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L'unità d'Italia

storia



L'unità d'Italia.

Subito dopo la conquista garibaldina della Sicilia, alla classe dirigente piemontese si pose il problema di cosa fare del Sud. La principale preoccupazione era che il Meridione potesse diventare una repubblica democratica, capace di destabilizzare l'intero assetto politico italiano. Si decise quindi di passare all'attacco. Quattro giorni dopo l'entrata trionfale di Garibaldi a Napoli, l'esercito piemontese varcò i confini dello Stato pontificio e occupò le Marche e l'Umbria - ma non Roma, per non incorrere nelle ire di Napoleone III - con la motivazione, del resto fondata, di prevenire la minaccia rivoluzionaria. In ottobre l'esercito garibaldino e quello piemontese si trovarono uno di fronte all'altro. Questo momento delicato fu superato grazie alla fedeltà di Garibaldi, che aveva comunque deciso di cedere l'ex Regno delle Due Sicilie alla monarchia sabauda, in considerazione di quello che gli sembrava il supre 747i85h mo interesse nazionale.

La stretta di mano fra l'"eroe dei due mondi" e Vittorio Emanuele II, avvenuta a Teano il 26 ottobre 1860, saldava pertanto le sorti e il destino delle due grandi aree dell'Italia, quella centro-settentrionale e quella meridionale.



Nelle settimane seguenti furono ancora una volta i plebisciti a ratificare le nuove annessioni: il 17 marzo 1861 il re di Sardegna venne proclamato dal primo Parlamento nazionale re d'Italia "per grazia di Dio e volontà della Nazione".

Lo statuto albertino, le istituzioni politiche e gli ordinamenti amministrativi del Piemonte vennero estesi al resto della Penisola e alle potenze europee veniva così inviato un messaggio inequivocabile: la monarchia sabauda aveva posto termine al disordine italiano. Quattro anni dopo la capitale fu spostata a Firenze, ma solo per rassicurare i francesi sulla rinuncia alla conquista di Roma, capitale "naturale".

Nel giugno 1861 Cavour morì, lasciando ai suoi successori un'eredità estremamente difficile. Grazie alla sua abilità politica e a circostanze favorevoli, egli era riuscito a risolvere il problema dell'unità italiana a cui mancavano ancora lo Stato pontificio e il Veneto. Restava però da affrontare una sfida gigantesca: quella di unificare la società civile. Ma si partì subito con il piede sbagliato: come vedremo più avanti, gli esponenti della Destra storica - cioè gli eredi diretti di Cavour, che governarono l'Italia nei primi anni dell'unità - adottarono fin dall'inizio una politica economica e fiscale penalizzante per gli Stati annessi. Nel Meridione, in particolare, la arretrata struttura sociale collegata al sistema del latifondo non venne affatto modificata e anzi si rafforzò, originando quello che sarà definito il "blocco" sociale tra agrari del Sud e borghesia industriale del Nord: una situazione che avrebbe gravemente compromesso le possibilità di progresso economico e civile delle regioni meridionali.

Il governo della Destra e la conquista del Sud.

Il gruppo dirigente che si trovò a governare nei primi anni di vita del Regno d'Italia era di origine piemontese, con qualche presenza di emiliani e di toscani come Marco Minghetti e Bettino Ricasoli. Inoltre, il nuovo Stato, con istituzioni politiche modellate sul centralismo francese e direttamente ereditate dal Regno di Sardegna, non concesse alcuna forma di autonomia locale (i sindaci, per esempio, venivano nominati direttamente dal governo), per paura che venisse intaccata l'unità ancora assai fragile del Paese. Ma questa politica non fece altro che inasprire le disparità preesistenti fra il Piemonte e le altre regioni.

I problemi maggiori, come era prevedibile, vennero dall'ex Regno delle Due Sicilie. L'unificazione, qui più che altrove, era stata infatti attesa come una liberazione dall'oppressione, dalla corruzione, dalla miseria, dai privilegi che contrassegnavano il regime borbonico. La partecipazione popolare all'impresa dei Mille era stata consistente e aveva coinvolto nella lotta di liberazione strati popolari molto più ampi di quanto non fosse avvenuto nelle altre regioni italiane. I contadini siciliani e meridionali si aspettavano dunque forme di autogoverno e la distribuzione delle terre: non ebbero né le une né le altre. I burocrati e i militari napoletani furono sostituiti dai torinesi, mentre vecchi e nuovi proprietari rimanevano al loro posto, anzi vedevano accrescere il loro ruolo. In più, le famiglie contadine si trovavano gravate dall'inasprimento fiscale e dal servizio militare obbligatorio, che non avevano mai conosciuto prima di allora e che le privava per lunghi anni della forza degli uomini più giovani.

