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ROMA - LA DINASTIA DEI SEVERI

geografia



roma


La dinastia dei severi

All'inizio del III secolo, sotto la dinastia dei Severi (Settimio Severo, 193-211, Caracalla, 211-217, Eliogabalo, 218-222, Alessandro Severo, 222-235), Roma è il centro del potere politico ed economico. Ma la classe dirigente aveva subito una profonda trasformazione: il potere non era più nelle mani dei rappresentanti delle vecchie famiglie patrizie, la classe dei cavalieri era divenuta un ceto burocratico e mercantile. Con le riforme, in senso autoritario 141d37b e centralizza­tore, promosse da Settimio Severo, prende importanza la burocrazia statale, reclutata nelle province. Sarà questa, in futuro, a reggere realmente l'impero. La concessione della cittadinanza a tutti i nati liberi (Constitutio Antoniniana del 212) che escludeva solo i deditici (gruppi barbarici che si erano sottomessi), toglie alcuni privilegi all'Italia, ma rende più folto l'afflusso a Roma di uomini am­biziosi e favorisce gli scambi commerciali. L'afflusso a Roma si fa particolarmente intenso dalle province orientali, essendo i Severi legati familiarmente agli ambienti siriaci. La classe dirigente romana, che tra la fine della repubblica e l'inizio dell'impero aveva cercato di assimilare la cultura che era stata della classe dirigente ellenistica, ne aveva in realtà assunto solo le forme este­riori. Essa fu condotta a recepire l'influsso di ideologie di carattere filosofico-religioso sorte nei centri intellettuali dell'Oriente ellenistico. Que­sto slittamento nell'irrazionale si fa più intenso e complesso e finisce per far tacere ogni interpretazione razionale della realtà circostante. Anche l'arte si allontana dall'interpretazione oggettiva della realtà. Ma il razionalismo naturalistico, che era stato alla base della grande industria artistica dell'ellenismo, possiede ancora una forza di tradizione che impone le forme classiche. Tuttavia, poiché sta prevalendo una visione allusiva e simbolica della realtà, quella tradizione si allenta nei monumenti celebrativi, che avrebbero dovuto avere un carattere realistico storico-narrativo. Il carat­tere simbolico delle raffigurazioni celebrative, che prima si trovava solo nelle opere appartenenti alla corrente plebea dell'arte romana, adesso pervade anche le opere ufficiali.­




I sarcofagi in marmo

La scultura di questo tempo è rappresentata a Roma soprattutto dall'enorme massa dei sarcofagi in marmo. Essi formano un vasto repertorio di schemi composi­tivi che le botteghe si trasmettevano per lungo tempo. Il lavoro era un lavoro di maniera e l'esecutore finiva per esserne preso: è la maniera che gli suggerisce soluzioni nuove, ma queste restano di carattere puramente formalistico. Ciò risulta da come procede il progressivo accentuarsi nelle botteghe romane degli ef­fetti rivolti a intensificare l'espressione, che poi cadono quasi senza lasciar traccia.

Il confronto con la realtà avviene nel ritratto. Quantunque si mescolino elementi di tradizione e ci si avvii, nel corso del IV secolo, allo sche­matismo, l'eccellenza e la novità del ritratto del III secolo ne fanno una delle prin­cipali espressioni d'arte.

Il confronto con la realtà avveniva più spesso nell'arte delle province europee, perché era un'arte a diretto con­tatto con la vita del committente e con le sue esigenze. Perciò l'arte delle province mostra, dal punto di vista formale, soluzioni che nella capitale saranno accettate più tardi.

Sarcofagi romani e d'importazione

Roma è il crogiolo nel quale si incontrano le varie esperienze; i centri dell'ellenismo sono i produttori dai quali affluiscono artisti e opere. Per quanto riguarda i sarcofagi, oltre alle officine romane vi era un'attiva importazione dall'Attica e dall'Asia Minore. Questi sarcofagi importati costituiscono tipologie ben distinguibili: sarcofagi attici in forma di letto con imitazione di stoffe figurate (sarcofago di S. Lorenzo) o con le immagini dei defunti distese sul coperchio; sarcofagi asiatici a edicole e colonne. Questi sar­cofagi, coerentemente con il tipo di sepolcro monumentale microasiatico a forma architettonica, nel quale il sarcofago era collocato al centro della camera contenuta nell'edificio, sono decorati su tutti e quattro i lati. I sarcofagi di produzione romana, da collocarsi secondo l'uso italico lungo le pareti di una cella sepolcrale, rimangono privi di decorazione sul Iato posteriore. Fa eccezione il tipo ovale, decorato su tutta la superficie anche se prodotto a Roma. Giungevano a Roma sarcofagi in marmo pentelico, da Atene, sarcofagi tratti dalle cave di marmo dell'Asia Minore e sarcofagi in marmo del Proconneso, con coperchio a tetto e cassa a ghirlande sorrette da Eroti o da Vittorie. La scoperta di una nave naufragata nella prima metà del III secolo presso Taranto, carica di 24 sarcofagi, ha mostrato che questi erano spediti alla volta di Roma con il rilievo solamente sbozzato. In molti casi l'esecuzione doveva avvenire a Roma. Si deve supporre la presenza a Roma anche di maestranze originarie dei vari paesi di provenienza dei sarcofagi, giacché distinguiamo non solo particolarità iconografiche, ma anche di lavorazione e di stile. Ciò non poteva rimanere senza eco nelle botteghe romane.

