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EURIPIDE - ALCESTI - MEDEA

greco



EURIPIDE


Sofocle ed Euripide vissero nella stessa città, furono spettatori della stessa realtà politica e sociale e si rivolsero allo stesso pubblico, tuttavia il loro teatro fu diversissimo perché fu diversa la loro personalità.

D'ogni conflitto, ad Euripide interessò discutere i moventi e rappresentare gli effetti sugli animi dei personaggi. I suoi eroi e le sue eroine sono persone concrete, con una mobilissima psicologia e una loro umanissima naturalezza: non sono mitici eroi, ma gente comune. E come sono simili fra loro gli eroi sofoclei, così sono dissimili i personaggi euripidei. I suoi contemporanei non capirono e non amarono il suo teatro sperimentale, che fu però apprezzato dai posteri.

La concezione del tragico d'Euripide abbandona i grandi interrogativi d'Eschilo (il rapporto fra l'uomo e la divinità) e di Sofocle (l'individuo alla ricerca del proprio destino). Il suo senso del tragico implica l'attenzione sulla difficoltà della vita che emerge dai rapporti interpersonali.

La caricatura fattane dai comici e l'aneddotica che fiorì intorno alla sua persona hanno alterato profondamente la biografia d'Euripide. Egli nacque nel 485 a.C. a Salamina, da genitori nobili. Egli non combatté come Esch 858d35i ilo per Atene e non partecipò alla politica come Sofocle, ma visse una vita appartata. Fu forse uno dei primi a vivere la vita dell'intellettuale disimpegnato, e uno dei primi che alla cultura orale preferì quella scritta, che alle frequentazioni di recite, agli incontri, ai dialoghi con i contemporanei preferì il sommesso colloquio con gli autori del passato.

Possedeva una biblioteca, tuttavia nessuno fu più curioso di lui dei problemi della città, più interessato alla politica del tempo, più aperto alle ideologie e alle suggestioni della nuova cultura poetica e filosofica. Perciò la tradizione lo dice amico di Socrate e discepolo di filosofi e sofisti.



Partecipò agli agoni tragici per la prima volta nel 455, e riportò la sua prima vittoria nel 441. Nel 408 si trasferì alla corte del re di Macedonia, dove morì due anni dopo.

In quasi mezzo secolo partecipò ad Atene a ventidue agoni tragici e scrisse non meno di ottentotto drammi, di cui sono sopravvissute diciassette tragedie e un dramma satiresco.

Per capire Euripide occorre tenere presenti gli eventi politici e culturali contemporanei: il ruolo egemonico di Atene, lo sviluppo della democrazia, la promozione della città a centro della cultura poetica e filosofica. Ma soprattutto occorre tenere presente la guerra del Peloponneso. In quegli anni la città pareva scossa da una rivoluzione permanente. Tutto era posto in discussione: religione, principi, tradizioni, costumi, mentalità, ruoli, leggi universali o cittadine. Tutto sembrava poter essere ripensato o rifondato. Fu in questo clima che Euripide riconsiderò il ruolo della donna, la immaginò in alcune situazioni emblematiche, ne esplorò la mente e il cuore e ne rappresentò l'indole, le passioni, la volontà. Il mondo femminile era quasi inesplorato: rappresentarlo significava conquistare un territorio nuovo, toccare una nuova frontiera. Per rappresentare questo mondo ancora quasi inesplorato Euripide scelse innanzi tutto le trame mitiche in cui comparivano delle eroine e misurò la loro personalità secondo la scala dei valori tradizionalmente maschili, postulando una sostanziale parità tra uomo e donna.

Egli introduce nuovi problemi:

  • La posizione sociale ricoperta dallo straniero
  • La figura dell'emarginato
  • La donna e la sua condizione, sia dal punto di vista della donna ateniese che da quello della straniera
  • La figura dell'intellettuale che contesta i valori dominanti
  • La parola intesa come strumento di potere
  • Il ruolo dei sofisti all'interno della compagine sociale

Le novità drammaturgiche che inserisce sono:

  • Prologhi espositivi molto dettagliati che anticipano gli sviluppi e le conclusioni della vicenda
  • Preferisce sgravare l'attenzione dal pubblico sulla trama e punta l'attenzione sul dibattito delle idee
  • Ridimensiona il coro, dandogli meno importanza
  • Dà grande spazio ai dialoghi, puntando sull'opposizione dialettica tra le singole realtà e volontà.


