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Appunti di Filologia Occitana -Guglielmo IX d'Aquitania

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Appunti di Filologia Occitana






1. Introduzione

Le uniche attestazioni delle liriche dei trovatori, che si espressero dalla fine dell'XI fino all' inizio del XIII secolo, ci sono pervenute grazie ai canzonieri redatti nelle corti dell'Italia settentrionale intorno alla prima metà del XIII secolo. Questi canzonieri sono un corpus misto, composto cioè da varie parti, che si articolano in:


-miniature: la vita e i contenuti delle liriche sono descritti mediante immagini;

-notazioni musicali: sono presenti anche gli spartiti originali della musica che accompagnava il canto dei versi trobadorici. All'epoca non esisteva ancora il pentagramma odierno ma il tetragramma (composto, cioè, da quattro linee), in cui non vi sono precisati né la chiave di tono né il tempo, tanto da risultare impossibile suonare quelle musiche (probabilmente la melodia seguiva di pari passo la metrica delle liriche). Ci è pervenuto solamente il 10 % circa degli spartiti;



-vers: ossia le liriche vere e proprie articolate in strofe, rime, ecc.;

-vìdas: sono le biografie dei singoli trovatori. Le prime vidas sono state scritte in Italia all'inizio del XIII secolo;

-razòs: sono dei commenti o interpretazioni dei singoli testi.


L'articolazione di questo tipo di canzoniere è dovuta ad Uc de Sant Circ, trovatore egli stesso, stabilitosi alla corte di Ezzelino e Alberico da Romano nella Marca Trevigiana intorno al 1220.

Dopo il XIII secolo non si può parlare di poesia occitana, e quindi di trovatori, perché viene meno l'elemento musicale, componente invece essenziale delle loro canzoni. Pubblicate in libro, e quindi venuta meno la componente musicale, le loro canzoni si sono trasformate in liriche. Destinatari delle poesie dei trovatori erano sia uomini che donne, a differenza della poesia che verrà dopo di loro (come, per esempio, quella dei poeti siciliani alla corte di Federico II) dove uniche destinatarie saranno le donne.

L'elemento più caratterizzante dell'intero corpus dei trovatori è senz'altro la rima. La rima non è un elemento nuovo, inventato di sana pianta dai trovatori, ma era già stata utilizzata in altre culture poetiche come quella cinese e sanscrita, come pure nella tradizione latino-medievale. La rima, però, era usata soltanto sporadicamente. L'originalità dei trovatori fu quella di farne un uso sistematico e rigoroso. Il primo esempio di poesia rimata è dato da un testo che risale ai primi decenni del V secolo d.C. appartenente a S. Agostino, un salmo intitolato "De abbundantia peccatorum". Era una sorta di "abbecedario", un componimento in cui ogni strofa cominciava con una lettera dell'alfabeto. La rima del salmo di S. Agostino si basava soltanto sulla terminazione vocalica:


".conturbare

.permonere

.mare

.separare."


Un altro tipo di r 848b17i ima è l' assonanza ed è propria della poesia cavalleresca ( per esempio, la "Chanson de Roland"). La lirica dei trovatori è perfetta, non ammette delle rime imperfette. Le influenze, per quanto riguarda la rima, che più agirono sulla nuova poesia trobadorica sono da ricercarsi nella poesia latina sicuramente, ma soprattutto nella cultura araba proveniente dalla vicina Spagna, propriamente dalla regione musulmana denominata "Al-andalus". Grazie ai trovatori, la rima si espande anche nella poesia latino-medievale.





2. I trovatori


Guglielmo IX d'Aquitania

Guglielmo XI d'Aquitania (1071-1126) è il primo trovatore di cui abbiamo una vida. Nono conte di Poitiers, fu uno dei maggiori feudatari dell'epoca, partecipò anche a due crociate in Terra Santa. Era un feudatario così potente e ricco da possedere più terre del Re di Francia. Oltre che feudatario, fu poeta ed anche mecenate. In quanto poeta e compositore, si esibiva spesso nella sua corte come un istrione. Si abbandonò a vita mondana e sregolata, contro ogni pudicizia. Amante di molte donne, si sposò due volte e scrisse molti versi per una delle sue tante amanti, cui donò una casa vicino al suo castello.


Vida di Guglielmo IX d'Aquitania

(traduzione)

Il conte del Poitou (è la regione dove si trova Poitiers) fu uno dei maggiori ingannatori di donne (qui nel senso di dama: "domna", "dompna" = dama, signora; mentre donna si diceva "fem"), e buon cavaliere d'armi e generoso nel corteggiare, e seppe ben comporre (nel senso di "comporre musica") e cantare (nel senso di "eseguire le canzoni"). E andò per lungo tempo per il mondo per ingannare le donne. Ed ebbe un figlio, che ebbe per moglie la duchessa di Normandia, da cui ebbe una figlia che fu moglie del re Enrico d'Inghilterra, madre del Re Giovane e del signor Riccardo e del conte Giaffrè di Bretagna.


