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utopia, fantastico e fantascienza
Siamo di fronte a una vera e propria industria del meraviglioso: basta pensare alla miriade di prodotti immessi sul mercato che fanno ricorso spesso alla finzione dematerializzante, come nel caso delle 'space operas': non siamo ora tanto sicuri di essere dinanzi a una finzione. L'incredibile diventa più credibile. L'utopia si volge a un possibile-impossibile desiderabile, o indesiderabile, la fantascienza invece racconta un possibile-impossibile e basta.
"L'uomo, senza utopia, precipita nell'inferno di una quotidianità che lo espropria di ogni significato e lo uccide poco a poco; ma non appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce." (Antonio Caronia, 'Il corpo virtuale', pg. 58).
Stanislav Lem ha elaborato una articolata e provocatoria teoria sulle cause e gli effetti di questa strana predilezione della cultura moderna per i costrutti illusori con funzione vicaria, sostitutiva e addirittura alternativa nei confronti della realtà, e l'ha chiamata 'fantasmologia'. La nostra società ha finito per identificarsi con una formidabile megama 828h77i cchina erogatrice di fantasmagorie, destinata a produrre un mondo in cui - come egli dice - per principio e senza eccezione vale la regola che nessuno possa sentirsi sicuro di aver a che fare con la realtà naturale.
Si è sempre trattata la fantascienza come se 'descrivesse' il futuro; naturalmente è tutto un gigantesco equivoco. Essa sta servendo forse più per creare dei correttivi a vincolanti concezioni, tipo quella circolare (apocalittici) o quella lineare del tempo (integrati) (vedi capitolo 'UNA NUOVA ESTETICA'), creando un universo del testo, che costruito per tasselli spacciati per portatori di verità, si spaccia per realtà.
INTRODUZIONE AL POSTMODERNISMO
"Ora la virtualità non aumenta, ma riduce la dimensione di precarietà del reale; essa fa passare l'uomo dall'epoca della rappresentazione a quella della disponibilità; le cose virtuali sono costantemente a nostra disposizione. Tutto è offerto, e questa offerta costituisce appunto la sua virtualità." (Perniola, 'Il sex appeal dell'inorganico', pgg. 38-39).
Roland Barthes ('Miti d'oggi') vuole demolire l'illusione di naturalezza impiegata dai mass-media per abbellire la realtà: egli vuole dimostrare che la nostra idea di ciò che è naturale e reale è in realtà una costruzione altamente politica, un prodotto della storia. Barthes, secondo Wooley ('Mondi virtuali'), si mette così a fare il guastafeste della realtà, a mostrare che essa è il prodotto del mito. Egli ci aiuta a scoprire che le cose che abbiamo sempre creduto indipendenti da noi sono state in realtà fabbricate da noi stessi. Ci rivela che l'essere reale, come l'essere naturale, non è semplicemente uno stato oggettivo, apolitico, che non presenta problemi e che non possiede valori suoi propri, anche se una parte della sua mitologia consiste nel farlo apparire proprio così. Ci rivela anche che nuova, o appunto naturale e reale, sono termini di cui il mondo del commercio si è appropriato come termini di mercato. Dunque la realtà artificiale esprime l'ambiguità degli attuali atteggiamenti verso la realtà. Ma questa ambiguità non è, come molti commentatori hanno inteso, la prova che la realtà non esiste. Ancora Woolley afferma di voler dimostrare che queste negazioni della realtà sono fallaci, che una realtà esiste e che, allorché ci si presenta in forma virtuale, questa forma, lungi dall'esimercene o dal liberarcene, può aiutarci a recuperarla. Egli crede anche che essa ci sia necessaria.
Su tali ed altre questioni si sviluppa il dibattito sul postmodernismo, cioè l'era dell'informatica diffusa, nella quale il pluralismo e la complessità sembrano aver preso il posto degli istinti universalizzanti, standardizzati, razionali e semplicistici del modernismo. Il postmodernismo è l'-ismo che non esiste, che si adopera a conciliare fra loro molti -ismi differenti.
Cercando i presupposti di tale 'mutazione', ricordo che,. Come il fisico Alfred Kastler ha rilevato, nella scala dei nostri sensi, siamo abituati a riconoscere in ciò che noi chiamiamo oggetti due proprietà fondamentali: la permanenza e l'individualità, proprietà che sono state caratteristiche nella meccanica classica e che oggi vengono a mancare nella microfisica. Non c'è dubbio che nei paesi altamente industrializzati tende ad accorciarsi la durata della permanenza e dell'individualità degli oggetti, ma non è un fenomeno recente come si vuol far credere. Va ricordata la tendenza, soprattutto a partire dalla crisi del 1929, ad abbreviare sempre più il ciclo di vita dei prodotti, il ben noto fenomeno dell'obsolescenza. La novità sta piuttosto nel fatto che si abbrevia anche il ciclo di vita di intere famiglie di prodotti. In altre parole, non sono soltanto gli individui tecnici che declinano sempre più rapidamente, bensì anche le tipologie alle quali essi appartengono.
