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La Pittura Gotica

architettura



La Pittura Gotica


Nel processo costitutivo di una cultura figurativa occidentale la pittura ha una parte che, nel corso del XIII secolo, si fa sempre più importante; infatti questo processo consiste, in sintesi, nel passaggio dalla presentazione dell'immagine alla rappresentazione di azioni e la pittura, per un insieme di motivi, si presta maggiormente allo svolgimento di temi narrativi o rappresentativi. Sono questi che specialmente incidono sulle strutture essenziali del fatto figurativo, le grandi coordinate dello spazio e del tempo, e che, per conseguenza, concorrono a sostituire, nell'arte, all'ideologia bizantina dell'eterno, l'ideologia della storia, o il pensiero che la coscienza della storia sia la base di ogni interesse conoscitivo ed etico. In quanto poi, questa, è l'ideologia di fondo della cultura occidentale, la pittura italiana del Duecento, essenzialmente rivolta a chiarire il significato e il valore della rappresentazione di azioni, concorre al processo della sua formazione. Alla fine del Duecento e al principio del Trecento, Giotto avrà, nella creazione delle grandi strutture culturali del mondo occidentale, un'importanza certamente non inferiore a quella di Dante.

Questo processo si concreta, di fatto, nella progressiva liberazione dalla dominante cultura bizantina, ed è affrettato dal fatto che questa cultura ha ormai esaurito le sue possibilità di sviluppo, allo stesso modo che l'impero d'Oriente ha concluso il proprio ciclo storico e si avvia ineluttabilmente alla fine. Il processo è graduale e si compie a livelli diversi. Per tutto il secolo XIII, la cultura bizantina domina ancora, col suo mondo d'immagine, la pittura italiana ed è nel suo ambito che dovremo cercare i primi fermenti e i primi filoni di rinnovamento, che spesso consistono soltanto nell'assumere, rispetto alla tradizione, una posizione dissidente, più o meno consapevole delle proprie motivazioni ideologiche. Bisogna però tener presente che le motivazioni ideologiche andranno 222f58c precisandosi nella pittura, anche più che nell'architettura e nella scultura. Nell'architettura il processo avviene, in gran parte, nella linea direttrice del rinnovamento tecnologico; nella scultura, con Nicola e Giovanni Pisano, in quella del rinnovamento della base culturale, "antica" e "moderna" ; nella pittura, come vedremo, in una linea propriamente id eologica.



Si è già notato come correnti "romaniche" si fossero formate, all'interno di una cultura ancora bizantina, nell'XI e nel XII secolo. Nella seconda metà di tale secolo, il fenomeno è evidente proprio nel maggior centro della cultura bizantina, a Venezia. Il mosaico col Giudizio Universale, nella controfacciata del duomo di Torcello, rientra palesemente nella sfera bizantina nella concezione iconografica, per la presentazione a fasce sovrapposte, per la simbologia ricorrente; ma in alcune parti, per esempio nell'Inferno, l'accento è diverso, diverso il modo di muovere e caratterizzare le figure. Sembra che una corrente più realistica e popolaresca si sia insinuata nella solenne visione apocalittica. Si tratta più verosimilmente di un'infiltrazione nordica: comunque dipendente da una tendenza religiosa occidentale, più interessata all'ammonimento morale e palesemente mirante a suscitare terrori escatologici. Sta di fatto che l'artista, nel raffigurare i dannati tra le fiamme o i teschi verminosi, non ha voluto offrire un oggetto di contemplazione, ma uno stimolo al sentimento dei fedeli. Ha quindi accentuato tutto ciò che poteva rendere lo stimolo più diretto ed efficace: ha liberato le figure dalla ritmica convenzionale, rinforzato i contorni, intensificato i colori. La volontà di dire cose, di apostrofare chi guarda, di agire sul suo animo e sul suo modo di comportarsi lo porta a discostarsi dall'eloquio tradizionale, magari a ricorrere a locuzioni dialettali. Nei mosaici di San Marco della fine del XII e della prima metà del XIII secolo, e specialmente nell'arcone della Passione, questa stessa intenzionalità di suscitare emozioni uscendo dalla convenzionalità iconografica e stilistica bizantina è anche più evidente e investe tutta la narrazione storica trovando, tanto nelle linee che nella modulazione dei colori, modi di suggestione ugualmente efficaci, ma capaci di agire a un più elevato livello di sentimenti, e di interessi morali. Non si tratta di un "espressionismo" ad oltranza, al contrario. Anche l'arte bizantina persino in questa fase tarda e manieristica, giunge talvolta a note di alta tragedia: la deposizione nella cripta del duomo di Aquileia è indubbiamente assai più tragica che la crocefissione dell'arcone di San Marco. Tuttavia ad Aquileia si sforza fino ai toni più acuti una ritmica tradizionale, in San Marco si sottolinea, con il risalto coloristico del corpo del Cristo e con la calma distribuzione dei gruppi di figure, la gravità storica e morale del fatto.

