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I media nel loro contesto storico - L'avvento della scrittura - Il mondo preistorico

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I media nel loro contesto storico

L'avvento della scrittura

Il mondo preistorico

Il termine preistoria, in senso etimologico, rimanda a tutto ciò che è avvenuto prima del momento in cui gli uomini hanno cominciato a utilizzare la scrittura per tramandare la memoria dei fatti; un'epoca enormemente vasta. In questo contesto, tuttavia, useremo il termine solo in quanto riferito alla preistoria umana, per ciò che concerne strettamente la nostra specie: l'homo sapiens moderno. L'alba della storia coincide circa con l'alba della scrittura: la storia non può indagare ciò che è avvenuto prima dell'inizio del terzo millennio a.C. circa, che è il periodo in cui gli uomini hanno iniziato a scrivere. E' possibile, tuttavia, una ricostruzione parziale basata sui reperti fossili, e sul ritrovamento di oggetti, luoghi di abitazione, utensili e manufatti di origine umana.

La preistoria umana viene suddivisa, di solito, in due grandi periodi, detti paleolitico e neolitico. I termini non sono ben scelti ("età della pietra antica" e "età della pietra nuova"), perché trasmettono l'idea di un salto puramente "quantitativo". Il salto, invece, fu determinante al punto che, si potrebbe dire, solo con la rivoluzione industriale l'uomo ha attraversato una soglia di importanza paragonabile a quella che separa questi due periodi. La suddivisione (come tutte le suddivisioni in ere o periodi) ha un altro difetto: ci fa credere che il passaggio sia stato repentino, laddove l'intero percorso dello sviluppo umano presenta forti caratteri di continuità.

I primi sapientes ereditarono la cultura dei loro antenati ominidi. Erano capaci di scheggiare la selce e di controllare il fuoco, e si dedicavano alla caccia e alla raccolta di ciò che la natura forniva loro spontaneamente. Possiamo avere una vaga idea di come vivesse l'uomo paleolitico, se consideriamo lo stile di vita di popolazioni odierne che, come gli aborigeni australiani o i pigmei dell'Africa centrale, hanno conservato in parte gli usi e i costumi propri di quell'era[1]. La caccia avveniva con strumenti rudimentali: selci scheggiate, asce di pietra, bastoni (l'uomo paleolitico, tuttavia, fu sufficientemente ingegnoso da inventare l'arco, come si desume dalle pitture rupestri che ci sono rimaste).



La caccia e la raccolta fornivano cibo appena sufficiente per il sostentamento di piccoli gruppi umani, che probabilmente vivevano in condizioni di grande democrazia: la società degli uomini non era abbastanza ricca per permettersi re o caste nobiliari. Se non c'erano capi (nel senso più tardo di principi o signori) dovevano però esserci stregoni e sacerdoti. La natura intorno agli uomini era un grande mistero, assolutamente imperscrutabile. Ricorrere a pratiche magiche era necessario per ammansire la forza degli uragani, o per ingraziarsi lo spirito degli animali. Si è fatta l'ipotesi che le pitture rupestri avessero finalità più religiose che estetiche.

L'unico animale domesticato nell'età paleolitica è il cane. L'incontro tra uomini e lupi era probabilmente inevitabile. Il lupo è una specie sociale, quindi facilmente in grado di adattarsi alla convivenza con l'uomo. Se non possiede la nostra astuzia, possiede però un olfatto assai migliore del nostro, corre meglio di noi, e può essere usato come un arma efficace nella caccia. Per un lupo, adattarsi alla convivenza con l'uomo significa probabilmente soltanto scegliere un capo branco di una specie diversa. L'incontro è vantaggioso per entrambe le specie, dunque è avvenuto.

 

Un esempio di pittura paleolitica dalle grotte di Altamira (Spagna)

Una considerazione interessante a proposito dell'età paleolitica si deve allo storico Arnold Toynbee[2] : Il paleolitico è un'età in cui il ritmo di sviluppo delle novità è più lento del ritmo di diffusione delle novità stesse. Per quanto poco efficiente potesse essere la diffusione delle idee nel pianeta sterminato, in un epoca in cui non solo non esistevano aerei e ferrovie ma per lo più era priva di sentieri praticabili, il tasso di innovazione culturale era ancora più lento. Il risultato è l'uniformità della cultura. Ovunque si guardi, dall'Asia all'Europa all'Africa, gli elementi culturali sono simili se non identici. Secondo Toynbee il rapporto tra le due velocità si è invertito nel neolitico, ed è tornato a vantaggio del ritmo di diffusione solo in epoca moderna. Quest'ultima considerazione può giustificare il fatto che dovunque andiate, da Los Angeles a Tokyo passando per Parigi o Mosca, trovate gli stessi Mac Donalds, lo stesso Rap, le stesse magliette con "I love NY". Un viaggiatore del settecento, per esempio, sarebbe stato stupefatto da una simile uniformità culturale.

Se confrontata con l'apparizione sulla Terra di homo sapiens, l'alba del neolitico sembra un evento molto recente. Ad esempio il villaggio neolitico di Abu Hureyra nel nord della Siria, uno dei più antichi che si conoscano, risale a 11.500 anni fa. Ci sono molte differenze evidenti tra la cultura paleolitica e quella neolitica. Il materiale preferito per armi e manufatti resta la pietra (di qui il nome "neolitico"), ma la sua lavorazione è molto più elegante, raffinata ed efficace di quanto non sia nel paleolitico. Nasce l'arte del vasaio, per fare un altro esempio. Ma la differenza più importante è nello stile di vita degli uomini e in tutto ciò che ne consegue. L'uomo smette di essere un girovago che vaga alla ricerca dei luoghi che gli garantiscono una caccia o una raccolta migliore: diventa stanziale. Questo cambiamento fondamentale avviene perché l'uomo ha imparato a dominare la natura in un modo sconosciuto ai suoi antenati paleolitici. Non si limita a raccogliere vegetali commestibili: li coltiva, li seleziona, arriva al punto di modificare piante e animali per adattarli ai propri fini.

La modifica di piante e animali attraverso un lungo, paziente lavoro di selezione e d'incrocio che dura generazioni è ciò che si intende con il termine domesticazione. Il neolitico ci ha regalato il grano, il riso, il mais (nelle Americhe), ma anche la pecora, la mucca, il maiale, il pollo. Si tratta di animali e piante che in natura si presentavano con caratteristiche diverse, enormemente meno adatte all'utilizzo umano di quanto non siano oggi: animali e piante artificiali, nel senso proprio del termine. La nuova capacità umana di controllare la natura comporta un arricchimento gigantesco delle comunità. Il villaggio neolitico tende a diventare città, assume cioè una dimensione che era sconosciuta al gruppo umano dell'età precedente. Questo perché la società degli agricoltori e dei pastori produce più di quanto serva per il puro sostentamento.

La svolta neolitica avviene per la prima volta nella cosiddetta mezzaluna fertile, un area del vicino oriente che è stata anche la culla delle civiltà, come vedremo. La stessa svolta avvenne in altre parti del mondo in modo del tutto indipendente. In particolare, culture neolitiche autonome sono quella cinese e quelle americane (mesoamericana e andina). Lo sviluppo delle idee assume un andamento che, se pure appare lento in confronto a quello vertiginoso di oggi, è tuttavia rapidissimo rispetto a quanto avveniva nel paleolitico. Per dirla con Toynbee, l'inversione tra la velocità di innovazione e quella di diffusione crea le culture locali: le prime comunità neolitiche sono isole in un oceano ancora paleolitico, ciascuna con caratteristiche del tutto proprie. Tuttavia, i vantaggi del nuovo stile di vita sono talmente evidenti, che sia pure con lentezza la novità si diffonde.

Questo cambiamento ha enormi conseguenze. La società paleolitica era certamente strutturata, almeno in qualche misura. Difficilmente gli anziani (che non erano molti, perché la vita media era breve) partecipavano alla caccia. Sicuramente le donne dedicavano molto del loro tempo a curare i bambini. Si trattava, però, di una strutturazione naturale, poco caratterizzata. Gli uomini erano una comunità di uguali, perché non avevano nozioni tecniche specifiche da spartire. Con il neolitico inizia l'età della specializzazione, dunque l'età della divisione del lavoro. Nascono i mestieri (contadino, pastore, vasaio, più tardi fabbro...), nascono i ricchi e i poveri, i re e i sudditi. Si è messo in moto un meccanismo che non può essere arrestato, che lo stesso Toynbee ci descrive come il progressivo apprendimento di ciò che permette alla specie di controllare (e quindi dominare) la natura. Da questo momento in poi, i passaggi sono inevitabili e continui.

Confronto tra le durate del paleolitico e del neolitico

La storia potrebbe essere considerata come il racconto della conquista da parte dell'uomo degli strumenti necessari al contro della natura. E' un punto di vista parziale, che non voglio presentare come l'unico e neppure come il migliore possibile; tuttavia è un punto di vista interessante, che vale la pena di esplorare.

La posizione dell'uomo paleolitico appare sbilanciata; le possibilità di dominio razionale del mondo da parte degli esseri umani, che sono già uom 151b14b ini in senso moderno, è di gran lunga superiore agli strumenti reali di dominio di cui essi dispongono, condannati come sono a dipendere passivamente dal mondo che li circonda. Il salto di qualità neolitico è prima di tutto passo in avanti nel senso del controllo dell'ambiente: l'uomo si avvicina a realizzare le sue potenzialità. Gli uomini moderni sono portati a considerare con disprezzo la cultura paleolitica. Per fare un esempio, considerando le nostre origini Giovanni Battista Vico parlava del "bestione tutto senso e stupore". Questo modo di vedere le cose è del tutto ingiusto. Le culture moderne che hanno preservato alcuni dei tratti caratteristici dell'uomo cacciatore-raccoglitore hanno riservato notevoli sorprese agli antropologi. La cultura boscimane, o quella delle tribù amazzoniche, rivelano una conoscenza della natura di gran lunga superiore alla nostra. Tra le popolazioni che noi definiamo "primitive" è diffusa una capacità di percepire il mondo che la nostra cultura di plastica ha dimenticato del tutto.

Il nostro senso di superiorità, tuttavia, se non può essere giustificato dal punto di vista morale, ha tuttavia una giustificazione se lo consideriamo alla luce degli strumenti di controllo dell'ambiente: su questo piano la nostra superiorità culturale è evidente.