In Sicilia le bande armate rappresentavano una piaga endemica. Al servizio dei feudatari, esse costituivano da secoli il braccio del controllo operato sul territorio dai "baroni", cioè i nobili proprietari terrieri. Nel corso del processo risorgimentale, le bande si erano inserite nel vuoto di potere che era seguito alla dissoluzione del feudalesimo e si erano poste al servizio dei vari gruppi di pressione, aristocratici o borghesi, impegnati politicamente nella liberazione dell'isola. Pur avendo svolto un ruolo importante sia nella rivoluzione del 1848 sia nella spedizione dei Mille, a guerra finita, anziché venire inserite nelle nuove strutture della politica nazionale, furono messe da parte o addirittura ricacciate nell'illegalità. Nel Mezzogiorno continentale non si era invece verificata una partecipazione di bande armate al Risorgimento, anche se non era mancato un reclutamento popolare dell'esercito garibaldino.

La disillusione per le promesse non mantenute si trasformò dunque in rifiuto politico radicale e nell'adesione di intere regioni rurali ai tentativi borbonici di riconquistare il Regno delle Due Sicilie. La Basilicata, il Molise e parte dell'Abruzzo, della Puglia, della Campania e della Calabria insorsero contro lo Stato unitario, in una vera e propria guerra civile che nel linguaggio ufficiale della politica prese il nome di "brigantaggio". Le bande di "briganti" si ingrossarono rapidamente, raggiungendo ciascuna migliaia di componenti, macchiandosi di episodi di raccapricciante violenza e giungendo talvolta a occupare centri urbani popolosi. Sulla spontanea rivolta popolare fecero leva peraltro ambienti legittimisti borbonici, che in alcuni casi finanziarono segretamente le bande, cercando di utilizzarle ai fini del loro progetto politico restaurativo.

Il Regno d'Italia rispose con lo stato di guerra. La legge Pica del 1863, che lo istituiva, riconosceva alla giustizia militare la facoltà di condannare a morte quei briganti che fossero stati catturati con le armi in pugno, e ai lavori forzati a vita quelli che non avessero opposto resistenza e in più coloro che avessero aiutato in qualunque modi i briganti: potenzialmente si trattava di tutta la popolazione. Un esercito di centosessantamila uomini fu inviato a reprimere il brigantaggio: più di metà dell'esercito italiano venne impegnata in questa guerra civile. I morti, da una parte e dall'altra, ammontarono a svariate migliaia. Verso la fine del 1865 il brigantaggio poteva considerarsi stroncato come fenomeno di resistenza armata di massa, ma sopravvisse per diversi anni sotto forma di piccole bande isolate.

L'assenza di una classe borghese forte e quindi anche di un corrispondente centro moderato e cavouriano, lasciava spazio sia a orientamenti filoborbonici sia a tendenze democratico-repubblicane, aspetti che rendevano fortemente sospetta la società meridionale agli occhi della classe politica piemontese e settentrionale.

La guerra austro-prussiana e la Terza guerra d'indipendenza.

Parallelamente al processo che portò l'Italia all'unita politica, si avviava in Germania un fenomeno analogo che avrebbe avuto come risultati l'unificazione del Paese e la costituzione dell'Impero germanico. Ma, al di là delle generiche corrispondenze, molti sono gli aspetti che differenziano le due situazioni. Innanzitutto quello tedesco non era un popolo oppresso da uno straniero - anche se l'Austria rimaneva una presenza ingombrante - ma solo incapace di produrre una politica nazionale; inoltre, il processo politico che saldò le diverse componenti territoriali della Germania fu interamente gestito dalla Prussia, che con la sua potenza economica e militare poté muoversi senza chiedere l'appoggio di altre potenze, come invece era avvenuto in Italia, dove il debole Regno di Sardegna si era giovato dell'appoggio della Francia e dell'Inghilterra. Un altro elemento di differenziazione è rappresentato dall'assenza di una reale componente democratica e liberale nel processo di unificazione tedesca: essa avvenne sotto la guida della destra, rappresentata dal ceto degli Junkers e del cancelliere Otto von Bismarck (1815-1898).

