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La violenza negli stadi
Assistere a uno spettacolo sportivo, a una
partita di calcio in particolare, rappresenta uno dei più diffusi e popolari
modi di impiegare il tempo libero in Occidente. Le cronache delle partite sulla stampa sportiva non si limitano ormai da tempo a raccontarci le prodezze agonistiche di questo o quel campione, ma ci ri 343g69d feriscono di aggressioni, scontri, risse, assedi, agguati, accoltellamenti, ferimenti, lanci di oggetti, di petardi, di pietre, di bombe, giù giù fino a che talvolta l'insensata spirale di violenza non lascia sul campo il morto ammazzato. La storia del calcio, ma sarebbe più esatto dire la nostra storia, è stata costellata negli ultimi trent'anni di vere e proprie tragedie: i 39 morti allo stadio Heysel di Bruxelles prima della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool nel 1985, per non parlare degli omicidi perpetrati su singole persone, come l'omicidio di Vincenzo Paparelli, colpito a un occhio da un razzo durante un derby romano nel 1979 e l'accoltellamento di Vincenzo Spagnolo, il supporter genoano ucciso per mano di un tifoso milanista nel 1995. Il problema della violenza negli stadi è in Italia un problema annoso. Periodicamente, da molto tempo a questa parte, si organizzano dibattiti, si esecra, si condanna, facendo ricorso a una retorica sempre più stucchevole, ma non si fa sostanzialmente niente, fino allo scontro o al morto successivi. Dispiace che la classe dirigente italiana indulga così spesso in chiacchiere inconcludenti, anziché affrontare i problemi con efficace risolutezza, come avviene in altri Paesi. In Inghilterra, per esempio, il tifo violento negli stadi, quello dei tristemente noti hooligan, è stato debellato tramite una serie di provvedimenti che hanno restaurato l'ordine e che consentono ai veri sportivi di godersi la partita in un clima di confortevole convivialità. Da noi ciò non sembra possibile. Le partite si trasformano
in occasione di guerriglia urbana, il tifo calcistico si colora, oltre che di
rivalità campanilistiche, di improbabili valenze politiche e ideologiche.
Nelle curve si inneggia alla violenza senza che ne esistano giustificazioni
plausibili. Purtroppo avviene che di frequente persino una parte dell'intellighenzia nazionale, intellettuali, sociologi, psicologi e altri cultori di scienze sociali, intervenga a giustificare la violenza. A sentir loro è sempre colpa della società, del degrado socioeconomico dell'ambiente di origine, di un'infanzia difficile, del disagio giovanile, della frustrazione, via via snocciolando luoghi comuni sempre più triti, del tutto inidonei nell'approccio ai nuovi problemi posti dalla società contemporanea. Eppure basterebbe poco per ripristinare la sicurezza: seguire l'esempio di chi ci è riuscito e cioè zero tolerance nei confronti dei violenti, pene certe e severe che comprendano la carcerazione, divieto assoluto di frequentare lo stadio per i facinorosi, giustizia rapida ed efficace, responsabilizzazione dei club nella gestione della sicurezza degli stadi. In Inghilterra ha funzionato. Di contro al fattivo e concreto empirismo anglosassone da noi, invece, serpeggia, a mio avviso, una cultura deleteria e vacua, che si ammanta di un supposto "buonismo" per curare con poca spesa i propri interessi di bottega, un'ideologia che negando la responsabilità individuale e ogni principio di realtà, tende a considerare tutti gli uomini buoni, mentre cattive sono soltanto le istituzioni. Un'ideologia antiautoritaria ed eccessivamente garantista,
che se è stata necessaria quarant'anni fa per rinnovare una società italiana
troppo arcaica, oggi è degenerata ad alibi di criminali e teste calde,
creando inutili ostacoli alla punizione dei delitti. Tutti, oggigiorno,
reclamano diritti e giustificazioni, mentre quasi nessuno parla più di doveri
e responsabilità. Credo sia giunto il momento per ribadire forte e chiaro che
la ricreazione è finita, che ci sono delle regole da rispettare e che l'istituzione
più adatta a farsi carico dei criminali, perché di questo si tratta, è la
galera. |
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