Il sarcofago di Velletri

Illuminante per il contenuto ideologico delle sculture che adornano i sarcofagi è il sarcofago di Velletri (scoperto nel 1955), d'esecuzione romana e grossolana, ma la cui sovrabbondante e complessa iconografia era ispirata ad un "album di modelli" venuto dalle province orientali. Esso appartiene alla metà del II secolo, ma il suo sovraccarico programma presenta nel modo più completo le idee escatologiche sulle quali riposa il simbolismo delle figurazioni dei sarcofagi romani per tutto il III secolo. AI fondo di queste simbologie sta il con­cetto che l'essenza umana è immortale e che essa giunge, dopo la morte corporale, in un aldilà con il quale esiste una possibilità di comunicazione attraverso l'amore (raffigurazioni di Eroti, miti di Protesilao, di Proserpina, di Alcesti - ancora pre­sente, questo, fin nella metà del IV secolo nel sepolcreto cristiano di via Latina). L'uomo, nella vita, è come un attore che recita una parte (elementi teatrali, masche­re), e deve sopportare le prove impostegli dalla sorte (come Eracle, l'eroe poi accolto fra gli dei). Non deve opporsi agli dei, ma deve dimo­strare loro il proprio ossequio (scene di sacrificio) e comportarsi con senso di paziente umanità (come il pastore). Tritoni e Nereidi, o aquile, sono gli accompagnatori verso le isole dei beati. Nel sarcofago di Velletri tutti questi concetti sono riuniti ed espressi mediante simboli o allegorie. Ma in altri sarcofagi una sola scena sim­bolica è sufficiente a richiamare la sostanza generale delle credenze dell'oltretomba, che testimoniano la diffusa ansia religiosa e l'angoscia spirituale degli uomini di questo tempo. Quest'ansia, nutrita da testi filosofici ellenistici, basata sulla tradizione dell'ermetismo e delle sue dottrine di mistica e di gnosi, viene rafforzata dalle religioni misterio­sofiche dilaganti nel III secolo.

Tuttavia, accanto alla promessa dell'immor­talità astrale, vi è anche l'affermazione del contenuto positivo della vita ben con­dotta sulla terra. Ma al suo posto sorgono eternamente nuovi uomini, nuova vita: Prometeo non cessa di modellare uomini, le stagioni non cessano di produrre frutti, il bue e I'asinello rappresentano I'agreste terra che attende il nuovo seme, mentre Mercurio accom­pagna l'anima (frammento di sarcofago con iscrizioni illustrative al Vaticano).

I sarcofagi dionisiaci

Con i sarcofagi del III secolo, l'arte del bassorilievo è entrata in un mondo nel quale il contenuto simbolico spirituale soverchia l'importanza della forma. Con il prevalere di ideologie filosofico-religiose, il cui fondo era sempre quello di promettere una nuova vita dopo la morte, nella prima metà del III secolo prevalgono i sarcofagi decorati con soggetti collegati al ciclo mitico di Dioniso-Bacco, il dio che muore e risorge.

Sarcofagi a tinozza, decorati sul corpo solo da scanalature parallele ("strigilature"), recavano sul davanti due teste di leone. La loro forma riprendeva la forma del tino con il quale si frange l'uva e matura il mosto e donde poi defluisce il vino, sacro a Dioniso e allu­sione al destino di una nuova essenza di vita dopo la morte.

Marco Aurelio, sopra un medaglione del 149, si era fatto raffigurare con Faustina sopra un carro tirato da centauri, nuovo Dioniso con Arianna, a indicare promessa di felicità eterna. Ma col III secolo, I'elemento simbolico-religioso si estende, e nel periodo severiano si hanno esemplari di sarcofagi ovali con la raffigurazione del trionfo indiano di Dioniso o del risveglio di Arianna, raccolta dal dio come anima strappata alla morte. Il fatto che Arianna rechi i tratti della defunta indica speranza di personale salvezza. Talora la scena del trionfo o del corteggio bacchico raffigurata sulla cassa viene completata sul coperchio dalla rappresentazione della nascita e infanzia di Dioniso. Il più bel gruppo di sarcofagi dionisiaci furono rinvenuti in due camere sepolcrali della famiglia dei Cal­purni Pisoni a Roma presso Porta Pia, databili fra il 180 e il 225. Ad essi si avvicina una fronte di sarcofago inserita nella facciata di Villa Medici a Roma e il sarcofago proveniente da Palazzo Taverna a Roma.

Questi pezzi mostrano un'ispirazione di gusto letterario che li distacca dalla consueta produzione di età romana e li avvicina a fonti di ispirazione radicate nell'ellenismo, con un'esuberanza di chiaroscuro e di elementi paesaggi­stici, che ha fatto usare per questa produzione il termine di "barocco" e che induce a ritenere le loro figurazioni derivate da composizioni pittoriche.

Troviamo conferma a questa derivazione in una stoffa di Antinoe (Parigi, Louvre), destinata ad essere appesa al muro, decorata a figure ese­guite attraverso stampini (au pochoir). Su questa stoffa si ha una sintassi identica a quella dei sarcofagi: una stretta fascia in alto (corrispondente alle scene collocate sul bordo del coperchio) rappresenta la storia della nascita di Dioniso; segue una fascia di racemi di vite animati da uccelli e una grande composizione di danze bacchiche alla presenza di Dioniso. Le figure sono accompagnate da nomi in greco. Una datazione proposta alla fine del III secolo potrebbe convenire meglio al confronto con i sarcofagi; tuttavia vi sono buone ragioni per datare l'esecuzione del velo di Antinoe alla metà del V secolo. Ma il modello iconografico deve essere più antico; e il fatto che esso perdurasse anche quando da tempo non venivano più prodotti sarcofagi dionisiaci, conferma l'esi­stenza di un'autorevole iconografia pittorica di questi soggetti.

I sarcofagi dionisiaci prevalgono su quelli a diverso soggetto epico o mitologico, che erano stati preferiti nel II secolo; tuttavia soggetti parti­colari hanno ancora fortuna nei primi decenni del III secolo. I miti di Medea, di Fetonte, di Meleagro, di Ippolito e Fedra, di Endimione e Diana, vengono ripetuti su schemi fissi, che ricevono variazioni in senso drammatico. Vi è poi una serie di sarcofagi con rappresentazioni che si riferiscono al de­funto; alcune in modo simbolico, altre con raffigurazioni di scene allusive alla sua vita, ma tali da poter servire a una larga clientela,

Solo in pochi casi il sarcofago era eseguito su ordi­nazione adattando la decorazione scolpita ai casi personali del defunto. General­mente si tratta di pezzi in serie, nei quali le teste dei protagonisti sono lasciate grezze perché potessero esser date ad esse le fattezze del defunto. Questi sarcofagi con la "vita del defunto" sono aderenti alla tradizione del rilievo onorario romano. Derivati da concezioni di origine ellenistico-orientale sono quelli nei quali il defunto è raffigurato nella caccia al leone, come espres­sione simbolica del suo valore fisico e morale, e quelli nei quali il defunto è raffigurato come filosofo tra filosofi e Muse.

