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L'EVOLUZIONE DELLE PRINCIPALI TEORIE ORGANIZZATIVE - Dall'utilitarismo diffuso all'utilitarismo dominante

management



L'EVOLUZIONE DELLE PRINCIPALI TEORIE ORGANIZZATIVE


1. Dall'utilitarismo diffuso all'utilitarismo dominante

Il pensiero utilitarista e la modernità, per Caillè, comincia già dal XIII sec.

"Per dottrina utilitarista si intende ogni dottrina che si basi sull'affermazione che i soggetti umani sono retti dalla logica egoistica del calcolo dei piaceri e dei dolori, dal loro solo interesse o dalle loro preferenze". Alcune caratteristiche di questa affermazione si possono trovare nella Riforma protestante e nel diritto naturale. Con la Riforma protestante, il lavoro diventa importante per l'affermazione sociale, principale strumento di coesione sociale e di raggiungimento della cittadinanza.

Per quanto riguarda il diritto naturale, il contrattualismo si basa su un concetto di individuo che a partire dalle sue caratteristiche dà origine ad un nuovo ordine che non può essere collettivo e universale. Un ruolo fondamentale lo assume il soggetto giuridico, che consente ai singoli individui concreti di essere titolari di un certo diritto e di essere soggetti a certe obbligazioni.

L'individuo è il fondatore della nuova società, che ha come scopo il benessere collettivo degli individui stessi, e come strumento, la razionalità, elemento che caratterizza in modo peculiare e assoluto l'essere umano.



Hobbes dà origine allo Stato inteso come principio ordinatore, che sostituisce i legami sociali per dare vita all'individuo libero, sono giuste solo le istituzioni che permettono di massimizzare l'utilità collettiva.

Lo Stato liberali distacca il concetto economico da quello sociale e politico, in quanto è un insieme di regole che sancisce l'autonomia dell'economico.

L'economia politica nasce a partire dallo sviluppo delle teorie giusnaturalistiche  e del contratto sociale, e si basa su tre postulati:

l'individualismo metodologico, ossia il fatto che nessuna azione economica è comprensibile, se non riferita alle decisioni e ai calcoli dei singoli individui;

l'individuo è considerato egoista e razionalmente calcolatore, e non tiene conto dei valori etici;

tale egoismo è una cosa buona, in quanto si può conseguire il massimo benessere collettivo mediante l'azione del mercato.

Adam Smith indica come principio centrale, per spiegare la natura umana, la simpatia, usata per denotare il sentimento di partecipazione per qualunque passione. Non riduce l'uomo ad un individuo egoista e calcolatore, ma propone una versione dell'utilitarismo che resta controbilanciato da valori etici e morali.

Una caratteristica comune al pensiero economista è stata quella dell'ottimismo progressista, l'economico non è basata sul fatto che gli uni guadagnano solo quel che gli altri perdono ma un sistema cooperativo, dove tutti guadagnano insieme.

Infine, l'economico richiede l'autonomizzazione dei suoi elementi dal sociale, ovvero il lavoro doveva essere separato dalla vita sociale e quotidiana del lavoratore.

Fabris fa notare che la divisione del lavoro, anche se un fenomeno antico, ritorna importante con l'industrializzazione, i lavoratori vengono divisi e classificati in base alle caratteristiche dominanti delle loro prestazioni.

Per Smith, un lavoratore che compie sempre le stesse operazioni, non ha alcuna occasione di esercitare la sua intelligenza, la sua creatività e le sue capacità, e questo può avere solo influenze negative anche sulla vita privata.


2. Le principali teorie organizzative del XX secolo

A partire dalla seconda metà del XIX sec., con l'accrescersi dei mezzi di produzione, l'espandersi dei mercati di sblocco e il progresso delle tecnologie disponibili, buona parte del secolo è stata dedicata alla ricerca delle teorie che potessero correggere i problemi sollevati dai principi dell'utilitarismo.

Secondo Scott, le organizzazioni aziendali di certe dimensioni, si affermano, in quanto le società occidentali sono passate da una cultura rurale ad una basata sulla tecnologia, sull'industria e sulla città.

L'organizzazione è definita come un sistema di relazioni interpersonali. Scott individua tre teorie dell'organizzazione, una classica, una neoclassica e una moderna.

Fabris, invece, articola la storia delle teorie organizzative in modo più completo e meno schematico, e affronta una serie di tematiche che hanno caratterizzato nel corso del XX sec. gli studi dell'organizzazione: l'organizzazione scientifica del lavoro, i principi organizzativi, le relazioni umane, il comportamento organizzativo, l'informazione e le decisioni.


2.1. Taylor e l'organizzazione scientifica del lavoro

L'obiettivo è quello di aumentare l'efficienza nella produzione, e gli elementi operativi da predisporre sono:

una struttura funzionale con responsabilità ripartite tra le persone;

la standardizzazione di tutte le operazioni per ogni tipo di attività lavorativa;

lo studio dei tempi, per svolgere quella operazione, in questo modo si suddivide il lavoro in modo ottimale e si individuano le modalità per svolgere tale lavoro;

l'applicazione delle tariffe a cottimo, ovvero si individuano le diverse modalità di svolgimento del lavoro e si stabilisce la retribuzione;

l'utilizzazione di strumenti di rilevazione e controllo.

Per Scott, che chiama l'OSL una dottrina classica, si possono notare quattro concetti chiave:

la divisione del lavoro;

i processi scalari e funzionali;

la struttura, che è la logica relazione di funzioni in un'organizzazione, e dal cui interno è possibile individuare due tipi di strutture, di linea e di staff;

l'ampiezza del controllo, ovvero il numero di subordinati che il manager può effettivamente controllare, quindi un controllo esteso implica una struttura piatta, un controllo poco esteso implica una struttura gerarchica.

Il primo ad applicare i principi dell'OSL di Taylor sarà Henry Ford, il più famoso imprenditore dell'industria automobilistica omonima, in particolare l'organizzazione del lavoro ed il ruolo e la natura del lavoratore, indicando il sistema con il nome di "fordismo".

L'impresa di tipo taylorista è una struttura che internalizza tutte le attività che caratterizzano la propria filiera produttiva, accentrando il potere decisionale, organizzativo e innovativo al livello top, e rendendo i soggetti ai livelli inferiori degli esecutori di compiti scientificamente strutturati.

Ma vi sono anche delle critiche su questa teoria, una fra tutte è che, la standardizzazione dei compiti aveva tra le sue conseguenze lo svuotamento delle conoscenze e delle capacità professionali dei lavoratori; inoltre, non teneva conto delle differenze psicologiche individuali, l'azienda viene considerata un universo funzionale, che si concentra soltanto sull'aspetto tecnico - economico, senza considerare i fattori psicologici, sociali ed antropologici. I lavoratori sono motivati soltanto dal salario o dai benefici di natura economica, la persona viene considerata slegata dalle relazioni che ha all'interno o all'esterno dell'organizzazione, e non viene considerata un essere umano ma soltanto un lavoratore.

L'OSL è recepita da Fayol, che cerca di applicare i principi di questa organizzazione all'azienda intera in tutti i suoi aspetti. Si sviluppano i primi lavori relativi alle strutture organizzative funzionali e divisionali. Per quanto riguarda la prima forma, il vantaggio principale è nella specializzazione, la sua efficacia diminuisce quando aumenta la dimensione dell'azienda o il numero dei prodotti e dei mercati con cui essa ha a che fare. Possono essere individuati i punti di forza, in una maggiore genuinità delle competenze tecnico - specialistiche e in uno sfruttamento di potenziali economie di scala, e punti di debolezza, in una tendenza alla burocratizzazione, e nella lentezza di risposta alle dinamiche ambientali.

La forma funzionale risultava inadatta a supportare la diversificazione e l'innovazione, quindi si introduce una struttura alternativa, ovvero la struttura divisionale. La prima impresa ad adottare tale forma fu la General Motors, alla fine degli anni '20 del XX sec., adottando un criterio di specializzazione per prodotti e per mercati. Ogni divisione aveva al proprio livello una struttura funzionale e operava sui mercati come una quasi impresa, dotata di autonomia gestionale.

Tale struttura si sviluppa con l'obiettivo che la decentralizzazione favorisca il raggiungimento di equilibrio nella ripartizione dei compiti tra la sede centrale e le divisioni. La struttura decisionale viene adottata perché vi è una crescita dimensionale, l'integrazione verticale, ma la diversificazione dei prodotti e dei mercati, fattori che rendono difficile il lavoro della struttura funzionale.


2.2. La scuole delle relazioni umane

Grazie a Taylor, si sviluppano, a partire dagli anni '20 del XX sec., degli studi fatti da un gruppo di ricerca coordinato da Mayo, nascerà così la "Scuola delle Relazioni Umane". Questa dottrina non rifiuta i concetti classici, ma integra e corregge questi con alcune modifiche ispirate dallo studio del comportamento individuale e dall'influenza dei gruppi informali sull'organizzazione nel suo complesso.

I primi studi riguardavano l'influenza, che alcune condizioni fisiche relative alle caratteristiche del luogo di lavoro, avevano sull'efficienza dei lavoratori. Nella prima fase, che va dal 1924 al 1927, lo studio si limitò all'intensità dell'illuminazione all'interno del posto di lavoro. Nella seconda fase di studi, che va dal 1928 al 1931, si attuarono una serie di interviste che interessò 21.000 persone, comprendendo i motivi di insoddisfazione dei lavoratori. Venne scoperto che erano importanti i rapporti interpersonali e gli aspetti sociali, quindi anche le variabili psicologiche nel lavoro, formandosi così il concetto di gruppo spontaneo e informale.

La terza fase, che va dal 1931 al 1932, consisteva nelle osservazioni dirette su un gruppo di 14 operai e dei rispettivi capi. Quindi fu evidenziata l'importanza del gruppo come organizzazione sociale, con un insieme di atteggiamenti e sentimenti personali e sociale che non corrispondevano alla struttura produttiva ufficiale o formale, definita dalla direzione. Il lavoro era migliorato ed era diventato divertente, non c'erano più supervisori tradizionali, ma semplici osservatori, gli operai potevano conversare tra di loro e si erano create delle amicizie che duravano anche fuori dall'ambito lavorativo.

Questa ultima fase di studio portò alla definizione di organizzazione informale, che fa riferimento al modo in cui le persone si associano naturalmente in gruppi sul lavoro.

Si individuano alcune determinanti relative alla formazione delle organizzazioni informali:

una determinante spaziale, ossia il fatto che le persone devono avere frequenti relazioni faccia a faccia;

una determinante relativa al tipo di occupazione, ossia la tendenza delle persone, che svolgono lavori simili, a raggrupparsi assieme;

una determinante relativa alla comunanza di interessi, emergono gruppi piccoli invece che un solo gruppo grande;

una determinante relativa ad argomenti specifici, le persone che non si frequentavano possono unirsi per uno scopo comune.

I quattro concetti base individuati da Scott vengono rivisiti:

la divisione del lavoro viene integrata, ma non sostituita, dalle teorie sulla motivazione, s 212i88c ul coordinamento e sulla leadership;

si comincia a studiare la delega di autorità e di responsabilità;

si evidenzia come il comportamento umano può compromettere il miglior piano organizzativo e la chiarezza delle relazioni logiche della struttura stessa;

si comincia a pensare che la riduzione del controllo ad una misura applicabile è difficoltoso e poco razionale.

Grazie a Barnard si mette alla luce il concetto di OI e si capisce l'importanza delle relazioni tra le persone. Si concentra sulla funzione della direzione, introduce i fattori psicologici e sociali come determinanti per il comportamento delle persone.

Per Barnard l'organizzazione è un sistema cooperativo con regole non formali, senza le quali non potrebbe operare, l'organizzazione sopravvive se le persone che ne fanno parte collaborano, comunicano e accettino un fine comune.

Nelle teorie precedenti l'uomo era considerato come un lavoratore, un cittadino, un soldato, un membro di un'organizzazione, ma egli lo considera come unico ed indipendente, con una serie di forze che sono date da fattori fisici, biologici e sociali. Quindi un'azienda è efficiente se la soddisfazione delle motivazioni espresse dalle persone è superiore per stimolarli alla cooperazione, in modo da offrire loro degli incentivi.