ALCESTI


Nell'Alcesti, che è del 438, Admeto ha ricevuto da Apollo il dono prezioso di non morire se un altro morirà volontariamente al suo posto. Ma nessuno è disposto ad immolarsi per lui, neanche i genitori che sono vecchi: si sacrifica invece la moglie Al cesti e si sacrifica per fedeltà.  La parola chiave del dramma è l'aggettivo pistos, fedele. Alcesti è fedele in senso morale e sociale. Alcesti è fida come lo sono in battaglia i compagni pronti a morire per il capo. La scala dei valori è quella eroica della tradizione aristocratica. Il dramma dimostra che capace di morire per la famiglia non è solo l'uomo che affronta la morte in battaglia, ma anche la donna.

L'Alcesti è divisa in due parti. Nella prima vi sono tre quadri: il commiato straziante di Alcesti, che si spegne dolcemente sulla scena dopo aver fatto giurare al marito di non imporre una matrigna ai figli; l'arrivo rumoroso di Eracle, cui Admeto nasconde la morte di Alcesti; lo scontro violento e pieno di insulti fra Admeto e il padre Ferete, che è accusato dal figlio di non essere morto in sua vece, e che accusa il figlio di aver fatto morire egoisticamente la moglie. E così Admeto finalmente capisce; se prima egli era inconsolabile per aver perduto la moglie, ora è disperato per aver perduto anche l'onore. Quanto gloriosa Alcesti, tanto inglorioso lui. Si forma il corteo funebre, e scena ed orchestra restano vuote. Nel successivo intermezzo un servo racconta che Eracle gozzoviglia e canta in casa senza ritegno: poi compare Eracle e dal servo apprende che Alcesti è morta. Quando entrambi si allontanano e la scena è di nuovo vuota, rientra nell'orchestra il coro di cittadini di Fere e sulla scena ricompare il loro re Admeto. L'uscita e il rientro del coro è un espediente drammaturgico raro, che segna lo stacco fra due sezioni del dramma. Nella seconda parte compare Eracle con una donna velata, l'affida a Admeto, gli dice di condurla per mano in casa: poi le toglie il velo e la donna è Alcesti, che Eracle ha strappato lottando a Thanatos.

Nella buffa voracità di Eracle e nel lieto fine è stata scorta una valenza farsesca che giustificherebbe la collocazione dell'Alcesti al posto del dramma satiresco. Fonti di Euripide furono Esiodo e Frinicio: il primo aveva raccontato il mito nelle Eoiai, l'altro lo aveva rappresentato nella sua Alcesti. Per orientare la tragedia in senso fiabesco, Euripide fa annunciare da Apollo il lieto fine già nel prologo.

Lo scontro verbale fra Admeto e suo padre è lo scontro fra due egoismi che denuncia la miseria umana di fronte alla morte.

Questa tragedia è poco "tragica", e può essere considerata una "tragicommedia", dal momento che il comportamento umano spesso è così misero da sfiorare la comicità; è anche una prova del fatto che con Euripide la tragedia inizia a tramontare.


MEDEA


La tetralogia comprendente l'Alcesti ottenne il secondo premio; la stessa cosa vale per la tetralogia presentata da Euripide nel 431: Medea, Filottete, Ditti e I satiri mietitori. Questa volta Euripide fu terzo, malgrado avesse scritto un'opera, la Medea, che è tra le più potenti di tutta la letteratura occidentale.

La saga di Giasone e degli Argonauti era più antica di Omero e occupava un posto di rilievo nella poesia arcaica.