Il sarcofago di Peregrinus

Che tale raffigurazione fosse solo simbolica lo mostra uno dei migliori e più tardi esemplari della serie, il sarcofago dell'ufficiale Peregrinus (Roma, Museo Torlonia), che filosofo non era. Le classi elevate prefe­riscono ad ogni altro simbolismo quello che raffigura il defunto come uomo spi­rituale, filosofo nell'accezione plotiniana, in atto di leggere o di insegnare tra i filosofi. I filosofi del sarcofago di Peregrinus non sono distinti da caratteristiche individuali come rappresentanti delle varie scuole, e la loro iconografia è tale da poter essere utilizzata in futuro per le immagini degli apostoli cristiani.

Nella serie dei sarcofagi con filosofi tro­veremo le prime raffigurazioni, nell'ultimo trentennio del III secolo, del Maestro che insegna la "vera filosofia", il Vangelo. La "cattedra" di San Pietro era concepita come una cattedra d'insegnamento. L'immagine di repertorio del filosofo viene recepita dall'arte cripto-cristiana, ma tradotta in una forma plastica meno raffinata, prossima alla tradizione plebea, che ha assorbito la tendenza verso I'accentuazione dell'espressione dei volti e che aveva inteso la narrazione dei fatti in modo allusivo e simbolico ("Discorso della Montagna", Roma, Museo Nazionale Romano). Nel contenuto cristiano, quel valore simbolico si accentua; i fatti narrati sono "esempi", tratti dall'Antico e dal Nuovo Testamento. I primi sarcofagi cristiani di Roma stanno nel filone della corrente dell'arte plebea.

Il sarcofago con battaglia della Collezione Ludovisi

Il sarcofago in marmo era un modo di sepoltura di un costo abbastanza elevato; ma dalla metà del secolo si ha la tendenza ad accrescerne la sontuosità ed il costo. Eccezionale per grandiosità e ricchezza di rilievo il sarcofago con battaglia della Collezione Ludovisi (Museo Nazionale Romano). L 'aver riconosciuto nel protagonista a cavallo, con la fronte segnata dalla cicatrice a forma di croce, distintivo degli iniziati ai misteri mitriaci, lo stesso personaggio di un busto del Museo Capitolino ed averlo identificato come il figlio dell'imperatore Gallieno, caduto nel 251, appare proposta convincente. In questo sarcofago si accentua un modo verticale di composizione, che ritroviamo anche in documenti pittorici risalenti a modelli della metà del III secolo ("Iliade Ambrosiana") È questo l'ultimo documento del barocco, di una finitezza estrema nella tecnica del marmo lucidato, ruti­lante nelle forme esagitate, ma prive di calore, manieristiche, rese preziose e raggelate dalla politura.

Per questa freddezza manieristica che si manifesta sotto la tecnica dell'età gallienica non sembra accettabile di spostare verso questa data un sarcofago frammentario ad Acilia (tra Roma e Ostia). Stilisticamente il sarcofago di Acilia ha una grandiosità di ritmo e un calore espressivo nelle teste, anche se sono di maniera, diversi dal sarcofago Ludovisi. Esso è uno dei pochi esempi di sarcofagi eseguiti dietro ordinazione. Appartiene al tipo a tinozza, con corteggio di Muse e di filosofi ai fianchi di una coppia nuziale. Ma lo schema consueto è stato modificato per inserirvi una figura inconsueta che non può interpretarsi diversamente dalla personificazione del Genio del Senato. Questa figura sembra indicare qualche cosa con la mano distesa: Il gesto era stato interpretato come designazione del giovinetto la cui testa sporge fra quelle di repertorio dei filosofi. Tale designazione sembrava convenire soltanto a Gordiano Pio, che fu detto III (238-­244) Il Senato si era affrettato a proclamare imperatore questo fanciullo nell'estate del 238. Ma recentemente è stato proposto di vedere in questa scena la raffigurazione di un corteo che accompagna un console nuovo eletto a prender possesso della sua carica.

Un altro sarcofago eseguito su ordinazione conserva i ritratti espressivi di due coniugi fra simboli che si riferiscono all'amministrazione annonaria che provvedeva alle importazioni e distribuzioni di grano al popolo di Roma. Questo sarcofago è da datarsi agli ultimi decenni del III secolo.


I rilievi dell'arco di settimio severo

Attraverso lo studio dei sarcofagi si può giungere a definire come tipica delle botteghe marmorarie di Roma, nella seconda metà del III secolo, la corrente "espres­sionistica". Ma accanto ad essa sussiste anche una tradizione che si rifà a modelli neoattici classicheggianti. Questi serviranno come punto di partenza, dopo il 250 (età di Gallieno), per la creazione di figure di geni alati che rappresentano le Stagioni, simboli del tempo che passa, ma rimane eterno. Questi custodi di quella eternità cui sta per accedere il defunto sono i precursori, insieme alle Vittorie, degli angeli nell'iconografia cristiana.