Il processo di superamento della figuratività bizantina, avviene, in Toscana, ad un livello intellettuale più elevato che certamente è in rapporto con l'intensa, agitata vita religiosa suscitata dalla propaganda, spesso fanatica, degli ordini religiosi.

A Pisa e a Lucca, nella prima metà del Duecento, la tradizione bizantina è ancora ben salda nell'opera di BERLINGHIERO e di suo figlio BONAVENTURA BERLINGHIERI, anche se quest'ultimo, nella pala di San Francesco a Pescia (1235), si rivela precocemente sensibile, specialmente nelle storiette della vita, all'intonazione umana della predicazione e della leggenda francescana. In questi ed in altri pittori dello stesso ambiente, tuttavia, il legame con la cultura dominante non è così esclusivo da inibire ogni ricerca originale, benché più formale che di contenuti: il rapporto linea-colore è sempre il principio-base del discorso pittorico, ma si cerca di sensibilizzarlo, raffinando le qualità dei colori e la scrittura dei loro limiti lineari. Solo con GIUNTA PISANO (notizie tra il 1229 e il 1254) si ha una scelta cosciente nel senso di una drammaticità che necessariamente esaspera la tensione dei tratti e la forza dei colori: anche se non si separa dal tipo tradizionale della croce dipinta e dalla calligrafia bizantina, serra i tempi del ritmo fino a sfiorare, specialmente nella tarda Croce di San Domenico a Bologna, il limite di rottura. A Firenze la figura dominante, fino al 1270 circa, è quella di COPPO DI MARCOVALDO, forse la mente direttiva della maggior parte della decorazione musiva del battistero fiorentino, iniziata nel 1225. A lui è da ascriversi il Giudizio Universale: una composizione iconograficamente e strutturalmente nuova, fortemente icastica, dottrinale e popolaresca ad un tempo, piena di spunti terrificanti e grotteschi, da sacra rappresentazione. Questo straordinario vigore evocativo, da predica quaresimale, si esprime in una ritmica tronca, volutamente irregolare, piena di ripetizioni ossessive e bruschi scarti, come nelle laudi di Iacopone da Todi; i contorni sono duri, spezzati, i colori intensi, contrastanti. È così anche quando, nelle pitture su tavola, il tema è meno violentemente drammatico: nelle Madonne di Siena (1261) e di Orvieto, nei Crocefissi di San Gimignano e di Pistoia (1274). È un pittore che vuol commuovere, strappare al fedele lacrime di contrizione; se il suo linguaggio non si modifica strutturalmente è perché, di proposito, l'artista vuole servirsi di modi di comunicazione correnti, sperimentati, accettati per caricarli di una tensione passionale nuova.

In un altro ordine di sentimenti e di discorsi, più garbati e persuasivi, il pittore della pala della Maddalena (Firenze, Uffizi), sceglie metri e rime facili, narra le storie della santa con una vena da novelliere, ma non arriva a una riforma interna, strutturale, del fatto pittorico.

