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TSUNAMI E ALTRE CATASTROFI NATURALI

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TSUNAMI E ALTRE CATASTROFI NATURALI

Un uso più saggio del territorio può ri­durre i danni provocati dalle catastrofi naturali.

Quando si parla di ambiente e di tutela degli equilibri naturali non si fa mai vuota retorica, ma si pone l'attenzione su un pro­blema di estrema importanza; quando si par­la dei rischi che possono conseguire a un uso del territorio che non tenga conto del­l'impatto ambientale, non si fa dell'inutile allarmismo. E infatti, dopo le catastrofi na­turali, ci si chiede sempre: sarebbe stato possibile evitare quello che è successo? Si è colpevoli di vittime e danni? Purtroppo gli interrogativi del dopo servono a ben poco se, passata l'emergenza, si ritorna a devasta­re il territorio, senza ricavare alcuna lezione dall'esperienza subita.

Bisogna convincersi che le catastrofi naturali, come terremoti, alluvioni, frane, maremoti, onde anomale, se sono inevitabi­li, tuttavia i loro effetti dannosi possono dal­l'uomo essere contenuti con una saggia ope­ra di prevenzione e con un uso del territorio razionale e rispettoso degli equilibri am­bientali.



Anche gli effetti terribili e devastanti dello tsunami, l'onda anomala che il 26 di­cembre del 2004 aggredì le coste di alcuni Paesi rivieraschi dell'Oceano Indiano per decine di migliaia di chilometri, pur nella sua inevitabilità, in quanto conseguenza di un maremoto di straordinaria violenza avrebbe potuto provocare danni di gran lun­ga inferiori se soltanto gli uomini fossero stati più accorti.

Lo tsunami, parola giapponese che si­gnifica "onda del porto", è frequente lungo molte coste dell'Oceano Indiano e del­l'Oceano Pacifico e, in misura molto piùcontenuta, anche lungo alcune coste del nostro Mar Mediterraneo. Si tratta di onde anomale che possono spostare masse d'ac­qua anche notevoli in conseguenza di un' alta marea, di un maremoto e perfino del passaggio al largo di una nave di gran­di dimensioni. Quello che il 26 dicembre del 2004 si abbatté lungo gran parte del­l'arco costiero dell' Oceano Indiano era uno tsunami alto più di dieci metri, attiva­to da un violentissimo terremoto, del nono grado della scala Richter, con epicentro nell' oceano, ad alcune centinaia di chilo­metri allargo dell'isola di Sumatra.

La massa d'acqua che si spostò in conseguenza del sussulto sismico raggiun­se le coste di Sumatra dopo circa un'ora e via via, dopo alcune ore; quelle della TIlai­landia, della Birmania, dello Sri Lanka e, infine, quelle della Somalia dall' altro Iato dell' oceano, in Africa.

Con i sofisticati sistemi tecnologici di cui disponiamo, di avvistamento e trasmis­sione dei dati attraverso le reti satellitari, sa­rebbe stato possibile avvertire per tempo le popolazioni interessate dall' evento catastro­fico, in modo da farle allontanare dalle co­ste, cioè dai luoghi maggiormente a rischio. Invece questo non è stato fatto, per l'assen­za di un sistema di protezione civile capace d'intervenire in tempo reale in occasioni del genere e la responsabilità è sia dei governi locali, che non provvedono ad attivare un si­stema di protezione civile, sia del mancato coordinamento nello scambio di informa­zioni a livello internazionale tra i governi di tutto il mondo.

Ma la colpa dell'uomo non si limita al­l'assenza di una rete protettiva capace di al­lertare in caso di emergenza le popolazioni: ancora più a monte c'è da constatare come in tanti dei Paesi devastati dallo tsunami sia da anni in atto una 'POlitica di sviluppo del­l'industria turistica che non tiene in alcun conto i rischi di impatto ambientale. Infatti si sono costruiti alberghi, residences, resorts e strutture di accoglienza, magari dotate di ogni comfort e tali da attirare l'interesse del­la facoltosa clientela occidentale, talvolta fi­nanche sul mare. In questo modo sono state distrutte foreste e palmizi che costituivano una naturale barriera lungo le coste.

Basta rifletterci: se la montagna d'ac­qua che si è abbattuta su tanti villaggi turi­stici e altri insediàmenti urbani, penetrando frn nelle strade, nelle case, nelle halls degli alberghi, spazzando via uomini e cose, si fosse infranta contro scogli e palmizi, molto probabilmente i danni, in vittime e in cose, sarebbero stati minori.

E invece i mass media hanno portato in ogni angolo del mondo le terribili immagini di devastazione e di morte, con centinaia di migliaia di vittime e interi villaggi, turistici ma anche di pescatori e di povera gente, cancellati dalla furia delle acque.

Non è stato possibile nemmeno redige­re un calcolo certo delle persone che hanno perso la vita in quel tragico mattino dello tsunami, ma non si è lontani dal vero se si afferma che le vittime siano state intorno alle trecentomila, di cui oltre la metà nella sola isola di Sumatra, appartenente all'Indo­nesia.

Alcune migliaia di vittime sono turisti occidentali, anche italiani, che, andati in luoghi che la carta patinata dei depliants tu­ristici descriveva come di sogno, vi hanno invece trovato la morte. Le immagini crude­li di quel tenibile mattino sono ancora da­vanti ai nostri occhi, pur dopo tanto tempo. E ancora oggi le cronache giornalistiche ci parlano della difficoltà di un ritorno alla vita normale da parte di sopravvissuti che hanno perso tutto in quel tragico mattino: affetti, averi, speranza del futuro. Eppure quelle popolazioni così provate devono ritornare a nutrire speranza nel futuro e ricostruire i loro villaggi e la loro economia, ma puntan­do ad uno sviluppo, anche nel turismo, che sia compatibile con le caratteristiche del ter­ritorio.

Spesso dal male si può sviluppare il bene: dalla tragedia dello tsunami si è origi­nata una gigantesca gara di solidarietà in tutto il mondo che non solo è stata la prova di una generosità diffusa, in tutti i Paesi e in tutte le classesociali, ma che è anche la mi­glior prova che la speranza di costruire un futuro migliore regge ancora.




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