Gli Argonauti erano cinquanta eroi che partecipavano ad una spedizione e vanno per mare sulla nave Argo (argos = splendido, luminoso, velocissimo), che è la prima nave costruita da mani umane (tema importante per un popolo dedicato alla navigazione). Gli Argonauti partono dalla Tessaglia ed arrivano nella Colchide, regione barbara vicina al Ponto Eleusino (Mar Nero), dopo aver attraversato un braccio di mare funesto ed essere passati sotto le Simplegadi (due rupi mobili che, appena passava una barca, si congiungevano e stritolavano nave e marinai). Gli Argonauti per primi e unici passano indenni sia all'andata sia al ritorno. Giasone ha il compito di recuperare il vello d'oro di un montone che si trova, appunto, nella Colchide. Il montone era in possesso di Eeta, re dei Colchi, padre di Medea. La spedizione gli è imposta dallo zio Pelia, che aveva usurpato il trono al padre di Giasone, Esone, e Giasone reclamava il trono. Pelia dispone che, se Giasone supererà questa prova, otterrà il trono.

Il montone col vello d'oro ha i piedi di bronzo e spira fuoco. Giasone deve aggiogare due tori che spirino fuoco e abbiano i piedi di bronzo, deve arare un campo in cui seminare denti di drago e deve uccidere i guerrieri nati da quella semina.

Giunto nella Colchide egli conosce Medea, che è una vergine giovane ed ingenua che si innamora di lui per volere della divinità (Atena, protettrice di Giasone, ed Afrodite). Le dee la fanno innamorare perché Medea è dotata di poteri, è una fattucchiera che realizza farmaca sia con esiti positivi che negativi. Grazie ai filtri di Medea Giasone supera le prove. Lei lo aiuta a scuoiare il montone, e Giasone la porta con sé in Grecia, sposandola durante il viaggio.

L'episodio rappresentato da Euripide è quello conclusivo. Dopo aver aiutato Giasone a conquistare il vello d'oro, Medea lo aveva seguito in patria e poi in esilio a Corinto. Ma a Corinto Giasone voleva abbandonarla per sposare Glauce, figlia del re Creonte. Medea decide di vendicarsi e manda in dono a Glauce una corona e una veste trattate con un potente veleno. Glauce indossandole muore bruciata e muore anche Creonte appena l'abbraccia. Dopo aver distrutto il futuro di Giasone Medea ne distrugge anche il passato, uccidendo i loro due figli. Alla fine si allontana verso Atene, dove Egeo le aveva promesso asilo, su un carro trainato da draghi alati.

La tragedia è indiscutibilmente al femminile, ed è Medea a dominare la scena. Gli dei sono assenti, suppliti dall'ampia valorizzazione dei sentimenti degli uomini.

La tragedia è costruita in climax ed è la più sofoclea delle tragedie di Euripide. Il prologo non informa soltanto, ma introduce nell'azione e ne fa parte. E come in Sofocle, l'azione ruota tutta intorno al personaggio principale. A differenza dei personaggi sofoclei , Medea nel momento supremo è scissa: non sa se risparmiare i figli o ucciderli. Il conflitto, che negli altri tragici è fra due personaggi, nella Medea è all'interno della protagonista. È una condizione inesplorata e mai rappresentata della psiche. Medea ondeggia: odia e ama, vuole e disvuole più volte, in un fitto dialogo con se stessa. Più della sua capacità di valutare, entra in crisi la sua capacità di volere. La novità della situazione non è nel dubbio, ma nella sua durata, nella sua evoluzione.

L'infanticidio di Medea continua a suscitare orrore nel pubblico: per spiegarlo si è sottolineato che Medea era una straniera e una maga. A Corinto l'infanticidio era persino negato. A questa versione, Euripide preferì quella più ardua. Mentre però egli presenta nel dramma Medea, prima dell'infanticidio, come donna che si confida con le donne corinzie del coro e lamenta il suo infelice destino di donna, dopo l'infanticidio la rappresenta come figlia del Sole, in volo su un carro trascinato da draghi.