Esiste una dinamica precisa tra necessità e creatività, che rappresenta uno degli elementi caratteristici degli sviluppi complessi di cui abbiamo parlato. L'uomo paleolitico ha scoperto con gradualità come fosse possibile modificare la natura a proprio vantaggio. Nel corso di questa scoperta, ha creato nuovi strumenti di controllo. Questi strumenti rispondevano a esigenze precise (non essere più in balia della natura), e nello stesso tempo creavano nuove esigenze, la prima delle quali era quella di controllare la nuova complessità della società umana. Una cultura fortemente stratificata crea dipendenze reciproche tra gruppi di persone. Il contadino è in grado di coltivare l'uva, di farne vino, ma poi ha bisogno di un artigiano che gli fabbrichi i vasi per contenerlo. Il villaggio, per sopravvivere, dipende dai mestieri e dalla loro corretta trasmissione. La nuova società richiede meccanismi regolativi, dunque individui (o gruppi di individui) che siano preposti a definire le regole sociali e a garantirne il rispetto. In sostanza, la scoperta di nuovi strumenti genera nuove necessità, che a loro volta generano l'esigenza di nuovi strumenti. E' un tipico esempio di meccanismo di feed-back. Anche l''invenzione della scrittura è avvenuta nella storia umana esattamente quando doveva avvenire: quando, cioè, la complessità della società neolitica ha richiesto un salto di qualità negli strumenti di controllo sulla società stessa, pena la sua ingovernabilità.

La nascita della scrittura

La scrittura deve essere considerata il primo medium inventato dall'uomo. Essa garantiva la diffusione della comunicazione e insieme la possibilità di una memoria storica, collettiva che, come abbiamo notato, è una delle funzioni dei media.

Si tratta di uno sviluppo complesso, con caratteristiche tecniche non banali, al punto che quest'invenzione non si è verificata in modo del tutto autonomo più di cinque volte nella storia umana. Gli inventori della scrittura sono stati solo i mesopotamici (intorno al tremila AC), gli egizi e gli abitanti della valle dell'Indo (più o meno nella stessa epoca), i cinesi e i Maya. Tutte le altre popolazioni hanno "reinventato" la scrittura, basandosi sull'esempio di popolazioni che la conoscevano già .

La scrittura nasce come mero espediente pratico. Louis Godart ha analizzato il processo avvenuto nell'antica Creta, per come esso è testimoniato dalla stratigrafia dei reperti archeologici[4]. Anche se non possediamo una documentazione analoga per i mesopotamici, è presumibile che lo sviluppo sia avvenuto in modo simile. I primi esempi sono sigilli impressi nell'argilla, che per lo più non veniva cotta (questo crea tra l'altro un problema di conservazione: in molti casi, le uniche tracce che rimangono di scrittura su argilla devono la loro sopravvivenza al caso fortuito di un incendio che, cocendole, le ha preservate nel tempo). Lo scopo dei sigilli era, con tutta probabilità, semplicemente quello di marcare il contenuto di vasi e recipienti. Malgrado la loro semplicità, i sigilli rappresentavano una barriera che, una volta saltata, comportava uno sviluppo molto rapido. Nei reperti mesopotamici si passa rapidamente dall'assenza totale di tracce scritte a una scrittura già formata, capace di esprimere concetti e idee.

Le prime scritture erano ideografiche (parzialmente ideografiche). Un ideogramma è un simbolo capace di descrivere da solo un intero concetto. Esempi di ideogrammi comunemente usati anche da noi sono:

Le cifre numeriche; il simbolo "1" si legge uno in italiano, one in inglese, un in francese, eccetera, ma il concetto a cui rimanda è del tutto universale, e non dipende dalla lingua.

I segnali stradali; ad esempio il segnale di divieto di sosta rimanda al concetto che, in quel luogo, è vietato parcheggiare; esso è decifrabile con la stessa facilità da un bulgaro e da un finlandese.

I simboli usati nelle chat e a volte nelle e-mail (detti smiley, o emoticon) per indicare stati d'animo ecc. come: :-), :-(.

L'uso degli ideogrammi comporta vantaggi e svantaggi. Il vantaggio principale sta nella loro universalità. Ad esempio, la scrittura cuneiforme inventata nella Mesopotamia del 3000 AC riuscì, nei due millenni successivi, a veicolare lingue diversissime tra loro, come il sumerico, l'accadico e l'ittita[5].

Lo svantaggio principale sta nel numero di simboli diversi di cui una scrittura ideografica deve poter disporre. La scrittura, che oggi viene insegnata ai bambini delle elementari, presso gli egizi era un mestiere che richiedeva anni di addestramento.

Un diffuso luogo comune consiste nel ritenere che le scritture mesopotamica o egizia fossero ideografiche e basta. Se si prova a immaginare una scrittura completamente ideografica, ci si accorge rapidamente che essa non è possibile. Ci servirebbe, tanto per dirne una, un simbolo diverso per denotare ciascun abitante del pianeta (come distinguo Mario da Luigi?). In realtà queste scritture mescolavano segni ideografici e segni fonetici, un po' come fa la scrittura cinese contemporanea[6].

Una scrittura fonetica adotta i simboli necessari per trascrivere i suoni della lingua che deve veicolare. Questa operazione comporta una perdita di universalità (la parola "tre" è incomprensibile a un finlandese che non sappia l'italiano, mentre il simbolo "3" gli è perfettamente chiaro), a vantaggio di una semplificazione enorme. Storicamente sono stati adottati due diversi stili di scrittura fonetica:

La scrittura sillabica, in cui ogni segno rappresenta una sillaba diversa. Questo tipo di scrittura venne adottato nell'antica Creta, circa 2000 anni prima di Cristo, per veicolare la lingua (tuttora ignota) del popolo minoico, e venne ripreso dai micenei per veicolare la loro lingua, che era una variante arcaica del greco.

La scrittura alfabetica, in cui ogni segno rappresenta un suono elementare. I suoni distinti che possono essere emessi dal nostro apparato vocale sono pochi (qualche decina); la scrittura alfabetica rappresenta quindi quella più semplice possibile, se intendiamo il numero di simboli come una misura di semplicità.

La prima scrittura alfabetica fu inventata dai fenici, per esigenze strettamente pratiche legate al commercio. Essa venne ripresa dagli Elleni all'alba della loro civiltà (circa 800 AC). Gli Elleni furono costretti a effettuare qualche modifica: i fenici parlavano una lingua semitica, e per le loro esigenze erano sufficienti i simboli necessari per scrivere le consonanti: dobbiamo agli Elleni l'invenzione delle vocali.

Lo stesso stile di scrittura fu adottato dalle popolazioni italiche, come gli etruschi e i romani. Questi ultimi utilizzarono un alfabeto ricavato direttamente da quello ellenico. La conquista del mondo antico operata dai romani trasformò l'alfabeto latino nel principale veicolo di scrittura usato in occidente. A parte le lingue orientali, la scrittura alfabetica latina (con l'aggiunta delle minuscole, che furono introdotte nel Medio Evo) è oggi la più utilizzata in tutto il mondo occidentale, con l'eccezione della Grecia, che usa ancora l'alfabeto degli antichi Elleni (con poche modifiche), e della Russia (con qualche appendice ortodossa, come la Bulgaria) che usa il cirillico, un alfabeto inventato in età medievale per le specifiche esigenze di una lingua slava.

Arnold Toynbee è stato uno dei pochi che abbiano osato affrontare un'operazione che, anche se non lo dicono, sarebbe il sogno di ogni storico: individuare le leggi della storia, o per lo meno le costanti che appaiono manifestarsi nello sviluppo delle civiltà[7]. Il tentativo di Toynbee è stato molto criticato; personalmente, ritengo che sia stato per certi versi prematuro. La storia umana è il racconto dello sviluppo del più complesso di tutti i sistemi complessi a noi noti. Nessuna scienza di oggi può dire di saper raccontare la complessità: come nasce veramente, come si sviluppa, come si può prevederne le caratteristiche. Forse, tra mille anni le leggi base dei sistemi complessi saranno note agli uomini, e si potrà pensare di costruire una scienza della storia.

Toynbee, tuttavia, è un grande storico; la sua gigantesca cultura gli permette di fare esempi cha spaziano dalla storia della Cina del primo millennio AC fino a quella delle popolazioni mesoamericane. Il suo giudizio è sempre interessante, e spesso istruttivo.

Un aspetto che Toynbee ha messo in evidenza, è il fatto che le primissime civiltà si sono sviluppate intorno a grandi fiumi: il Tigri e l'Eufrate nel caso della cultura mesopotamica, il Nilo per quella egizia, l'Indo, il fiume Giallo in Cina. Non è tanto importante l'esattezza assoluta di questa affermazione (ad esempio, non mi risulta che il fiume sia un elemento territoriale così importante nel caso delle prime culture andine). Tuttavia, l'argomento di Toynbee merita di essere riportato. Secondo questo storico, il problema non è solo nella possibilità, garantita dal fiume, di spostare in modo rapido ed efficiente uomini, animali, materie prime e manufatti. Il fiume rappresenta una sfida; una grande opportunità che, per essere sfruttata, impone un salto di qualità tanto tecnologico quanto organizzativo.

Le civiltà mesopotamica ed egizia, da questo punto di vista, rappresentano esempi paralleli. In entrambi i casi, il fiume costituiva, in potenza, un elemento benefico d'immensa portata. Tuttavia le alluvioni periodiche che avvenivano al di fuori del controllo dell'uomo erano gravemente dannose. La regione del Tigri e dell'Eufrate era un acquitrino incoltivabile; la piena del Nilo si limitava a rendere inutilizzabili i campi per tutta la sua durata. Mesopotamici ed egizi vennero a capo del problema con uno sforzo d'ingegneria che ha del miracoloso, se si pensa all'epoca estremamente arcaica in cui avvenne. Entrambe queste popolazioni costruirono reti di canali che permettevano di imbrigliare la forza del fiume, trasformando un evento dannoso (la piena) in uno strumento fondamentale per l'irrigazione dei territori aridi in cui vivevano. Quello che Toynbee fa notare, è che lo sforzo tecnologico doveva per forza essere supportato da un salto di qualità organizzativo. La costruzione, ma anche la manutenzione, dei canali richiedevano un autorità centrale riconosciuta che si fondasse non sul fascino mistico dello stregone, ma su precise nozioni tecniche. Il controllo dei fiumi poteva quindi avvenire solo in presenza di un organizzazione pubblica che, in qualche forma, fosse già moderna.

Il libro nell'antichità e nel medioevo

Il libro nell'età pre-ellenica

Il libro è racconto, evocazione d'immagini, ricordo, ma anche fonte di conoscenza organizzata, a volte perfino guida spirituale. Intendiamo parlare del libro nella sua accezione più vasta, dalla novella di poche pagine all'Enciclopedia Britannica, da quello scritto sulla roccia a quello in formato elettronico che potete scaricare da Internet. Eppure agli uomini occorsero secoli per rendersi conto del potere immenso della scrittura, quello che le permetteva di tradursi in libro.