Il problema di fondo, di una riforma strutturale del fatto pittorico, si pone con Cenni di Pepo detto CIMABUE: un artista che, come Giotto a Dante, è paragonabile, per l'importanza che ha nella storia della lingua pittorica italiana, a Guido Cavalcanti (F. Bologna). Si hanno, per la sua opera, pochissime date certe: nel 1272 era a Roma, nel 1301 lavorava a Pisa, nel mosaico absidale del duomo. Prima di andare a Roma, la sua opera aveva già percorso un buon tratto della sua parabola: la Croce di San Domenico ad Arezzo lo mostra vicino a Coppo "nello sforzo di esasperare la maniera orientale, giusto sul punto di abbandonarla" (Bologna). La linea si tende in curve elastiche, sensibilizza a tal segno le zone di colore che separa, da esigere il termine medio di una variazione chiaroscurale, di una permeazione luminosa. Questa si fa più profonda nel Crocefisso di Santa Croce a Firenze, velando i colori per suggerire brevi distanze di piani, sfruttando la trasparenza del perizoma per formare fragili involucri luminosi: più che una forma umana idealizzata, il Cristo è una trama spaziale che si configura come una forma umana. La Madonna di Santa Trinita è, iconograficamente, più nuova. In basso, in tre archi del soppedaneo del trono, vi sono mezze figure di profeti; il trono si leva come una torre d'avorio e d'oro, tra due schiere di angeli. C'è un tema dottrinale: gli archi, in basso, formano come una cripta, alludendo ai tempi in cui la rivelazione era ancora una verità coperta; e il gesto degli angioli può interpretarsi tanto come un deporre su quella base o un sollevare da essa il trono dommatico della Vergine. Una duplicità di significati è anche nelle forme: la stessa linea curva, alla base del trono, vale come arco frontale e come esedra prospettica; e la forma del trono, con la linea curva del dossale che gira dietro la Vergine, determina una tenue profondità in cui la figura si situa come piano coloristico. Ma non è una forma appiattita: la trasparenza del colore lumeggiato d'oro fa di essa un volume trasparente, di cui si veda bensì soltanto una faccia, ma s'intuisca la profondità: un volume, infine, così immateriale da giustificare il richiamo ideale all'antica arte greca (Brandi).

A questo punto, probabilmente, è da collocarsi l'incontro di Cimabue con la scultura di Nicola Pisano (Toesca, Longhi), di cui è indizio il diverso modellato del manto della Madonna del Louvre, avvolgente e non più scritto per lumeggiature d'oro: ed è un incontro di fondamentale importanza, anche se il classicismo romano di Nicola non è, per Cimabue, che un tramite per riscoprire intuitivamente la profonda matrice classica della cultura bizantina: una matrice di cui quella cultura, irrigidendosi, ha perduto anche il ricordo, ma che costituisce tuttavia la matrice di tutti i linguaggi, anche del "latino" e del "moderno" .

Dopo il periodo romano, la cui durata ci è ignota ma che certo stabilì un contatto con le scuole locali, Cimabue lavorò ad Assisi, con un'intelligenza del senso umano dell'ideologia francescana che il ritratto di San Francesco (nella basilica inferiore) basterebbe a provare. Dipinse nel transetto, nell'abside e nella volta a crociera del transetto della basilica superiore: benché rovinati (le parti lumeggiate, per un'alterazione chimica del colore, si sono annerite, invertendo il rapporto dei valori), gli affreschi con la Crocefissione e la morte della Madonna si rivelano ancora come le prime, altissime rappresentazioni drammatiche della pittura italiana. Nella Crocefissione, il Cristo è un gigante morente nel vasto spazio vuoto di un cielo solcato da voli d'angioli disperati; in basso, al di sopra dei dolenti assiepati, l'invocazione tragica delle braccia tese. Nei tratti meno guasti si vede come Cimabue recuperi perfino la trama della tessitura pittorica ellenistica: il suo luminismo non più è irradiazione uniforme, ma un lampeggiare dall'interno che accende sui volti la piega dello strazio.

La figura di San Giovanni nel mosaico pisano, più calma anche nella plastica del modellato, può suggerire l'ipotesi di un tardivo placarsi dell'inquietudine che traspare da tutte le opere di questo artista grandissimo che, ai limiti di una tradizione morente, recupera in essa tutto quanto di vivo può servire a formare un linguaggio capace di esprimere i nuovi valori della vita spirituale che si vengono stabilendo nella società del tempo.