Di Guglielmo IX ci sono rimasti 10 componimenti, più un altro di dubbia attribuzione, che hanno per destinatari solo uomini e non sono privi di oscenità. Nel 1928 uno studioso, Pio Rajna, lo ha definito "bifronte", cioè dalla doppia faccia, schizofrenico, perché nelle sue poesie da una parte egli canta l'amore per le donne mentre dall'altra, all'opposto, le denigra.

Pos vezem de novel florir canta l'amore non come sentimento mirato, cioè rivolto ad una donna precisa, bensì come una norma di comportamento.


Pos vezem de novel florir

(traduzione)


Poiché vediamo[1] di nuovo fiorire

prati, e rinverdire giardini,

ruscelli e fonti schiarirsi,

brezze e venti,

ben deve ciascuno godere la gioia

di cui è gioioso.


D'amore non devo parlare se non bene.

Perché non ne ho né poco né niente?

Perché ben facilmente più non me ne spetta!

Perciò facilmente

dona gran gioia a chi ben mantiene

i precetti.


Sempre mi è capitato così

che mai di ciò che io amai non godessi,

e non lo farò, né mai lo feci;

perché consapevolmente

faccio molte cose che il mio cuore mi dice:

"Tutto è niente."


Perciò ne ho meno piacere

perché voglio ciò che non posso avere.

E se il proverbio mi dice il vero

certamente:

"A buon animo buon potere,

chi è ben sofferente ."[2]


Mai sarà nessuno fedele

nei riguardi dell'amore, se non gli è sottomesso,

e se agli estranei e ai vicini

non è consenziente,

e a tutti quelli di quelle dimore

obbediente.


Obbedienza deve portare

a molte persone, chi vuole amare;

e gli conviene[3] saper fare

belle imprese

e che si guardi nella corte dal parlare

villanamente.


Del componimento vi dico che più ne vale

chi ben lo comprende, ed ha più la lode,

perché le parole sono fatte tutte esattamente

allo stesso modo,

e la melodia, e io stesso me ne lodo,

buona e valida.


A Narbona, ma io non vado lì,

le sia presente[4]

il mio componimento, e voglio che di questa lode

mi sia testimone.


Mio Stefano[5], perché io non ci vado,

le sia presente

il mio componimento, e voglio che di questa lode

mi sia testimone.






Ab la dolchor del temps novel

(traduzione)


Per la dolcezza del tempo nuovo

mettono le foglie i boschi, e gli uccelli

cantano, ciascuno nella propria lingua[6],

secondo il verso[7] del canto nuovo:

dunque è giusto che ciascuno si volga

a ciò di cui si ha più desiderio.


Da lì dove mi è più buono e bello

non vedo messaggero né messaggio,

sicchè il mio cuore[8] non dorme e non ride

né io oso farmi avanti,

finchè io non sappia bene del fatto

se esso è così come io lo voglio.


Il nostro amore va così

come il ramo del biancospino,

che sta sull'albero bruciando,

la notte, con la pioggia e al gelo,

fino al giorno dopo, quando il sole si spande

attraverso il fogliame sul ramoscello[9].


Ancora mi ricordo d'un mattino

quando noi ponemmo fine alla guerra

e che mi donò un dono così grande:

il suo amore e il suo anello.

Ancora mi lasci Dio vivere tanto

che io metta le mie mani sotto il suo mantello!


Perché non m'importa dello strano latino

che mi divide dal mio Buon Vicino;

perché io so le parole come vanno,

quando si recita un breve sermone che si recita:

perché alcuni si vanno vantando dell'amore,

e noi non ne abbiamo il pezzo e il coltello[10].





Farai un vers, pos mi sonelh


Farai un vers, pos mi sonelh è un "devinalh", un componimento particolare: è una sorta di indovinello dove il poeta presenta dei particolari assurdi, in cui lui fa cose inconsuete e il pubblico deve riuscire a capire il perché di queste sue azioni "all'inverso".



Farò un componimento, perché ho sonno,

e cammino e sto fermo al sole.

Ci sono dame che non ragionano,

e so dire quali:

quelle che l'amore dei cavalieri

volgono al male[11].


Non fa peccato mortale la donna

che ama un cavaliere leale;

ma se ama un monaco o un chierico

non ha ragione:

giustamente la si deve bruciare

con un tizzone[12].


In Alvernia, oltre il Limosino,

me ne andai tutto solo a fare il pellegrino[13]:

trovai le mogli di don Guarino

e di don Bernardo[14];

mi salutarono in modo molto riservato,

in nome di S. Leonardo.