2.3. Il comportamento organizzativo e la partecipazione democratica

Dal secondo dopoguerra si sviluppano degli studi sul comportamento organizzativo, sui rapporti tra l'individuo, il gruppo e l'organizzazione. Si cerca di capire i processi attraverso i quali l'individuo e l'organizzazione adattano i propri bisogni e le proprie esigenze influenzandosi reciprocamente.

Maslow creò il modello della gerarchia dei bisogni, la piramide dei bisogni, molto influente sulle discipline delle scienze sociali. L'uomo ha dei bisogni da realizzare, si comporta in modo da soddisfare i bisogni in ordine da quello inferiore a quello superiore:

bisogni di tipo fisiologico;

bisogni di sicurezza;

bisogni affettivi;

bisogni di stima;

bisogni di auto - realizzazione.

Si individua il fatto che l'uomo non lavora solo per ottenere una retribuzione ma anche per soddisfare altri bisogni.

Utilizzando il modello di Maslow, McGregor attua una teoria organizzativa basata su dei nuovi presupposti antropologici, la teoria x e y : dal punto di vista teorico ci sono dottrine antropologiche che vedono l'uomo individualista, pigro, tende a lavorare il meno possibile, è indifferente ai bisogni dell'organizzazione ed è poco intelligente, questa è la parte X. Il management quindi deve organizzare i fattori della produzione al fine di perseguire fini di tipo economico, deve dirigere gli sforzi delle persone, motivarle e controllare le loro azioni.

Ma l'uomo è anche creativo, ha relazioni con altre persone, non è solo motivato dall'interesse economico e quindi risponde più alla teoria Y. Il management deve mettere le persone nelle migliori condizioni per sviluppare tali caratteristiche, in modo da permettere loro di raggiungere i propri obiettivi. I critici di ordine empirico dicevano che la maggior parte delle persone sono di tipo X (anni 50 - 60), così le persone non sviluppavano le loro potenzialità, ma la teoria Y è stata applicata nel tempo, attraverso strumenti come la decentralizzazione e la delega, l'allargamento dei compiti, il management partecipativo e democratico.

A partire dalle considerazioni di McGregor, si sono sviluppate nuove metodologie organizzative, come la partecipazione democratica, che fa riferimento al processo di presa delle decisioni a livello manageriale, che vedrebbe coinvolti i subordinati e i loro superiori. Un manager razionale compirà delle scelte tra alternative diverse cercando di massimizzare i risultati, troverà vantaggioso usare la partecipazione dei subordinati ogni volta che questo porterà ad incrementare i risultati.

Tannenbaum e Massarik individuono tre diversi approcci attraverso i quali è possibile studiare la partecipazione:

un approccio esperenziale, derivato da osservazioni fatte in una o poche aziende;

un approccio concettuale, come processo di formulazione di teorie o ipotesi;

un approccio sperimentale, che crea situazioni sociali che includono la partecipazione.

Albrook nota che l'approccio partecipativo non funziona con tutte le persone e tutte le situazioni, perché la maggior parte dei manager non mette in pratica ciò in cui afferma di credere. Individua quattro diverse modalità di condurre l'azienda da parte del management:

autoritaria;

autoritaria benevolente;

consultativa;

partecipativa, che funziona meglio in quei settori dinamici e soggetti al cambiamento.

Un altro aspetto importante è quello relativo alla personalità delle singole persone, per cui ci sarebbero personalità che non si adattano alla partecipazione, e personalità motivate dal bisogno di appartenenza, di informazioni e di comprensione, che si adattano ad un'organizzazione partecipativa.

Più recentemente, la partecipazione rappresentò un vero e proprio obiettivo per l'azienda. Sono state individuate due accezioni:

la partecipazione viene intesa come prendere parte, ovvero l'influire sulle decisioni aziendali. Essa può essere usata dai vertici aziendali;

la partecipazione viene intesa come reale coinvolgimento, ovvero come essere parte, in cui le persone sono considerate come immerse in un tessuto di relazioni, che porta a definire l'azienda come una comunità.

Infine, applicazioni conosciute come "sviluppo organizzativo", si sono sviluppate a partire dagli anni '60, avevano come obiettivo il miglioramento dell'efficacia del sistema sottoposto a esigenze complessi. In questo periodo i lavoratori cominciano ad essere chiamati risorse umane.


2.4. La formulazione delle decisioni e la razionalità limitata

Alcuni autori privilegiano alcune componenti della dinamica organizzativa, come l'informazione e la decisione. Il più importante di questi è Simon, che vede l'organizzazione come una struttura formata da persone che prendono decisioni di cui sono responsabili. Vi sono due tipologie di organizzazioni:

quelle programmate, che sono ripetitive e di routine;

quelle non programmate, che sono nuove, non strutturate e occasionali.

Simon introduce il concetto, fondato sul principio della razionalità limitata, egli abbandona alcuni dei principi di base della teoria classica, che prevedono un soggetto che conosce tutto ciò che ha bisogno, per un soggetto che è pienamente un decision - maker, le cui capacità di azione razionale sono limitate, sia dalla mancanza di informazioni, sia dai vincoli personali e sociali. Non si cerca più il miglior modo possibile (one best way), ma ci si accontenta di un'alternativa soddisfacente.

Si sviluppano quindi le management sciences, per analizzare e fornire strumenti di aiuto per il processo di formulazione delle decisioni. Alla luce delle considerazioni, il processo non è solo razionale ma ci sono anche altri elementi come sentimenti, sensazioni, che porta al concetto di razionalità limitata, la decisione presa non è sicuro la migliore in assoluto, ma sarà la prima che ci sembra soddisfacente.

Si sviluppano delle teorie che cercano di analizzare i processi decisionali a livello organizzativo, come la teoria "behavioristica" dell'azienda, che considera l'organizzazione come un sistema in cui output è l'insieme delle decisioni. In pratica, si va sempre più verso teorie di tipo solistico, che considerano l'organizzazione come un sistema. Le management sciences fanno riferimento al modello di razionalità a livello individuale di tipo assoluto.

Utilizzando il modello della razionalità limitata, Cyert e March, formulano un approccio dei processi decisionali organizzativi che prevede l'accettazione di un soddisfacente livello di risultati, le decisioni vengono prese in condizioni ambigue e incerte, con limitazioni di tempo e informazioni.

Mintzberg formula il processo decisionale incrementale, dove le decisioni principali sono formate da una serie di piccole scelte che si combinano per produrre la decisione principale.

Infine, Cohen, March e Olsen creano un ulteriore modello, contenitore dei rifiuti (garbage can), in risposta all'incertezza ed ambiguità, prende in considerazione quattro flussi dell'organizzazione: i problemi, le soluzioni potenziali a tali problemi, i partecipanti al processo decisionale e le opportunità di scelta.


2.5. L'organizzazione come sistema

A partire dagli anni '60 del XX sec., studi consideravano l'azienda come un sistema sociale, tecnologico, informativo e decisionale, che opera e vive per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Si arriva alla Teoria Sistematica, è in antitesi a quella di Taylor, l'organizzazione è un sistema fatto di parti, elementi che svolgono attività omogenee, sono legate tra di loro da meccanismi di comportamento.

Scott, che chiama la teoria "moderna", individua cinque parti del sistema:

l'individuo, e la struttura della personalità che egli porta nell'organizzazione;

l'organizzazione formale delle funzioni;

l'organizzazione informale;

i concetti di status e di ruolo;

il modo in cui il lavoro viene eseguito.

Tutte le parti sono interdipendenti e interrelate attraverso dei processi:

la comunicazione, da considerare in senso reticolare all'interno del sistema;

il bilanciamento, ovvero il meccanismo attraverso il quale le diverse parti del sistema sono mantenute in equilibrio. Può essere di due tipi: quasi automatico e innovativo;

le decisioni, che sono di due tipi: quelle di produrre, risultato di una interazione tra le attitudini individuali e i bisogni dell'organizzazione, quelle di partecipare al sistema, che riflettono le relazioni tra le ricompense date dall'organizzazione e le richieste della stessa.

La teoria dei sistemi individua tre scopi dell'organizzazione, ovvero la crescita, la stabilità e l'interazione.

Le parti di cui si compone il sistema sono interdipendenti e rende necessaria l'analisi di tali interdipendenze, svolta su una molteplicità di dimensioni:

il tipo;

il contenuto, ovvero l'oggetto della relazione;

l'intensità, con riferimento al medium relazionale utilizzato;

la frequenza;

l'incertezza.

Thompson individua quattro tipologie di interdipendenza:

generiche, derivanti dall'appartenenza delle parti ad un unico sistema;

sequenziali, il cui risultato di un'attività svolta è condizione per lo svolgimento di un'attività svolta da un'altra unità;

reciproche, quando gli output di ogni unità sono input per le altre;

intensive, quando le unità agiscono insieme, in modo continuo, e con un processo decisionale comune.

Lawrence e Lorsh propongono una teoria situazionale, contraria alla proposta di un tipo di organizzazione ottimale in tutte le condizioni, ma che cerca di individuare le caratteristiche specifiche necessarie per far fronte ai cambiamenti ambientali. Sono importanti:

la differenziazione, ovvero le diversità negli orientamenti emotivi e cognitivi tra i manager di differenti unità funzionali e la diversità della struttura formale tra tali unità;

l'integrazione, consiste nella qualità del coordinamento tra le unità.

Burns e Stalker osservano l'ambiente esterno correlato alla struttura di management interna, individuando due possibili configurazioni organizzative principali, in base alle caratteristiche ambientali:

quando l'ambiente esterno è stabile, l'organizzazione interna è caratterizzata da regole, procedure, gerarchie, da una elevata formalizzazione e decisioni prese dall'alto, è definita una tipologia meccanica;

quando l'ambiente esterno è instabile o in rapido cambiamento, l'organizzazione interna è più flessibile, libera e adattiva, poco formalizzata e gerarchizzata, è definita una tipologia organica.

Un'altra teoria che studia l'organizzazione, considerando l'ambiente è quella dell'ecologia delle popolazioni, di Hannan e Freeman. Si concentra principalmente sulle diversità delle organizzazioni e sul loro adattamento all'interno di un'insieme di organizzazioni, che svolgono attività simili e che hanno simili risorse impiegate e risultati ottenuti. È il cambiamento ambientale a determinare quali organizzazioni sopravvivono e quali non.

Vi sono alcune modalità con cui si svolge il processo di cambiamento di popolazioni, che si compone di tre fasi:

mutazione, ossia la comparsa di numerosi mutamenti, in termini di caratteristiche dei modelli organizzativi;

selezione, ossia il fatto che alcuni mutamenti, si dimostrano più adatti di altri a rispondere alle esigenze dell'ambiente esterno e quindi vengono selezionati;

consolidamento, ossia la prevenzione e l'istituzionalizzazione dei modelli organizzativi selezionali.

Infine, DiMaggio e Powell, considerano un'altra teoria, quella dell'istituzionalismo, dove le organizzazioni necessitano di una situazione in cui le azioni di un'organizzazione sono desiderabili da parte dei propri interlocutori esterni. Così si crea una somiglianza tra le organizzazioni appartenenti allo stesso gruppo o popolazione di organizzazioni, attraverso tre meccanismi:

le forze mimetiche, la pressione a copiare o conformarsi ad altre organizzazioni, come il benchmarketing, cioè l'identificazione di chi, in un dato settore, risulta il migliore per un certo aspetto, e la conseguente diffusione delle tecniche, delle metodologie o dei modelli utilizzati da questi, ai fini del raggiungimento del successo;

le forze coercitive, la pressione, formale e informale, da parte del Governo e di altre importanti organizzazioni, affinché si adottino strutture, tecniche o comportamenti simili;

le forze normative, la pressione derivante dalle aspettative, in termini di orme sociali e morali, relative a determinanti standard professionali.