La Medea continua il discorso dell'Alcesti. Che cosa merita dal proprio uomo una donna che per lui ha dato tutto? La risposta, che nell'Alcesti era impossibile, perché l'eroina moriva, è possibile nella Medea: una donna merita dal proprio uomo la reciprocità. Compagno "giusto" è solo quell'uomo che ricambia la dedizione della moglie. È il principio aristocratico della giustizia come reciprocità.

A Giasone, che tenta di giustificare il nuovo matrimonio con sofismi politici, Medea grida che egli non è pistos. Giasone è un traditore.

Quello di Medea non è solo un dramma della gelosia, ma tratta anche della femminilità. A Corinto vige un modello politico ateniese e lei, che è una straniera, non è considerata moglie legittima di Giasone, ma solo una concubina. Euripide vuole mettere in risalto il riscatto dello straniero nei confronti del popolo "civilizzato".


Prologo:

La nutrice di Medea afferma che Medea è in preda ad un odio profondo. Dice: "La mia padrona è come un blocco roccioso", "un flutto di mare ribollente", "è un cuore selvaggio", "ha uno sguardo di toro", "ha lo sguardo di una leonessa di parto recente". Si capisce che Medea è in preda allo qumos, passione negativa.  Da dietro le quinte Medea urla: "Morite, figli maledetti".

La nutrice dice che l'uomo ha saputo inventare molti canti che sanno rallegrare l'animo nei momenti di maggior diletto, ma non un canto che sappia placare l'animo nei momenti di disgrazia. Questa è una critica di Euripide alla letteratura precedente, che non aiuta l'uomo a vivere meglio.

Egli mette in risalto i lati più irrazionali della psiche umana con immagini, metafore, urli, silenzi e un uso magistrale della lingua.

Il linguaggio di Medea è passionale, poco controllato dalla ragione, e rivela un totale dominio delle passioni. Il periodare è frazionato e nervoso, c'è un grande utilizzo dell'ottativo (il modo del desiderio, dell'augurio e del rimpianto), che denota che questo è il linguaggio delle emozioni.


Monologo:

Medea si rivolge alle donne di Corinto da cui cerca solidarietà e fa un discorso generale, in cui evidenzia:

  1. L'inferiorità della donna rispetto all'uomo, dicendo che "La donna è costretta a comprarsi un uomo, un uomo che non sa per certo essere buono o cattivo"
  2. La falsità di alcune credenze comuni sul ruolo dell'uomo e della donna, affermando che si dice che l'uomo sacrifichi molto di più nella sua vita, ma che lei preferirebbe essere sul campo di battaglia piuttosto che partorire una sola volta nella vita.

Questa lettura al femminile stabilisce una certa complicità tra Medea d il suo pubblico. Lei, in quanto straniera, non ha vantaggi né parenti, ma solo le donne cui si sta rivolgendo. Oltre che ad essere straniera, Medea è una maga, quindi una sapiente, e in quanto diversa fa paura alla collettività.


Dialogo fra Giasone e Medea:

E' un duello oratorio che non avviene ad armi pari: vince Medea, perché è lei il "vero uomo" in questa tragedia, anche se sembra un ossimoro.

Medea accusa Giasone di viltà, ricordandogli che è sempre stata lei a compiere le azioni decisive mentre lui si limitava a seguirla.

Giasone fa un discorso da sofista, capovolgendo le argomentazioni di Medea ed arrivando a dire che non è lei che lo ha salvato, ma Afrodite, che l'ha fatta innamorare di lui. Sostiene anche che Medea ha avuto solo dei vantaggi dopo essere venuta in Grecia, perché ha trovato la legge, la giustizia ed un contesto civile, in più ha potuto mostrare la sua sapienza ai Greci.


Consegna dei doni a Glauce


Morte di Glauce e di Creonte


Medea uccide i figli: la decisione è uno dei momenti più toccanti della storia a causa del conflitto interiore che dilania Medea, combattuta fra l'amore per i figli e la voglia di vedetta. E' lo scontro fra la buleumata (decisione razionale) e lo Qumos.

