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All'epoca degli antichi Greci le Olimpiadi
avevano il potere di fermare una guerra tra Sparta e Atene. Oggi molte grandi
città europee rischiano di vivere un pomeriggio di guerriglia urbana in
occasione di una partita di calcio.
Lo sport è quasi coetaneo della società in cui viviamo, e inevitabilmente ne
rispecchia vi 636g65g zi e virtù. Da Olimpia al Barone De Coubertin, fino alle
paralimpiadi per disabili, molte persone hanno guardato allo sport per
migliorare almeno un po' il nostro mondo e diffondere principi come tolleranza
e integrazione. Tantissime sono le storie individuali di uomini e donne, famosi
e non, che grazie all'impegno agonistico hanno vinto vere e proprie battaglie
personali. Ma da sempre c'è anche qualcuno che non la pensa così. A volte
questo qualcuno è razzista.
Olimpiadi di Berlino, 1936: Adolf Hitler non ha lasciato nulla di intentato: l'evento può diventare un'enorme cassa di risonanza per propagandare la potenza della grande Germania e la superiorità della razza ariana. L'organizzazione è cupa e grandiosa, impregnata di un fascino sinistro ben descritto dal film Olympia di Leni Riefenstahl. Un uomo nero però rovina tutto. Si chiama Jesse Owens, è l'uomo più veloce del mondo e vince quattro medaglie d'oro. Owens diventa un simbolo dell'antirazzismo, è la dimostrazione vivente della demenzialità di certe teorie. E pazienza se in quegli anni, anche nel profondo sud degli Stati Uniti, non tutto era così facile per un atleta di colore. Questa è una storia vecchia, del resto anche il razzismo lo è. Purtroppo ancora oggi continuano a succedere certi episodi. Non c'è probabilmente da stupirsi: la piaga del razzismo non è ancora stata debellata dalla nostra vita quotidiana, e lo sport non fa eccezione.
Eppure c'è qualcosa in più: in qualche modo sembra che lo sport catalizzi su di sé il meglio e il peggio di questo scontro culturale. Le competizioni agonistiche hanno avuto, per la piena integrazione degli afroamericani, un'importanza paragonabile a quella delle predicazioni di Martin Luther King e Malcolm X: oggi un personaggio come Micheal Jordan è un autentico totem dell'unità nazionale, e il suo ritorno sui campi di gioco è stato vissuto dagli americani come uno dei primi momenti di rinascita dopo la tragedia delle Twin Towers.
Un altro nero come Tiger Woods
è diventato il più amato campione di golf,
la disciplina forse più elitaria e per certi versi snobistica della scena
statunitense. Anche in altri Paesi ci sono esempi luminosi. In Sudafrica il
tramonto dell'apartheid è passato anche dallo sport: se un tempo il calcio era
riservato ai neri e il rugby
ai bianchi, ora le rispettive nazionali sono decisamente "miste". Nei pacchetti
di mischia dei gloriosi Springboks sono entrati i primi colossi d'ebano,
mentre la Coppa d'Africa di calcio, vinta davanti al tifoso speciale Nelson
Mandela, è stata una festa popolare indimenticabile di riconciliazione
nazionale.
Un'altra bella pagina è stata scritta alle Olimpiadi di
Sydney da Cathy Freeman, l'atleta
australiana di origine aborigena. Dopo un'infanzia non facile e qualche annata
storta seguita ai primi successi, l'oro olimpico sui 400 m ha finalmente
premiato l'orgoglio suo e di un'intera popolazione. L'altra faccia di questo
pianeta tuttavia mette paura: proprio qui in Europa, lo sport (e il calcio in
particolare) sembra essere uno dei palcoscenici preferiti da violenti e razzisti.
Il fenomeno degli ultrà è stato ormai studiato e descritto sotto ogni angolazione. L'estrema
destra xenofoba ha nelle curve degli stadi le sue roccaforti: l'esposizione di
svastiche e croci
celtiche, gli ululati di scherno verso gli atleti di colore (l'ormai
tristemente famoso "verso della scimmia") sono la pessima cornice di tante
partite. Sport e razzismo, purtroppo non hanno ancora smesso di incrociarsi. E
sono quasi
sempre incroci pericolosi.
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