Il primo esempio noto di "libro" è la saga mesopotamica di Gilgamesh. I più antichi frammenti che ci rimangono di questo racconto risalgono al terzo millennio AC, anche se la saga, nella sua redazione finale, è babilonese (dodicesimo secolo AC)[8].

Dall'invenzione della scrittura alla scoperta che la scrittura stessa può veicolare il racconto passano quindi circa cinquecento anni. Prima di questo periodo, a meno che le tracce che ci rimangono siano molto lacunose, la scrittura sembra essere usata prevalentemente come espediente pratico, per classificare e inventariare beni.

Un esempio interessante è quello della scrittura nell'area egea. I reperti archeologici hanno messo in evidenza una cultura neolitica molto avanzata diffusa nell'area dell'Egeo (Creta, Santorini), detta cultura Cicladica. Questa cultura è la premessa naturale della cultura minoica, che esplode nell'isola di Creta alla fine del terzo millennio AC.

E' la cultura dei palazzi, che con la loro complessa topografia sembrano ricordare il Labirinto di Teseo. E' anche una delle prime culture che adottarono una scrittura sillabica, la cosiddetta Lineare A. Sappiamo per certo che la Lineare A è sillabica, per via del numero dei simboli che vi compaiono (troppo pochi per una scrittura ideografica, troppi per una alfabetica), ma non sappiamo altro: né come si leggessero i simboli, né che lingua veicolassero. La meravigliosa civiltà del Principe dei gigli, per ora, è muta.

Il cosiddetto "disco di Festos": un esempio di scrittura sillabica cretese

L'influsso culturale minoico si estese alla Grecia continentale, dove a partire dal 1.700 AC cominciano ad apparire palazzi in stile cretese. Anche nel continente s'inizia a scrivere, con una scrittura mutuata da quella cretese a cui è stato dato il nome di Lineare B. Nasce la cosiddetta civiltà micenea.

La scoperta del mondo minoico - miceneo è particolarmente affascinante. Alla fine dell'800 si sapeva che la scena dell'Iliade e l'Odissea era ambientata in un'epoca pre-ellenica, collocabile intorno al 1200 AC. Si sapeva anche che dall'epoca dei fatti raccontati nell'Iliade la Grecia aveva attraversato un periodo buio, detto medioevo ellenico, destinato a finire intorno all'800 AC con l'esplosione di una nuova civiltà, quella detta appunto ellenica. L'Iliade e l'Odissea sono le prime testimonianze scritte di questa civiltà, che si esprimeva in greco e utilizzava una scrittura fonetica sua propria, ancorché desunta da quella fenicia. I "fatti" dell'Iliade erano considerati quasi da tutti leggenda, pura elaborazione fantastica. Non era così per un ricco archeologo dilettante, Heinrich Schliemann (1822 - 1890). Tra il 1868 e il 1890 egli organizzò una serie di spedizioni in Turchia, mosso dalla convinzione che il racconto omerico contenesse riferimenti esatti alla geografia della città di Troia. Con immenso stupore del mondo, Schliemann fu in grado di annunciare la scoperta del sito archeologico della città di Priamo. Usando la stessa tecnica, egli fu anche in grado di rinvenire i resti della città omerica di Micene (la capitale del mondo miceneo). I suoi epigoni completarono la sua opera; ad esempio, il sito archeologico di Pilo fu scoperto grazie a una lettura attenta dei primi quattro libri dell'Odissea.

 

L'affresco minoico detto "il principe dei gigli"

La Lineare B venne decifrata nel 1956 da Michael Ventris, che fece l'audace supposizione che la lingua veicolata fosse il greco. Questa scoperta mise finalmente gli studiosi nella condizione di "far parlare" quella meravigliosa cultura. Con grande disappunto, tuttavia, essi dovettero rendersi conto che le tavolette scritte in lineare B non riportavano che elenchi di beni, di armi, di truppe. La cultura che aveva inventato Achille e Odisseo, Paride e Elena, non ha mai trascritto quelle storie, limitandosi a un uso della scrittura degno di un ragioniere.

I micenei usavano tavolette d'argilla per scrivere, e non le cocevano. Le tavolette che ci rimangono sono quelle che si sono cotte negli incendi delle città, quando la civiltà micenea venne travolta dai barbari Dori e dovette soccombere. Questa considerazione è stata fatta da Palmer, un grande studioso dell'antichità minoico-micenea[9]. A parte la sua drammaticità, si potrebbe dire che forse, nelle ultime ore di Micene o di Pilo, non c'era tempo per scrivere storie, ma solo quello di diramare ordini per la difesa. Forse anche i micenei hanno scritto di racconti, che si sono persi per sempre con lo sgretolarsi dell'argilla cruda.

Naturalmente possiamo fare la supposizione che gli eroi omerici siano stati un'invenzione della più tarda civiltà ellenica. Anche se non abbiamo prove dirette, tuttavia, è improbabile che sia così. L'Odissea ci descrive le corti dei signori micenei. In tali corti, le gesta degli eroi erano raccontate da poeti girovaghi, gli aedi. Perché i poemi omerici dovrebbero essere così precisi da permetterci di ritrovare i siti di Troia, di Micene, di Pilo, e inventare di sana pianta un particolare fondamentale come l'esistenza degli aedi? E' assai più probabile, invece, che il racconto degli eroi micenei si sia tramandato proprio grazie a questi poeti girovaghi, e sia stato scritto non appena la nuova cultura ellenica fu in grado di farlo. Omero non sarebbe quindi un poeta, ma mille generazioni di poeti itineranti, un intera cultura finalmente in grado di lasciare una traccia permanente.

Il libro nell'antica Grecia e nell'età ellenistica

Il passaggio dalle scritture ideografiche a quelle fonetiche, fino alla scrittura alfabetica fenicia e poi greca, è caratterizzato dalla progressiva semplificazione del mezzo. La scrittura ideografica richiede, come abbiamo visto, l'uso di migliaia di simboli. Si tratta quindi di un'attività altamente specialistica, che richiede anni di esercizio per essere padroneggiata. E' evidente che l'accesso ai testi scritti, per le culture che ne fecero uso, dovette essere fortemente limitato. La maggior parte della popolazione dell'antico Egitto o della Mesopotamia non disponeva dei mezzi culturali per accedere alle conoscenze trasmesse sui papiri o sulle tavolette d'argilla. La scrittura alfabetica, al contrario, è estremamente semplice. L'italiano, ad esempio, usa solo ventuno simboli alfabetici diversi. La semplificazione del mezzo comporta un salto di qualità potenziale nell'alfabetizzazione, salto che si realizzò per la prima volta nella Grecia classica. Questo comportava inevitabilmente una proliferazione di generi, oltre che di scrittori e di lettori.

Lo sviluppo del libro nella civiltà ellenica fu ampio quanto gli interessi poliedrici di quella cultura. Oltre che essere i padri della filosofia e della matematica in senso moderno, oltre ad averci tramandato opere d'arte che ci stupiscono per la loro perfezione, gli Elleni hanno di fatto inventato tutti i principali generi del libro, quelli con cui ci confrontiamo ancora oggi.

Nel teatro, la tragedia (Eschilo, Sofocle, Euripide) e la commedia (Aristofane). Malgrado che a noi appaia estremamente colto e raffinato, il teatro greco era un genere popolare, e le rappresentazioni erano seguite dall'intera cittadinanza.

La poesia, sia quella epica (Omero), sia quella lirica (Alceo, Saffo, ...).

Il romanzo, anche se non con la potenza espressiva che ci potremmo aspettare (Luciano di Samosata).

Il saggio storico, di cui Tucidide fu maestro e modello per secoli.

Il saggio filosofico (i dialoghi di Platone sono un esempio di grande letteratura, oltre che di grande filosofia).

Il saggio scientifico (si pensi, ad esempio, agli Elementi di Euclide, che rimasero invariati come libro di testo adottato dalle scuole fino a tutto il XIX secolo).

La cultura ellenica riuscì a influenzare un'area vastissima del mondo. Le conquiste di Alessandro Magno portarono la zona di influenza ellenica fino ai confini dell'India. A occidente, il mondo romano non tardò a ellenizzarsi, cioè a fare propri gli atteggiamenti culturali tipici del mondo ellenico. La cultura romana dell'età imperiale è ellenistica, sia nelle arti figurative che nella filosofia e nella letteratura. L'Eneide del poeta latino Virgilio ricalca lo schema epico dell'Iliade e dell'Odissea; poeti come Catullo si ispirarono ai lirici greci; gli autori di teatro latini Plauto e Terenzio furono enormemente influenzati dai loro omologhi ellenici.

Il libro nell'età medievale

Dopo la conversione ufficiale dell'impero romano il libro per eccellenza cominciò a diventare la Bibbia ebraica, corredata dal Nuovo Testamento. La cultura cristiana rappresenta l'elemento di continuità che attraversa la frattura dovuta alle invasioni barbariche. Se tali invasioni segnarono il crollo dell'impero d'Occidente, non furono tuttavia in grado di annientare la cultura preesistente come l'invasione dei Dori aveva cancellato la cultura micenea. La tradizione ellenica venne in gran parte preservata, grazie all'influenza che essa ebbe sulla cultura araba e sulla cultura bizantina, e grazie all'opera dei conventi benedettini, dove i frati amanuensi si dedicarono all'oscuro e fondamentale lavoro di copiare (e quindi salvare) i prodotti di quella meravigliosa civiltà.

In un'Europa devastata dalle invasioni barbariche, i conventi erano isole di tranquillità (almeno in parte), protetti com'erano dal terrore dell'ira di Dio e dalla loro missione, manifestamente pacifica. I monaci amanuensi passavano la loro esistenza a copiare testi antichi, secondo il precetto della regola benedettina: ora et labora. L'alto medioevo europeo ci ha lasciato tracce magnifiche della sua cultura sotto forma di chiese e di sculture, ma da altri punti di vista è un epoca di involuzione. Ci sono, naturalmente, delle eccezioni:. Sant'Agostino, ad esempio, è un grande filosofo e un grande letterato. L'esplosione culturale avviene in Europa dopo l'anno mille, e nel giro di qualche secolo porta al trionfo rigoglioso di una nuova civiltà: la cristianità occidentale, cioè la cultura da cui noi stessi deriviamo.

Il libro ha bisogno di un supporto fisico per essere letto e diffuso. A meno che, naturalmente, non consideriamo "libro" anche i racconti degli aedi micenei. I primi esempi di scrittura sono su tavolette d'argilla, come si è detto. L'argilla si prestava bene a essere graffita, con strumenti di pietra o d'osso. Gli antichi scribi dovevano tenerla bagnata perché non si seccasse, e probabilmente raschiavano la superficie delle tavole per renderle riutilizzabili più volte. In quasi tutte le culture antiche non c'è traccia di una volontà forte di preservare nei secoli il testo scritto; fanno eccezione gli egizi.