Anche le figurazioni sui monu­menti ufficiali subiscono irreversibili trasformazioni, pur restando luogo di incontro per varie forme d'arte. Questo lo si vede nell'arco eretto dal Senato in onore di Settimio Severo e di Caracalla nel Foro Romano. Dall'iscrizione dedicatoria possiamo ricavare una data 202 e il 203, entro i quali termini deve essere avvenuta la sua inaugurazione. Settimio Severo tornò a Roma nel 202, vittorioso contro i Parti, che rendendo insicure le frontiere della Mesopo­tamia, intralciavano i commerci orientali. Dal 198 Severo si era associato al prin­cipato il figlio Caracalla. È da ritenersi che l'arco fosse stato decretato dal Senato dopo la seconda vittoria contro i Parti e che fosse ultimato al ritorno dell'imperatore. L'arco era il più sontuoso che fino ad allora fosse stato eretto a Roma, e una moneta ce lo mostra sormontato da statue in bronzo: un carro con sei cavalli, al centro dell'attico, e ai lati due statue equestri seguite da un soldato appiedato. L'architettura ne era resa più ricca dal fatto che le colonne, con capitelli compositi, non erano inserite, come semicolonne, nella struttura, ma distaccate da essa, creando un chiaroscuro più forte. Le Vittorie negli estradossi del fornice principale e le figure dei piccoli geni delle stagioni al disotto di esse non segnano accenni nuovi rispetto al repertorio consueto. Più individuali, ma sempre secondo un modello prestabilito, e ancora ricche d'impeto ellenistico, sono le grandi figure di fiumi negli estradossi dei fornici minori. Nel fregio piccolo situato al disopra degli archi minori, si perpetua la tradizione del rilievo narrativo, che sempre trova posto in questo punto negli archi onorari (arco di Tito e di Traiano) che segue forme peculiari al rilievo onorario d'arte plebea. Esso rappresenta il corteo trionfale, nel quale si vedono carri carichi di bottino di guerra, una grande statua seduta raffigurante una provincia sottomessa, soldati e prigionieri. Il corteo termina dinanzi ad una personificazione di Roma, di grandi proporzioni, seduta a ricevere la sottomis­sione dei barbari, reggente in mano il globo, simbolo del potere universale.

Questo fregio mostra forme tardo-antiche: le figure tozze tratteg­giate a grandi masse sia nelle anatomie che nei panneggi sottolineati da poche e lineari incisioni, si susseguono in serie narrativa. Esso è un esempio del ruolo decisivo che la corrente dell'arte plebea ha avuto nella formazione dello stile tardo-antico di Roma. Questo fregio sta in serie con alcuni coperchi di sarcofagi dove sono rappresentate scene di banchetto o processioni di carattere pubblico o religioso connesse con la personalità del possessore del sarcofago, in continuazione della tematica consueta all'arte plebea che determina le proprie iconografie e il proprio linguaggio formale senza l'appoggio dei modelli di derivazione ellenistica.

La cattiva conservazione non consente di precisare distinzioni tra le mani degli esecutori dei quattro segmenti del fregio minore sull'arco severiano. Ciò che appare evidente, è la connessione stilistica fra l'autore della porzione sud-ovest di questo fregio e i grandi pannelli che occupano tutta la parte centrale dell'arco al disopra dei fornici minori. Questi pannelli costituiscono una novità nella sintassi decorativa degli archi onorari, sostituendo una composizione unica al posto delle strutture architettoniche di lastre con rilievi inseriti fra cornici orizzontali e colonne o lesene verticali. Questi quattro rilievi contengono la narrazione di una serie di episodi delle campagne militari. È probabile che nelle tre scene di assedio, con macchine di guerra e indicazione di un edificio a cupola tipico dell'architettura iranica, si sia ricordata la conquista delle capitali par­tiche, Seleucia, Babilonia, Ctesifonte. Si ha l'impressione che questi pannelli gremiti di piccole figure non facciano parte strutturale della costruzione: essi danno la sensazione di esser concepiti come pitture piuttosto che come sculture inserite in un'architettura, e l'effetto architettonico del monumento ne rimane sminuito.

L'effetto dei rilievi delle colonne di Traiano e di Marco Aurelio, se si guardano da un punto fisso, è identico a quello che ci danno i grandi pannelli dell'arco severiano. Simili sono anche gli espedienti usati nella composizione per dividere le scene, raffigurare il terreno, i fiumi, le città, le figure. Una connessione tra questi rilievi e le maestranze della colonna antonina, terminata dieci anni prima dell'inaugurazione dell'arco severiano, è innegabile. Ma l'artista che ha diretto questi rilievi, di gusto meno plastico, si preoccupa poco di dare varietà alle sue figure. Solo alcune figure di repertorio, in margine alla narrazione dei fatti, escono dalla monotonia. Abbiamo qui l'opera di una maestranza di estrazione locale, romana, guidata da un artista più preoccupato a narrare episodi che si compongono in un complesso di fatti, che non a inseguire ritmi di forme generali e ricchezza di plastica. Se nei rilievi coi fatti di Marco Aurelio (inseriti nell'arco di Costantino) avevamo potuto constatare una svolta nella scultura romana ufficiale di tradizione ellenistica, adesso quella tradizione è, nel rilievo di carattere storico, deliberatamente abbandonata.

Un altro monumento ornato di sculture dedicato a Settimio Severo e Caracalla è una porta, che sorge in prossimità del Foro Boario e che risulta dedicata dai mercanti di bestiame (negotian­tes boari) e dagli argentari, termine che indica gli agenti di cambio. La dedica porta l'anno delle cariche assunte dagli Augusti dal dicembre 203 al dicembre 204, dunque appartiene all'anno successivo a quello dell'arco del Foro. La raffigurazione più inte­ressante è quella che mostra Settimio Severo e Julia Domna in atto di sacrificare dinanzi a un tripode; una terza figura doveva completare a destra la scena, ma fu soppressa e in tale occasione fu rifatto con incapacità il braccio sinistro della figura femminile. È interessante notare la frontalità delle figure, che per l'atto compiuto da Settimio Severo appare sforzata ed inten­zionalmente cercata, e il gesto compiuto da Julia Domna, che tiene l'avambraccio destro sollevato verti­calmente con la palma della mano in avanti. Questo gesto è rituale e di preghiera per i popoli semiti; lo ritroviamo nell'arte punica e nelle statue cronologicamente contemporanee alle sculture degli Argentarii, provenienti da Hatra in Mesopotamia e da Palmira in Siria, la regione dove Julia Domna era nata. Il netto chiaroscuro del rilievo è in armonia con il forte aggetto delle cornici e degli organi vegetali delle paraste, che fiancheggiano il pannello figurato. Questo pannello reca in alto, in rilievo meno marcato, due Vittorie che reggono una ghirlanda e in basso la scena del sacrificio di un toro. Questi due rilievi minori rientrano nel repertorio figurativo dei monumenti ufficiali ed anche il rilievo con i sovrani sacrificanti sarebbe nella linea tradizionale, se non fosse per la rigida frontalità della figura femminile. Nella coppia imperiale degli Argentarii, vi è la "presentazione", ritualmente composta, di figure appartenenti a una sfera superiore, quasi divina. Si può riconoscere in questa composizione l'effetto della concezione sacrale dei personaggi imperiali, che è un concetto orientale iranico-partico, diverso da quello della divi­nizzazione dell'imperatore dopo la morte, che era tradizionale in Roma. Si può dunque indicare un'influenza orientale, non nelle forme plastiche, nello stile, ma nell'iconografia esprimente un'ideologia particolare, propria dei regni orientali.


il tempo di costantino

I rilievi dell'arco di Costantino

Questi monumenti severiani introducono a Roma due elementi che ritroveremo uniti e portati a conseguenze più radicali e rivoluzionarie dal punto di vista stilistico nell'arco di Costantino: le ascendenze della forma "plebea" e le ideologie orientali.