Una mi disse nella sua lingua:

"Oh, Dio vi salvi, signor pellegrino!

Mi sembrate molto di buona condizione,

a mio giudizio;

ma troppo vediamo andare per il mondo

un sacco di pazzi".


Ora sentirete cosa ho risposto:

io non le dissi né "ba" né "but",

né ferro né fusto ho menzionato,

ma ho detto solo:

"Babariol, babariol,

babarian".


"Sorella," disse la signora Agnese alla signora Ermessenda,

"abbiamo trovato ciò che cercavamo!"

"Sorella, per amor di Dio, ospitiamolo,

perché è ben muto,

e mai attraverso di lui il nostro piano

non sarà scoperto".


Una mi prese sotto il mantello

e mi portò nella sua camera, accanto al camino;

sappiate che per me fu buono e bello,

e il fuoco fu buono,

ed io mi scaldai con piacere

accanto ai grandi carboni.


Mi diedero da mangiare capponi,

e sappiate che ne ebbi più di due;

e non c'era né cuoco né sguattero,

ma solo noi tre;

e il pane era bianco e il vino era buono

e il pepe spesso.


"Sorella, se quest'uomo è furbo

e lascia il parlare per causa nostra,

noi portiamo il nostro gatto rosso

immediatamente,

perché lo farà subito parlare,

se in qualcosa ci mente".


La signora Agnese se ne andò per noia:

ed ebbe grandi e lunghi baffi;

ed io, quando lo vidi entrare tra di noi,

ebbi uno spavento,

che per poco non persi la forza

e l'ardore.


Quando avemmo bevuto e mangiato,

e mi spogliai per loro piacere;

da dietro mi portarono il gatto

cattivo e ingannatore:

una lo tira dal fianco

fino al tallone.


Per la coda improvvisamente

tira il gatto, che graffia;

mi fecero più di cento ferite

quella volta;

ma non mi sarei affatto mosso nemmeno

se qualcuno mi avesse ucciso.


"Sorella," disse la signora Agnese alla signora Ermessenda,

"è muto, e questo si capisce".

"Sorella, prepariamoci al bagno

e al soggiorno".

Otto giorni ancora più stetti

da quelle parti.


Tante volte feci l'amore con loro come sentirete:

188 volte,

che per poco non ruppi le mie cinghie

e i finimenti;

e non vi posso dire le sofferenze,

tanto grandi me ne vennero.


Monet, tu andrai domani mattina,

porterai la mia poesia nella bisaccia

direttamente alle mogli di don Guarino

e di don Bernardo:

e dì loro che per amor mio

uccidano il gatto.





Jaufre Rudèl

Jaufre Rudel è il primo trovatore di cui ci restano delle poesie con il suo nome. Misterioso e raffinato nel comporre, è stata costruita una leggenda attorno alla sua figura, quella dell' "amante pellegrino". Giosuè Carducci ha scritto una ballata su questo trovatore, intitolata proprio con il suo nome, datata 25 febbraio 1888 e raccolta nel volume "Rime e ritmi". Di Jaufre Rudel ci sono pervenute soltanto sei canzoni ed una di queste ha una doppia redazione: è un caso quasi unico questo di varianti di un autore in età medievale. La "variantistica" studia proprio queste variazioni dei testi che non possono essere attribuite ai copisti (che solitamente sbagliano a trascrivere le parole) ma sono proprie dell'autore. Gianfranco Contini, uno dei maggiori filologi italiani, ha trovato delle varianti nel Canzoniere di Petrarca. Qualche anno fa, ancora, è stato trovato un esemplare di varianti d'autore del Decameron di Boccaccio.


Vida di Jaufre Rudel

(traduzione)

Jaufre Rudel di Blaia fu un uomo molto gentile (nel senso di "molto cortese", "con dei modi nobili") e fu principe di Blaia (questo non è attestato da nessuna parte). E si innamorò della contessa di Tripoli (Tripoli di Libia), senza averla vista (il cosiddetto "amore per udito", un amore cioè per sentito dire, dalle parole della gente, senza sapere com'è fatta fisicamente la persona amata), per il bene che lui ne sentì dire dai pellegrini che venivano da Antiochia. E compose su di lei molti componimenti poetici con buone melodie, con povere parole. E per volontà (desiderio) di vederla, egli si fece crociato e si mise in mare; e una malattia lo colse sulla nave, e fu condotto a Tripoli, in un albergo quasi morto. E ne fu informata la contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese tra le sue braccia. E si rese conto che quella era la contessa, e subito recuperò l'udito e il respiro, e ringraziò Dio di averlo lasciato vivere fino a quel momento per vederla; e morì fra le sue braccia. Ed ella lo fece seppellire con grande onore nella casa del Tempio; e quel giorno stesso si fece monaca, per il dolore della morte di lui.