La civiltà egizia fu ossessionata dal problema della morte. Basta pensare alla cura con cui faraoni e dignitari venivano mummificati, prima di essere chiusi nelle loro tombe. Per gli egizi la preservazione del corpo di un uomo era la garanzia della sopravvivenza della sua anima. Naturale, quindi, che la civiltà egizia si affidasse a supporti più duraturi anche quando scriveva. La scrittura egizia ci è stata tramandata sulle pareti affrescate delle tombe, su pietra (ad esempio, la cosiddetta Stele di Rosetta), su papiro.

Il papiro è una pianta molto diffusa in Egitto; da essa si ricavano fogli adattissimi a fare le veci della nostra carta. E' robusto e resistente, al punto che le scritture egizie su papiro hanno attraversato i millenni, per arrivare fino a noi.

Le tappe dell'innovazione, per quanto riguarda i supporti fisici della scrittura, sono state molto lente. Una novità importante fu la pergamena, che sembra sia stata prodotta per la prima volta nel II secolo a.C. Per produrla, si usava pelle di pecora o di altri animali opportunamente trattata. A differenza del papiro, tuttavia, essa permetteva di essere impaginata in volumi; il papiro infatti veniva tipicamente tagliato in lunghe strisce che poi venivano arrotolate. E' chiaro che la comodità di lettura era enormemente minore, al punto che già nel tardo impero romano il papiro era scomparso in occidente. Reviel e William ne Il codice perduto di Archimede fanno notare che praticamente tutte le opere antiche di cui ci sono stati tramandati i manoscritti sono state copiate su pergamena in qualche epoca dell'antichità . Gli originali su papiro sono persi per sempre.

La carta è un'invenzione medievale. Veniva prodotta a partire dal legno, che era fatto marcire in vasche d'acqua.

La cultura europea prese per secoli a modello quella ellenistica. Malgrado la tendenza diffusa a vedere nei modelli antichi dei paradigmi insuperabili (ad esempio, da Tommaso D'Acquino in poi il pensiero di Aristotele divenne dogma di fede), esistono tuttavia da subito dei tratti caratteristici inconfondibili che fanno della cultura occidentale qualcosa di diverso dal suo modello ellenico. In primo luogo, si potrebbe dire, un'attenzione alla realizzazione pratica che era sconosciuta ai maestri Elleni.

La matematica ellenica era quasi un ramo della filosofia (per Pitagora, addirittura della religione). Gli Elleni si disinteressarono largamente degli utilizzi pratici della loro scienza (con qualche eccezione, naturalmente; si pensi ad esempio agli specchi ustori con cui il matematico Archimede, secondo la leggenda, incendiò le navi romane). L'occidente mostra subito un interesse notevole per le macchine, e in generale per tutte le conseguenze pratiche, utilizzabili del sapere. Un antico greco avrebbe considerato riprovevole questo atteggiamento.

La stampa a caratteri mobili

Lo sviluppo della tecnologia presenta una brusca accelerazione nel periodo rinascimentale. Leonardo da Vinci, ad esempio, dedica gran parte del suo tempo a studiare la fisica, a osservare la natura, a progettare e costruire macchine. E' in questo contesto di forte crescita delle caratteristiche peculiari della cultura occidentale che va inquadrata la prima vera novità nell'uso dei supporti alla scrittura: l'invenzione di Gutenberg della stampa a caratteri mobili.

Se si prescinde dal suo impatto sociale, questa invenzione non sembra essere così significativa. La tecnica della stampa era nota da millenni. Si sapeva, cioè, che era possibile riprodurre un'immagine in molte copie semplicemente stampandola. Gutenberg era un tipografo di Mainz. Il suo problema era semplicemente quello di risparmiare denaro. Non presentò mai la sua invenzione come un momento di svolta per l'umanità, e certamente non pensava affatto che fosse così.

Il libro scritto a mano era evidentemente un oggetto molto costoso. Quanto? proviamo a fare un calcolo approssimativo. E' ragionevole pensare che un amanuense esperto non potesse impiegare meno di un anno per trascrivere, ad esempio, la Divina Commedia di Dante. Non solo si tratta di un opera lunga, ma era pratica degli amanuensi corredare la scrittura con immagini, capitesto, miniature, tutte cose lunghe da realizzare anche per un veterano della scrittura. Per un anno, quindi, il nostro amanuense doveva essere vestito, alloggiato e nutrito a spese del convento che lo ospitava. Dal punto di vista professionale, e rispetto ai parametri dell'epoca, l'amanuense si trovava su un gradino medio della scala sociale. Era un tecnico (sapeva disegnare, e soprattutto scrivere, cosa rara all'epoca). In termini moderni, l'amanuense poteva equivalere a un dipendente di un'azienda che non guadagna meno di 1.500 euro al mese, incluse la tredicesima e la quattordicesima. Un dipendente così non costa alla sua azienda meno di 25.000 - 30.000 euro per un anno di lavoro. Questo è più o meno il valore base di un libro scritto a mano (e sono convinto di aver sottostimato la cifra). Se pensiamo all'endemica povertà di mezzi economici che caratterizzò l'intera Europa fino alla scoperta dell'America (tanto per dirne una, i re Merovingi di Francia si spostavano per il territorio portando con sé l'intero tesoro reale), dobbiamo concludere che per tutto il medioevo i libri furono oggetti rarissimi, disponibili solo nelle biblioteche dei conventi o presso sporadiche collezioni private.

Il mondo moderno: l'età delle rivoluzioni

La fine del principio di autorità

L'età moderna (1492 - 1789) potrebbe essere definita a buon diritto l'era delle rivoluzioni. Non intendo qui parlare (solo) di rivoluzioni politiche. Ad esempio, lo storico Hobsbawm definisce "età delle rivoluzioni" il periodo dal 1789 (anno della "prima" rivoluzione francese) al 1848; è chiaro che il suo interesse è principalmente rivolto ai sommovimenti storici e politici che agitarono quel periodo. Qui invece intendo parlare di rivoluzioni del pensiero. Nei trecento anni circa dell'età moderna ne avvennero quattro, che nel loro complesso modificarono completamente lo stato del mondo occidentale, e si può dire dell'intera umanità. Esse furono, nell'ordine:

La rivoluzione religiosa che avvenne in Europa dopo l'affissione delle tesi di Wittenberg da parte di Martin Lutero nel 1517.

La rivoluzione scientifica, che prende le mosse dal dibattito astronomico tra i sistemi eliocentrico e geocentrico (quelli che Galileo chiamò i massimi sistemi); la data di inizio di tale rivoluzione potrebbe essere considerata l'anno di pubblicazione del libro di Copernico De revolutionibus orbium celestium che è il 1543.

La rivoluzione industriale; qui non c'è un vero e proprio anno di inizio, dato che si trattò di un progresso continuo verso forme organizzative della società profondamente diverse da quelle dominanti fino all'epoca in cui avvenne; volendo stabilire una data si potrebbe fissare il 1779, l'anno in cui James Watt brevettò la prima macchina a vapore realmente funzionante.

La rivoluzione politica, che esplose in Europa con la presa della Bastiglia a Parigi nel 1789, e che ha i suoi prodromi nella rivoluzione inglese del 1642 - 1660.

C'è un filo conduttore che lega queste quattro rivoluzioni? A mio parere sì, e consiste prima di tutto nell'abolizione del principio di autorità. Con questo termine si intende di solito il principio metodologico dominante nei dibattiti filosofici e scientifici fino a tutto il '500, secondo cui le controversie potevano essere risolte ricorrendo all'autorità di qualche grande pensatore del passato. Dall'epoca di Tommaso d'Aquino (1225 - 1274) il "grande dei grandi" era il filosofo greco Aristotele. La fiducia nel potere assoluto dell'autorità (in campo politico, ma anche in campo filosofico e scientifico) portava inevitabilmente a un mondo statico. E' tipico delle "autorità" filosofiche interrompere l'evoluzione del proprio pensiero nel momento in cui muoiono. Anche Aristotele non faceva eccezione. Ricorrere quindi all'autorità di Aristotele poteva significare quindi a) rinunciare a interpretare qualsiasi aspetto nuovo del mondo, oppure b) ritenere che ogni possibile aspetto del mondo fosse stato esaminato, capito, "risolto" dal grande filosofo greco. In questo senso, naturalmente, è la rivoluzione scientifica quella che dà la vera "spallata" al principio di autorità: semplicemente dimostrando false le conclusioni in materia astronomica a cui era giunto lo stagirita. Un'altra caratteristica delle "autorità" è che nel momento in cui vengono messe in discussione anche su un unico punto, smettono di essere "autorità". Così avvenne di Aristotele, ma anche del Papa (dopo la rivoluzione avviata da Lutero), dei re (dopo la decapitazione di Carlo I durante la rivoluzione inglese), delle classi dominanti medievali (dall'ascesa della borghesia industriale).

C'è un altro aspetto che lega le quattro rivoluzioni di cui sto parlando: esse non sarebbero state possibili le une senza le altre. La rivoluzione industriale è figlia delle esigenze economiche dell'Inghilterra della fine del '600, ma anche dello sviluppo tecnologico che a sua volta è figlio della rivoluzione scientifica. La rivoluzione politica non sarebbe probabilmente avvenuta senza il dinamismo sociale delle nuove classi che emersero dalla rivoluzione industriale. La rivoluzione scientifica stessa avrebbe certamente avuto caratteristiche diverse se non avesse trovato la fiera opposizione della chiesa (cattolica) dell'epoca, ferita dalla rivoluzione luterana. Progresso scientifico e innovazione tecnologica sono così fittamente intrecciati tra loro, che è difficile immaginare che sviluppi avrebbe avuto l'impresa scientifica se non fosse stata accompagnata da un interesse gigantesco dell'intera società moderna (soprattutto dall'inizio del XVIII secolo) verso le sue ricadute tecnologiche.

Un terzo aspetto rilevante che fa da sottofondo alle rivoluzioni moderne è il libro, sempre più diffuso, sempre più letto. I grandi artefici delle rivoluzioni moderne, da Copernico a Newton, da Giordano Bruno a Voltaire, affidano le loro riflessioni al libro a stampa, certi del fatto che tale veicolo permetterà loro di raggiungere altre menti, di suscitare nuove riflessioni. Il libro è il medium per eccellenza di questo periodo; va detto, tuttavia, che nel XVII secolo cominciano a fare la loro apparizione anche le riviste, per lo più diffuse in circoli ristretti di intellettuali. Lo Spectator di Addison, uscito negli anni 1711 - 1712, è considerato la prima rivista in senso moderno. In Italia la prima rivista degna di questo nome è probabilmente la Gazzetta Veneta di Gasparo Gozzi, che uscì con cadenza bisettimanale nel 1760 - 1761. Anche se non esisteva una vera e propria redazione (l'autore scrisse personalmente tutti gli articoli), i temi trattati erano comunque simili a quelli delle riviste di oggi: cronaca, recensioni teatrali, commenti a fatti rilevanti ecc. Mancava del tutto invece l'aspetto iconografico: per arrivare al concetto di multimedialità occorre aspettare fino ai giorni nostri.

