parte in alcun modo all'operazione. Riguardo alla struttura, si tratta sicuramente di un contratto in caso di espromissione liberatoria, ma prevale, con qualche dissenso, l'opinione secondo cui il consenso del creditore sarebbe sempre richiesto, poiché, anche nel caso dell'espromissione cumulativa, il debito originario viene ad assumere carattere di sussidiarietà. L'obbligo dell'espromittente può aggiungersi all'obbligo dell'espromesso: si dice difatti che l'espromissione è normalmente cumulativa. Ma può anche sostituirsi all'obbligo dell'espromesso, purché vi sia l'espressa dichiarazione del creditore diretta a liberare il debitore. Concettualmente la distinzione tra l'espromissione cumulativa e la fideiussione è chiara: l'esprommitente intende proprio assumere su di sé l'obbligo il debito dell'espromesso nei confronti del creditore, non vuole rendersene soltanto garante. Il consenso del creditore alla liberazione del debitore non deve essere equivoco. Alcuni problemi nascono a causa della lacunosità della disciplina. In particolare, nel caso dell'espromissione cumulativa, il dubbio sulla presenza di un comune meccanismo di solidarietà sembra testualmente escluso, là dove si afferma che l'espromittente è obbligato in solido con il debitore originario non liberato (1272 comma 2; 1292). Come già detto si ammette che sia applicabile la regola della sussidiarietà. Rientra certamente in una previsione di carattere generale la regola da applicarsi alla sorte delle garanzie annesse al credito. Se colui che ha prestato le garanzie non acconsente espressamente a mantenerle, la liberazione del debitore originario ne comporta l'estinzione. Deve nondimeno tenersi conto dell'opinione secondo cui la regola non si applicherebbe ai privilegi. In termini generali è formulata anche la norma dell'art. 1276: se l'obbligazione assunta dal nuovo debitore verso il creditore è dichiarata nulla o annullata, e il creditore aveva liberato il debitore originario, l'obbligazione di questo rivive, ma il credito non può valersi delle garanzie prestate da terzi. L'espromissione tende alla liberazione, immediata o mediata, del debitore originario nei limiti della tutela del credito esistente: l'espromittente, di conseguenza, può opporre al creditore tutte le eccezioni che il debitore originario avrebbe potuto opporre, ossia le eccezioni relative al rapporto tra espromesso e creditore. Sono escluse le eccezioni relative al rapporto, ove esista, tra l'espromittente e l'espromesso. È possibile una diversa regolamentazione per accordo tra le parti. L'espressa esclusione della facoltà di eccepire la compensazione suggerisce un confronto con l'art. 1302. Si tratta, a ben vedere, di una scelta coerente con la distinta struttura dei due fenomeni: difatti, nel caso dell'espromissione si presuppone il riferimento a un interesse unisoggettivo non già a una comune situazione e paritaria situazione di condebito. Si applica insomma il principio secondo cui il debitore principale non può opporre in compensazione al creditore un controcredito del garante.