Sembra che Jaufre Rudel avesse dei contatti con Guglielmo IX d'Aquitania: si dice addirittura che fosse suo padrino. Sebbene il suo modo di comporre non sia molto complesso, sono state date svariate interpretazioni delle sue poesie.



Laquan li jorn son lonc en mai

Mario Casella e Salvatore Battaglia hanno dato delle interpretazioni diverse di questa poesia. Per Casella la terra lontana, di cui si parla nel testo, non è una terra materiale ma un "mito oscuro" che si ricollegherebbe alle astrazioni agostiniane. Per Battaglia, invece, Jaufre Rudel canterebbe la nostalgia per un qualcosa di inafferrabile, inarrivabile. Per Leo Spitzer, un filologo austriaco, riprendendo queste precedenti interpretazioni, Jaufre Rudel porterebbe alle estreme conseguenze quello che lui chiama il "paradosso amoroso", che consiste in un tipo di amore irraggiungibile: se l'amore può essere raggiunto allora non può essere cantato. Il paradosso consiste proprio in questo, in questa assenza: dove c'è possesso, e quindi materialità, non può esistere il canto amoroso. Ci sarebbe, secondo questa interpretazione, un riferimento alla filosofia di S. Agostino, al suo "paradosso cristiano": il cristiano ha una conoscenza della realtà irreale, in quanto la realtà non esiste; tutto ciò che il cristiano vede sono solo delle ombre, perché tutto ciò che è vero lo conoscerà soltanto dopo la morte, nella vita eterna. Quindi il "paradosso amoroso" risulta del tutto omologo al "paradosso cristiano". Un altro studioso, Michelangelo Picone, ha messo in rapporto la "peregrinatio amoris" con l'itinerario cristiano: mentre alla fine del pellegrinaggio cristiano c'è Dio, nel pellegrinaggio amoroso viene messa la donna amata. In questo senso, l'amore produce un perfezionamento, con l'unico eccezione che questo tipo di pellegrinaggio è tutto mondano e non religioso come l'altro.




Quando i giorni sono lunghi a maggio

mi piace il dolce canto degli uccelli di lontano[15],

ma quando me ne sono andato di là

mi ricordo d'un amore di lontano.

Me ne vado con l'animo afflitto e triste,

sicchè né il canto né il fiorire del biancospino

non mi piace più dell'inverno gelato.


Giammai non gioirò d'amore

se non godo di questo amore di lontano:

perché non ne conosco uno più gentile né migliore

da nessuna parte, né vicino né lontano.

Tanto il suo pregio è così verace e fine

che là nel regno dei saraceni

fossi io chiamato per lei prigioniero![16]


Triste e gioioso me ne partirò,

se mai vedessi l'amore di lontano;

ma non so quando lo vedrò,

perché le nostre terre sono troppo lontano:

ci sono troppi passi e strade

e per questo non sono sicuro.

Ma tutto sia come piace a Dio!


Ben mi apparirà la gioia quando le chiederò,

per amor di Dio, l'ospitalità di lontano:

e, se a lei piace, albergherò

presso di lei, benché io sia di lontano.

Dunque parrà bella la conversazione[17],

quando l'amante[18] lontano sarà così vicino

che con arte cortese godrà la gioia.


Ben considero il Signore veritiero

perché io vedrò l'amore di lontano;

ma per un bene che me ne tiene

ne ho due mali, perché tanto mi è di lontano.

Ah! Fossi io lì pellegrino,

sicchè il mio bastone e la mia schiavina

fossero ammirate dai suoi begl'occhi!


Dio, che fece tutto quanto viene e va

e creò questo amore di lontano,

mi dia potere, che io ho coraggio,

di vedere questo amore di lontano,

veramente, in tale intimità,

sicchè la camera e il giardino

mi sembrassero sempre un palazzo!


Dice la verità chi mi chiama avido

e desideroso dell'amore di lontano,

perché nessun'altra gioia mi piace tanto

come il godimento dell'amore di lontano.

Ma ciò che io voglio mi è proibito,

perché così mi stregò il mio padrino

che io amassi senza essere amato.


Ma ciò che io voglio mi è vietato.

Sia maledetto il padrino[19]

che mi ha stregato in modo che io non fossi amato!





Guillem de Cabestaing

La vida di Jaufre Rudel e questa di Guillem de Cabestaing presentano dei motivi d'amore che verranno ripresi spesso in seguito. In particolare, dalla triste storia di Guillem de Cabestaing, Boccaccio ha ricavato il motivo del "cuore mangiato" e ne ha scritto una novella raccolta nel Decameron ("Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore, e col suo amante è seppellita" - quarta giornata, novella nona).