Bismarck era entrato in politica come rappresentante dell'estrema destra. Durante la rivoluzione del 1848 aveva sostenuto le prerogative della monarchia assoluta prussiana contro le rivendicazioni popolari, ma anche contro l'egemonia che la monarchia austriaca rivendicava per sé rispetto a tutto il mondo tedesco. Mentre gli Asburgo d'Austria incarnavano il paternalistico autoritario dell'Antico regime, multietnico per vocazione, che punisce e reprime anche duramente, ma, che, almeno in teoria, protegge e accetta di discutere con i sudditi, nella visione di Bismarck la monarchia prussiana doveva essere un istituto completamente diverso: una macchina moderna, efficiente, finalizzata esclusivamente a rafforzare il potere della nazione, capace di mobilitare i sudditi non per il loro benessere o per l'armonia della convivenza civile ma per la loro capacità di difendere lo Stato, di fare grande e potente la Prussia, o la Germania. Una monarchia innovatrice e conquistatrice, dunque, capace di affermare gli interessi tedeschi in Europa e nel mondo. 

Chiamato nel 1862 dal re Guglielmo I (1861-1888) a dirigere il governo, il "cancelliere di ferro", come fu chiamato, rimase saldamente al timone della Prussia e poi della Germania unita per quasi trent'anni. Bismarck incarnava alla perfezione il realismo politico. Era per esempio favorevole al suffragio universale, perché riteneva che il voto contadino, influenzato dalla destra conservatrice, avrebbe di gran lunga superato quello liberale dei ceti medi. Del resto l'esperienza della Francia di Napoleone III stava a dimostrare la sensatezza di questa strategia. Bismarck era propenso anche all'alleanza con i liberali che, rappresentando le istanze delle nazionalità oppressa dall'Austria, facevano comodo alla sua politica.

Il primo banco di prova dei rapporti fra Austria e Prussia fu la questione dei ducati di Schleswig e Holstein, sotto sovranità danese ma di popolazione in prevalenza tedesca. Nel 1864 Austria e Prussica - rispettivamente presidente e vicepresidente della Confederazione germanica - intervennero insieme contro la Danimarca e le strapparono i due ducati. Ma mentre l'Austria portava avanti interessi imperiali di equilibrio europeo, la Prussica perseguiva il proprio allargamento territoriale. Alla fine della breve guerra, le due potenze tedesche si spartirono l'amministrazione dei territori: lo Holstein all'Austria, lo Schleswig alla Prussia. In realtà l'obiettivo di Bismarck era quello di eliminare dalla Germania settentrionale, e in prospettiva da tutta la Germania, l'influenza austriaca. Incontratosi con Napoleone III per ottenere almeno la sua neutralità in vista dello scontro che stava preparando con Vienna, Bismarck stabilì anche rapporti di alleanza con i nazionalisti ungheresi e con l'Italia, interessata a liberare il Veneto dal giogo austriaco.

Per la politica estera italiana si trattava di una grande svolta. Le due guerre di indipendenza erano state combattute sotto il segno dell'alleanza francese ma Napoleone III aveva abbandonato l'Italia al momento della vittoria finale. Perfino i moderati attribuivano a lui la colpa della mancata conquista di Venezia ed era stato sempre Napoleone III a porre il veto alla conquista di Roma.

Il conflitto, che per l'Italia divenne la Terza guerra d'indipendenza, scoppiò nel giugno del 1866. I prussiani dimostrarono una netta superiorità strategica, di addestramento e di armamento, occupando con un'operazione rapidissima gli Stati tedeschi alleati degli Asburgo e sfondando le linee austriache in direzione di Praga. Il 3 luglio la battaglia di Sadowa, in Boemia, pose di fatto fine alla guerra. La Confederazione germanica fu sciolta e a nord del fiume Meno l'influenza austriaca fu eliminata. La Prussica incorporava vari Stati tedeschi (oltre ai due ducati contesi), unificava il suo territorio saldando le province occidentali renane con Berlino, attraverso l'annessione dell'Assia e dell'Hannover, e diventava leader indiscusso della nazione tedesca.

Per gli italiani la guerra fu invece disastrosa sotto il profilo militare: sia nella battaglia terrestre di Custoza (24 giugno), dove già i piemontesi avevano perso nel 1848 la Prima guerra d'indipendenza, sia in quella navale di Lissa (20 luglio), nell'Adriatico, gli italiani furono sconfitti. Tuttavia, grazie alla vittoria prussiana, l'Italia otteneva finalmente Venezia, ma non Trento e Trieste, e non ancora Roma.

La guerra franco-prussiana e l'Impero tedesco. Roma capitale d'Italia.

La vocazione autoritaria e militare della Prussia, dopo la rapidissima vittoria sull'Austria, venne indirizzata da Bismarck contro la Francia. L'obiettivo era quello di compattare il sentimento nazionale tedesco contro il nemico storico e di fornire quindi la spinta mancante al popolo tedesco per completare la propria unità, e alla Prussia per realizzare la sua indiscussa leadership. 