Nel 312, Costantino aveva vinto Massenzio al Ponte Milvio, po­nendo fine alle lotte contro l'"usurpatore", il quale aveva pur rappresentato l'ultimo momento di grandiosità per la città di Roma, e imponendosi come il più anziano dei due Augusti di contro a Licinio (che sarà eliminato anch'esso, nel 324, con la battaglia di Chrisopolis presso Scutari). Nel 315, Costantino rientra a Roma e vi si trattiene dal luglio al settembre. Egli non considerava più Roma il centro motore dell'impero: aveva fissato la sua sede a Treviri e la trasferirà poi a Sirmium in llIiria e poi a Serdica (Sofia) in Tracia e fonderà a Bisanzio la Nuova Roma, Costantinopoli.

Ma nel 315 egli celebrò a Roma il primo decennale del suo potere. Il Senato gli dedicò in quell'anno I'arco, la cui erezione dovette aver inizio subito dopo la battaglia al Ponte Milvio. Infatti, la campagna contro Massenzio è il soggetto del fregio che si svolge all'altezza dei fornici minori, ed alla vittoria su Massenzio si riferiscono le iscrizioni che acclamano Costantino "Liberatore dell'Urbe" (nel pas­saggio del fornice maggiore) e "vendicatore dello Stato contro il tiranno e la sua fazione" (nella grande iscrizione dedicatoria). La grande iscrizione contiene anche un'espressione iniziale che attribuisce il successo di Costantino non solo alla sua eccelsa mente, ma anche a suggerimento della divinità. Poiché con la vittoria al Ponte Milvio fu collegata la leggenda dell'apparizione della croce di Cristo all'imperatore, che insieme a Licinio e Galerio aveva già l'anno prima nel loro incontro a Milano riconosciuto libertà di culto ai cristiani, si volle vedere in quella espressione un'allusione alla "conversione" di Costantino. Egli aveva avuto, prima, un'altra conversione e un'altra "visione", l'unica menzionata dai panegirici durante la sua vita; la conversione a seguito di una "visione" avuta in un santuario della Gallia, dal culto giovio ed erculeo dei Tetrarchi a quello di Apollo-Helios, il Sole. Siamo dinanzi ad una testimonianza esplicita della sempre maggiore identificazione dell'imperatore con la divinità secondo la formula persiana. Nell'iscrizione vi è una voluta ambiguità, che sottintende la protezione della divinità propria all'impe­ratore, Apollo-Helios, identificato con il suo stesso spirito. Ma nello stesso 315 Costantino fa coniare a Ticinum (Pavia) un medaglione d'oro nel quale I'elmo dell'imperatore è decorato col monogramma di Cristo.

Tutto questo ci interessa per comprendere i rilievi che concludono il fregio sulla fronte nord, verso il Colosseo. Il fregio ha nell'arco lo stesso posto che occupava quello trionfale sull'arco di Settimio Severo e quello processionale negli archi di Traiano a Benevento e di Tito al Foro. E questi fregi hanno sempre avuto un'intonazione stilistica diversa dal resto delle decorazioni sugli archi, ricollegandosi all'arte della corrente plebea. Il fregio inizia con l'uscita dell'esercito da Milano sul fianco occidentale (verso il Foro Romano) e prosegue verso destra. A sud si ha un assedio di città che, per l'allusione a un particolare episodio ricordato dagli storici e per l'importanza che questa vittoria ebbe sull'andamento della campagna, può essere identificata con Verona. Le proporzioni tra figure e architettura non sono naturalistiche, ma simbo­liche, il linguaggio formale aspro e privo di eleganze. All'assedio di Verona segue una battaglia sopra un fiume, che non può essere altro che quella del Ponte Milvio. Non vi è accenno ad interventi trascendentali; ma dello schema di questa battaglia si serviranno gli artigiani che scolpiranno le prime composi­zioni narrative dell'arte cristiana a Roma per il soggetto del passaggio del Mar Rosso da parte del popolo di Mosè, con le onde che travolgono i persecutori. Sul fianco stretto volto a oriente si ha l'ingresso del corteo di Costantino vittorioso in Roma; e, sul Iato nord, le due composizioni raffiguranti l'allocu­zione dell'imperatore e, nel seguente, la distribuzione dei donativi. In queste ultime due composizioni non si narra più, ma si rappresenta. Nei dettagli lo stile è lo stesso, ma la composizione segue un ritmo inconsueto e ciò che nei precedenti di questo stile poteva essere solu­zione improvvisata di volta in volta, qui prende ritmo di regola, sistema. Una regola ed un sistema che si distaccano da ogni tradizione ellenistica, e che si pongono come inizio di una nuova tradizione che troverà conti­nuità nell'arte religiosa europea sino al XIV secolo.

Se si considera un particolare della scena della distribuzione dei sussidi, possiamo trovare assonanze con rilievi della provincia europea dove si raffigurano scene di parlamento. Ma sarebbe un errore trarne Ia deduzione che la provincia ha influito sulla capitale. È invece la cultura della capitale che si è eguagliata a quella della provincia con l'ascesa al potere di quello stesso ceto medio, di funzionari e militari, che predo­minava nelle province. Nella scultura le officine romane del III secolo hanno prodotto un'espressione artistica nuova e originale. Questa forte espressione d'arte che ha le sue radici in una nuova e più sofferta partecipazione umana, travalica gli argini che separavano la corrente ufficiale e la corrente plebea. Le due correnti si incontrano e traggono vitalità nuova l'una dall'altra; cosi si arriva al fregio dell'arco di Costantino.