La testimonianza di Dante (" Credette Cimabue ne la pintura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido / si che la fama di colui è scura") non spiega soltanto il motivo dello scarso séguito di Cimabue a Firenze: dimostra che Cimabue operò secondo una certa direzione, il recupero di una classicità soprastorica, e che questa direzione fu sopraffatta da un'altra più importante perché più radicata nella realtà della storia, quella di Giotto.

I contatti di Cimabue con l'ambiente romano rimangono oscuri; ma i pittori romani che lavorano ad Assisi dimostrano di trovarsi in una posizione non molto diversa da quella del pittore fiorentino: e lo si nota specialmente in IACOPO Torriti, autore a Roma dei due mosaici absidali di San Giovanni in Laterano (1291) e di Santa Maria Maggiore (1295). La tendenza romana, fino a quel momento isolata in un ambiente che scarsamente partecipa della vita culturale italiana, culmina nella figura di PIETRO CAVALLINI, che fa di essa una componente attiva della nuova cultura figurativa. Nato verso il 1240, morì vecchissimo dopo il 1325. Perduti i dipinti compiuti tra 1270 e il 1280 in San Paolo fuori le mura, l'opera certa del Cavallini si riduce ai mosaici di Santa Maria in Trastevere (1291), agli affreschi di Santa Cecilia (1293c.) e a quelli eseguiti, con aiuti, nella chiesa di Santa Maria Donnaregina a Napoli, tra il 1316 e il 1320.

I mosaici di Santa Maria in Trastevere, benché non innovino l'iconografia corrente, sono composti con un senso plastico e coloristico che dimostra un'intelligenza più acuta delle fonti tardo-antiche: quella che era una tradizione locale va trasformandosi in una posizione culturale motivata e cosciente. Poco rimane delle storie del Vecchio e del Nuovo Testamento nella navata di Santa Cecilia, e solo in parte è conservato il Giudizio Universale nella controfacciata. Le figure sono piene di dignità "antica" , avvolte in grevi manti che ne magnificano il volume, la compattezza statuaria; misurati e solenni sono i gesti, intensi gli sguardi. Un mutamento così radicale non si spiega senza un fattore esterno ed è quello di Arnolfo di Cambio, attivo a Roma negli ultimi decenni del secolo. L'influenza non si limita all'ideale della figura statuaria. Pietro Cavallini plasma il colore come Arnolfo la pietra, ed è colore denso, profondo, che fa massa: assorbe in sé, nella propria intensità di pigmento, il chiaroscuro, quasi cancella i contorni. È una via parallela, ma più stretta e con minori prospettive, a quella di Giotto: ciò che spiega come, oltre a diffondersi nel Lazio e nella Campania per ripercussione diretta, la pittura cavalliniana abbia avuto conseguenze lontane, associandosi alla grande lezione giottesca, come nella scuola pittorica di Rimini.

Una personalità altissima, quella di DUCCIO DI BUONINSEGNA (m. 1318 o 1319) rappresenta in Toscana, a Siena, un'alternativa all'indirizzo linearistico e plastico di Cimabue: e una delicata alternativa, perché i rapporti tra i due maestri sono così serrati, almeno in un primo momento, che l'attribuzione della Madonna Rucellai per Santa Maria Novella a Firenze (oggi agli Uffizi), è stata lungamente disputata prima di essere stabilmente assegnata al senese.

A Siena non esisteva una salda tradizione pittorica: GUIDO da Siena, autore di una Maestà (la cui data iscritta, 1221, è molto discussa), è un artista di levatura modesta, di formazione malcerta, senza contatto diretto con le fonti bizantine. La Madonna di Crevole, prima opera nota di Duccio, non rivela una più approfondita conoscenza di quelle fonti ma, nella sua qualità molto alta, una capacità di risalire da una tradizione indiretta e infiacchita al suo nucleo vitale originario. La pala Rucellai, ordinata nel 1285, ha come prototipo la Madonna del Louvre di Cimabue. Ma lo interpreta con una sensibilità diversa. Il trono non ha schienale, ma un velo colorato, dietro la Vergine, che si contrappone, con rapporto finissimo di toni, all'azzurro del manto. Questo non ha risalti: lo determina come figura il contorno esilissimo, l'andamento serpeggiante del bordo dorato. La prospettiva del trono lo presenta simultaneamente nella fronte e nel fianco, come talvolta sono rappresentate le architetture nella miniatura bizantina. Gli angeli non formano colonne viventi ai lati del trono: posano inginocchiati, l'uno sull'altro, come se questo spazio senza profondità potesse sostenerli. Così è di fatto, perché Duccio non si preoccupa del volume plastico delle forme, ma della non-superficialità del colore. Le figure non sono immaginate in una sostanza diversa e più pesante: e neppure sono sospese, perché il colore è la loro spazialità naturale, non c'è spazio che non sia dentro il colore. Il fatto che, nel 1288, abbia dato i cartoni per la vetrata dell'occhio dell'abside del Duomo di Siena, conferma che la spazialità duccesca è, come quella del vetro, una superficie densa e trasparente, in cui la luce si dà non solo come colore, ma come figura.