Vida di Guillem de Cabestaing

(traduzione)

Guillem de Cabestaing fu un cavaliere della regione della regione di Rossiglione, che confina con la Catalogna e il Narbonese. Fu un uomo molto avvenente, e molto apprezzato (dotato, cioè, di molte qualità) di armi e di cortesia e di servire. E c'era nella sua regione una dama che aveva nome madonna Soremonda, moglie del signor Raimon de Castel Rossiglion, che era molto gentile (cortese) e potente e cattivo e brusco e feroce e orgoglioso. E Guillem de Cabestaing così amava la donna per amore e componeva si di lei le canzoni. E la donna, che era giovane e allegra e gentile e bella, così le voleva bene più di ogni altra cosa al mondo. E fu riferito a Raimon de Castel de Rossiglion; e lui, da uomo irato e geloso, indagò tutto il fatto e seppe che era vero e fece sorvegliare la moglie.

E quando venne un giorno, Raimon de Castel Rossiglion trovò Guillem de Cabestaing che passava senza grande compagnia, e lo uccise; e gli fece strappare il cuore dal corpo (petto) e gli fece tagliare la testa; e fece portare il cuore nella sua dimora e la testa anche e fece il cuore arrostire e lo fece fare alla pepata (forse è alla carbonara) e lo diede da mangiare alla moglie. E quando la donna lo ebbe mangiato, Raimon de Castel Rossiglion le disse: "Sapete cosa voi avete mangiato?" Ed ella disse: "No, se non che è stata una vivanda molto saporita". E lui le disse che quello che lei aveva mangiato era il cuore di Guillem de Cabestaing; e, affinché ella gli credesse, si fece portare la testa davanti a lei. E quando la dama vide e udì ciò, ella perse la vista e l'udito (il vedere e il sentire, svenne insomma). E quando ella si riebbe, disse: "Signore, voi mi avete dato un cibo così buono che io non ne mangerò più d'altro". E quando egli sentì ciò, corse alla sua spada e voleva colpirle la testa; ed ella corse ad un balcone e si lasciò cadere giù, e morì.

E la notizia corse per il Rossiglione e per tutta la Catalogna che il signor Guillem de Cabestaing e la donna erano morti in malo modo e che il signor Raimon de Castel Rossiglion aveva donato il cuore di Guillem da mangiare alla donna. Ci fu grande tristezza per tutte le regioni. Il ricorso arrivò al re d'Aragona, che era signore di raimon de Castel Rossiglion e di Guillem de Cabestaing. E venne fino a Perpignan, in Rossiglione, e fece venire Raimon de Castel Rossiglion davanti a lui; e gli tolse tutto quello che aveva, e lo mandò in prigione. E poi fece prendere Guillem de Cabestaing e la dama e li fece portare a Perpignan e fece costruire un monumento davanti l'uscio della chiesa; e fece raffigurare sul monumento come essi erano stati uccisi; e ordinò a tutta la contea del Rossiglione che tutti i cavalieri e le donne venissero in processione davanti a loro. E Raimon de Castel Rossiglion morì nella prigione del re.





Marcabru

La pastorella è un generemolto antico, sebbene gli esemplari di Marcabru siano gli unici pervenuti. Un esempio è dato dal "Libro de buen amor" attribuibile ad Archipreste de Hita. Quest'opera non categorizzabile in un genere preciso: è scritto in quartine monorime, in alessandrini, contiene degli inserti lirici tra cui alcune canzoni mariane ed alcune pastorelle particolari: le "serranes". Risulta essere un'opera autobiografica e allo stesso tempo una parodia dell'ideologia trobadorica: al suo interno contiene anche favole animali. E' un opera che spazia dalla poesia alla prosa. Il protagonista cerca l'amore puro (la cosiddetta "fin'amor" trobadorica) e ad un certo punto cerca di sposarsi senza riuscirvi. Ci prova in tutti i modi e alla fine si rivolge a due "ruffiani". La pastorella è un momento di trasgressione dell'amor cortese, è una sorta di parodia dell'etica cortese. La pastorella è un genere che si adatta a qualsiasi materia, anche quella religiosa. Le pastorelle di Marcabru, come pure L'autrier jost'una subissa (per la traduzione cfr. "I trovatori", cap.2 pag.69), sono fortemente carica di elementi di teatralità, con numerose gag, che rappresentano l'unico esempio di teatro (con le dovute differenze) in una società come quella medievale in cui non esisteva una cultura teatrale.




La Contessa de Dia

"A chantar m'er de so q'ieu no volria"


Devo cantare di ciò che io non vorrei,

tanto mi preoccupo di colui di cui sono amica

perché io lo amo più che nessuna cosa che sia;

nei suoi confronti non mi vale la mia mercede, né la cortesia,

né la mia beltà né il mio pregio né il mio senno,

perché così sono ingannata e tradita

come sarebbe giusto che sia se fossi disavvenente.