La rivoluzione religiosa

L'aspetto economico della rivoluzione di Gutenberg è importante, ma certamente non sufficiente a sottolineare nel modo dovuto l'importanza dello sviluppo che si ebbe in Germania tra la fine del quattrocento e l'inizio del cinquecento. Questo sviluppo è legato alla figura storica di Martin Lutero e alla riforma protestante. Si potrebbe dire che dall'incontro tra la posizione luterana e la disponibilità del mezzo tecnico (stampa a caratteri mobili) nasce la scintilla rivoluzionaria destinata a generare l'Europa moderna.

E' bene forse ricapitolare i fatti, almeno per sommi capi[11]. Nel 1516 il principe tedesco Albert di Hohenzollern, discendente della casa degli elettori di Brandeburgo, si dedica a collezionare cariche ecclesiastiche: arcivescovo di Magdeburgo, vescovo di Halberstadt, e arcivescovo di Mainz, carica che comportava lo stato prestigioso di elettore del Sacro Romano Impero. Le cariche ecclesiastiche erano conferite dalla Santa Sede. Nella logica di potere che dominava la chiesa del tempo, tali cariche potevano essere semplicemente comprate; nel caso di Albert di Hohenzollern, tuttavia, l'accumulo era tale da corrispondere a una somma enorme. Albert di Hohenzollern fu costretto a ricorrere a ingenti prestiti, soprattutto dalla banca dei Fugger che esigevano, ovviamente, la restituzione del capitale con i dovuti interessi. Per risolvere il problema, Albert di Hohenzollern trovò l'appoggio di un frate domenicano di nome Johann Tetzel. Più che un religioso, Tetzel potrebbe essere considerato un vero e proprio imbonitore. Girava per paesi e città della Germania, attirava l'attenzione della gente nelle piazze, "predicava" tuonando contro i peccati e alla fine garantiva l'assoluzione dai peccati stessi (indulgenza) purché la gente fosse disposta a pagare in denaro. Per capire come mai i buoni cittadini di Germania si lasciassero abbindolare in questo modo bisogna pensare al clima culturale dell'epoca. Il medioevo era forse finito in Italia, ma continuava a proiettare la sua ombra su tutta l'Europa centrale e settentrionale . Il popolo tedesco era essenzialmente composto da contadini analfabeti superstiziosi, terrorizzati dall'idea della morte e dalle fiamme dell'inferno. Personaggi come Tetzel avevano gioco facile. Gli imbonitori sono esistiti e continueranno ad esistere in tutte le epoche; il problema era l'appoggio diretto che Tetzel era in grado di ricevere dal potere del tempo (Hohenzollern) con l'avallo dell'autorità morale della Santa Sede. Se già era facile convincere i contadini tedeschi a pagare per salvarsi l'anima, con simili sponsor il dubbio non poteva neppure sfiorare la gente che si accalcava nelle piazze.

La predicazione di Tetzel e la vendita delle indulgenze furono la goccia che fece traboccare il vaso della pazienza di Martin Lutero. Nato nel 1483, all'epoca egli era un giovane dottore della chiesa e professore all'università di Wittenberg. Come sacerdote egli aveva modo di toccare con mano l'effetto disastroso di quanto stava accadendo, semplicemente constatando il calo sistematico dei fedeli che, avendo comprato l'assoluzione dai peccati, non sentivano più il bisogno di partecipare alle funzioni religiose e di confessarsi. Come teologo egli era convinto del potere della grazia, e del fatto che il ricorso alle fonti della fede (cioè alle scritture) fosse il vero veicolo per la salvezza delle anime. Nel 1517 egli affisse alla porta della chiesa del castello di Wittenberg le famose 95 tesi. Nella logica culturale del tempo, esse erano essenzialmente un invito alla discussione: il dotto e famoso professore di teologia sfidava i suoi pari sul terreno dottrinale, per dimostrare (tra l'altro) che la vendita delle indulgenze non poteva trovare giustificazioni nella filosofia del cristianesimo. Lutero non era affatto un rivoluzionario. Il suo intento non era quello di rovesciare l'ordine costituito, né tanto meno di mettere in discussione l'autorità del Papa, quanto quello di ribadire con forza quel punto che già troviamo in Dante:

"Che assolver non si può chi non si pente,

né pentere e volere insieme puossi

per la contraddizion che nol consente"[13].

Non è nostro compito addentrarci oltre nel discorso. Quello che vogliamo sottolineare è un aspetto particolare della dottrina luterana. L'idea del ricorso diretto alle fonti del pensiero cristiano porta con sé, quasi inevitabilmente, l'idea che ciascun uomo deve trovare prima di tutto in sé stesso la fonte e l'ispirazione del proprio comportamento morale: ogni uomo è sacerdote. Spero che il lettore si renda conto del potenziale rivoluzionario implicito in una simile affermazione, in un mondo dominato dagli Hohenzollern e dai Tetzel. Se ogni uomo è sacerdote i Tetzel non servono a niente, dunque non serve l'apparato economico (e quindi di potere) gestito dalla chiesa del tempo. Questo è l'elemento profondo di rottura con il passato e con l'autorità religiosa che porterà allo scisma, del tutto al di là delle intenzioni originali del suo autore.

Qui finalmente ci ricolleghiamo al discorso da cui siamo partiti. Come può ciascun uomo essere sacerdote e trarre ispirazione direttamente dalle scritture se non sa leggere, e se il libro è un oggetto rarissimo e costosissimo? L'invenzione di Gutenberg sembra essere il deus ex machina che risolve la situazione. Essa permette qualcosa che solo cinquant'anni prima sarebbe stata impensabile: la diffusione del libro. Lutero traduce la Bibbia in tedesco (già questa è una sfida all'autorità religiosa), la tipografia di Gutenberg si occupa di stamparla. Tra il 1517 e il 1520, le trenta pubblicazioni a stampa della Bibbia di Lutero avevano venduto più di 300.000 copie[14]. Sarebbe una cifra da best seller nel mondo di oggi.

Siamo di fronte a un nuovo episodio di risonanza tra innovazione tecnica, sviluppo sociale e crescita culturale. Le 300.000 copie della Bibbia luterana, in un'unica lingua, vendute in un paese di contadini analfabeti significano che le tesi di Wittenberg erano l'espressione colta, esplicita, del comune sentire della nazione tedesca; forse potremmo dire dell'intera Europa moderna che stava nascendo dall'autunno del Medioevo. Quelli che fino a pochi decenni prima erano una marmaglia di contadini ignoranti, sotto la tutela inflessibile dei nobili e del clero, si stavano trasformando in individui consapevoli.

Da questo momento in poi il libro e la sua diffusione diventano il sostrato dell'intero sviluppo culturale dell'occidente, cioè di quell'immensa rivoluzione dei costumi, del modo di pensare e degli atteggiamenti culturali di cui abbiamo parlato nell'introduzione di questo capitolo, che trasformerà il mondo lugubre della favola di Hansel e Gretel nel mondo che conosciamo oggi.

La rivoluzione scientifica

La rivoluzione scientifica prese le mosse dall'astronomia. Già i greci si erano posti il problema di costruire un modello coerente che desse ragione delle osservazioni astronomiche. Si noti che fino al 1609, anno in cui Galileo puntò per la prima volta il suo telescopio verso il cielo, si trattava in ogni caso di osservazioni a occhio nudo; gli unici strumenti disponibili assomigliavano a bastoni muniti di mirino, che permettevano misure relativamente precise degli angoli. Un diffuso luogo comune afferma che i greci affrontarono il problema in modo mistico, forse filosofico ma certamente non scientifico. Questa opinione è stata confutata dall'epistemologo Thomas Kuhn in un celebre saggio[15]. L'astronomia greca, come la fisica greca, furono scienze anche nel senso moderno. In particolare l'astronomia greca rispettava un principio generale di economia di ipotesi affine a quello che oggi è detto rasoio di Occam, secondo cui, ogni volta che si presentano più possibilità per spiegare un certo fenomeno, è bene scegliere la più semplice. Se proviamo a metterci nei panni di un astronomo greco, non c'è dubbio che l'ipotesi geocentrica fosse da preferire. Osservando il cielo a occhio nudo quello che ci appare sono le stelle (dette dai greci stelle fisse), che sembrano ruotare intorno a noi secondo un corso diurno approssimativamente di 24 ore. A parte poche, sporadiche eccezioni, le stelle fisse non manifestano nessuna tendenza a mutare: non modificano le loro posizioni relative, non cambiano luminosità . Oltre alle stelle ci appaiono alcuni corpi luminosi che sembrano attraversare la volta celeste con un moto lento ma regolare, proiettandosi di volta in volta su costellazioni diverse. Agli antichi erano noti il Sole, la Luna e i pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.

L'interpretazione più semplice di questo quadro osservativo, in assenza di "reali" conoscenze fisiche, è probabilmente quella che divenne dominante soprattutto grazie all'appoggio di Aristotele. Secondo questo filosofo esisteva una differenza intrinseca tra la materia terrestre, corruttibile e dominata dai moti lineari, e quella celeste, incorruttibile e dominata dal moto circolare. La cosmologia aristotelica si basava sul cosiddetto modello tolemaico. La Terra era al centro dell'Universo. Intorno al nostro pianeta ruotavano gli astri, legati a sfere concentriche di diametri crescenti (la sfera della Luna era la più interna, quella delle stelle fisse la più esterna).

Questo modello presenta enormi difficoltà "tecniche". La principale di tali difficoltà è legata al cosiddetto "moto retrogrado" dei pianeti. Il cammino apparente di un pianeta come Marte, ad esempio, rispetto al cielo delle stelle fisse si inverte periodicamente: cambia direzione. Per spiegare questo curioso evento, l'astronomia tolemaica fece ricorso a un sofisticato artificio. I pianeti si trovavano "incollati" a sfere, dette epicicli, che ruotavano in modo uniforme. I centri degli epicicli erano vincolati a sfere più grandi, dette deferenti, che a loro volta ruotavano in modo uniforme intorno al centro della Terra. I moti apparenti dei pianeti erano la combinazione dei due moti rotatori, e questo spiegava le loro anomalie[17].