ACCOLLO

L'accollo si distingue per il fatto che l'assunzione dell'obbligo altrui non avviene per il tramite di un accordo con il creditore, ma per mezzo di un contratto tra il debitore e il terzo (1273). A un tale patto il creditore può aderire con l'effetto di rendere irrevocabile la stipulazione a suo favore. L'accollo si presenta come un contratto con cui un soggetto, che prende il nome di accollante, assume su di sé, per accordo con il debitore, l'obbligo di quest'ultimo, che prende il nome di accollato. Il creditore è detto accollatario. La casistica è significativa: oltre alle ipotesi di assunzione dell'obbligo di pagamento delle rate di un mutuo ipotecario in collegamento con l'acquisto di un immobile, si ricollega la convenzione con cui il finanziatore, all'atto di cessione di un finanziamento, si impegni a tenere indenne il debitore del peso degli obblighi alla cui estinzione è preordinato il pagamento medesimo. I contraenti possono pattuire che l'accordo abbia effetto soltanto tra di loro; il vincolo sarebbe sempre revocabile anche contro la volontà del creditore. Tale schema è descritto come accollo interno o accollo semplice. Lo schema legale è costituito dall'accollo con efficacia esterna. La rilevanza esterna è una conseguenza automatica dell'atto con cui il debitore e un terzo convengono che questi assuma il debito dell'altro: la legge non richiede ulteriori presupposti al fine di consentire al creditore di aderire alla convenzione, rendendo irrevocabile la stipulazione a suo favore (1273). I problemi più controversi si riferiscono alla posizione del creditore. La legge sembra presupporre che l'effetto vantaggioso per il creditore si sia prodotto in via automatica con l'accordo tra il debitore e il terzo: all'adesione è legata soltanto la conseguenza dell'irrevocabilità della stipulazione. Tra l'adesione dell'accollatario e la dichiarazione di volerne profittare, che è prevista nel quadro della disciplina del contratto a favore di terzi (1411), significativi sembrano i punti di contatto. Non sono mancate le critiche, rese possibili dall'approfondimento della specialità della disciplina dell'accollo: si è osservato che il fenomeno non rientra integralmente nel quadro di un'applicazione legale tipica della figura generale del contratto a favore di terzi. Le conseguenze più significative si riferiscono al regime delle eccezioni: si tratta di chiarire se la disciplina dell'accollo sia autonoma (1273 comma4) o sia una semplice ripetizione di quella dettata con riguardo alle eccezioni opponibili dal promittente al terzo (1413).

Anche l'accollo può essere cumulativo o liberatorio, a seconde che il nuovo debitore resti obbligato insieme con il debitore originario o, con il necessario consenso del creditore, si sostituisca al debitore, il quale sia liberato. Sull'accollo cumulativo, al pari di quel che avviene nel caso dell'espromissione cumulativa, il codice non offre alcuna indicazione in merito all'ordine degli obbligati: anche in questo caso, come nell'ipotesi dell'espromissione, è inoltre esplicata l'affermazione che l'accollante rimane obbligato in solido con l'accollato (1273 e 1292). L'accollo privativo o liberatorio presuppone un'espressa dichiarazione del creditore diretta a liberare il debitore originario. È prevista l'ipotesi in cui la liberazione del debitore costituisca condizione espressa della stipulazione, nel qual caso l'adesione del creditore dell'accollo è di per sé sufficiente a produrre l'effetto privativo (1273). È inoltre concettualmente ammissibile un accollo novativo, sebbene nell'incertezza possa propendersi per l'ipotesi privativa e debba comunque preferirsi una disciplina unitaria. Il contratto di accollo che preveda la condizione espressa della liberazione del debitore originario consente al creditore, il quale abbia aderito alla stipulazione, di agire contro l'accollato, se l'accollante era insolvente al tempo in cui assunse il debito, fermo restando che, se il creditore abbia fatto espressa riserva, gli è consentito di rivolgersi all'accollato-debitore originario, già liberato, anche se l'accollante diviene insolvente in seguito. Il codice prevede espressamente l'ipotesi che il terzo-accollante sia obbligato nei limiti che siano stati previsti nel contratto di accollo stesso (1273).

Sul regime delle eccezioni le opinioni sono divergenti. Sono inopponibili le eccezioni fondate sui rapporti, tra il vecchio e il nuovo debitore, che abbiano carattere personale e quindi restino estranei al contratto di accollo. Opponibili all'accollatario sono invece le eccezioni fondate sul contratto di accollo stesso. Inoltre, si è precisato che l'accollante assume un obbligo che si modella sul rapporto preesistente tra il debitore originario e il creditore; e si è concluso nel senso che sia implicita nel sistema anche l'opponibilità di un tale ordine di eccezioni.

La letteratura ha provveduto a sistemare i numerosi casi di accollo derivanti direttamente dalla legge con distinto riferimento alle tre figure dell'accollo semplice, dell'accollo cumulativo e dell'accollo liberatorio. Esempi:

accollo interno: l'obbligo di tenere indenne il gestore da parte di colui che si avvantaggia dell'altrui utile gestione; il vicolo della società per azioni tenuta a rilevare i promotori delle obbligazioni assunte;

accollo privativo: si pensi all'ipotesi del compratore di azienda, il quale subentra nei anche nei rapporti di debito che non abbiano carattere personale;

accollo cumulativo: si rammenti la responsabilità del mandatario che senza autorizzazione o senza necessità sostituisca altri a se stesso nell'esecuzione del mandato.