Di questo mi lamento perché mai commisi un fallo,

amico, nei vostri confronti per nessun comportamento,

anzi vi amo più che non fece Seguis Valenza,

e mi piace molto che io vinca nell'amore,

amico mio, perché siete il più valoroso;

mi fate orgoglio sia con le parole

e siete così franco verso tutte le altre persone.


Ben mi meraviglio di come il vostro cuore si inorgoglisca,

amico, verso me perché io ho ragione di dolermene,

non è affatto giusto che un altro amore mi tolga voi

per nessuna cosa che vi dica o vi conceda;[20]

e vi ricordo quale fu l'inizio

del nostro amore: mai Dio non voglia

che la separazione sia nella mia colpa.


Prodezza grande che nel vostro corpo alberga

e un grande pregio che avete mi preoccupa,

non conosco nessuna donna né lontana, né vicina,

se vuole amare, che verso di voi non sia incline;

ma voi amico, siete tanto ben conoscitore

che ben dovete conoscere la più fine,

e vi ricordo dei nostri patti.


Mi deve valere il mio pregio e la mia discendenza

e la mia bellezza e ancor più il mio cuore leale,

perché io vi mando là dove è la vostra dimora

questa canzone che vi sia messaggera:

e voglio sapere, o mio bell'amico gentile,

perché voi siete tanto fiero e schivo nei miei confronti,

e non so se si tratta di orgoglio o cattiva volontà.


Ma tanto più voglio che tu gli dica[21], messaggero,

che in troppo orgoglio molte genti ne hanno troppo danno.




Azalaiz de Porcairagues

"Ar em al freg temps vengut"


Ora siamo giunti al tempo freddo,

quando c'è il gelo, la neve e il fango,

e gli uccellini sono muti,

perché nessuno è portato a cantare

e sono secchi i rami lungo le siepi,

perché non vi nascono foglie né fiori

né vi canta l'usignolo,

che a maggio mi risveglia l'anima.


Ho il cuore tanto deluso,

sicchè io sono ostile a tutti,

e so che si perde l'uomo

molto più presto che si guadagna;

e se io sbaglio dicendo parole vere,

da Aurenga mi venne il timore,

per cui me ne sto sorpreso

e ne perdo il parte il piacere.


Una donna mette molto male il suo amore

che viene a patti con un uomo potente,

più alto di un valvassore,

e se lo fa, folleggia;

perché, come si dice, nel Veillai

l'amore non va d'accordo con la potenza

e una donna che l'ha scelta

io la tengo per invilita.


Ho un amico di gran valore

che signoreggia sopra tutti

e non ha un cuore traditore

verso di me, perché mi concede amore.

Lo dico che gli dedico il mio amore,

e colui che dice che non lo faccio.

Dio gli doni una mala sorte,

perché io mi ritengo molto sicura.


Bell'amico di buon'animo

sono in balia di voi tutti i giorni,

cortese e di bell'aspetto,

purchè non mi domandiate qualcosa di oltraggioso;

verremo presto alla prova

perché mi metterò alla vostra mercè:

voi mi avete giurato la fede,

che non mi avreste domandato cose sbagliate.


A Dio raccomando Bellosguardo

e più la città di Aurenga

e la Glorietta e il Casale

e il signore di Provenza

e tutti quelli che vogliono il mio bene lì,

e l'arco dove sono fatti gli assalti.

Ho perso colui che aveva la mia vita

e ne sarò per sempre smarrita.


Giullare, che avete il cuore gaio

verso Barbona portate lì

la mia canzone con la fenida

a lei che gioia e gioventù (la) guida.




Raimbaut d'Aurenga

"Altas Undas"[22]


Alte onde che venite sul mare,

che fate qua e là dimenare il vento,

sapete darmi notizie del mio amico,

che è passato di là? Non lo vedo ritornar!

E oh Dio, l'amore!

Ora mi dona gioia ora dolore!


Oh, venticello dolce, che vieni da lì

dove il mio amico dorme e soggiorna e giace,

portami qua un sorso del dolce sorriso!

Io apro la bocca per il gran desiderio che ne ho.

E oh Dio, l'amore!

Ora mi dona gioia ora dolore!


Fa male amare un vassallo di paese straniero,

perché i suoi giorni e le sue risa si trasformano in pianto.

Mai non pensai che il mio amico mi tradisse[23],

perché io gli detti ciò che d'amore mi chiese.

E oh Dio, l'amore!

Ora mi dona gioia ora dolore!