Il modello tolemaico


Malgrado la sua complessità, il modello tolemaico sembrava ai greci più semplice di quello eliocentrico, che era stato in effetti proposto da vari filosofi naturalisti, il più famoso dei quali è probabilmente Aristarco di Samo. Il motivo è legato alla natura fisica dell'interazione tra il Sole e i pianeti, che all'epoca non solo era ignota, ma neppure immaginabile. Il modello tolemaico poteva giustificare l'esistenza delle sfere celesti (costituite da un cristallo del tutto infrangibile e in grado di muoversi senza alcun attrito) proprio postulando la differenza ontologica tra i cieli e la terra, che si rifletteva nella differenza delle leggi fisiche valide nei due ambiti. Viceversa, dal punto di vista del modello eliocentrico la Terra si comportava come un pianeta qualsiasi. Occorreva quindi abbandonare la distinzione tra materia celeste e materia terrestre e qui nascevano i problemi: perché il nostro mondo è dominato dal cambiamento rapido, dalla corruzione, dalla morte, mentre i cieli ci appaiono immutabili? Perché e come i pianeti ruotano invece di percorrere tratti rettilinei, come fanno tutte le cose sulla Terra? Queste domande (e altre ancora) apparivano così formidabili ai greci da far si che il principio del rasoio di Occam li spingesse verso il geocentrismo[18].

Come si è detto fu il filosofo e padre della chiesa Tommaso d'Aquino che introdusse l'aristotelismo nel corpus della dottrina cristiana. Ai tempi di Tommaso si trattava di un'operazione rivoluzionaria. L'Aquinate dovette combattere una dura lotta per imporre il suo punto di vista, che in effetti si basava sul principio della totale compatibilità tra fede e ragione. Tuttavia, non appena le idee aristoteliche presero posto nella teologia cristiana il famoso principio di autorità prese il sopravvento. L'idea divenne dogma, verità di fede, non dubitabile né contestabile neppure in presenza di evidenze contrarie.

Nel 1543 venne stampato a Norimberga un volume intitolato "De revolutionibus orbium celestium" ("Sulla rotazione delle sfere celesti"). Il libro apparve lo stesso anno della morte del suo autore, l'astronomo polacco Nikolaus Kopernik il cui nome venne presto latinizzato come Copernico. In questo famosissimo trattato venivano esposti i principi di un modello eliocentrico in cui i pianeti, Terra compresa, ruotavano intorno al Sole lungo orbite circolari. Era veramente un rivoluzionario, Copernico? Nell'introduzione al libro si fa presente che il modello era presentato "solo per semplificare i calcoli", ma non è chiaro se questa nota sia stata scritta dallo stesso Copernico, o dall'editore preoccupato di scatenare polemiche.

La questione era ancora essenzialmente filosofica, ma in realtà esisteva una maniera empirica per discriminare tra i due modelli. Se immaginiamo che la Terra sia al centro dell'universo, il pianeta Marte deve sempre essere più lontano da noi di quanto non sia il Sole; viceversa, nel modello eliocentrico le orbite della Terra e di Marte portano i due pianeti a distanze variabili, e in certi periodi Marte è più vicino a noi del Sole. Sarebbe bastato poter misurare le distanze dei pianeti per dirimere oggettivamente la questione.

La misura della distanza di Marte ossessionò, si può dire, un altro dei fondatori del pensiero scientifico moderno, e cioè l'astronomo danese Tycho Brahe. Brahe era un nobile, cosa assai strana alla sua epoca in cui si riteneva che l'astronomia non potesse rientrare tra le arti esercitate dalla nobiltà. Amico e consulente del re di Danimarca, si fece dare in feudo un'isola su cui costruì il palazzo di Uraniborg: un misto tra una reggia feudale, un'abitazione, un'università e un osservatorio astronomico. Inventò e costruì decine di apparecchi per la misura delle posizioni degli astri (stiamo ancora parlando di misure effettuate a occhio nudo). In effetti le misure effettuate da Tycho furono di gran lunga le più precise che mai fossero state ottenute. Divenne morbosamente geloso dei suoi dati astronomici dopo che parte di essi vennero trafugati da uno dei suoi allievi, che per giunta si vantò di essere l'autore di ciò a cui lo scienziato danese più teneva: un modello cosmologico che metteva insieme, per così dire, i vantaggi di quello eliocentrico e di quello geocentrico. Nel modello di Tycho, infatti, la Terra è al centro. Intorno ad essa ruotano il Sole e la Luna, mentre gli altri pianeti ruotano intorno al Sole. Il modello di Tycho dev'essere considerato con la dovuta serietà. Non si trattava infatti semplicemente di cambiare il punto di riferimento, ma di salvare la differenza ontologica tra i cieli e la Terra conservando la semplicità del modello copernicano. Il punto che giustifica l'ossessione del grande danese per le misure è tuttavia un altro. Anche nel modello di Tycho, infatti, Marte può trovarsi più vicino alla Terra di quanto non sia il Sole. Tycho tentò di misurare la cosiddetta parallasse diurna del pianeta, cioè la distanza angolare che separa i punti della volta celeste in cui Marte risulta proiettato all'alba e al tramonto. Questa misura, che gli avrebbe permesso di stimare la distanza di Marte, era tuttavia fuori della portata dei suoi precisissimi strumenti di misurazione a occhio nudo.

Nel 1599 Brahe venne in contatto con un giovane astronomo e matematico tedesco, Johannes Kepler (Keplero). Mistico, sognatore rivoluzionario, ma anche immenso talento scientifico, Keplero era alla caccia delle prove di un suo modello, in cui le orbite dei pianeti erano in corrispondenza con le note della scala musicale. Tra i due si stabilì un rapporto non sempre sereno, ma tuttavia estremamente fecondo. Intuendo di dover passare a qualcun altro il testimone della ricerca di tutta la sua vita, Tycho si convinse alfine ad affidare i suoi preziosi dati su Marte al giovane discepolo. Fu proprio studiando i dati di Brahe che Keplero fece la sua grande scoperta: l'orbita di Marte non è un cerchio, come aveva supposto Copernico, bensì un'ellisse. Apparentemente può sembrare una differenza del tutto marginale. Per comprenderne veramente la portata occorre calarsi nello spirito della discussione principale dell'epoca: quella sulla natura fisica della materia, e sulla differenza ontologica tra cielo e Terra. Il cerchio, infatti, era considerata una figura perfetta, degna della perfezione della materia celeste. L'ellisse è già una curva più problematica. Soprattutto, lo stesso Keplero si rese conto che un'orbita ellittica era compatibile con l'esistenza di una forza fisica semplice che agisse tra il Sole e Marte, purché l'intensità di tale forza diminuisse con l'inverso del quadrato della distanza tra i due corpi. Keplero non aveva modo di spingere più in là il ragionamento. In effetti, come è noto, la legge di gravitazione universale dovette aspettare Newton per essere enunciata in modo consistente. Tuttavia l'ipotesi che tra il Sole e i pianeti agissero forze fisiche ne risultò enormemente rafforzata.

Anche se il concetto è già stato chiarito più volte, vorrei ribadire ancora una volta come l'intero sviluppo del problema astronomico, fino alla scoperta di Keplero, è essenzialmente pragmatico e basato sull'economia di ipotesi. La presunta forza dipendente dall'inverso del quadrato della distanza è ancora del tutto chimerica. Gli scienziati dell'epoca si muovono con i "piedi di piombo". Fanno ipotesi, alcune delle quali strampalate (come quella delle note musicali), ma poi cercano evidenze sperimentali che le confermino o le smentiscano. Questo modo di procedere sarebbe piaciuto molto ad Aristotele e Aristarco di Samo, anche loro scienziati e pragmatici, ma piaceva assai meno alla Chiesa di Roma, già alle prese con l'immenso incendio della riforma, che si ritrovava ad avere a che fare con una frangia di accademici e astronomi impazziti che sembravano ignorare l'autorità dei padri fondatori del pensiero religioso. Prima della scoperta di Keplero l'ipotesi copernicana delle orbite circolari non permetteva, di fatto, previsioni migliori di quelle del modello tolemaico sulla posizione dei pianeti. Malgrado ciò, dal punto di vista della chiesa, il problema non era tecnico ma squisitamente religioso. Nei paesi non riformati filosofi e scienziati erano costretti a esprimersi con prudenza. Ad esempio Giordano Bruno da Nola, nato cinque anni dopo la pubblicazione del De revolutionibus, dichiaratamente copernicano, rifiutò di abiurare e finì la sua vita sul rogo nella piazza del Campo dei Fiori a Roma (1600).

Monumento a Giordano Bruno


Ma il rogo di Bruno non poteva cambiare l'indirizzo della storia. Il grande meccanismo si era messo in moto, e arrestarlo non era più possibile. Galileo Galilei (1564 - 1642) sostenne con vigore le posizioni eliocentriche. A Galileo si deve la svolta fondamentale che portò all'astronomia moderna. Nel 1609 venne a sapere che un ottico olandese aveva inventato un "occhiale meraviglioso" con cui era in grado di ingrandire l'immagine degli oggetti lontani. Si mise a pensare al problema e, senza mai aver visto l'apparecchio dell'olandese, reinventò il telescopio che ovviamente puntò subito verso il cielo. Il suo apparecchio gli permise di vedere cose strabilianti come gli anelli di Saturno, ma la massima sorpresa gli venne dall'osservazione del pianeta Giove. Questo astro, infatti, sembrava avere al seguito quattro luci invisibili a occhio nudo, allineate approssimativamente lungo il piano dell'eclittica. Osservando tali luci per mesi, si rese conto che si trattava senza possibilità di dubbio di satelliti di Giove. Egli li battezzò pianeti Medicei in onore del granduca di Toscana Cosimo II (forse anche per mettersi al riparo da possibili azioni del Sant'Uffizio; Cosimo infatti, potente signore, doveva sentirsi lusingato dal fatto che i nuovi astri fossero dedicati alla sua famiglia). Si trattava della scoperta di un sistema solare in miniatura, dunque di una conferma (sia pure indiretta) dell'ipotesi copernicana. La scoperta inoltre rendeva praticamente impossibile sostenere oltre l'ipotesi delle sfere celesti. In quanto pianeti, anche i satelliti di Giove sarebbero dovuti trovarsi su sfere; tuttavia tali sfere sarebbero inevitabilmente andate in frantumi nell'incrociare quella del pianeta principale. Galileo fu processato per eresia nel 1633, minacciato di tortura, costretto ad abiurare e confinato nella sua villa di Arcetri, dove rimase fino alla morte. Questo non gli impedì di pubblicare quello che forse è il suo libro più importante, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), in cui delinea le leggi del moto (tra cui il famoso principio d'inerzia). Il fatto che il libro sia stato pubblicato a Leida, in Olanda, dà la misura della situazione culturale dell'Italia di quel periodo.