Ne] discorso ai cittadini e nella distribuzione dei sussidi, la tematica non è più quella del piccolo fregio trionfale che vediamo negli altri monumenti analoghi, ma si affronta con nuovi mezzi un tema solitamente riser­vato all'arte ufficiale. La figura dell'imperatore è seduta al centro in posizione frontale; nessun'altra figura è vista in frontalità assoluta, pur disponendosi tutte le figure su due piani, senza scorci. È l'immobilità assoluta che l'etichetta prescriveva e la cui osservanza viene lodata dagli scrittori contemporanei. È la parvenza divina dell'imperatore, che cosi si manifesta e che viene sottolineata dal fatto che la sua figura seduta sovrasta le figure che lo attorniano. Ma anche in tutte queste figure possiamo riconoscere propor­zioni diverse a seconda del loro rango; con quella dell'imperatore sono cinque le categorie di grandezza, che dagli alti funzionari nel palco di centro, alla burocrazia che effettua i conteggi negli altri quattro scomparti superiori, discende ai beneficati di rango, che si trovano al centro del registro inferiore e che ricevono il donativo direttamente dall'imperatore, e infine alla folla anonima dei postulanti. Si può constatare l'inizio, con Costantino, di una struttura della corte e della burocrazia, che troverà la sua prosecuzione nell'età bizantina e che ha le sue radici ideologiche nella concezione della sovranità propria alla cultura iranica dei regni persiani dei Parti e dei Sasanidi. L'influenza orientale è ancora un'influenza ideologica, non artistica. Frontalità, prospettiva ribaltata che pone ai lati della composizione centrale ciò che nella realtà si trovava dinanzi, e proporzioni gerarchiche, sono modi già usati dalla corrente di arte plebea almeno dalla metà del I secolo. L'ideologia determina la struttura iconografica della composizione, ma questa viene elaborata in base ad elementi formali locali, nei quali la corrente plebea e quella ufficiale si sono fuse.

Il passaggio alla Tetrarchia

Nel momento della costruzione dell'arco, l'importanza che aveva assunto quella espressione artistica corrispondeva anche ad una struttura sociologica affermatasi con la Tetrarchia. Allontanata da Gallieno la classe senatoria da alcune delle cariche più impegnative, l'ossatura dell'impero era formata da uomini provenienti dal ceto dei coloni e dei militari. Questo ceto portò con sé la corrente artistica della quale si era sempre servito. Ma la generazione successiva sentirà il desiderio di impadronirsi di quella forma artistica che era stata il contrassegno della potenza della classe senatoria. Era un modo di affermare e confermare il proprio potere. Cosi sorgerà "classicismo costan­tiniano". Questo classicismo si manifesta più netto nelle opere direttamente con­nesse alla corte e alla classe del vecchio patriziato. Si ripetono sui sarcofagi le simbologie delle stagioni, che ricevono adesso un'espressione classicistica, come nel grande sarcofago Barberini. Ma la tendenza clas­sicheggiante si diffonderà anche sulle opere d'ispirazione cristiana, che avevano inizialmente coinciso con la corrente plebea, e che poi si valsero delle stesse mae­stranze attive sull'arco di Costantino (sarcofago con la creazione dell'uomo ed episodi del Nuovo Testamento). Alla metà del secolo, con il sarcofago di Giunio Basso, prefetto di Roma, I'iconografia cristiana avrà trovato uno stile levigato e corretto, nel quale la sofferenza del III secolo si sarà trasformata in apparente serenità e delle passate vicende non sarà rimasto che la perdita della simmetria e dell'eleganza dell'arte antica.

L'arco di Costantino è ornato di "spogli", cioè di rilievi e sculture provenienti da altri monumenti del tempo di Traiano, di Adriano, di Marco Aurelio. È stato posto il problema se il fatto di ornare questo arco con sculture di età anteriore sia stato deciso perché il tempo a disposizione era poco e non vi erano maestranze sufficienti a compiere l'opera con rilievi originali, o se si volle affermare un disegno politico proclamando Costantino successore dei migliori imperatori del II secolo.

Una statua di prigioniero dacico conservata al Museo Laterano, non compiuta nella sua lavorazione, fu trovata in un deposito di marmi e officina marmoraria, ed è corrispondente sia a quelle poste sull'arco di Costantino, sia alla testa di altra analoga statua del Museo Vati­cano, proveniente dal Foro Traiano. Non tutti i marmi approntati trovavano dunque collocazione.

È chiara la volontà di costruire un arco più sontuoso e più ricco di tutti quelli precedentemente elevati in Roma. Le grandi figure di fiumi negli archi minori seguono lo schema consueto, ma già si nota una predilezione per il disegno lineare del panneggio. Il prevalere della linea incisa sul rilievo modellato diviene esplicito sulle basi delle colonne con Vittorie e prigionieri barbari. Tale stile è da una parte una prosecuzione e semplificazione dell'effetto di illusione ottica che l'intento coloristico della scultura romana ha adottato a partire dall'età di Commodo; ma dall'altro lato vi è l'inizio di uno stile, che trova nell'infittirsi delle linee l'elemento strutturale dell'immagine scolpita. In questo linearismo si riconosce l'inizio di un gusto che porterà alla forma bizantina e che muove da un'iconografia di fondo ellenistica.

La testa colossale di Costantino

Alla sontuosità dell'arco di Costantino corrispondeva l'immagine dell'imperatore vittorioso, che nel 324 riunirà la direzione dell'impero nelle sue mani di cosmocratore, eretta nella basilica sul Foro Romano iniziata da Massenzio che fu allora com­pletata. La Basilica di Massenzio rimane la più grande delle basiliche costruite a Roma per sede di tribunale e di cerimonie ufficiali. I resti di questa statua colossale si trovano nel cortile del palazzo dei Conservatori in Campidoglio; l'altezza della testa (m 2,60 col collo) fa valutare a 10 m l'altezza complessiva della statua rappresentante Costantino seduto, con la destra appoggiata ad uno scettro. Il corpo dovette esser costruito in muratura, coperto di stucco e forse col panneggio in metallo. È questo un nuovo tipo di statua imperiale, che pone il sovrano al disopra dei comuni mortali, quasi una statua di culto, e il modellato ridotto a larghi piani duri e inerti si anima soltanto negli immensi occhi nei quali trova espressione il potere magico dello sguardo e il contenuto spirituale che si vuol imprimere all'immagine. L'occhio, che nella ritrattistica del III secolo era divenuto mezzo espressivo dell'angoscia di vivere, ha assunto un valore diverso: illuminazione interiore e diretta comunicazione con gli astanti.