Raimbaut de Vaqueiras

Figlio di un povero cavaliere senza terra, Raimbaut de Vaqueiras si esibì come giullare (XII-XIII sec.). Era alla corte di Bonifacio I, marchese del Monferrato, e partecipò affianco al marchese alle battaglie contro Asti e ad una spedizione in Sicilia nel 1194 alla corte di Arrigo VI. Al ritorno da questa spedizione, Bonifacio I lo investe cavaliere. Questo episodio ci fa capire come il mondo feudale non fosse così chiuso, come si è sempre sostenuto: Raimbaut de Vaqueiras prima è investito per meriti letterari, poi per meriti in battaglia. Nel 1204 segue il marchese in Tessalonica, dove si era nominato re (era una crociata). Qui Raimbaut scompare (1205-07 ?), forse morto al fianco del marchese in un'imboscata da parte degli Ungheresi.


"Eras quan vey verdeyar"


Questa lirica è composta da ben cinque lingue diverse, usate ognuna per ogni stanza:

-occitano;

-italiano (non è l'italiano che si parla oggi);

-francese (lingua d'oil);

-guascone;

-galego-portoghese


Il descort (così si chiama questo tipo di lirica) è un insieme di varie lingue. La dama a cui si riferisce il poeta potrebbe essere italiana, perché il termine "belh cavalier" lo aveva utilizzato altre volte riferito all'Italia. Un inserto in latino è normale nelle liriche romanze. L'inserto di altre lingue viene spiegato proprio dal poeta in questa poesia. Il descort, abbiamo detto, è una poesia con discordanza di lingue, ma in questo caso è anche discordanza di metrica. La diversità delle lingue porta, naturalmente, un'irregolarità delle uscite maschili e femminili. Nelle cinque tornadas non c'è rima: ogni tornada non riprende gli ultimi due versi di ogni strofa,come succede di solito, ma soltanto le lingue. Le prime tre strofe rappresentano dei documenti per quanto riguarda le lingue.



Ora quando vedo verdeggiare

prati e verzieri e boschi,

voglio un discorso cominciare

d'amore, perché io vado errante;

perché una donna mi soleva amare,

ma il suo cuore le è cambiato,

sicchè io faccio discordare

le parole e la melodia e le lingue.


Io sono colui che non ha bene

né mai l'avrò,

né per aprile né per maggio,

se dalla mia donna non ho bene;

certo è che nella sua lingua

la sua gran bellezza non so dire,

più fresca che un fiore di gladiolo

sicchè io non me ne pentirò.[24]


Bella dolce dama cara,

a voi mi affido e mi concedo;

io non avrò mai gioia piena

se io non avrò voi e voi me.

Molto siete cattiva guerriera

se io muoio a causa della mia fede;

ma mai per nessuna maniera

mi allontanerò dal vostro dominio.


Donna, io mi rendo a voi,

perché siete la più valente e bella

che mai c'è stata, e prode e valente,

a condizione che non mi foste tanto ostile.

Molto avete bella forma

e fresco colore e nera.

Vostro sono, e una fibbia

non mi darebbe fastidio.


Ma tanto temo la vostra inimicizia,

che ne sono afflitto.

Per voi ho pena e tormento

e il mio corpo lacerato:

la notte, quando giaccio nel mio letto,

sono molte volte svegliato;

e perché mai ho profitto

ho sbagliato nel mio pensiero.


Bel cavaliere, tanto mi è cara

la vostra signoria onorata


che ogni giorno vengo meno.

Povero me! che farò


se quella che io ho più cara

mi uccide, non so perché?


Mia dama, per la fede che vi devo

e per la testa di Santa Quitera,


mi avete preso il cuore

e me lo avete rubato molto gentilmente parlando.













3. Influenze della lirica occitana












Vediamo: il poeta non si mette in rapporto con il mondo ma si vede idealmente all'interno di un gruppo di persone, una stretta cerchia di trovatori che amano le donne.

Altra traduzione può essere: "A buon coraggio buon potere/ chi sa ben sopportare". Significa che chi vuole può fare, e quindi ottenere, qualsiasi cosa se è disposto a soffrire. E' l'equivalente del nostro proverbio: "Volere è potere".

Conviene: deve.

Le sia presente: la traduzione è giusta se "prezens" lo si intende come aggettivo; se invece è inteso come sostantivo, allora la traduzione sarà: "le sia dono".

Mio Stefano: può essere inteso sia come vocativo che come dativo, poiché nelle lingue antiche non vi era una sintassi rigorosa e precisa come in quelle odierne. "Stefano" potrebbe anche essere una donna, perché spesso i trovatori usavano rivolgersi alle donne con nomi maschili. Usavano spesso, infatti, il termine "midons" che non significa "mia donna" o "madonna", bensì, provenendo dal latino "meus dominus", "mio signore, padrone".