Dopo Keplero e Galileo la fisica era ormai entrata in gioco. Come si è detto, non era possibile sostenere l'eliocentrismo senza porsi quel "formidabile problema" di fronte al quale perfino i greci si erano arenati: cose lega tra loro il Sole e i pianeti? A quell'epoca non era concepibile una forza che non agisse per contatto. In effetti il problema verrà chiarito solo nel XIX secolo, grazie soprattutto all'opera di Faraday. Dal punto di vista della fisica attuale, la "spiegazione" della forza gravitazionale dovrà attendere addirittura il 1916 e la teoria di Einstein della relatività generale. Un passo fondamentale, tuttavia, fu quello compiuto da Isaac Newton con la teoria della gravitazione universale. Nel suo libro Philosophiae Naturalis Principia Mathematica ("Sui principi matematici della filosofia della natura") del 1687, Newton riuscì a dimostrare che doveva esistere una forza universale che agisce tra due corpi per il solo fatto di possedere una massa. Egli calcolò che tale forza diminuisce in ragione inversa del quadrato della distanza tra i corpi, e da questo solo fatto fu in grado di dedurre la validità delle leggi di Keplero.


La rivoluzione industriale

Per certi versi non è un caso che Newton fosse inglese. L'Inghilterra del XVII secolo aveva dato prova del suo disinteresse per il principio di autorità decapitando il proprio re (Carlo I Stuart, 1649). La monarchia era stata restaurata, ma dalla rivoluzione di Cromwell in poi i sovrani britannici furono costretti a interpretare il proprio ruolo in senso moderno. Non più despoti e padroni assoluti del loro paese, ma in qualche modo statisti. Ancora pochi anni dopo la decapitazione di Carlo I, Luigi XIV in Francia poteva permettersi di affermare "Lo stato sono io" o anche "Dopo di me, il diluvio". Nessun re inglese avrebbe mai potuto pronunciare frasi del genere. L'attenzione della monarchia inglese per il rispetto della legge e per forme di governo che garantissero effettivamente prosperità alla nazione è evidente. Anche per questo motivo l'Inghilterra, che ancora all'epoca di Enrico VIII era uno stato ai margini della vita politica europea, crebbe di importanza per tutto il '600 fino a diventare la massima potenza marittima del mondo, oltre che la nazione più ricca e attiva d'Europa. Fu proprio l'Inghilterra la patria della rivoluzione industriale, che a partire dalla metà del '700 (circa) costituì, si può dire, il punto di arrivo dell'intero sviluppo dell'Europa moderna.

La rivoluzione scientifica precedette e in un certo senso indirizzò la rivoluzione industriale. Abbiamo già fatto notare la tendenza tipica della cultura occidentale al pragmatismo, una tendenza che non ha riscontro nella "cultura madre" ellenica. La storia dell'occidente è costellata d'innovazioni tecnologiche. Il ritmo dell'innovazione sembra tuttavia più o meno costante e regolare, finché non s'impenna all'inizio del '700. Le cause sono complesse; un'analisi approfondita del problema esula dagli scopi di questo testo. Vorrei tuttavia notare che, nella genesi della rivoluzione industriale, troviamo di nuovo traccia di quell'intreccio tra novità tecnologica, sviluppo delle idee e sviluppo sociale che abbiamo già notato più volte.

Dal punto di vista tecnico, l'inizio della rivoluzione industriale è legato al problema dello svuotamento delle miniere di carbone in Inghilterra. Nell'arco del XVII secolo, il carbone aveva largamente sostituito il legno come combustibile di base. Questo fatto era dovuto allo sviluppo economico imponente del paese; la richiesta crescente di combustibile (usato per il riscaldamento, ma anche per le manifatture) rischiava di spogliare le foreste inglesi.

Il carbone era una soluzione ottima, e le riserve erano abbondanti, tuttavia le miniere avevano la pessima abitudine di allagarsi, soprattutto se si trovavano in prossimità di falde acquifere. Il problema era così sentito, che nei trent'anni che precedettero la rivoluzione inglese un brevetto su nove, tra quelli registrati a Londra, riguardava nuovi metodi di drenaggio.

Alla metà del seicento, l'unico metodo efficace per svuotare le miniere erano pompe azionate da cavalli. Le pompe idrauliche dell'epoca si basavano sulle idee elaborate da Evangelista Torricelli e altri scienziati; di fatto usavano sistemi a vuoto, che non permettono di raggiungere pressioni maggiori di un'atmosfera. Con sistemi di questo tipo, l'acqua non poteva essere sollevata per più di una decina di metri.

Alla fine del seicento, un capitano del genio di nome Thomas Savery riuscì a costruire una vera e propria macchina a vapore, cioè una macchina in grado di sfruttare la pressione del vapor d'acqua prodotto da una cisterna riscaldata per sollevare pesi. Si trattava ancora di un prototipo dal rendimento molto basso, tuttavia era un inizio. Da quel momento in poi, lo sviluppo della tecnica del vapore fu impressionante.

L'Inghilterra del '700 era una specie di "brodo primordiale" in cui si mescolavano le esigenze economiche del business, l'avventura delle idee legata ai nomi di Newton, di Boyle, di Watt, la pressione democratica che aveva animato il paese dalla rivoluzione in poi, la nascita di nuove classi sociali emergenti, in particolare della borghesia cittadina. Questa miscela non poteva che essere esplosiva. Con il brevetto di James Watt del 1779, la macchina a vapore esce dalla fase pionieristica, e si afferma come uno strumento basato non solo sulla pratica, ma su idee fisiche chiare. Ci sono voluti ottant'anni dal prototipo di Savery. Ottant'anni in cui sono state gettate le basi di una nuova scienza (la termodinamica), insieme a quelle dello sviluppo industriale moderno.

James Watt

Non siamo di fronte a relazioni meccaniche, ma a interazioni complesse tra mondi solo apparentemente disgiunti. La crescita economica alimenta sé stessa, e rende lo sviluppo industriale necessario, se non inevitabile. Questo sviluppo ha bisogno di macchine. Le macchine hanno bisogno di idee e di brevetti, cioè di una crescita delle conoscenze fisiche che sia mirata alle applicazioni pratiche. La crescita delle idee allontana sempre di più il mondo occidentale dal principio di autorità che era stato dominante per tutto il medioevo; nello stesso tempo, la crescita di benessere spazza via qualunque relitto dell'importanza sociale delle vecchie classi dominanti (un'aristocrazia che si interessa della crescita economica solo come veicolo della propria ricchezza). La rivoluzione industriale è rivoluzione dei costumi e dell'intera società, che deve per forza smettere di essere analfabeta, deve per forza diventare una società di uomini che partecipano direttamente al "progresso": una società di uomini liberi.

La rivoluzione politica

La borghesia cittadina è la grande protagonista di questa rivoluzione. Alla fine del settecento, essa afferma con incredibile forza la propria presenza sulla scena sociale dell'occidente con la rivoluzione francese. La restaurazione che segue al crollo di Napoleone non è che una parentesi. Dopo i moti del '48, gli stati europei non possono che prendere atto che questa borghesia, figlia soprattutto della rivoluzione industriale, è la nuova classe dominante. La Russia zarista, lo stato più lento ad accorgersi della novità, dovrà pagare lo scotto della propria cecità con la rivoluzione bolscevica del 1917.

Il libro è parte integrante di questo scenario. Sia perché, nell'arco del '700, la sua produzione passa anch'essa dalla fase artigianale a quella industriale, sia perché, con la sua diffusione, alimenta in modo determinante lo sviluppo delle stesse idee che sono alla base della rivoluzione.

Il mondo industriale segue regole acentriche. Da questo punto di vista la democrazia, cioè la polverizzazione del potere decisionale, è il sistema politico che meglio lo rappresenta. La democrazia non può che basarsi su un'opinione pubblica consapevole, in grado di ragionare su sé stessa, sul proprio destino e sulle proprie scelte. Possiamo ad esempio citare l'articolo 11 della dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789:

"La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge."

Il libro, il medium, diventano quindi veicoli fondamentali dello sviluppo democratico.

Questa è, in estrema sintesi, la linea di tendenza anche se, messa così, la questione sembra più semplice di quanto non sia. La rivoluzione borghese non porta a un mondo anarchico. Essa sovverte il potere precedente, non distrugge il potere. Il mondo borghese ha bisogno di incanalare l'opinione, non meno di quanto non ne avesse bisogno quello pre-borghese. Ha bisogno di consapevolezza, non di schegge impazzite. I media (libri, giornali, periodici) sono da una parte palestre in cui si esercita il libero spirito democratico della nuova era, dall'altra veicoli attraverso cui le idee dominanti della nuova società diventano paradigmi accettati se non dall'intera collettività, per lo meno dalla sua gran parte.

Il mondo borghese è un mondo di nazioni moderne; il nazionalismo come idea guida si diffonde, in larga misura, grazie al libro e alla stampa. Il mondo industriale crea il proletariato moderno, cioè una classe sociale che, dopo Marx, dispone di un apparato ideologico che la contrappone in modo antagonista alla borghesia. Tanto il proletariato quanto la borghesia hanno quindi bisogno di strumenti mediatici che servano a "compattare" ideologicamente le proprie fila. Se, ad esempio, la borghesia fa sua l'idea guida del nazionalismo, il proletariato marxista fa sua l'idea opposta, quella dell'internazionalismo. Il libro è il veicolo strategico per la definizione in senso ideologico dei confini di classe.

I media contemporanei

Comunicare alla velocità della luce

Il primo aspetto di cui ci dobbiamo occupare è la posta. Le prime reti postali apparvero nel medioevo, contemporaneamente alla comparsa degli stati moderni. La loro importanza era evidente anche a quell'epoca, ma la posta, per diventare un mezzo in qualche modo efficiente, dovette aspettare il miglioramento delle reti stradali a cui si assistette a partire dalla fine del diciottesimo secolo. Ancora una volta, le esigenze della nascente società industriale costituivano il motore fondamentale per un gigantesco sviluppo d'insieme.

La rete postale del primo ottocento è ancora basata sui cavalli. E' solo dal 1830 che si comincerà a far viaggiare la posta per ferrovia. Nella prima metà del XX secolo le reti postali ampliano il proprio ambito di attività, affiancando alla diffusione di notizie e informazioni anche la diffusione di denaro e transazioni commerciali: nasce ad esempio il vaglia postale. La rete postale europea è integrata da tempo, e questo pone agli stati nazionalistici un problema non banale di controllo e di censura.