Napoleone III aveva cercato fin dall'inizio di arrogarsi il ruolo di mediatore fra Prussia e Austria, e di conseguenza di garante dell'assetto politico al di là del Reno. Al rafforzamento della Prussia doveva corrispondere, nelle sue intenzioni, un parallelo rafforzamento francese, fatto sia di espansioni territoriali sia di egemonia sulla Germania meridionale, dove l'influenza austriaca era in declino. Se vedeva con favore un ridimensionamento della potenza austriaca, la diplomazia francese lavorava parallelamente per impedire l'unificazione tedesca, che avrebbe creato un avversario troppo forte. Napoleone III manovrò diplomaticamente molto male, mentre Bismarck assai abilmente riuscì a convincere gli Stati tedeschi meridionali e l'Europa intera delle mire espansioniste della Francia a danno del popolo tedesco. Da quel momento la pace in Europa fu in grave pericolo e di nuovo per lo scontro fra i due nemici di sempre: i francesi e i tedeschi. Accumulando un errore dopo l'altro, l'imperatore francese allacciò trattative con la Russia e con l'Austria, accrescendo con l'incubo dell'accerchiamento il sentimento nazionalista dei tedeschi.

La situazione degenerò rapidamente e nel luglio del 1870 la Francia e la Prussia erano in guerra, gonfie di reciproco risentimento nazionalista.  

Fin da subito fu evidente la supremazia prussiana: i tedeschi entrarono in Alsazia e Lorena dal Palatinato e, dopo aver battuto a più riprese i corpi d'armata francesi, li annientarono a Sedan il primo settembre, dopo solo sei settimane dall'inizio della guerra. Napoleone III, che si trovava presso il campo di battaglia, fu fatto prigioniero e firmò la capitolazione. La direzione del Paese venne assunta da un governo repubblicano di "difesa nazionale", che non poté a lungo difendere Parigi e chiese l'armistizio del gennaio del 1871. Le condizioni di pace successivamente stipulate nel maggio 1871 avrebbero costretto la Francia a cedere l'Alsazia e la Lorena e a pagare una pesante indennità al vincitore. 

Per l'Italia la guerra franco-prussiana produsse un effetto positivo immediato: caduto Napoleone III non vi era più il difensore dello Stato pontificio e il partner con il quale il governo italiano si era impegnato a non toccare Roma. Appena un paio di settimane dopo la battaglia di Sedan, l'esercito italiano attaccò Roma. Il 20 settembre fu aperta a cannonate una breccia nelle mura della città all'altezza di Porta Pia, proprio in direzione di Mentana, dove tre anni prima i garibaldini erano stati sconfitti dai francesi. La fanteria d'assalto dei brsaglieri prese il controllo della città, mentre Pio IX si rifugiava nei palazzi del Vaticano: cadeva il millenario potere temporale dei papi e Roma veniva proclamata capitale d'Italia.

Pochi mesi dopo, quando ancora non si era concluso l'assedio prussiano a Parigi, Bismarck ritenne giunto il momento di proclamare l'unità della Germania e di identificarla con l'idea della resurrezione dell'impero (Reich) tedesco, quello che nel Medioevo aveva visto nascere la nazione germanica. Il 18 gennaio 1871, nella sala degli specchi della reggia di Versailles, i principi tedeschi offrirono al re di Prussia, Guglielmo I, la corona di imperatore (Kaiser) di Germania.

Non si trattava più di una proposta proveniente da un'assemblea espressione di una volontà popolare, né di un plebiscito, ma del riconoscimento da parte delle aristocrazie germaniche del ruolo cruciale svolto dalla potenza prussiana nel processo di unificazione e di espansione territoriale a scapito di Austria e Francia.

Il momento era quello della vittoria su un "oppressore" che da due secoli e mezzo -  dall'epoca della guerra dei Trent'anni - aveva trionfato sulla debolezza nazionale tedesca. Bismarck mandava a dire al mondo che la superpotenza francese era per sempre finita, e che al suo posto era nato in Europa un nuovo gigante, il popolo tedesco, che si era conquistato potenza, spazio, autorità, e che si candidava ormai per dominare il continente.

A differenza del messaggio rassicurante che il Regno di Sardegna aveva dato all'Europa unificando l'Italia e mettendo fine alle sue velleità rivoluzionarie, quello della Prussia era bellicoso, fondato sulla conquista territoriale e sull'uso della forza militare. Col tempo, il militarismo e l'autoritarismo prussiani sarebbero ancora cresciuti, finendo per porsi tra le principali cause della spaventosa tragedia delle due guerre mondiali del Novecento.





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