E' il topos dell' esordio stagionale. In questo caso è un esordio primaverile come nell'altra poesia.

Vers: può essere interpretato in due modi: come il "verso", quindi il cinguettio, degli uccelli, oppure come "componimento". In questo senso, il poeta utilizzerebbe il "vers" come forma metrica lontana dai vecchi componimenti della Chiesa, opponendovi il "novel chan", ossia la nuova poesia dei trovatori, che essi ritengono di gran lunga superiore alla vecchia.

Cors: "cors", provenendo dal latino "corpus", può anche significare "corpo", e quindi "persona". In tal caso diverrebbe pronome ("io"): la traduzione sarà quindi: ". sicchè io non dormo né rido."

L'amore del trovatore per la sua donna è una cosa delicata, come un ramoscello di biancospino che si può spezzare con niente.

.la pessa e l coutel: "il pezzo e il coltello" sono simboli sessuali e quindi assumono significati universali. Il pezzo può essere inteso come un pezzo di carne, di pane o altro. Se seguiamo l'interpretazione secondo la "metafora feudale", il pezzo potrebbe essere un appezzamento di terra dato dal signore al suo vassallo, mentre il coltello avrebbe la stessa funzione dell'anello.

Il mondo non va bene, non funziona, è alla rovescia, perché le donne non amano i cavalieri. Ecco spiegato il devinalh: c'è una dama che non corrisponde il nostro trovatore. ".l'amore dei cavalieri volgono al male" nel senso di ".rifiutano l'amore dei cavalieri".

Con un tizzone: sul rogo.

Qui Guglielmo IX ci dice che si è travestito da pellegrino, da viandante: era solito farlo, come anche altri signori dell'epoca, perché così poteva aggirarsi, non riconosciuto, per le terre del suo immenso feudo e controllare le cose come andavano. E si accorge che non vanno affatto bene.

Insolito nella poesia trobadorica trovare dei nomi precisi. Non vi è alcuna discrezione, come vorrebbe lasciare ad intentere il testo. Il poeta potrebbe qui alludere a due sue parenti: Agnese e Ermessenda, duchesse d'Aquitania, rispettivamente prozia e nonna di Guglielmo IX.

Lonh: questa parola ritorna, in modo fisso, nelle strofe. Questo tipo di composizione si chiama "mot refranh", parola-ritornello: è una parola che si trova nella stessa posizione dall'inizio alla fine della poesia ripetendosi.

L'amore del trovatore per la sua donna è così grande che si farebbe prigioniero. Secondo Carl Appel, questo amore sarebbe rivolto alla Vergine Maria, e quindi assumerebbe connotati metafisici. Un'altra interpretazione è stata data da una studiosa inglese, Grace Frank: questo amore potrebbe essere rivolto a Gerusalemme ("reng dels Sarrazis", il regno dei saraceni), che in ambiente cristiano medievale doveva suscitare forti emozioni, in quanto era la Terra Santa meta di pellegrinaggi e di crociate. Il poeta, pertanto, è disposto a tutto pur di non venir meno al suo ideale di crociata.

Parlamens: è la conversazione intima degli amanti. E'' una delle tappe cui arrivano gli amanti.

Drutz: amante accettato dalla dama.

Il padrino nominato, secondo alcune interpretazioni, potrebbe essere Guglielmo IX d'Aquitania.

Nelle liriche dei trovatori non vi è alcuna traccia del sentimento della 'gelosia'. Qui compare in quanto la poesia è stata scritta da una donna, e quindi assume tutta un'altra serie di significati data la diversa sensibilità. Il primo trovatore maschio che introdurrà il motivo della gelosia è Ausias March, un trovatore catalano dei primi del '300.

Altra traduzione: "Ma questo inoltre io voglio che tu gli dicessi."

Non è sicuro che questa poesia sia davvero di Raimbaut d'Aurenga. In ogni caso, essa si ispira alle "cantigas de amigo" galego-portoghesi. E' la prima volta che compare l'immagine del mare: nelle liriche galego-portoghesi il mare è quasi una costante. Queste sono sempre poesie di lontananza cantate da donne.

Trays: significa anche "essere rovinato": quindi "tradire" non si deve intendere nel senso letterale del termine.

Questi versi rappresentano le prime attestazioni di poesia d'arte (e non giullaresca) ancor prima della scuola siciliana (li precede di circa 20-25 anni). Solo di recente si sta scoprendo qualcosa del genere. L'anno scorso è stato pubblicata una lirica da Alfredo Strussi. Sono del 1225 le prime attestazioni di italiano scritto, che era conosciuto anche dai giullari: Lanfranco Cicala, Bordello e altri si affiancarono ai trovatori "stranieri" a cui si affiancavano gli spagnoli.




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