CESSIONE DEL CONTRATTO

La cessione del contratto assolve una funzione economica importante: consente di eliminare complicate e dispendiose rinnovazione del contratto. Con la cessione del contratto, al contraente originario si sostituisce un nuovo contraente: è trasferita l'intera posizione che la parte ha nel contratto, ossia la complessiva titolarità dei crediti e degli obblighi che fanno capo al contraente. L'ipotesi tipica a cui nel diritto vigente si fa riferimento in linea generale è costituita dal contratto con prestazioni corrispettive. Oltre al presupposto della corrispettività delle posizioni trasferite, un altro è testualmente richiesto, a cui pure si attribuisce il carattere di un logico corollario: è necessario che entrambe le obbligazioni siano sempre in vita, ossia che le prestazioni non siano state ancora eseguite da entrambe le parti. Se entrambe le prestazioni sono state eseguite, la cessione risulta priva del suo oggetto: il rapporto contrattuale è attuato; il contratto viene meno. La cessione del contratto richiede necessariamente il consenso dell'altra parte (1406). Prevale quindi l'opinione che si tratti di un contratto plurilaterale da stipularsi tra cedente, ceduto e cessionario, sebbene il consenso del contraente ceduto possa precedere quello degli altri e possa essere manifestato per comportamento concludente. Si è detto che l'accettazione del contraente ceduto può essere preventiva, ne è necessario che sia reiterata al momento della cessione del contratto. Se il contraente che ha dato il consenso preventivo è rimasto estraneo alla cessione successiva, un tale atto è efficace nei suoi confronti soltanto dal momento in cui vi sia stata notifica o accettazione. Accettazione e notificazione non sono richieste nei casi in cui la cessione del contratto avvenga per mezzo dei cosiddetti stabiliti, ossia per il tramite di documenti da cui risultino tutti gli elementi di un contratto e ai quali sia stata apposta la clausola all'ordine o un'altra clausola equivalente (1407). Il presupposto di efficacia della sostituzione del nuovo contraente al contraente originario è costituito in tal caso alla girata del documento stesso, alla quale possono ascriversi le stesse conseguenze di una notifica. Il giratario dello stabilito è il contraente-cessionario e il girante è il contraente-cedente. Il primo subentra automaticamente nella posizione complessiva della parte che ha trasferito con girata il documento. La cessione del contratto ha un'efficacia liberatoria automatica che è conseguenza naturale dell'atto. Gli obblighi del cedente si estinguono in virtù del consenso del ceduto alla cessione stessa, quale conseguenza implicita dell'accettazione. Il cedente garantisce per legge soltanto la validità del contratto ceduto (nomen verum). La responsabilità è di natura contrattuale. La garanzia dell'adempimento presuppone una previsione esplicita, che trasforma il cedente in un fideiussore, il quale, in quanto tale, risponde in solido con il contraente ceduto verso il cessionario.

Il regime delle eccezioni opponibili dal cessionario è regolato alla stregua di un corollario dell'effetto globale della cessione (1409): il cessionario subentra, salvo patto contrario, nella medesima posizione del cedente: assume gli stessi diritti e gli stessi obblighi di lui. Il contraente ceduto potrà opporre tutte le eccezioni derivanti dal contratto e dalle vicende del rapporto conseguente. Sono escluse tutte le altre eccezioni relative ad altri rapporti personali con il cedente. Quanto al passaggio delle azioni, si pensa che il cessionario non possa esercitare, nei confronti del ceduto, quelle azioni che sia tali da investire soltanto la sfera patrimoniale del cedente. In particolare, se è annullabile o rescindibile il contratto da cui derivano i rapporti ceduti, non spetterebbe al cessionario il diritto di chiedere l'annullamento o la rescissione, poiché la sua pretesa si baserebbe su di un titolo nuovo, che sarebbe immune dai vizi genetici del contratto originario.







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