Nel 1308 l'Opera del duomo senese ordina a Duccio, per l'altar maggiore, la grande pala con la Maestà della Madonna che, finita nel giugno del 1311, fu portata alla cattedrale con una festa popolare. È di pinta su due facce: nell'anteriore è la Madonna in trono tra file di santi; nella posteriore è rappresentata, in quattordici scomparti, la Passione. Ad eccezione di due casi (l'entrata di Cristo in Gerusalemme e la Crocefissione), ogni scomparto comprende due scene sovrapposte: la stessa cesura segna il limite superiore di una scena e il limite inferiore della sovrapposta, cosicché, quando le due scene avvengono all'interno di un edificio, si ha come una sezione verticale in cui si vedono simultaneamente due fatti distinti nel tempo. Si stabilisce così una condizione di irrelatività totale allo spazio ed al tempo reali, che tuttavia non diminuisce anzi intensifica la concretezza, la sostanza visiva dell'immagine.

Nella Maestà la Madonna è in trono tra file di santi, ma la frontalità della composizione per ranghi paralleli e simmetrici è apparente. Il trono è aperto come un libro, ma non ha prospettiva; misura la breve profondità in cui si scalano i ranghi dei santi, esattamente riempiendola con i colori delle vesti e i tondi dei nimbi, eliminando ogni possibilità di sfondo con la distribuzione delle figure, simultaneamente, lungo le parallele e lungo le diagonali. Così il colore non risalta mai su un fondo; e tutte le distanze sono espresse col distacco o l'accostamento dei toni, con il chiaroscuro tenuissimo ma profondo delle forme.

Indubbiamente, se la risultante della "consumazione" finale della figuratività bizantina è, per Cimabue, una condensazione plastica dell'immagine, per Duccio è una condensazione antiplastica, rigorosamente coloristica: a partire da loro, la storia della pittura sarà infatti la storia della relazione tra forma e colore, tra visione plastica e visione coloristica. Giustamente Brandi ha notato che la visione di Duccio è polifonica come quella di Giotto sarà armonica, e la sua è la ricerca di un equilibrio e non di una struttura.

La pittura di Duccio può parere meno commossa e commovente che quella di Cimabue; in realtà è soltanto meno drammatica, meno riferibile a una esplicita poetica dei sentimenti. Sta al contenuto narrativo e drammatico come la musica di un oratorio sta al racconto evangelico: non lo illustra, descrive od esalta mediante la pittura, ma lo esprime compiutamente in pittura.

L'assunto culturale di Duccio, altissimo e per forza di cose impopolare, ha limitato il numero dei seguaci ad alcune personalità minori, ma sempre significative. Ma che l'interpretazione profonda e, per così dire, consuntiva che Duccio ha dato della figuratività bizantina non sia priva di possibilità di sviluppo, si vede dal modo con cui l'" antico greco" di Duccio si intreccerà al "moderno" gotico in Simone Martini e Pietro Lorenzetti e, in Ambrogio, col "latino" di Giotto. Anche se la posizione di Cimabue è, rispetto alle ideologie religiose del tempo, più impegnata che quella di Duccio, la solidarietà ideale dei due artisti e, in certo senso, le loro posizioni storiche non sono dissimili da quelle che saranno, al termine di un altro grande ciclo storico, la solidarietà e la posizione di due grandi maestri contemporanei: Picasso e Braque.






















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