3. L'utilitarismo generalizzato

Per Caillé, esiste un utilitarismo:

pratico, che può essere volgare, che si manifesta quando si utilizza come principio primario il proprio interesse personale, e distinto, quando il fine non è quello di soddisfare un interesse economico, ma di conseguire potere e fama;

scientifico o teorico, è la teorizzazione dell'utilitarismo pratico, quando si fonda una scienza sociale, sull'ipotesi che gli uomini sono mossi dal proprio interesse;

filosofico o normativo, sostiene che è giusto soltanto ciò che contribuisce a massimizzare la felicità del maggior numero.

L'utilitarismo diventa sempre più generalizzato, quando si tende a considerare ogni pratica sociale, un possibile oggetto di analisi economica.

La struttura funzionale ha cercato di adattarsi ai mutamenti ambientali con delle modifiche che vanno verso una semplificazione della struttura stessa, per ricercare una maggiore flessibilità organizzativa. Quindi si sono ampliate le deleghe decisionali ai livelli inferiori e si sono introdotte forme di controllo basate sui risultati con la supervisione dei comportamenti. Infine, si è creata la pratica del lavoro in team.

La struttura decisionale, è maggiore la competizione interdivisionale all'interno dell'azienda, con conseguenze indesiderate di comportamenti opportunistici, orientati alla massimizzazione del profitto di breve periodo. Chi governa l'azienda, vuole integrare i lavoratori, considerandoli come membri di diritto dell'azienda. Questo ha portato allo sviluppo di ricerche sulla cultura organizzativa, in quanto tutti dovrebbero partecipare ad una stessa cultura e comunicare nel linguaggio dell'eccellenza e della qualità.


CAP. 2 LE RELAZIONI INTERPERSONALI NELLE AZIENDE


1. L'importanza delle relazioni interpersonali

Una delle problematiche fondamentali delle organizzazione è formata dalla cooperazione tra le persone.

Per Barnard l'organizzazione è un sistema cooperativo con regole non formali, un'aggregazione di individui che esercitano degli sforzi, per conseguire un fine comune e riconosciuto.

Si sviluppano le teorie transazionali, come quella di Williamson, che è la più famosa: la ragione d'essere dell'organizzazione aziendale è la funzione di coordinamento dell'attività economica al fine di compensare le insufficienze e i limiti del mercato, dovuti ai costi d'uso derivanti dal coordinamento degli scambi.

In seguito,si è ritenuto che la dicotomia mercato - gerarchia non fosse più idonea a spiegare la natura delle organizzazioni aziendali, perchè la forma gerarchica risulta inadeguata a rispondere o a determinare il cambiamento delle aziende, a sviluppare conoscenze, a creare e a diffondere l'innovazione tecnologica.

Si è cercata così una terza via, attuata da Ouchi attraverso il concetto di clan. Le organizzazioni aziendali possono affidarsi alla socializzazione come principale meccanismo di controllo. Il clan si basa sulla solidarietà, ovvero sull'unione e la condivisione degli obiettivo tra individui. Hanno una notevole importanza i valori e le credenze condivise.

Un altro approccio tendente a ricercare un terzo modello che si ponga sullo stesso livello di mercato e gerarchia, viene sviluppato dagli studi sulle strutture reticolari, che evidenzia l'importanza delle relazioni costantemente in evoluzione.

In Italia, si fa riferimento agli studi economico - aziendali e si considera la formula imprenditoriale di Coda , ma non è un modello che utilizza le relazioni come unità di analisi.

Si cerca di proporre il network o rete come metafora per meglio comprendere la realtà relativamente alla composizione, al funzionamento e allo sviluppo di un'organizzazione. Ogni organizzazione è considerata come una rete di individui in grado di operare con una propria autonomia creativa.

Ciò che sembra essere mancato fino ad ora negli studi economici in generale, ed aziendali in particolare, è proprio il considerare le relazioni interpersonali in sé, quale oggetto di analisi e di studio da cui partire per comprendere l'esistenza ed il funzionamento delle organizzazioni, prima ancora di una loro utilizzazione strumentale da parte dell'organizzazione stessa per i propri fini.

La natura di tali relazioni è quella della libertà, della spontaneità, mista all'obbligo e al senso del dovere.

Per Hochschild, si vede il luogo di lavoro come una seconda casa, e la casa in cui si vive come un posto di lavoro. Viene sottratto molto tempo alle relazioni familiari, a favore del lavoro, quindi sempre meno persone considerano la casa come una fonte di sicurezza e affetti, e si considera, invece, il luogo d il lavoro come quelle in cui coltivare le proprie relazioni. Individua quattro modelli relativi al rapporto casa/lavoro:

modello rifugio, in cui il lavoro è un mondo senza cuore, e la famiglia costituisce un rifugio;

modello tradizionale, in cui la casa e il lavoro hanno caratteristiche legate al sesso, per cui per le mogli la casa è un mondo in cui ci si può realizzare;

modello "nessun lavoro, famiglia debole", in cui né il lavoro né la casa hanno una forte attrazione per l'individuo;

modello di "bilanciamento casa - lavoro", in cui i genitori di avvantaggiano di condizioni favorevoli alla famiglia sul lavoro e non sono tentati di rubare tempo da quello dedicato ai figli.


1.1. Il contributo della sociologia

Secondo il sociologo italiano, Pierpaolo Donati, la società deve essere pensata come relazione, quindi considerare le relazioni in se, come unità di analisi e realtà concrete. La relazione è una categoria del pensiero e della realtà che sta nei fatti (in re) e, pur avendo anche una sua propria realtà, non rende derivati i soggetti (o le entità di cui si parla), ma semmai contribuisce ad esprimere tutte le loro autonome valenze in un contesto relazionale che ha le sue proprie strutture, i suoi processi, non derivabili dai soggetti.

Uno dei primi autori ad evidenziare l'importanza delle relazioni sociali in sociologia fu Tönnies, il quale adottò uno schema dualistico: due tipi ideali di relazioni sociali, la Gemeinschaft (la comunità, in cui gli uomini si associano per volontà assoluta, ossia per consenso), e la Gesellschaft (la società, in cui gli uomini si associano per volontà arbitraria, ossia per contratto).

Una svolta in senso relazionale si ebbe con Simmel, per il quale la relazione è la categoria teorica fondamentale per studiare le società. Gli uomini considerano se stessi come prodotti della natura, indipendenti, liberi e separati dalle relazioni, ma anche come prodotti della società, della successione dei propri avi, delle tradizioni. Le relazioni tra le persone sono accompagnare dal soddisfacimento del fatto di stare assieme.

Negli anni '20 del XX sec., Schmalenbach cercò di correggere la distinzione di Tönnies, aggiungendo alle due proposte una terza, ovvero concetto di Bund, una forma di associazione in cui le principali caratteristiche sono la piccola dimensione, la prossimità spaziale tra i membri e la solidarietà affettiva che i membri provano l'uno per l'altro. Bund è un termine tedesco, che significa lega, federazione o comunione.

Il Bund non nega l'individualità, nel senso che gli individui si uniscono volontariamente con altre persone, sulla base del loro sentire comune.


1.1.1. Il contributo della sociologia in relazione alle disciplina economiche

I principi sono sintetizzati da Granovetter:

il perseguimento di obiettivi economici è normalmente accompagnato dal perseguimento di obiettivi non economici quali la socialità, l'approvazione, lo status, il potere;

l'azione economica è socialmente situata, e non può essere spiegata facendo riferimento solamente alle motivazioni individuali: essa è "incastrata" (embedded) in network di relazioni personali piuttosto che condotta da attori atomizzati;

le istituzioni economiche non sorgono automaticamente e inevitabilmente a partire da circostanze esterne, ma sono costruite socialmente.

Esistono due approcci:

la tradizione utilitarista e gli economisti classici e neoclassici propongono una concezione dell'azione umana atomizzata, "ipo - socializzata";

la concezione alternativa dell'azione umana è quella definita"iper - socializzata", per cui le persone obbediscono e si adattano quasi automaticamente alle norme e dai valori condivisi presso la società o comunità di cui sono membri.

Questi due approcci, che si rifanno rispettivamente all'individualismo metodologico e all'olismo, hanno in comune la negazione delle relazioni sociali interpersonali quali fonti di influenza e di motivazione per le azioni umane.

Granovetter fa un analisi relativa all'azione economica individuale facendo riferimento al concetto di embeddedness, ossia il fatto che l'azione ed i risultati economici sono influenzati dalle relazioni tra gli attori e dalla struttura di tutto il network di relazioni. Vengono configurati due aspetti, quello relazionale, che ha effetti diretti sull'azione economica individuale, i comportamenti individuali sono determinate anche dal complesso di tutte le relazioni aggregate, e quello strutturale, che genera effetti meno diretti sull'azione economica attraverso le strutture culturali, normative e simboliche.

L'autore individua tre principali motivazioni per l'agire umano:

l'interesse principale, sia di tipo economico sia sociale;

un comportamento è considerato moralmente giusto;

determinate azioni fanno parte delle aspettative che caratterizzano le relazioni personali in cui si è coinvolti.

Spostandosi dal livello individuale a quello organizzativo, ci sono due approcci prevalenti, uno iper ed uno ipo - socializzato: nel primo caso, seguendo un approccio culturalista, le istituzioni si determinano in un certo modo in quanto il gruppo che le ha prodotte ha un certo insieme di credenze o tratti cultuali. Nel secondo caso, seguendo un approccio funzionalista, si sostiene che le istituzioni nascono e si determinano come soluzione a problemi economici. Questo è un approccio evidentemente darwiniano, implicante un processo di selezione naturale, efficientista.

Le relazioni sociali possono essere utili per generare informazioni agli individui o all'azienda, portando a risparmi nella ricerca di informazioni.


1.2. Il contributo della psicologia

Tra i diversi contributi della psicologia, interessante è il concetto di Organizational citizenship behavior (comportamento di cittadinanza organizzativa), di Organ, che comprende tutti i comportamenti individuali discrezionali, per i quali i lavoratori non sono ricompensati o puniti. Si possono distinguere cinque tipologie generali:

altruism, ossia quei comportamenti volti ad aiutare una determinata persona sul lavoro;

generalized compliance, ossia la coscienziosità del lavoratore che supera gli standard di lavoro che possono essere imposti;

sportsmanship, ossia la tolleranza rispetto ai problemi ed alle criticità che possono manifestarsi sul lavoro;

courtesy, ossia il "saggiare il terreno" prima di prendere decisioni o azioni che potrebbero avere effetti sul proprio lavoro;

civic virtue, ossia la partecipazione attiva ed il coinvolgimento dei lavoratori.

Altri autori individuano altre tre tipologie:

l'obbedienza, ovvero la volontà dei membri di accettare le regole e le procedure dell'organizzazione;

la lealtà, ovvero la volontà dei membri di subordinare i loro interessi personali a beneficio dell'organizzazione e di promuoverla e difenderla;

la partecipazione, ovvero la volontà dei membri di essere coinvolti attivamente in tutti gli aspetti della vita organizzativa.

I "comportamenti di cittadinanza organizzativa" faciliterebbero le performance "lubrificando i meccanismi sociali" delle organizzazioni. Ciò avverrebbe migliorando la produttività dei lavoratori e dei manager, liberando risorse produttive, facilitando il coordinamento delle attività tra i membri dell'organizzazione.

Il riconoscere che non sempre il rapporto costi/benefici correlato ai comportamenti di cittadinanza è favorevole all'organizzazione, pone l'interrogativo riguardante la natura stessa delle relazioni interpersonali. Tali comportamenti, per essere efficaci e produttivi di relazioni, dovrebbero essere sinceri da parte di chi li mette in atto, e non forzati o frutto di pressioni.

Il management deve cercare di capire chi, tra i membri dell'organizzazione, utilizza tali comportamenti in modo strutturale, per impressionare i compagni di lavoro e i superiori, e chi ha il desiderio di aiutare e contribuire al bene dell'organizzazione e dei suoi membri. Tra i fattori della personalità, che possono favorire i comportamenti di cittadinanza, si individuano:

neuroticism, ovvero il livello di tolleranza allo stress;

extraversion, ovvero il livello di socievolezza;

openness, ovvero il grado di apertura nei confronti di esperienze o idee nuove;

agreebleness, ovvero il livello di amicizia e di fiducia nei confronti degli altri;

conscientiousness, ossia il grado di impegno e di perseveranza.