Esodo:

Medea va via sul carro del sole con i figli cadaveri, e predice al marito la morte. Giasone fino all'ultimo insulta Medea, con le parole che la nutrice aveva utilizzato nel prologo per presentarla.


IPPOLITO


Fra i suoi argomenti, Giasone ne include uno sorprendente: sostiene che egli deve gratitudine non a Medea, ma a Cipride: Medea lo aveva aiutato perché costretta da Eros. Euripide mostra nell'Ippolito cosa prova una donna travolta da Afrodite. Analizza un amore così violento da spingere una donna virtuosa e gelosa del suo onore fin sulla soglia dell'adulterio e dell'incesto. Traccia una fenomenologia dell'amore che dopo Saffo non era mai stata tentata da nessuno, ma descrive i disturbi psichici della passione, più che quelli fisici.

E' la seconda volta che Euripide tratta la storia di Ippolito. La prima volta non aveva avuto successo: il pubblico era rimasto scandalizzato da Fedra, che si dichiarava al figliastro. Il secondo Ippolito, intitolato Ippolito coronato perché il protagonista entra in scena con la corona sul capo per sacrificare ad Artemide. Egli spregia l'amore in nome di un ideale di purezza e di castità e la dea Afrodite, che si risente del suo comportamento, si vendica facendo innamorare febbrilmente di lui la sua matrigna Fedra. La scena si svolge a Trezene: Fedra non dichiara il proprio amore al figliastro, ma è malata e soffre e delira senza dire a nessuno la causa. E' il prototipo dell'anoressica moderna, che non ha appetito, protrae il digiuno, ha febbre ed è pallida. Rifiuta ogni vitalità, vive d'amore e si strugge fisicamente per questa passione inconfessabile. La nutrice riesce tuttavia a strapparle una confusa ammissione e, a fin di bene, rivela tutto ad Ippolito, facendogli prometter di non dire nulla. Il giovane si indigna e maledice tutte le donne, perché non accetta un rapporto incestuoso, nemmeno mentale. La maledizione alle donne è generalizzata e maschilista, e definisce la donna un malanno ambiguo. Credendosi perduta, Fedra si uccide, e per salvare il suo onore lascia una lettera al marito Teseo, in cui dice di essere stata insidiata da Ippolito. Egli crede alla moglie e vuole castigare Ippolito, che non tenta nemmeno di difendersi dalle accuse, prestando fede al giuramento fatto alla nutrice.  Teseo fa sì che Poseidone scateni una tempesta che travolge Ippolito che muore col suo seguito. Artemide però svela a Teseo la verità: il re impreca contro la sua dabbenaggine mentre il figlio sta spirando, ma Ippolito lo perdona.

Il tema del giovane accusato ingiustamente dalla donna che ha respinto è frequente nel folclore. In quasi tutti gli esempi c'è un vincolo di lealtà che vieta al giovane di cedere alla lusinghe della donna, ma in nessuno egli odia l'amore e le donne.  E invece è proprio quest'odio il fulcro del dramma di Ippolito: per punirlo Afrodite suscita nella sua matrigna un amore funesto. Come nell'Alcesti, anche nell'Ippolito il prologo non ha solo la funzione di informare, ma anche quella di qualificare gli avvenimenti: discolpa Fedra e svela la ubris di Ippolito nei confronti di Afrodite.

Contrapposte sono due sfere: quella di Artemide, in cui Ippolito indugia, rifiutandosi di conoscere qualsiasi legittimità a quello di Afrodite, che è il mondo della donna, della casa, dell'amore: un mondo che egli giudica impuri e che invece è altrettanto necessario. Euripide immagina che Fedra desidera la purezza e la freschezza del mondo di Artemide, desidera cioè penetrare nel mondo dell'amato, unirsi a lui. Fedra ama senza colpa: per volere di Afrodite. Ma per salvaguardare il proprio onore e l'onore del marito e dei figli si rende colpevole di un gesto ignobile: accusa un innocente. Il quale è sì innocente, ma ha nella sua purezza qualcosa di irriverente. È uno scontro tra personaggi bifronti, la cui colpa è di non essere flessibili, ma di stare su due posizioni monolitiche per le quali devono essere puniti.