Esso rimane caratteristica del ritratto ufficiale del IV secolo, come, per esempio, del ritratto di Caius Caelius Saturninus Dogmatius, alto funzionario. A questo personaggio, il figlio pose una statua onoraria, della quale solo la testa-ritratto era stata eseguita per l'occasione, mentre il corpo togato, diverso per marmo migliore e per più accurata fattura, era stato preso da un 'opera eseguita verso la metà del II secolo, mentre l'iscrizione è databile fra il 326 e il 333. Ve­diamo nel ritratto il risultato di una fusione fra tendenze proprie del III secolo in fatto di forza espressiva e il classicismo costantiniano.


La pittura del III e IV secolo

Della pittura del III e IV secolo in Roma non ci rimangono molti documenti, all'infuori delle decorazioni nelle catacombe cristiane. Questa pittura cristiana, i cui documenti si fanno più frequenti a partire dal 235, non si distingue, dal punto di vista della forma artistica, da quella non-cristiana. La differenza è solo nell'iconografia, nei soggetti e nel contenuto. Che dal punto di vista formale non vi fosse diversità, lo dimostra la decorazione della villa sotto la basilica di San Sebastiano sull'Appia, priva di ogni accenno cristiano, dove il sistema di decorazione lineare delle pareti deriva da una semplificazione delle decorazioni in uso al tempo di Commodo (Ostia, parete gialla). Lo schema di questa decorazione lineare deriva da quella dell'ultima fase del II stile pompeiano: edicola al centro e due aperture minori ai lati; anche i triangoli al disopra dell'edicola centrale possono essere considerati come il residuo delle prospettive architettoniche che apparivano dietro l'edicola. Nella villa sotto San Sebastiano, databile nel primo trentennio del III secolo, questa decorazione lineare su fondo bianco è condotta con rigore e con eleganza. Ma lo stesso sistema è quello che decora le catacombe cristiane fra 200 e 240: a Domitilla (cubi­colo del Buon Pastore), a Pretestato (cripta della coronatio), a San Callisto con maggiore eleganza nelle cripte di Lucina. Un documento per l'inizio di questo ti po di decorazione ci viene dalla casa del "Cortile dell'Aquila" a Ostia. La nuova decorazione s'inserisce dove è stata murata una porta, entro una decora­zione tipica dell'inizio del III secolo.

Entro questa decorazione lineare, le piccole figure che decorano il centro dei pannelli a fondo bianco sono trattate con una pittura rapida, che co­struisce l'immagine con un accostamento diretto di chiari e di scuri. Questa pittura "a macchia" è da un lato la deri­vazione della forma "impressionistica" della pittura romana di età flavia (IV stile pompeiano); ma è anche, come contenuto, il contrario di quella.

Mentre l'"impressionismo" della pittura ellenistico-romana tendeva ad ac­crescere il naturalismo pittorico delle immagini in coerenza col naturalismo della scultura, la pittura a macchia del III secolo distrugge l'immagine naturalistica, an­nullandone volume e particolari. Si arriva a figurazioni appena accennate, che valgono come tocchi di colore e come simboli, piuttosto che come im­magini. Abbiamo una coerenza di gusto fra scultura illusionistica, che ar­riva al disfacimento della forma, come nella base di una delle colonne del monumento tetrarchico al Foro Romano per i Decennali del 303, e pittura ornamentale.

Prime testimonianze di un nuovo stile

Vi sono anche indizi che inducono ad affermare l'esistenza, nel III se­colo, di una ripresa di originalità creativa nella pittura, svincolata dalla tradizione iconografica e stilistica dell'ellenismo. Si collocano, in questo contesto, le pitture del Mitreo di Santa Prisca, databili fra 202 e 229, un complesso dal quale proviene anche la testa del Sole eseguita in vari marmi colorati. Si colloca anche un frammento che doveva avere come soggetto una scena di discussione dinanzi a un giudice, proveniente da un caseggiato di Ostia, databile fra 230 e 250. Il soggetto fa ricordare la serie di scene dinanzi a un giudice nel fregio a fondo nero della Casa della Farne­sina di età augustea: ma la diversità, nella forma e nel contenuto, non potrebbe essere più profonda: non più un racconto aneddotico scherzoso ed elegante, mondano, ma una drammaticità violenta, una forma scarna ed essenziale. Abbiamo un approfondimento del contenuto umano, che ha segnato la fine delle pastorellerie alessandrine e uno sviluppo in senso opposto, popolare.

Si nota, dall'età tetrarchica in poi, una diffusione di iconografie nuove, che testimonia la ripresa di originalità nel campo della pittura, e che pone sullo stesso piano tutti i paesi affacciati al Mediterraneo. Il cambiamento dei modi di vestire, il diffondersi dei grandi ornamenti circolari intessuti a colori e applicati sulle vesti, originari dall'Egitto, servono ad innovare e unificare le iconografie. Un giovane servo portatore di bevande da un affresco in una casa sul Celio a Roma, può assomigliare a un giovane portatore di torcia dipinto in una tomba della Tripolitania (Gargaresh, Tomba di Aelia Arisuth), senza che si debba pensare a nessuna diretta dipendenza.