Si può aggiungere anche il comportamento proattivo, ossia quello volto al cambiamento creativo, caratterizzato dalla flessibilità e dall'adattabilità, dal prendere l'iniziativa per migliorare le cose.


1.3. Il contributo della filosofia

Due sono i filosofi principali: Buber e Levinas.

Per Buber il punto di partenza sono le relazioni, non le singole persone. L'uomo diventa un "Io" attraverso un "Tu", in quanto non ci sono persone separate al di fuori della relazione; le relazioni non sono una questione di scelta, come in un contratto o in uno scambio, ma parte del destino, della storia e della cultura delle persone.

Anche se una comunità ha una forte tradizione e una cultura condivisa, ci sono differenze tra i suoi membri, delle quali non può non tenersi conto. La comunità deve fare affidamento sul dialogo autentico, ossia quello in cui una persona assume la prospettiva di un'altra persona, si apre in modo onesto e non riservato, coinvolgendo se stesso. Per Burber ci sono quattro diversi tipi di gruppi sociali: la collettività, che ha valenza negativa, in quanto lasciano poco spazio per l'individualità, i gruppi strumentali, le false comunità, e le comunità autentiche, che combinano una strumentalità nel considerare il gruppo con il legame IO - TU.

Per Levinas la natura umana è legata alla relazione di una persona con un'altra persona, anche se vi sono delle differenze. L'altro che si incontra nel corso della propria vita ci guida e ci comanda, ci "impone" dei doveri senza avere chiesto il consenso, sta di fronte a noi fin dal principio. Il significato di tale movimento non va rintracciato nel bisogno che si può avere dell'altra persona. Il senso si identifica, piuttosto, con il desiderio degli altri, ossia la socialità, vissuto nell'esperienza quotidiana, che viene ad essere il movimento fondamentale.

Egli sottolinea l'aspetto etico insito nella relazione tra IO e TU, il viso dell'altro parla, l'uomo è responsabilità, che non viene scelta o per la quale si prende una decisione, ma che è propria dell'essere umano, della quale non può sottrarsi. Quindi la responsabilità è anarchica, ovvero non è mai iniziata, c'è da sempre.


2. La metafora della "Rete"

Le metafore hanno una capacitò di generare significati e senso all'interno dell'organizzazione, e con essi produrre il cambiamento. La metafora ha una duplice natura, essendo soggetto attivo e creatore di nuovi significati, e risultato di un processo di creazione di nuova conoscenza.

È possibile individuare tre diversi approcci al concetto di metafora:

di tipo euristico, dove la metafora è un modo per produrre conoscenza attraverso un processo di emergenza della conoscenza tacita presente nelle organizzazioni;

di tipo generativo, nel quale la metafora è il risultato dell'apprendimento;

di tipo culturale, l'organizzazione è un sistema coerente di valori, credenze e aspettative condivise, cioè una cultura.

La soluzione per evitare di pensare ad una società a due livelli è quella di considerarla come un sistema aperto, che deve essere compreso, interpretato adeguatamente.

Dal punto di vista delle organizzazioni aziendali, il termine "network" o "rete" è stato spesso usato in modo normativo, per dire "cosa" le organizzazioni aziendali dovrebbero diventare in risposta ai cambiamenti nelle condizioni economiche e tecnologiche che richiedono forme organizzative più aperte. L'organizzazione network è come una forma strutturale particolare, da utilizzare in situazioni che richiedono flessibilità e adattabilità.

Miles e Snow individuano delle caratteristiche della forma network:

la disaggregazione verticale, per cui le funzioni tipicamente condotte da una singola organizzazione vengono svolte da organizzazioni indipendenti all'interno di un network;

la presenza di mediatori, le attività vengono assemblate da soggetti mediatori;

le funzioni principali sono tenute insieme da meccanismi di mercato piuttosto che da piani e controlli;

la presenza di sistemi informativi pienamente aperti, che costituiscono processi molto lunghi di costruzione di fiducia sull'esperienza.

Attraverso la metafora della rete, si è cercato di rappresentare le più svariate tipologie di relazioni interorganizzative quali alleanze, accordi, partnership, gruppi, coalizioni, consorzi, jointventure, franchising.

Si studiano anche le caratteristiche sugli accordi di cooperazione fra imprese:

il contenuto organizzativo dell'accordo, ossia la manifestazione verso l'esterno della capacità organizzativa delle singole imprese;

il processo comunicativo o linguaggio, che può consentire l'interscambio cooperativo di risorse;

la complementarità, ossia il mettere in comune quelle risorse e competenze, esterne rispetto alle singole imprese, che sono complementari alle risorse e competenze specifiche interne delle imprese.

Il concetto di organizzazione a rete è stato utilizzato anche per descrivere le relazioni esistenti tra le diverse unità di una singola organizzazione, ovvero le relazioni intra - organizzative, che hanno come caratteristiche la flessibilità, la decentralizzazione della pianificazione e del controllo la presenza di legami orizzontali, l'elevata autonomia delle singole unità.

Una relazione interorganizzativa deve essere durevole e stabile per poter svilupparsi in tutte le sue potenzialità. Questo può essere realizzato fondando le relazioni sulla fiducia. Spesso, le relazioni non si considerano tali in quanto si tralascia lo studio del processo di nascita, sviluppo e dissoluzione delle relazioni stesse.

Per quanto riguarda la nascita, si distinguono tre fasi:

la negoziazione, le parti sviluppano assieme delle aspettative sulle motivazioni, i possibili investimenti, le incertezze.

l'impegno, la volontà delle parti tendono ad incontrarsi nel momento in cui si raggiunge un accordo circa le obbligazioni e le regole da seguire nel corso della relazione;

l'esecuzione, gli impegni vengono messi in pratica e le parti mettono in atto tutto il necessario per eseguire l'accordo.

È necessario avere una visione più ampia delle organizzazioni che consideri le relazioni e le persone in essa coinvolte, in quanto tali e nella loro unitarietà.

Il concetto di network è stato generalmente applicato in un triplice senso, ossia come:

rete di organizzazioni;

rete di unità interne alla stessa organizzazione;

rete interpersonale.

Adottare una prospettiva di rete vuol dire usare dati differenti, imparare nuove tecniche metodologiche, cercare spiegazioni non convenzionali e pensare l'uomo all'interno dell'organizzazione in modo differente.

La rete non è una via di mezzo tra mercato e gerarchia, ma può essere una metafora per comprendere le organizzazioni nella propria natura.

Secondo Nohria, adottare la prospettiva del network per le organizzazioni aziendali comporta cinque considerazioni:

tutte le organizzazioni sono dei network sociali, ovvero un insieme di nodi, persone o organizzazioni, collegati da un insieme di relazioni sociali, e necessitano di essere analizzate come tali;

l'ambiente in cui opera un'organizzazione deve essere concepito come un network di altre organizzazioni;

le azioni delle persone che operano nelle organizzazioni possono essere meglio comprese se legate alla loro posizione all'interno del network di relazioni;

i network condizionano le azioni, ed a loro volta ne sono condizionati; i network, infatti, sono costantemente costruiti, riprodotti e modificati dal risultato delle azioni delle persone in essi coinvolti;

le analisi comparative tra organizzazioni diverse devono tenere conto delle caratteristiche dei loro network.


2.1. La network analysis

Si sviluppa nel secondo dopoguerra, con gli studi condotti dalla scuola antropologica di Manchester, negli anni '50 del XX sec.

Tra le caratteristiche strutturali o morfologiche della rete:

  1. molto importante è la centralità, ovvero la misura in cui un individuo può raggiungere tutti gli altri in un network con il minor numero di collegamenti diretti e indiretti. Può essere misurata in tre modi:

il grado della centralità, che è calcolato contando il numero di collegamenti diretti di cui una persona può disporre e che esprime anche il numero di alternative a disposizione di una persona;

la vicinanza, che considera non solo i collegamenti diretti, ma anche quelli indiretti, e indica quanto una persona è vicina alle altre persone all'interno di un network;

la "betweenness", la quale considera il modo in cui una persona si trova in mezzo ad una coppia di altre persone, utilizzando percorsi più brevi possibile; questa misura valuta il potere di cui una persona dispone nei flussi di comunicazione, in quanto chi si trova "in mezzo" ad altri funge da mediatore, ed è in grado di trattenere o distorcere informazioni in transizione.

densità, ossia il rapporto tra il numero di relazioni esistenti tra le persone di una certa rete ed il numero di tutte le relazioni possibili. Un alto grado di densità viene collegato alla performance, in quanto l'interdipendenza reciproca promuoverebbe la cooperazione, ce incrementa la performance di gruppo;

buco strutturale, ossia l'assenza di un collegamento tra due  persone che agiscono nello stesso network (massimizzazione di efficienza, ossia il numero di contatti di cui una persona può disporre attraverso un singolo contatto primario o diretto, e di efficacia, ossia il numero totale di persone raggiunte attraverso tutti i contatti primari).

La network analysis prende in considerazione anche la natura e le caratteristiche delle relazioni stesse, ovvero analizza la relazione e le persone. Krackhardt e Hanson individuano tre tipologie di network:

quello dei consigli, che include le relazioni tra persone che dipendono le une dalle altre per la risoluzione dei problemi e per lo scambio di informazione di natura tecnica;

quello della fiducia, che comprende le relazioni di persone che condividono informazioni importanti e che fanno affidamento gli uni sugli altri nei momenti difficili;

quello della comunicazione, che riguarda le relazioni tra persone che comunicano e parlano tra loro regolarmente del loro lavoro.


2.2. Struttura formale e rete di relazioni: la ricerca di un  modello di organizzazione "relazionale"

La relazione tra struttura formale e network informale si considera come una interazione dinamica e continua. È importante capire se le relazioni che si formano e si sviluppano sono influenzate da un lato dai ruoli formali e dall'altro da quelle caratteristiche, attribuite alle persone in funzione delle categorie e delle tipizzazioni culturali. Se tale influenza risulterebbe elevata, le relazioni tra le persone sarebbero aderenti alla struttura formale dell'organizzazione e alla sua cultura dominante. Questo potrebbe avere effetti benefici per l'organizzazione, ma potrebbe essere un vincolo per la nascita e lo sviluppo di relazioni libere tra le persone.

Ibarra distingue due tipi di organizzazione:

l'organizzazione integrata, caratterizzata da autonomia, diversità e fluidità nelle relazioni. Faciliterebbe la diffusione e l'interpretazione di nuove informazioni, le idee si trasformerebbero velocemente in azioni e la flessibilità risponderebbe ai cambiamenti;

l'organizzazione burocratica, caratterizzata per la coesione, la similarità e la stabilità nelle relazioni. Possono avere difficoltà nella sperimentazione e nell'innovazione ma hanno una maggiore capacità di utilizzare la conoscenza standardizzata e le routine.

Si tende a trattare le persone con giustizia nell'applicare regole, mentre il considerarle nella loro specificità e unicità viene spesso visto nell'ottica dell'ingiustizia, nell'avvantaggiare qualcuno a scapito di altri, del non dare a tutti le stesse possibilità. È più comodo adottare regole formali e universali, in quanto il particolarismo implica familiarità e conoscenza intima delle persone e relazioni forti, stabili e durevoli. Sul versante interno, per esempio, si pensa alla costruzione di rapporti di lavoro stabili e duraturi, allo scambio reciproco di informazioni e conoscenze. Sul versante esterno, si pensa alle relazioni con la clientela, alla possibilità di offrire servizi e prodotti appropriati ai bisogni e ai gusti specifici delle persone.

L'individualismo è antisociale e si basa sul potere, sul controllo e sulla competizione tra le persone.