Per di più si sostiene spesso che l'impatto delle tecnologie emergenti (informatica, telecomunicazioni, bioingegnerie, robotica e tecnologia dei materiali avanzati) porterebbe a un progressivo assottigliarsi della materialità del mondo, a una dematerializzazione della nostra realtà nel suo complesso. In altre parole, si sarebbe ormai avviata una contrazione dell'universo degli oggetti materiali, che verrebbero sostituiti da processi e da servizi sempre più immateriali. Non c'è scampo al vincolo della fisicità, è vero, ma si possono creare filtri e diaframmi, che a livello percettivo sono in grado di allontanarci dall'esperienza diretta della fisicità. E il software è una tecnologia, ossia uno strumento cognitivo, che in modo diretto o indiretto contribuisce, a conti fatti, a mutamenti senza dubbio di natura materiale. Meglio sarebbe dunque parlar di tecnologia del pensiero.
C'è qualcosa di più specifico, che ci lega sempre più al nostro ambiente, ci immerge in esso, ci impedisce di considerarci esterni al mondo. Da un lato, per esempio, con i satelliti artificiali e i telescopi spaziali, noi possiamo oggi condividere con l'ipotetico 'progettista supremo' una visione dei pianeti e delle galassie altrettanto 'esterna' della sua. Attraverso le stesse tecnologie il paesaggio di cui facciamo parte si è trasformato in paesaggio artificiale. Ciò che ci ostiniamo a chiamare natura dipende sempre più dalle scelte generali energetiche e di politica economica sempre meno dipendenti dai governi nazionali o dalle organizzazioni internazionali, bensì della politica delle grandi aziende multinazionali.
Inoltre la nostra esperienza del mondo, (come abbiamo già avuto modo di notare nel capitolo 'POTERE TECNOLOGICO'), è sempre più un'esperienza mediata, nel senso che dipende sempre più dai mezzi di comunicazione a cui ci 'colleghiamo': il paesaggio umano è un 'media landscape'. Tutto ciò implica un processo più radicale e alla base di tutte le 'mutazioni' che stiamo vivendo: la fine della possibilità di separare il soggetto, l'osservatore, dall'oggetto che egli osserva. E come Perniola fa notare, il fatto che l'uomo va posto all'interno e non all'esterno del paesaggio, è un dato che emerge dalla vita quotidiana prima che dall'architettura. Le persone ormai non appartengono più a se stesse, ma al luogo in cui si muovono: esse sono elementi mobili di ambienti a cui possono essere aggiunte o tolte senza che l'insieme muti sostanzialmente. Se localmente possiamo praticare lo 'sguardo da fuori', globalmente siamo condannati (o liberati) a uno 'sguardo da dentro'.
Nella celebrazione acritica delle realtà virtuali ci sono curiose e inquietanti coincidenze. Ci sono coloro che fideisticamente coltivano la credenza che la diffusione delle realtà virtuali possa contribuire a plasmare un mondo capillarmente informatizzato, più leggero e da cui aspettarsi, ci assicurano, non solo una organizzazione sociale ed economica più efficiente, ma addirittura più democratica. Dall'altro ci sono i mistici che vedono in queste tecnologie l'occasione tanto attesa di 'uscire dal mondo'. Il moderno sciamano occidentale sogna di poter raggiungere lo stato di trance senza dover pagare di persona nessun pegno alle tribolazioni proprie delle pratiche iniziatiche: ovvero uno stato di trance che consenta di avventurarsi nel sacro senza abbandonare le delizie del profano; e nelle realtà virtuali egli scorge, per la prima volta, una possibilità concreta in questo senso.
Boltz sostiene che la maggior parte degli uomini oggi, e soprattutto gli intellettuali critici, non utilizzino l'estetica digitale della simulazione computerizzata come spazio d'azione del possibile, ma al contrario la rinneghino come mondo fantasma. Si tratterebbe storicamente dell'ultima manifestazione della profonda paura per l'apparenza (Angst vor dem Schein). L'appello alla realtà funziona in questo caso come un feticcio con il quale gli stregoni della coscienza critica predispongono una contromagia nei confronti del mondo delle immagini calcolate.
Ma le cose non sono tanto semplici come Boltz crede. Se è vero che il sempre più invadente mondo dell'apparenza può farci paura, e per certi versi giustificatamente, non è meno vero che nella pedissequa accettazione dell'apparenza vi sia una sorta di paura per la realtà.
La perfezione dell'illusione ha segnato anche l'ora della disillusione, e non c'è dubbio che ci stiamo avvicinando a quella soglia critica oltre la quale la 'perfezione dell'illusione' si autonega, poiché se l'illusione non è più distinguibile dalla realtà, nessuna ulteriore perfezione dell'illusione è immaginabile.
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