La decorazione a tarsie marmoree

Nel IV secolo si afferma l'uso di decorare ambienti di particolare sontuosità non più con pitture, ma con tarsie di marmi colorati. Questa tecnica trovava particolare sviluppo in Egitto, e talora i pannelli venivano spediti dalle officine egiziane già pronti per essere inseriti nelle pareti. Ci rimangono alcune di queste tarsie (che venivano designate col termine di opus sectile, cioè "lavoro di marmi segati") provenienti da una basilica civile costruita da Giunio Basso, console del 331. Della decorazione di questa basilica (ambiente rettangolare absidato di m 18,30 x 14,25) restano numerosi disegni, mentre l'antica costruzione fu in­corporata in un monastero e distrutta. Solo alcuni pannelli del rivestimento delle pareti sono conservati: scene di animali assaliti da tigri, motivo decorativo che si trova anche altrove in questo tempo, un pannello con biga consolare tra le fazioni del circo e un altro pannello con motivo mitologico, accom­pagnato da un panneggio che si figura appeso alla parete, ornato da un bordo di motivi egiziani antichi. Un ultimo esempio di rivestimento marmoreo è stato scoperto a Ostia. Anche in questo caso elementi tipicamente romani si uniscono ad elementi indicanti l'Egitto. Tra i primi va notata la riproduzione, in marmi colorati, di una parete in mat­toni a struttura tipicamente locale. Tra i secondi, invece, alcune parti del fregio vegetale, il cui andamento generale ripete motivi tradizionali ellenistici, ma la cui fattura rivela la riduzione schematica delle forme naturalistiche e il cui bordo, che lo incornicia, presenta un'assoluta identità con bordi di stoffe dell'Egitto.

La produzione d'élite

Con l'esaltazione dell'etichetta di corte e della casa dell'imperatore, si accom­pagna un fiorire di produzione artistica destinata all'élite aristo­cratica. L'arte si limita a produrre solo opere ufficiali di esaltazione del potere ed alla produzione di un artigianato di lusso. L'interesse artistico scompare dalle consuetudini del ceto medio e dalla produzione di un artigianato corrente, di uso quotidiano, ma formalmente pregevole. Soltanto oggetti preziosi sono ancora prodotti di alta qualità in questo tempo, e in essi si mantengono iconografie di derivazione ellenistica e classicheggiante.

Un esempio della raffinatezza dell'artigianato di lusso durante il IV secolo è dato dal complesso di argenterie nuziali dei coniugi Secundus e Proiecta, trovato a Roma sull'Esquilino. Questo complesso di oggetti è databile fra il 379 e il 383. Sul coperchio della cassetta, lavorata a sbalzo in lamina d'argento, sono raffi­gurati i busti dei due sposi entro una corona di foglie retta da due Amorini e, di fronte, Venere che si pettina seduta nella conchiglia retta da Tritoni cavalcati da Amorini che reggono offerte; ai lati, Nereidi e Tritoni su mostri marini; nella parte posteriore è rappresentato l'ingresso della sposa nel suo palazzo, accompagnata e circondata da persone che recano doni; nel margine inferiore sta l'iscrizione. Il corpo dello scrigno, che si restringe verso il basso, è circondato da un ornato a viticci; i lati sono suddivisi ad arcate: in quella di centro, dalla parte anteriore, la sposa seduta è intenta alla toilette, fiancheggiata da due serventi con scrigno e specchio; seguono due pavoni. Nelle arcate dei lati e della parte posteriore altre nove serventi con oggetti vari e lumi. È un'iconografia frequente nelle province orientali, quindi è probabile che lo scrigno sia opera di artigiani orientali. Tipica per l'ambiente dell'alta società romana è questa convivenza di elementi cristiani (l'iscrizione) e di repertorio figurativo pagano.

Il mausoleo di Costantina

L'esempio più significativo della cultura artistica che si era formata a Roma al tempo di Costantino è conservato nell'edificio noto come chiesa di Santa Costanza, ma originariamente destinato a mausoleo di Costantina, la figlia maggiore dell'imperatore, e costruito fra il 337 e il 354 (o 361). Questo edificio conferma che nell'architettura prevalgono schemi dovuti agli archi­tetti costruttori delle province orientali dell'impero, anche se il tipo di muratura si rivela opera di maestranze romane. Il mausoleo di Costantina è il più antico esempio conservatoci di un edificio rotondo, a pianta centrale, con ambulacro interno. L'interno della cupola e delle volte era coperto a mosaico; ora rimangono solo quelli delle volte dell'ambulacro e delle grandi nicchie, mentre le pareti erano co­perte di tarsie marmoree. I mosaici delle nicchie sono di soggetto cristiano; quelli della volta dell'ambulacro, su fondo bianco, mostrano scene di vendemmia, motivi floreali e ornamentali sparsi, privi di rilievo prospettico e di evidente coerenza sintattica, ma di grande e ricco effetto decorativo.

Questa decorazione ad elementi sparsi e irregolari aveva avuto origine in età ellenistica: il pavimento non spazzato del pittore e mosaicista Sosos rientra in questa categoria, e nel soffitto di Santa Costanza vi sono elementi figurativi che sembrano potersi collegare con il ricordo di Sosos. Ma poi si hanno esempi, specialmente sepolcrali, di decorazione analoga in tombe dell'Egitto, del tardo ellenismo. La troviamo anche in Siria all'inizio del III secolo e in mosaici dell'Africa settentrionale (a Cartagine, casa della Voliera) da dove si estese nel IV secolo in Spagna (villa a Saragozza) e continuò sino al V secolo (mosaici tombali in Africa). Nel mausoleo di Costantina si ha un esempio di larga diffusione in tutto il bacino del Mediterraneo. La cupola aveva in basso un paesaggio marino con putti in barca o intenti alla pesca: motivo ancora ellenistico. AI disopra, invece, vi erano storie del Vecchio e del Nuovo Testamento in dodici scomparti formati da figure femminili e foglie di acanto. Siamo di fronte ad un edificio di nuovo stile, sia nell'architet­tura che nella decorazione: quello che in esso ricorda ancora l'antichità ellenistica è secondario, ornamentale.

Invece il mausoleo di Elena, madre di Costantino, fatto costruire come mausoleo familiare prima del trasferimento della sede a Costantinopoli, ha ancora forme inerenti alla tradizione romana. Eretto nella proprietà im­periale ad duas lauros (i due allori) sulla via Labicana, constava di una grande rotonda con cupola in gettata. All'interno, nicchie alternate, a pianta semicircolare e rettangolare. Quella più ampia, di fronte all'ingresso, dovette contenere il sarcofago di Elena, in porfido (Musei Vaticani). Le pareti dovettero esser rivestite di incrostazioni marmoree e la cupola di mosaici. Alla rotonda si accedeva dal nartece di un'adia­cente basilica.




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