Pievani e Varchetta parlano di strategie dell'unicità, articolando su tre livelli:

un livello strutturale interno, che riguarda il fatto che la conoscenza va situata nel contesto delle relazioni tra persone specifiche. La conoscenza si origina, si fonda e si sviluppa con donne e uomini veri, soggetti e non più individui;

un livello strutturale esterno, che sottolinea la rinnovata ricerca di qualità relazionale da parte di tutte le persone che interagiscono con l'azienda, e che sono persone distinte e uniche;

un livello psicologico - etico, che sottolinea l'esigenza di porre in essere scelte e comportamenti attenti alle singole specificità delle persone, con la possibilità del verificarsi di resistenze, che considerano unici principi quelli fondati sulla razionalità.

L'approccio relazionale relativo all'etica nelle organizzazioni aziendali è il più adatto. Dal punto di vista etico sembra più efficiente dare importanza alle relazioni forti, durevoli e stabili, in grado di sviluppare all'interno dell'organizzazione la fiducia, la cooperazione, l'empatia e l'intimità tra le persone.


3. Il concetto di capitale sociale in chiave relazionale

Il capitale sociale è utilizzato come strumento, con valenze teoriche ma anche pratiche, per analizzare, comprendere e valutare l'importanza delle relazioni interpersonali all'interno delle organizzazioni aziendali. Sottolinea l'importanza delle reti di relazioni, in quanto basi della cooperazione dell'azione collettiva.

Per Mutti, il capitale sociale è composto da "relazioni fiduciarie (forti e deboli, variamente estese e interconnesse) atte a favorire, tra i partecipanti, la capacità di riconoscersi e intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente e di cooperare a fini comuni". È posseduto dalle persone coinvolte in una rete di relazioni e non può essere scambiato nel mercato.

Nahapiet e Ghoshal definiscono il capitale sociale è la somma delle attuali e potenziali risorse situate in, disponibili attraverso, e derivanti dal network di relazioni posseduto da un individuo o da una unità sociale.

Individuano, inoltre tre dimensioni del capitale sociale:

  1. la dimensione strutturale, è l'insieme delle proprietà del sistema sociale e del network di relazioni visti nel loro insieme;
  2. la dimensione relazionale, che descrive la tipologia di relazioni personali che le persone sviluppano le une con le altre, come la fiducia, le norme e le sanzioni, l'identità;
  3. la dimensione cognitiva, che si riferisce alle risorse che implicano rappresentazioni, interpretazioni, visioni e obiettivi condivisi dai membri dell'organizzazione, come gli elementi che facilitano la comprensione comune degli obiettivi collettivi e i modi di agire e di operare all'interno di un sistema sociale.

Le tre dimensioni sono tra loro collegate e si influenzano reciprocamente.

Per altri autori, il capitale sociale si compone di due elementi soltanto:

la capacità di associarsi, ovvero la volontà e la capacità dei membri di un'organizzazione di subordinare i loro obiettivi e le azioni individuali, agli obiettivi e alle azioni collettive;

la fiducia, ovvero il risultato dell'azione collettiva di un successo. È necessaria affinché le persone lavorino assieme, ma è anche un sottoprodotto dell'azione collettiva di successo. La fiducia può essere fragile, basata sulla percezione di una immediata possibilità di ricompensa, oppure profonda e relazionale, basata sulla integrità morale dell'altra parte, sulle norme e sui valori.

Ci sono anche degli aspetti negativi del capitale sociale, come il fatto che il mantenimento e lo sviluppo dello stesso può essere costoso per l'organizzazione.

Il capitale sociale può portare dei benefici o dei vantaggi economici, come la riduzione dei costi di transizione, l'incoraggiamento dei comportamenti di tipo cooperativo, la flessibilità nel modo in cui il lavoro è organizzato e condotto.

I fattori che possono influenzare il capitale sociale sono:

la durata delle relazioni, in quanto solo una relazione durevole può essere fiduciaria e stabile;

l'interazione e l'interdipendenza tra le persone, che influenzano positivamente il capitale sociale, in quanto rafforzano e consolidano le relazioni sociali;

la vicinanza, che contribuisce al conseguimento di alti livelli di capitale sociale, in quanto facilita lo sviluppo di norme, identità, codici e linguaggi condivisi.


CAP. 3 IL CONTENUTO DELLE RELAZIONI INTERPERSONALI: LA FIDUCIA E IL COSIDDETTO "MODELLO DEL DONO"


1. La fiducia

È un elemento fondamentale, è allo stesso tempo precondizione, contenuto e risultato di ogni relazione interpersonale.

Faith (avere fede), trust (dare fiducia) e condifence (confidare) esprimono un modo di credere, ossia belief. Credere significa accettare qualcosa per vero, quindi credere in significa avere fiducia o confidare in qualcuno o qualcosa.

Dal medioevo, la parola fede ha sostituito il verbo credere per indicare una forma di fiducia che non richiede un'evidenza. La parola fiducia significa un'aspettativa basata su un'evidenza non conclusiva, e tollera incertezza o rischio.

Il sociologo Luhmann ha distinto il termine confidare e fiducia, entrambi si riferiscono ad aspettative che possono andare deluse, in quanto è possibile vivere senza formarsi aspettative su eventi contingenti. Questa distinzione dipende dal considerare o meno le possibili alternative in un processo di scelta.


1.1. La fiducia nelle diverse discipline

1.1.1. L'approccio dell'economia

Gli economi tendono a vedere la fiducia come calcolativi o istituzionale, determinata dalla razionalità strumentale che dovrebbe portare gli individui a cooperare, al fine di ottenere dei benefici personali. La fiducia è considerata uno strumento per limitare i costi di transazione ed i comportamenti opportunistici attraverso la cooperazione.

Almeno una delle due parti dipende dall'altra, la cooperazione esige fiducia.

La condizione affinché tra gli individui si crei fiducia è il fatto che questi intrattengono rapporti durevoli nel tempo, e che tengano conto, attraverso la memoria, degli eventi accaduti nel corso di tali rapporti. La fiducia viene legata alla reputazione, e può essere acquisita con il tempo.

Per Bastia la fiducia è l'aspettativa del rispetto degli impegni contrattuali assunti dall'altra parte. Deve essere assicurata perché è necessario coordinare attività interdipendenti, in situazioni di incertezza per carenza di informazioni.

Analizzando la struttura organizzativa a rete, la fiducia è uno strumento di coordinamento, da utilizzare al pari dei processi di influenza basati sull'autorità e sulle norme contrattuali, e degli incentivi di tipo economico.

Secondo McAllister, la fiducia interpersonale all'interno delle organizzazioni è importante in quanto l'azione economica è fortemente radicata all'interno di networks di relazioni sociali. Individua due forme di fiducia:

una di tipo cognitivo, dove la fiducia si basa su un qualcosa che sta tra la perfetta conoscenza e la perfetta ignoranza;

una di tipo emozionale, dove la fiducia si basa anche sulle emozioni che legano gli individui.

Per Zand, la fiducia interpersonale ha origine dalla volontà di una parte di essere vulnerabile alle azioni di un'altra parte. La fiducia è la volontà di una persona di incrementare la propria vulnerabilità nei confronti delle azioni poste in essere da un'altra persona il cui comportamento egli non può controllare.

Non è chiara la differenza tra il dare fiducia, ossia l'azione, e la propensione al dare fiducia, ossia la predisposizione insita nell'agente, una sorta di volontà generale di fidarsi degli altri.


1.1.2. L'approccio della psicologia

La fiducia non è un comportamento, ma una disposizione psicologica, ed in tal senso si pone l'attenzione sull'agente e non sull'azione. Si focalizza sugli attributi, come integrità, benevolenza, affidabilità, lealtà, apertura, abilità, competenze, posseduti dai soggetti che intrattengono un rapporto di fiducia.

È sempre individuale, per cui la fiducia costituirebbe un tratto naturale della personalità dell'individuo che si manifesta indipendente dallo specifico contesto in cui questi si trova ad agire.


1.1.3. L'approccio della sociologia

Possiede un grado di competenza in più rispetto agli atri due approcci, anche se si è spesso concentrato maggiormente sull'azione, sull'atto fiduciario, e sulle sue conseguenze trascurando il soggetto agente.

Secondo Mutti, la fiducia è un'aspettativa di esperienze con valenza positiva, maturata sotto condizioni di incertezza, ma in presenza di un carico conoscitivo ed emotivo, tale da permettere di superare la soglia della speranza.

Per Bassi, la fiducia è una relazione sociale favorita da:

la storia del rapporto fiduciario;

l'omogeneità culturale delle persone in relazione;

l'equilibrio nei rapporti di potere;

l'esistenza di pressioni normative e sanzioni sociali;

La sociologia considera diverse forme di fiducia:

sistematica o istituzionale, vi è un'aspettativa generalizzata di regolarità e stabilità del mondo con cui l'attore si trova ad interagire quotidianamente. La fiducia sistematica si basa sull'interiorizzazione di valori comuni e può intervenire anche una sorta di atto di fede;

personale o interpersonale, definita come aspettativa relativa al fatto che la persona con cui si entra in relazione non manipolerà la comunicazione o fornirà una rappresentazione autentica del proprio comportamento e della propria identità.

Viene sottolineata l'importanza della durevolezza del rapporto e viene evidenziato, con maggiore forza rispetto agli altri approcci, il carattere dinamico della fiducia. L'atto fiduciario comporta il coinvolgimento non solo di colui che dà fiducia, ma anche di colui che la riceve. La prospettiva sociologica riduce la fiducia al risultato di effetti collaterali; si tiene conto principalmente del comportamento e del risultato ma non dell'agente.


Approcci complementari: verso un approccio etico - relazionale

La fiducia si considera un concetto che integra il micro e il macro, ovvero che sta tra l'individuo e l'organizzazione. Viene vista in modo statico, ma è profondamente dinamica, dato che è un elemento fondamentale in una relazione interpersonale che va incontro a varie fasi. Si possono distinguere varie forme di fiducia:

una basata sulla deterrenza, sul considerare le sanzioni applicate ad eventuali comportamenti opportunistici;

una basta sul calcolo, sulla scelta razionale caratteristica di rapporti di scambio economici;

una basata sulle istituzioni, e sulla reputazione, sulla cultura, sui meccanismi legali, sulle norme;

una relazionale, basata su interazioni ripetute nel tempo, che considera anche l'aspetto emotivo ed etico e che comporta un alto livello di fede nelle intenzioni dell'altra persona.

Non è possibile dare come unica soluzione l'etos contrattuale della società civile, ovvero l'individualismo, la razionalità, il mercato, la legge impersonale. È necessario pensare ad altre soluzioni, come le istituzioni morali tradizionali che si fondano sulle identità della parentela, della famiglia, della decadenza, rafforzate da in linguaggio comune e della religione.

La fiducia non è una risorsa scarsa, in quanto non si esaurisce con l'uso, ma si accresce all'interno di una relazione.

Kohen evidenzia il fatto che il concetto di fiducia dovrebbe basarsi su valori e norme condivise, richiamando l'attenzione sull'aspetto normativo ed etico, non può diventare una virtù, si fa riferimento a gruppi sociali fortemente coesi e connotati da uno spirito di cooperazione, nei quali si riconoscono altri livelli di fiducia.

Werhane, invece, sostiene che la fiducia sorge tra le persone quando c'è un'atmosfera di rispetto, apertura e di libero scambio di idee. La fiducia è definita in termini di credenza nell'affidabilità, onestà, competenza ed integrità della persona con cui si è in relazione.

Infine si ha una definizione di fiducia che sintetizza le impostazioni economiche - sociologiche - psicologiche da un lato, e di quella etico - normativa dall'altro, per la quale la fiducia è l'aspettativa di una persona, gruppo o impresa di azioni e decisioni moralmente corrette basate su principi etici di analisi, nei confronti di un'altra persona, gruppo o impresa nell'ambito di un'attività comune o di uno scambio economico.

Argandoña sostiene che l'interesse personale non può spiegare il bisogno di fiducia, né può essere costruita su basi puramente economiche. La fiducia va fondata anche su attitudini, valori e virtù delle parti, basate su:

una competenza a condurre le attività richieste per il successo della relazione;

il comportamento mostrato da tutte e due le parti, basato su attributi personali;

la condotta mostrata dalle due parti, che deve prendere in considerazione non solo l'interesse personale ma anche l'interesse dell'altra parte.