Interessante il fatto che Ippolito e Fedra non si incontrino mai sulla scena, a testimonianza della loro incomunicabilità e dell'esasperazione delle loro posizioni opposte.

In questa tragedia si avverte l'influenza di Sofocle, infatti, essa è articolata in due momenti, e l'eroina preferisce al disonore la morte.

La divinità in Euripide, dove compare, è bizzarra, volubile e capricciosa, specchio dei vizi e della mancanza di moralità dell'uomo. In lui c'è una maggiore ereticizzazione degli dei, che sono criticati, fanno soffrire ed umiliano.


NELLA MEDEA IL TRAGICO E' LO SCONTRO FRA LOGOS E PATHOS

NELL'ALCESTI IL TRAGICO E' L'EGOISMO QUOTIDIANO

NELL'IPPOLITO IL TRAGICO E' LO SCONTRO TRA DUE CONDIZIONI DI VITA UNILATERALI CHE NON RISPETTANO IL MHDEN AGAN


TROIANE


Nel 415 quando gli Ateniesi concludevano temporaneamente la decennale guerra contro Sparta, stavano per imbarcarsi in un'altra guerra contro Siracusa, Euripide presentò al pubblico una tetralogia legata formata dall'Alessandro, dal Palamede, dalle Troiane e dal Sisifo. E nell'unico dramma sopravvissuto, le Troiane, proclamò che a Troia dopo dieci anni di guerra non vi erano stati dei veri vincitori.

La scena delle Troiane è l'accampamento dei Greci sul lido di Troia. Il prologo è detto dal dio Posidone a cui Atena viene a chiedere di colpire i Greci sulla via del ritorno, per punirli dei sacrilegi compiuti durante l'espugnazione.

Il dramma è quasi senza azione. È un dramma corale: al coro di giovani troiane corrisponde sulla scena un gruppo di personaggi che rappresentano a loro volta la totalità delle donne troiane tratte in schiavitù dai greci. Anzitutto Ecuba, poi Cassandra, infine Andromaca, cui viene strappato il figlioletto Astianatte per essere gettato dalle mura di Troia. A parte Elena, trattata da Menelao come una prigioniera, la quale accusa della propria colpa Afrodite ed è contraddetta da Ecuba.

L'uccisione di Astianatte è l'unico avvenimento e dà luogo all'unica azione del dramma: Ecuba per seppellire il fanciullo lo pone sullo scudo di Ettore. Poi l'araldo Taltibio ordina di dare Troia alle fiamme. L'incendio è visto con gli occhi di Ecuba e del coro, che traducono lo spettacolo in immagini aeree, veloci. Per ultimo si ode uno squillo di tromba e al lugubre segnale le donne si avviano alla nave verso i lidi lontani dell'Ellade.

Le Troiane sono composte da una serie di quadri. Davanti a Ecuba compaiono le donne del coro, che si chiedono in quale terra favolosa dei Greci andranno a servire. E compaiono Cassandra folle che baccheggia, Andromaca che piange il marito, l'araldo che ordina distruzione e morte, Elena che osa l'ultima seduzione. Ad unificare i quadri è Ecuba, ed è soprattutto l'atmosfera, vibrante di ritmi e melodie.

Le monodie dei personaggi della scena sono più frequenti: la tragedia risulta per due terzi cantata. Anche gli effetti spettacolari sono moltiplicati. La parodo è spezzata in due tempi: entra prima un semicoro e solo alla fine del canto entra cantando il secondo semicoro. Troia è sempre presente sullo sfondo col suo destino luttuoso.

La tragedia è una delle più belle, e vuole essere un dramma corale in una geniale ed inusitata maniera polifonica: le voci dei personaggi sono differenziate e concorrono con timbri e modulazioni diverse ad un effetto musicale unitario.








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