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Cesare Pavese, Il carcere

italiano



Cesare Pavese, Il carcere
Einaudi tascabili, 1990
Pagine VII-102
L. 11.000 Euro. 5.68

Passeggiando per le strade di Brancaleone Calabro non si può non rimanere attratti dalla sua essenza: l'azzurro del mare, il profumo dei gelsomini che in nessun posto 232j94c come in questo piccolo paese fioriscono con tenacia e perseveranza, i pescatori che, quasi immagine di un dipinto impressionistico, garantiscono al turista la possibilità di un buon pasto a base di pesce fresco nelle poche trattorie a carattere familiare. E non si può non pensare a Cesare Pavese, a quell'intellettuale fervido, malinconico, ironico, forse a volte cinico che tanta presa ancora ha sui giovani che decidono di mettersi in contatto con i suoi scritti.

Pavese, condannato a tre anni di confino per avere accettato di ricevere al proprio indirizzo posta compromettente inviata alla donna amata, vi rimase poi solo un anno: un anno che certamente incise sulla sua personalità già di per sé complicata e particolare.
«La donna dalla voce rauca» come lui la chiamava era fisicamente non bella, forte e volitiva come un uomo, insegnante di matematica: a lui opposta, dunque e forse proprio per questo amata. Per tutto il tempo in cui egli sentirà di essere ricambiato, di averla accanto sarà un uomo felice, vivo, semplice, pieno di entusiasmo, pronto a quel colloquio umano che invece negli anni della sua adolescenza gli era stato precluso da forze più grandi di lui.

Ma al ritorno dal confino, Cesare avrà un'amara sorpresa: la donna lo ha già abbandonato, ha sposato un altro, lo ha solo usato. Da quel momento in poi ogni donna sarà considerata nei suoi scritti solo come un «frutto di carne» o tutt'al più come l'espressione della indifferenza e della infedeltà.



E proprio nel suo primo romanzo Il carcere ( primo per composizione anche se in ordine verrà pubblicato prima Paesi tuoi) le donne popolano la solitudine del confinato. C'è Elena, la donna che lo ama, con la quale lui s'intrattiene ma che maltratta, punisce e sulla quale sfoga la sua dolorosa misoginia: la donna che lui non vorrebbe mai, cedevole, materna. Lui infatti vuole una donna forte, volitiva, magari perversa e infedele, che però lo domini, lo protegga, lo faccia sentire vivo. Nel romanzo questo tipo di donna è rappresentato da Concia, quella che lui definisce «la donna capra», dal forte odore di stallatico, bella e sensuale, primitiva e sfuggente, incolta e selvatica, quasi un frutto da cogliere e gustare di quella terra calabra che lo ospita da confinato e lo tratta da amico, chiamandolo con rispetto «il professore».

Il carcere dimostra, sul piano stilistico e contenutistico, lo sforzo maggiore compiuto da Pavese e cioè quello di collegare il tempo in cui il racconto è stato scritto con quello del confino scontato. L'opera non è quindi il «diario reale» del suo confino politico, bensì «la cronistoria tutta affidata alla memoria» di un intellettuale che ha dovuto pagare di persona un colpa della quale non aveva compreso il perché.

Nel protagonista Stefano egli non vuole trasmettere quel se stesso di allora con i suoi rimpianti, con lo strazio interiore di una solitudine non solo dell'anima ma reale, autentica, proprio perché consumata nell'arretratezza culturale e fisica di un luogo lontano mille anni luce dalla sua Torino fervida e operosa; egli vuole invece ritrarre il Pavese del tempo in cui scrive il racconto, ormai placato, forse anche rinvigorito da quell'esperienza che, proprio perché lontana nel tempo, può ormai contemplare con sereno distacco. Non più rabbia, doloroso senso d'abbandono, non più lo «sdeddazzu» , la stella del mattino che l'uomo solo si leva all'alba a contemplare, malinconicamente adagiato sulla sabbia di un mare bellissimo: non più bestemmie contro quel mare che cospira a farlo sentire prigioniero di un carcere forse nato con lui: il mare di Stefano è «la quarta parete della sua cella» così come è la quarta parete della gente di Brancaleone, della gente di mare.



Soltanto la notte che porta con sé incubi e tormento, Stefano e Cesare diventano un'anima sola ed entrambi vorrebbero, ma non riescono a farlo, rompere quella lastra di ghiaccio durissimo che si frappone fra loro e il mondo, fra la solitudine e la vita, fra lo forma e la sostanza, fra la riflessione amara e paralizzante e la vitalità esuberante e concreta.

Il carcere insieme a La casa in collina forma un insieme inseparabile: Prima che il gallo canti, e si allude simbolicamente al tradimento, a quel tradimento che forse non è ascrivibile al male che gli altri ci fanno, ma a quell'altro male, quello che vive dentro di noi, quando siamo incapaci di stabilire un rapporto concreto con la vita, con le cose e restiamo lì solo a contemplarle, a sezionarle con crudele precisione. Quel tradimento che infine ci trasformerà in un «fucile sparato»







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