E' difficile dare fiducia a qualcuno quando non si sa se sarà in grado di meritarla; d'altra parte, non si scoprirà mai se questi potrà meritarla se non gliela si dà. Essa è una forma di dono che si inserisce all'interno di una relazione interpersonale dinamica e libera.


2. Il cosiddetto "modello del dono"

2.1. Alle origini del dono: Marcel Mauss

Mauss studiò le società arcaiche, soprattutto le tribù della Polinesia, della Melanesia, del Nord - Ovest americano, e mostrò che la circolazione dei beni avveniva attraverso un complesso di prestazioni e controprestazioni, doni, offerte, feste, tutti caratterizzati dal triplice obbligo di dare, ricevere e ricambiare.

Tutto questo avveniva non sotto la spinta di motivazioni puramente economiche o utilitarie, ma principalmente perché così facendo si costruivano e si sviluppano delle relazioni sociali. La restituzione avveniva in tempi indeterminati, ovvero la persona che innescava per primo questo circolo donando qualcosa, non sapeva se e quando avrebbe avuto il cambio, ma sapeva che il gesto offriva la possibilità di instaurare una relazione.

Spesso il dono era un mezzo per affermare la propria superiorità, il proprio status, un modo per mostrare il proprio potere e le proprie possibilità. Fino ad arrivare ad eccessi costituiti dal potlach, una sorta di evento in forma cerimoniale in cui una tribù distruggeva le sue ricchezze, portando così il dono alla sua forma estrema, ossia il sacrificio, per mostrare alle tribù la propria superiorità.

Alcuni studiosi riducono il dono allo scambio commerciale, volto al conseguimento di un profitto economico.

Per Derida, quando una persona dona si rende conto di donare, il dono cesserebbe di essere autentico e puro. Quindi il dono non dovremmo mai apparire come dono, ma sarebbe possibile solo quando colui che lo da non sa di farlo, e colui che lo riceve non sa di riceverlo.

Il dono è qualcosa di universale, e sussiste ogni volta le persone privilegiano la relazione rispetto ai beni che possono scambiare al suo interno. Il dono mette in moto le persone ed i gruppi organizzati nella loro totalità, e non quanto soggetti che svolgono una particolare funzione.


2.2. Il dono presso i greci e presso i latini

Aristotele non si occupò mai esplicitamente di dono, per lui l'amicizia è necessaria nella vita, sia per i ricci sia per i più deboli. Egli individua tre specie di amicizia, distinte in base alle motivazioni e dei presupposti che muovono le persone: l'utilità, il piacere e la virtù. Nei primi due casi, non si ama la persona per se stessa ma per il vantaggio che se ne può trarre in termini di beni acquisiti o di piacere nello stare assieme, è una rapporto fragile, in quanto se viene meno la causa che spinge ad avere un rapporto di amicizia, viene meno anche questo. L'amicizia perfetta, invece, è quella basata sulla virtù: le persone si vogliono bene l'uno dell'altro, in modo simile, in quanto sono buoni, ed essi sono buoni per se stessi. Infatti l'affetto di una persona è più importante dei beni ricevuti.

Aristotele specifica due virtù relative al rapporto con il denaro e con i beni:

la liberalità, collegata direttamente al dono, in quanto i beni materiali vanno spesi e donai, e non presi e custoditi; l'uomo liberale è colui che dona nei confronti di coloro verso i quali è giusto farlo, con piacere e senza guardare a se stesso;

la magnificenza, è una virtù simile alla liberalità, ma si applica solo alle spese; l'uomo magnifico è colui il quale spende per l'interesse comune, che dona in vista di ciò che è moralmente bello, e che deve avere i mezzi per farlo.

Seneca distingue il munus, ovvero ciò che viene donato per affermare il proprio status e la propria autorità, e beneficium, ovvero ciò che viene donato senza secondi fini, senza attendere qualcosa in cambio, consiste nella disposizione d'animo di colui che dona.

La generosità è caratterizzata da un triplice obbligo, quello di donare, ricevere e rendere, pensiero simile a quello di Mauss, di anni dopo. Il dono provoca un sentimento di debito, a chi lo riceve, e rafforza il legame sociale.

Per Seneca, il dono è un atto libero, che produce una sorta di obbligo in chi lo riceve.

Tutti e due sottolineano la natura sociale dell'uomo: sia l'amicizia che la generosità sono scelte di vita comune e contribuiscono a formare il legame di tutte le società e dei gruppi organizzati umani.




2.3. Il dono moderno

Il vero dono è solo quello gratuito. È rappresentato come atto individuale e non risulta inserito in una dinamica relazionale. Per molti il dono evoca le pratiche cristiane della carità o dell'elemosina.

Negli ultimi anni, si è sviluppato un movimento scientifico e letterario sul tema del dono, che si rifà ai lavori di Mauss, denominata M.A.U.S.S. (Mouvement anti - utilitariste dans les sciences sociales).

La presenza di intensi scambi commerciali è dimostrata nelle società arcaiche, che si differenziano, dalle moderne società occidentali, per la presenza intrusiva del mercato. Il mercato moderno tende a liberare i membri della società e dei gruppi organizzati dagli obblighi legati alle relazioni interpersonali, in quanto la circolazione dei beni superano la costituzione dei legami, le cose circolano solo grazie al meccanismo dei prezzi.

Lo Stato democratico provvede ad integrare il mercato nel campo dei servizi. Questo si basa sull'uguaglianza e sull'universalità dei diritti e sulla tensione alla riduzione delle ingiustizie.

Per Godbout, il dono si rifugia nelle relazioni tra amici, in quelle familiari, ma anche il dono tra gli estranei, tipica dell'età contemporanea, come gli alcolisti anonimi, o nelle associazioni di volontariato. Il pensiero moderno tende a ridurre le relazioni e a concettualizzarle mediante gli strumenti dell'economia classica, o tende a considerare i due mondi, formale e informale, economico e relazionale, come due mondi impermeabili. Un'economia intesa in senso classico e moderno è vicina al concetto di Aristotele, ovvero di accumulazione illimitata, che a quello di saggia gestione domestica.

Godbout definisce il dono, come ogni prestazione di beni o servizi effettuata senza garanzia di restituzione al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sciale tra le persone. Anche ricambiare vuol dire donare, e quindi la distinzione tra chi dona e chi ricambia è minima, in quanto sono tutti e due donatori, quindi non si considera il momento della restituzione come un riequilibrare del rapporto.


2.3.1. La ricerca di un modello di azione sociale basato sul modello del dono

È un modello che serve da guida per il funzionamento delle organizzazioni aziendali. Seguendo l'analisi di Caillé, si nota che il dono è multidimensionale e si oppone a qualsiasi forma di riduzionismo:

alcuni etnologi evidenziano l'elemento dell'obbligo rituale;

alcuni filosofi vedono nel dono la dimensione della libertà, della spontaneità e della creazione;

alcuni economi considerano il dono come agonistico, mezzo di lotta e di competizione per imporre il proprio status e potere nei confronti degli altri, un dono motivato dall'interesse;

infine, alcuni studiosi spiegano il dono a partire dal piacere che deriva dall'atto di donare, un dono che si riduce alla strumentalità e caratterizzato dal disinteresse.

Le azioni umane sono guidate da una pluralità di motivazioni. L'azione è motivata anche dal piacere insito nel donare stesso il quale deriva dal fatto di far parte di una relazione con un'altra persona.

Si sostiene anche che si tende a vedere il dono dove vi è uno scambio commerciale o un prestito con interesse, un rapporto vincolante e obbligante in cui verrebbe negata la libertà degli attori.

Un'altra critica è quella che sostiene che il dono andrebbe limitato a quelle situazioni cerimoniali in cui esso viene utilizzato in chiave agonistica per imporre il potere e il prestigio.


2.4. Il dono nelle teorie dello scambio sociale

All'interno delle teorie dello scambio sociale, lo scambio si divide in quattro dimensioni:

economica, in cui si pone l'attenzione sull'elemento materiale che viene donato, e il valore è misurato in termini monetari;

funzione o utilitaria, in cui il valore è costituito dall'utilità percepita che l'oggetto donato possiede;

sociale, in cui il dono viene interpretato come un invito alla relazione, segno di partecipazione sincera da parte del donatore alla vita del ricevente;

personale o espressiva, in cui il dono esprime la persona che lo fa.

È un mezzo attraverso il quale le persone interagiscono con coloro che sono importanti. Cheal individua cinque tipologie di significati:

sacrificio, nel senso che donare qualcosa comporta un sacrificio personale;

riflessivo, il dono è tale per convenzione sociale, soprattutto quando è materiale e si utilizzano simboli, come la confezione, o il fatto che esso debba essere scoperto;

numerico, i doni multipli e ripetuti in varie occasioni ottono acquistare valore;

utilità, un dono utile è più gradito, è una dimostrazione di conoscer la persona che lo riceve e le sue preferenze, aiuta a ricordare la persona che lo ha fatto;

mercato o finanziario, di tipo economico, ma quando si dona del denaro, si spersonalizza il dono.

Si fa una distinzione tra:

valore di scambio, l'equivalente monetario rappresentato sul mercato dall'incontro tra domanda e offerta;

valore d'uso, l'utilità oggettiva di un bene o di un servizio;

valore di legame, il valore collegato al fatto che il dono, attraverso la sua circolazione, arricchisce la relazione e le persone che ne sono protagoniste.

Il modello si articola in tre stadi:

gestazione, tutti i comportamenti precedenti all'atto di donare;

prestazione, lo scambio vero e proprio, in cui il donatore pone l'attenzione alla risposta del ricevente;

riformulazione, porta al rafforzamento, affermazione, attenuazione o alla messa in discussione della relazione.

Se si tratta di uno scambio economico, le due parti cercano uno stato di equilibrio misurato dal valore economico delle cose donate, se si tratta di uno scambio sociale, si tende a cercare la reciprocità, intesa come beneficio simbolico, sociale, di potere.

C'è chi pensa il dono come un debito, la differenza tra ciò che le parti percepiscono e valutano in modo soggettivo di aver dato e ricevuto. Si individuano, quindi, tre stadi evolutivi di una relazione:

debito unilaterale, una parte pensa di avere dato all'altra più di quanto ha ricevuto, e l'altra parte pensa di avere ricevuto più di quanto ha dato;

debito reciproco negativo, ciascuno pensa di dare all'altro più di quanto riceve. Questa relazione tende a deteriorarsi;

debito reciproco positivo, ciascuno pensa di dare all'altro meno di quanto riceve. La relazione è stabile e duratura, le due parti si trovano in una rapporto di fiducia reciproca.


2.5. Il dono e la lealtà in azienda

Secondo Bataille, dopo l'avvento del capitalismo, l'economico fu prevalente e l'azienda cominciò a spingere gli uomini a produrre sempre di più, in vista dell'accumulazione, dell'arricchimento personale e della crescita senza fine dell'azienda stessa.

Per molto tempo si pensava che coloro i quali lavoravano all'interno di organizzazioni economiche fossero individui egoisti e egocentrici, ma questi pregiudizi hanno contribuito a formare norme sociali relative al comportamento degli operatori economici.

Sapelli distingue due forme generali di scambio, compresenti nell'impresa di tipo capitalistico:

lo scambio di mercato, di tipo impersonale, istantaneo, e che non implica un totale coinvolgimento delle persone implicate nella relazione;

lo scambio non di mercato, personale, duraturo e affettivo. Può assumere la forma di dono, quando la solidarietà è più forte della supremazia; quando la superiorità prevale sulla logica della solidarietà, è uno scambio non di mercato.

La fiducia è importante in entrambe le forme dello scambio non di mercato, mentre nel dono essa è personale, definita dalle relazioni tra le persone, nello scambio gerarchico prevale una logica di tipo calcolativi.

Il dono si trova in tutte le organizzazioni aziendali, anche se il ruolo strutturante è visibile maggiormente in quelle di piccole dimensioni, o nei gruppi sociali che si formano all'interno. I recenti modelli organizzativi, basati su una produzione snelle e sulla flessibilità globale, da un lato evitano i parcellizzare il lavoro e quantificare ogni singola mansione, dall'altra non evitano di subordinare le persone alle norme.

Un'altra critica è attribuibile alla presunta scarsità delle risorse: se un uomo agisse secondo tale principio, subirebbe una limitazione nel suo agire, e ciò non sarebbe vero perché per determinati tipi di risorse, come la creatività, l'immaginazione, lo spirito imprenditoriale, la conoscenza, la lealtà., si dovrebbe parlare di abbondanza di risorse. Le organizzazioni di tipo gerarchico tendono a ridurre il grado di liberà e di autonomia, considerati elementi di disturbo e disordine, l'uomo è considerato un ingranaggio che deve funzionare in un unico modo predeterminato e che non può esprimere la propria natura.

Un elemento considerato essenziale nei recenti modelli organizzativi è la lealtà, intesa sia all'interno dell'organizzazione, come lealtà dei lavoratori nei confronti dell'azienda, sia all'esterno, come lealtà dei clienti nei confronti dell'azienda stessa.

Tenendo in considerazione i clienti che sono più inclini ad essere leali, bisognerebbe offrire prodotti e servizi orientati al soddisfacimento dei bisogni di tali clienti, in modo da renderli fedeli. Questo dovrebbe portare a migliori performance dal punto di vista competitivo ed economico, si attiverebbe un circolo che si autoalimenta, in quanto avere a disposizioni lavoratori fedeli e leali porterebbe ad un miglior servizio ai clienti. La lealtà, oltre che significare l'osservanza di un dovere, può riferirsi anche al mantenere degli impegni presi, oppure la parola data. Tali impegni possono derivare non solo da norme e istituzioni, ma anche dal fatto di essere vicini affettivamente ad una persona, e da rapporti di amicizia, o dal fatto di aderire a certi valori, o, ancora, dall'essere membro di una comunità o di un gruppo organizzato.

Il concetto di lealtà può essere usato per spiegare il fatto che i clienti e i lavoratori vengono incentivati ad agire in modo ripetitivo in favore di interessi dell'azienda, in cambio di qualcosa che incrementi la loro utilità. le aziende, senza distinzione di tempo e di luogo, hanno spesso fondato la propria forza, la propria stabilità e durevolezza, proprio sul fatto che i lavoratori danno più di ciò che corrisponderebbe alla loro retribuzione.

Anche il dono è sempre più nelle logiche utilitaristiche, in cui ogni persona viene pensata come massimizzatore di utilità, e dove ha meno importanza il rapporto di fiducia che dovrebbe esserci tra i membri dell'organizzazione.

Secondo l'economia del produttore, le persone preferirebbero le attività lavorative a quelle di svago, perché in esse troverebbero, non soltanto di che vivere, ma anche uno strumento per lo sviluppo personale; le persone  "desiderano" lavorare sempre di più, "donando" se stessi all'azienda, ma facendo del dono uno strumento per la produzione e non un mezzo per creare e sviluppare le relazioni sociali.

Sul versante esterno si ha un doppio significato del dono: da un lato, le più moderne tecniche del marketing fanno abbondante uso del dono e di una logica imprenditoriale apparentemente disinteressata, prevalgono valori quali servizio e lealtà nei confronti dei clienti, promozioni, omaggi e sconti; dall'altro lato si è di fronte al paradosso per cui se si vuole vendere di più si deve essere disinteressati. In certi contesti culturali e sociali il dono diventa un comportamento atteso, che mostra rispetto, lealtà e fiducia nei confronti di un'altra persona, e contribuisce a creare, mantenere e sviluppare le relazioni, con i fornitori, clientela, intermediari e con le altre aziende con cui si collabora.


CAP. 4 LE CULTURE ORGANIZZATIVE IN CHIAVE RELAZIONALE


1. Aspetti definitori

Per cultura si intende, se riferita all'uomo, il processo di miglioramento delle facoltà fisiche, intellettuali e morali dell'uomo, e il risultato di questo miglioramento. Quindi si riferisce sia all'azione che all'effetto del migliorare.

Per cultura organizzativa si intende un complesso di conoscenze, credenze, espressioni artistiche, norme morali, leggi di un popolo, di una società o di un gruppo sociale.

Per Barney, la cultura organizzativa è al pari di tutte quelle risorse rare che possono condurre al raggiungimento di un vantaggio competitivo sostenibile. Le aziende e la loro cultura riflettono le personalità e le esperienze uniche di chi lavora in esse e la loro storia, fatta dalle circostanze della loro fondazione, delle personalità dei loro fondatori e delle circostanze della loro crescita.

Alcuni autori dimostrano che la forza della cultura di un'azienda ha una correlazione positiva con i risultati economici della stessa.

Uno studio condotto da Gordon e DiTomaso utilizza come misure della cultura organizzativa:

la forza, definita come grado di accordo, di coerenza interna, di stabilità relativo alle caratteristiche culturali presso i membri dell'organizzazione;

l'adattabilità verso l'ambiente, che misura la combinazione tra orientamento all'azione, innovazione e propensione al rischio;

la stabilità, ovvero la combinazione di integrazione e comunicazione, sviluppo e promozione.

Molti studiosi hanno provato a descrivere il concetto di cultura utilizzando espressioni come:

il sistema dei valori prevalente;

l'insieme di valori condivisi;

le regole di comportamento non scritte;

l'insieme degli abituali modi di pensare, sentire  e reagire di fronte ai problemi che si presentano;

le idee condivise di ciò che è giusto nel comportamento dell'azienda o del singolo.

Perrigrew definisce la cultura organizzativa come " il sistema di significati pubblicamente accettati, operante per un gruppo determinato in un momento determinato".

Per Schein è "il modello di assunzioni di base che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato nell'apprendere ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e integrazione interna, e che ha funzionato abbastanza bene da essere considerato valido, e, dunque, da essere insegnato ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazioni a quei problemi".

La cultura organizzativa può essere analizzata a livelli differenti:

artefatti visibili, udibili e tangibili, come l'ambiente fisico di lavoro, pratiche quotidiane, i criteri nel modo di vestire, i rituali, il linguaggio, che sono facili da osservale ma difficili da interpretare;

valori manifesti, codificati e condivisi, mantiene inconsapevoli le ragioni sottostanti ai valori;

assunzioni sottostanti, tipicamente inconsapevoli.

Il confine tra valori e assunzioni di base è provvisorio, se per entrambi è possibile parlare di valori, la differenza sta nel fatto che i primi sono manifesti e consapevoli, mentre le seconde sono inconsapevoli e conclusive.

Non si può considerare una cultura fino a quando non c'è un gruppo che la possiede, ovvero un insieme di persone che sono state abbastanza a lungo da condividere problemi di una certa significatività, che sono riuscite a risolvere i problemi e che hanno accolto nuovi membri. La forza della cultura può essere definita in termini di stabilità, durevolezza e intensità delle relazioni interpersonali che si creano, si sviluppano, e si rafforzano in base alla condivisione di esperienze e all'apprendimento generato dalla ricerca di soluzioni a determinati problemi. Problemi che possono essere di due tipi: esterni, che hanno a che fare con la sopravvivenza dell'organizzazione, e interni, che riguardano la capacità dell'organizzazione di funzionare come tale.

La cultura organizzativa, inoltre, deve essere insegnata e trasmessa ai nuovi membri, i quali portano con sé le loro conoscenze, le loro abilità, le loro esperienze, che contribuiscono a produrre cambiamenti culturali.

Mintzberg parla di ideologia come un ricco sistema di valori e di idee relative ad un'organizzazione, condivise dai suoi membri, che la differenziano dalle altre organizzazioni. Individua tre fasi:

l'aggregazione di un gruppo di persone attorno ad un leader, una persona carismatica, con valori e convinzioni di fondo che stimolano le altre persone ad unirsi attorno a lui e ad aggregarsi tra di loro;

il formarsi di tradizioni condivise, non ancora forti nelle organizzazioni di piccole dimensioni, per cui possono permettere alle persone di muoversi liberamente e di costruire e sviluppare con relativa facilità le relazioni interpersonali;

il rafforzamento della cultura tramite l'ingresso di nuovi membri nell'organizzazione, quando una persona entra a far parte di un'organizzazione sarà influenzato dall'organizzazione stessa sui suoi comportamenti, che richiederanno lealtà e identificazione con l'organizzazione.


Il modello di genesi di un paradigma culturale e organizzativo di Gagliardi, è suddiviso in quattro fasi:

  1. il leader utilizza una sua visione, ossia un insieme di credenze che possono anche non essere condivise dai membri dell'organizzazione;
  2. se l'insieme di credenze proposto dal leader si dimostra efficace ed ha successo, esso tenderà ad essere condiviso dai membri dell'organizzazione;
  3. se gli effetti della visione si dimostrano duraturi, i membri dell'organizzazione tenderanno a non ricercare più prove della validità della stessa, ossia degli effetti, ma ne interiorizzeranno solo la causa, ossia i valori sottostanti;
  4. i valori diventeranno condivisi ed indiscussi da sfuggire alla consapevolezza degli attori e trasformarsi in assunzioni di base.

I membri di un'organizzazione, se vogliono rimanere tali, dovrebbero limitarsi a seguire le pratiche, ma non dovrebbero manifestare i propri valori, che verrebbero lasciati alla sfera individuale e personale di ciascuno.

Smircich individua cinque modi diversi di concepire la cultura:

management comparativo, la cultura viene considerata una variabile indipendente esterna all'organizzazione, derivante dal complessivo ambiente circostante. È considerata un fattore di background e gli studi si concentrano sulle differenze e sulle variazioni nelle pratiche e attitudini manageriali.

cultura aziendale o corporate culture, la cultura è una variabile dipendente interna all'organizzazione, un insieme di elementi che, utilizzati e manipolati dal management, consentirebbero di ottenere un incremento motivazionale nei lavoratori, una aumentata volontà di lavorare insieme, e dunque una più elevata coesione sociale interna e fedeltà nei confronti dell'organizzazione, con conseguente incremento di produttività e dunque di performance a livello organizzativo. La cultura è un prodotto dell'organizzazione ed è intesa in senso strumentale per creare un senso di appartenenza e di identificazione di tutti i lavoratori;

approccio cognitivo, la cultura è un sistema di conoscenze o di credenze condivise. L'organizzazione viene intesa come una rete di significati e di cognizioni che i membri condividono;

approccio simbolista, la cultura e l'organizzazione vengono viste come un complesso di simboli attraverso i quali le persone interpretano e comprendono le loro esperienze e dirigono le loro azioni;

approccio strutturalista, la cultura è l'espressione o il risultato di processi psicologici inconsapevoli.

I primi due approcci considerano le organizzazioni come strumenti per adattarsi all'ambiente esterno o per perseguire determinate finalità, gli altri tre approcci vedono l'organizzazione come una forma particolare di espressione umana.




1.1. Particolari fattispecie di culture e subculture

Molti autori tendono a distinguere le aziende e le persone che lavorano in esse, in individualiste, ovvero le aziende occidentali, e cooperative, ovvero le aziende giapponesi e orientali.

Mintzberg individua, inoltre, un'altra tipologia di organizzazione, ovvero quella missionaria, che si avvicina al modello giapponese, le persone collaborano per un'ideologia comune, dove le personalità individuali vengono poste in secondo piano, le relazioni interpersonali non sono molto importanti.

Schein individua tre subculture:

la subcultura degli operativi, la più difficile da descrivere in quanto specifica di ogni organizzazione;

la subcultura degli ingegneri, che accomuna quelle professionalità che possiedono conoscenze sulle tecnologie e sul loro utilizzo;

la subcultura degli esecutivi, si basa sulla ricerca della migliore performance finanziaria dell'organizzazione e gli esecutivi sviluppano sistemi di informazione e di controllo  elaborati e complessi.


2. Cultura, cambiamento ed apprendimento organizzativo.

La cultura organizzativa può definire le possibilità che l'organizzazione ha di apprendere e quindi si tende a privilegiare una concezione dinamica e specifica di cultura organizzativa. Il cambiamento è inteso come un processo guidato consapevolmente dall'organizzazione tramite modifiche prodotte nelle variabili organizzative e nelle loro interazioni. È difficile cambiare una cultura organizzativa, più difficile che svilupparne una nuova, perché si tende ad una inerzia culturale che ha come risultato quello di mantenere immutata la cultura esistente.

Si possono individuare tre fasi del processo di cambiamento:

scongelamento, ovvero tutte le azioni che provocano la necessità del cambiamento;

cambiamento, ovvero tutte le azioni che modificano le variabili organizzative;

ricongelamento, ovvero tutte le azioni che consolidano i nuovi modelli di comportamento in modo che siano adottati su base permanente.

In presenza di una cultura di tipo burocratico, come per esempio le aziende pubbliche, in cui non c'è creatività, innovazione, l'abitudine al lavoro di gruppo, è molto più difficile un cambiamento organizzativo, che in questo caso avrà effetti negativi.

Il cambiamento di può manifestare nel corso dello sviluppo di un'organizzazione aziendale, a fronte di una crescita complessiva, ma si assiste al deterioramento di alcune caratteristiche personali e relazionali:

le persone sviluppano un senso di rassegnazione in risposta ad ostacoli apparentemente insormontabili o alla carenza di relazioni significative con i propri compagni di lavoro o con i propri superiori;

i lavoratori tendono a perdere il loro senso di unità e coesione che favorisce la cooperazione ed il lavoro di gruppo;

le persone tendono ad evitare il conflitto, per paura di riceverne le colpe o di affrontare un momento critico della relazione con altre persone;

il deterioramento relazionale porta anche ad una minore capacità di apprendimento, in quanto si tende ad essere meno aperti nei confronti del nuovo.


2.1. Cambiamento culturale e meccanismi operativi

Schein individua cinque meccanismi che il leader di un'organizzazione può utilizzare in un processo di cambiamento culturale:

ciò su cui il leader focalizza l'attenzione dei lavoratori;

il modo in cui il leader reagisce alle crisi, in quanto i valori del leader si manifestano più apertamente;

il fatto che il leader funge da modello attraverso i suoi comportamenti e le azioni che pone in essere;

il modo in cui vengono distribuite le ricompense;

i criteri di selezione e di licenziamento, in quanto anche essi manifestano i valori del leader a tutti i dipendenti dell'organizzazione.

Si sa, che la presenza di un leader come parte integrante di un'organizzazione è molto importante, ai fini del successo del processo di cambiamento, che si articola in sei fasi:

sviluppo di una visione a lungo termine;

formazione di un team per la guida del cambiamento;

utilizzo del potenziale delle azioni simboliche (storie aziendali raccontate);

rottura dei "colli di bottiglia", ossia l'eliminazione o attenuazione degli ostacoli;

fissazione degli obiettivi difficili ma raggiungibili;

pieno coinvolgimento delle persone.

Inoltre sarebbe opportuno che:

i sistemi di i sistemi di valutazione devono essere considerati, a tutti gli effetti, come un mezzo di comunicazione simbolica nell'ambito delle relazioni che intercorrono tra i lavoratori e chi dà lavoro;

i sistemi di ricompensa devono essere una conseguenza della valutazione, e devono tenere conto sia del lavoro individuale sia di quello di gruppo;

Infine, il cambiamento e l'apprendimento hanno nel dialogo, nel linguaggio, nella comunicazione e nei discorsi dei mezzi fondamentali attraverso i quali le organizzazioni possono creare, sviluppare e modificare la propria cultura.

Per Schein, il dialogo è fondamentale e necessario per comprendere le culture e le subculture, per sviluppare un efficace processo di apprendimento. Per esserci dialogo, deve esistere un linguaggio comune. Per Rullani, il linguaggio è un sistema di elaborazione aperto e flessibile, capace di trasmettere la conoscenza ad un insieme di persone.

Nel processo di comunicazione si distinguono cinque elementi:

la natura dei soggetti interlocutori;

le caratteristiche del mezzo;

l'efficacia delle fasi, codifica e decodifica;

la direzione del flusso di comunicazione;

la connessione esistente tra i diversi processi di comunicazione, in forma di rete di comunicazione.

I "discorsi" possono muovere il messaggio centrale del cambiamento, importanti sono le metafore e le storie organizzative, che si focalizza su una singola sequenza di eventi, presi dalla storia dell'organizzazione, e i protagonisti sono i membri dell'organizzazione, può avere due versioni, una positiva e una negativa.

Questi strumenti possono facilitare il cambiamento, ridefinendo la realtà organizzativa.


3. Cultura, etica e relazionalità.

3.1. Cultura ed etica

L'etica è parte integrante della cultura organizzativa, e deve cercare di promuovere e incoraggiare il prendere le decisioni in modo eticamente positivo.

Le condotte etiche possono essere influenzate anche dalla struttura formale dell'organizzazione, la quale ha un effetto diretto sui comportamenti ed è controllabile dai manager.

Importante è la definizione di Coda, il quale collega il concetto di cultura a quello di OSF, che può diventare il nucleo centrale della cultura di un'organizzazione aziendale. Egli individua alcuni valori a base del successo imprenditoriale:

il servizio del cliente;

la valorizzazione e lo sviluppo delle persone;

l'innovatività;

l'economia della gestione.

L'aspetto umano in azienda è sottolineato da chi parla di "umanesimo imprenditoriale", ovvero considerare come fine delle aziende la dignità di tutti gli uomini che con esse si relazionano.

Bisogna studiare la cultura organizzativa centrando l'attenzione sulle relazioni tra le persone che vivono in un'organizzazione comune e sui valori che queste portano con se. Quindi bisogna analizzare il suo aspetto sociale, infatti è costituita da un minimo di due persone e ognuna ha un suo specifico modello di regole e interazioni con gli altri, progettato per raggiungere obiettivi. Risulta difficile ridurre la cultura di un'organizzazione ad un ben preciso insieme di valori e credenze, ma va riconosciuta una pluralità di valori etici attivi ed oggetto di un  continuo processo di ridefinizione.

Melé propone un modello relativo ai contenuti di una cultura organizzativa che si definisce etica e individua quattro caratteristiche di una cultura:

riconoscere la persona nella sua dignità, nei suoi diritti, nella sua unicità.;

rispetto per i diritti della persona e per i diritti umani;

la cura ed il servizio per le persone, in modo da soddisfare i loro bisogni e la crescita personale;

il management indirizzato al bene comune contro interessi particolari, l'azienda deve essere intesa come una comunità di persone, in cui ciascuno persegue un fine comune.


3.2. Cultura e relazionalità

Le persone, piuttosto che le organizzazioni, sono agenti di cultura; le organizzazioni, in quanto associazioni di persone sono costituite dalle continue esperienze di queste ultime nella costruzione del sé.

La cultura rende l'uomo più uomo e lo arricchisce di sé più che di cose, questo è favorito dalla relazione con gli altri.

La cultura va considerata in chiave dinamica come un processo continuamente costruito e ricostruito mediante l'interazione tra le persone. Non è possibile pensare esclusivamente che essa formi i suoi membri, ma anche che essa è incessantemente formata e modificata da essi e dalle loro relazioni. Una cultura organizzativa, in chiave relazionale, deve considerare le storie organizzative e di ciascun gruppo che operano al suo interno. Le culture vengono ad essere, quindi, un insieme di valori, significati, norme, modelli di sentire e di credere, diversi e pluralisti, continuamente ridefiniti e riprodotti, ma che allo stesso tempo trovano nello specifico contesto organizzativo una comune e condivisa ricomprensione.


3.2.1. Le culture organizzative in chiave relazionale

La cultura organizzativa è formata da una serie di subculture interconnesse, e alcune volte possono prue assumere il carattere di contro - culture, che svolge utili funzioni per l'organizzazione, come evidenziare i confini tra comportamenti appropriati e inappropriati, stimola riflessioni critiche.

Le culture operanti nel settore economico sono di due tipi, quelle di tipo gerarchico, ispirate al principio del dovere e dell'obbligo morale, e quelle di mercato, ispirate al principio di interesse personale.

Si tende quindi di creare un modello di cultura che si compone di elementi motivazionali e valoriali, come l'obbligo, l'interesse, il piacere e la libertà. Possono esistere diverse culture, ciascuna basata su uno dei quattro elementi del "modello del dono". Inoltre, all'interno di una stessa organizzazione possono esistere culture o subculture, che possono coincidere o meno con le diverse unità organizzative presenti all'interno di un'organizzazione. Possiamo distinguere cinque tipologie di cultura organizzativa:

Una cultura basata prevalentemente sull'obbligo, sul senso di dovere e della fedeltà dei membri nei confronti dell'organizzazione. I lavoratori tendono ad offrire, o sotto richiesta o spontaneamente, la propria subordinazione e la propria lealtà, in cambio di retribuzione e della partecipazione alle decisioni. Si tratta di una cultura forte, con un alto grado di coesione tra i membri, è di tipo solistico, in quanto le persone si trovano assorbite all'interno dell'organizzazione. Questa cultura tende a distaccare e allentare il grado affettivo, emotivo e motivazionale delle persone.

Una cultura basata sull'interesse, sia di tipo economico, professionale o di status e legato a logiche di potere. In questa cultura è diffuso uno spirito di competizione individuale, per un fine comune, ovvero la ricompensa e la valutazione. Si privilegiano le ricompense individuali, quelle legate a specifici livelli di performance ed efficacia. Tale culture si basa su un'etica utilitarista, che ottiene un risultato ottimale nel calcolo razionale. Anche in questo tipo di cultura, accanto all'elemento interesse, sono presenti gli altri tre, con intensità e combinazioni variabili.

Una cultura basata sul piacere, ovvero il disinteresse. Si sviluppa in quelle organizzazioni con un'alta professionalità, una forte appartenenza ad un gruppo o ad una comunità di persone (organizzazioni che si occupano di ricerca scientifica o dello sviluppo di nuove tecnologie). È presente un'etica edonistica, che pone il piacere a fine ultimo dell'attività umana, facendo consistere in esso il valore del bene morale. Per Aristotele, la felicità non è piacere, ma qualcosa di più grande che contiene anche il piacere. Questo tipo di cultura chiude l'uomo in sé stesso, negandone la propria natura relazionale.

Una cultura basata sulla libertà, quindi sull'altruismo e sulla spontaneità. Bisogna sottolineare a cosa possa assomigliare l'altruismo in una organizzazione aziendale, e quali possono essere i meccanismi operativi che lo incoraggiano. Non vi è un senso di individualismo, ma i comportamenti altruistici si caratterizzano per l'orientamento al bene degli altri, per la volontà si sacrificare il proprio benessere per gli altri. Quindi è una cultura orientata in modo estremo all'altruismo e alla libertà, ma c'è il rischio di cadere in un dono unilaterale, un gesto altruistico privo del carattere della relazionalità.

Una cultura bilanciata, è difficile da trovare nella realtà, ma è quella più equilibrata. In questa cultura, tutti e quattro elementi motivazionali dell'azione individuale e sociale sono presenti e sono bilanciati, in modo che nessuno privilegia sugli altri. Le persone possono trovare la dimensione giusta per esprimere la propria natura umana, integrando le proprie tensioni sociali, altruistiche, individualistiche, senza ridurre il proprio comportamento e orientamento. Il dono può diventare, quindi, un comportamento sociale che rafforza le relazioni e che può costruire una manifestazione di logiche culturali e di valori sottostanti. Quando membri dell'organizzazione vengono percepiti come persone con valori, si avvia un processo di apprendimento che genera fiducia, lealtà ed impegno. Sul versante relazionale esterno, una delle fonti principali del processo di apprendimento è formata dalle relazioni interpersonali che si costituiscono e si sviluppano con attori che operano al di fuori dell'organizzazione. È la learning by relationing ed è funzione della stabilità e della durevolezza delle relazioni tra le persone, in un ottica di fiducia reciproca.




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