Per quanto riguarda la storia della fisica, l'800 si potrebbe definire il secolo della scoperta dell'elettromagnetismo. Ancora all'inizio del secolo non esisteva nessuna prova sperimentale dell'associazione tra i fenomeni elettrici e magnetici. I pionieri dell'elettromagnetismo, come l'italiano Alessandro Volta, erano riusciti a compiere esperimenti importanti che mettevano in evidenza particolari aspetti di tali fenomeni, ma solo dopo il 1820, con l'esperienza di Oersted, divenne chiaro che elettricità e magnetismo non erano che aspetti diversi dello stesso ambito fenomenologico. Da quel momento le scoperte si succedettero in modo estremamente rapido, grazie all'opera di scienziati come Faraday, Ampère, Maxwell. Nel 1887 Heinrich Hertz dimostrò sperimentalmente l'esistenza delle onde elettromagnetiche previste da Maxwell; in meno di sessant'anni l'elettromagnetismo si era trasformato da un mondo oscuro e nebuloso (magnetismo e mesmerismo erano spesso citati insieme nella letteratura dei primi dell'800) a una branca della fisica perfettamente nota.

La conoscenza dei fenomeni elettromagnetici apriva la porta agli infiniti usi pratici che se ne potevano fare. Nel 1837 venne depositato il brevetto Morse, e si assistette di fatto alla nascita del telegrafo. I segnali telegrafici, a quell'epoca, potevano viaggiare solo su fili (Guglielmo Marconi non era ancora nato); si pose quindi agli stati europei e alla nascente potenza statunitense il problema di creare l'infrastruttura adatta al nuovo mezzo. Migliaia di chilometri di cavi vennero tesi attraverso il continente, e perfino sotto gli oceani. Le comunicazioni non dipendevano più da un mezzo limitato come il cavallo o il treno, ma potevano viaggiare alla velocità della luce. In un mondo dominato dal nazionalismo, tuttavia, anche le reti telegrafiche dovevano svilupparsi sotto il monopolio del potere pubblico.

A partire dalla metà dell'ottocento, lo sviluppo del nuovo mezzo è in piena espansione. Nel 1860 la rete telegrafica europea è già del tutto integrata; fra il 1850 ed 1865 la società anglo-tedesca Siemens costruisce la linea telegrafica che, attraverso la Russia e la Persia, raggiunge la remota India. Nel medesimo periodo l'Ammiragliato Britannico crea una linea attraverso l'Impero Ottomano e il Mar Rosso. In questo periodo sono gli inglesi a detenere il quasi monopolio delle telecomunicazioni, attraverso enti appositamente creati come la Great Estern Company.

Il "telegrafo senza fili" diventa una realtà nel 1890, grazie alle scoperte del già citato Marconi. I vantaggi della radio sul telegrafo sono evidenti. La radio non ha bisogno dell'immensa infrastruttura di cavi richiesta dal telegrafo. Per fare solo un esempio, da questo momento in poi sarà possibile comunicare con una nave in mare aperto. Tuttavia bisognerà attendere fino al 1924, ovvero fino alla scoperta del sistema di trasmissione a onde corte, prima che le radiocomunicazioni possano staccarsi completamente dalla tecnologia del telegrafo; fino a quel momento, le trasmissioni usano ancora il vecchio codice Morse.

Il fenomeno sociale della comunicazione di massa nasce di fatto solo con il telefono, cioè nel momento in cui lo sviluppo tecnologico rende possibile la trasmissione della voce via cavo. L'invenzione del telefono è del 1876; nei primi anni esso è limitato alle reti urbane, ma in breve tempo anche la comunicazione interurbana (fino a quella intercontinentale di oggi) diventa una realtà.

Una nota di colore: ancora alla fine degli anni '50, in Italia, tutte le comunicazioni al di fuori delle reti cittadine erano mediate da un operatore telefonico. La possibilità di effettuare interurbane dirette non ha più di 40 anni circa.

Con il telefono la comunicazione investe un ambito prima sconosciuto: la sfera del privato.

Giornali e riviste

La nascita della stampa come medium moderno avviene all'inizio del XIX secolo, ed è legata al nome del francese Emile de Girardin. Vale la pena di citare una sua frase che suona come il manifesto del nuovo strumento:

"Quando il popolo è sovrano, è doveroso che il sovrano sappia leggere. Con sei soldi gli stiamo dando un'educazione."

Oltre che fondare il primo giornale popolare, La Presse, Emile de Girardin è il primo a rendersi conto dell'importanza del connubio tra stampa e pubblicità, sia per fare presa sul pubblico sia per coprire gli investimenti. Un altro giornale francese, "Le Siecle" (1838) inventa il feuilletton (romanzo popolare a puntate), grazie al quale triplica gli abbonamenti.

Anche lo sviluppo della stampa, come quello del telegrafo e del telefono, è legato al progresso tecnologico. Ad esempio, le presse meccaniche (1814) vengono sostituite dalle rotative (1853): le tipografie divengono realtà industriali a tutti gli effetti. Questo pone vari problemi, tra cui quello dei mezzi di diffusione. Alla classica realtà degli abbonamenti comincia ad affiancarsi la vendita ad dettaglio; nascono gli "strilloni".

La crescita della diffusione porta poi alla necessità di adeguare il mezzo alle esigenze del suo pubblico. La stampa del settecento era sobria, i giornali avevano l'aspetto di libri. Dalla metà dell'ottocento comincia a nascere una scienza dell'impaginazione. Il titolo (lo "strillo") diventa uno strumento fondamentale per attirare l'attenzione.

La stampa rappresenta un veicolo fondamentale per la diffusione (ma anche per il controllo) dell'opinione. Torneremo su questo argomento in uno dei prossimi paragrafi. Per ora basta citare, ad esempio, che la sconfitta della comune di Parigi (1871) ha segnato la (temporanea) scomparsa della stampa d'ispirazione socialista in Francia.

L'epoca del trionfo della stampa coincide con una battuta d'arresto per quanto riguarda la crescita del libro che, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, attraversa un periodo di crisi. Questo comporta diversi fenomeni nel mondo dell'editoria: concentrazione su specifici argomenti, calo dei prezzi, crescita dell'interesse verso vere e proprie indagini di mercato che consentano di orientarsi sulle esigenze dei lettori.

Il fatto che il libro costituisca un oggetto commercialmente maturo da più di cento anni, se per un verso garantisce la diffusione capillare del sapere, dall'altro comporta l'adeguarsi del sapere stesso alle regole commerciali. Queste regole sono implacabili nel tagliare tutto ciò che non fa audience. Il problema riguarda principalmente gli aspetti di nicchia. Se un certo testo interessa solo una piccola fetta del pubblico, spesso la sua pubblicazione non è remunerativa.

Nel capitolo dedicato a Internet, sottolineeremo il fatto che il Web, a differenza dei canali tradizionali di diffusione delle idee, può permettersi di occuparsi delle nicchie di mercato (visti i costi irrisori di gestione di un sito). Questo fa sperare che la nascente editoria on-line riesca a mettere a disposizione del pubblico centinaia di opere introvabili (perché commercialmente non remunerative).

Il cinema

Il cinema nasce contemporaneamente in Francia con i fratelli Lumiere e negli Stati Uniti nei laboratori di T. Edison, e s'impone rapidamente come tipico medium dedicato al divertimento e allo svago.

Credo che non sia facile per noi, nati in un epoca dominata dalla cultura dell'immagine, renderci conto di quale possa essere stato l'impatto sul pubblico delle prime immagini in movimento. Visti oggi, quei primi tentativi in un bianco e nero quasi privo di grigi, senza colonna sonora, con le pellicole che saltano ogni due minuti, sembrano quasi patetici. Eppure alla loro epoca costituirono un veicolo per incanalare le emozioni di un pubblico enorme, che vedeva quelle immagini con immenso stupore.

La fotografia si anima, diventa racconto, lo spettatore è trascinato in un mondo illusionistico in cui lo sforzo fantastico, tipico della lettura, è sostituito dalla possibilità di un osservazione diretta della realtà, sia pure filtrata dall'occhio del regista.

Dopo una primissima fase sperimentale il cinema diventa gadget, strana meraviglia da mostrare nelle fiere, poi spettacolo: nascono le sale cinematografiche e insieme a loro i diversi generi del film. L'assenza di colonna sonora è un limite meno grave di quanto può apparire ai nostri occhi. Ci si arrangia, spesso con un pianista in sala che accompagna con musica adatta le farse o i drammi rappresentati. L'avvento del sonoro è della fine degli anni '20.

L'industria del cinema si concentra quasi subito intorno a Hollywood, la Mecca del film. Nel 1930 Walt Disney inizia a produrre cartoni animati. Anche l'inglese Charlie Chaplin, erede di una famiglia di artisti del music - hall, si trasferisce negli Stati Uniti. Dopo la guerra del '14 - '18, l'85% della produzione avviene in America (anche per via della crisi post bellica in cui versano gli stati europei, in particolare Francia e Italia).

Il cinema è uno strumento con il quale si raccontano storie, si rappresenta la realtà. Le storie hanno già un pubblico (il pubblico del teatro, il pubblico del romanzo) e questo rassicura i produttori, che possono attingere a generi collaudati per lanciarne uno nuovo. Le storie cinematografiche sono sovente storie codificate, che ben si inseriscono in filoni e generi precisi: il western; la commedia musicale, il film di gangster; si tratta di filoni noti alla cultura popolare, e questo garantisce una certa continuità con i media del passato.

Anche nel caso del cinema (come in quello che abbiamo già discusso dei giornali e delle riviste), si genera una forma di simbiosi con la pubblicità; quanto più il nuovo mezzo riesce a richiamare pubblico, tanto più si rivela adatto come veicolo di un messaggio promozionale.

Un genere cinematografico di cui occorre parlare è il documentario. Il regista inglese Robert Flaherty aveva portato questo genere al livello di pura arte negli anni '30, ma è ancora Walt Disney che riesce a lanciare il documentario di massa (il famoso "Deserto che vive" è degli anni '50). Disney venne accusato di "truccare" le immagini al fine di renderle spettacolari; in ogni caso, egli può essere considerato il padre di un genere che oggi, con American Geographic e altri, è senz'altro un veicolo fondamentale a disposizione di tutti noi per conoscere il mondo in cui viviamo.

Dal documentario al cinegiornale il passo è breve. Vorrei sottolineare che quasi tutti gli aspetti tipici di un palinsesto televisivo erano già presenti a livello cinematografico ben prima che la televisione si affermasse come medium.

Il cinema è stato, ed è ancora, veicolo di diffusione di idee, se non di ideologie. Il filone americano tende spesso a distinguere il mondo tra i "buoni" e i "cattivi". Questa operazione, lungi dall'essere puramente spettacolare, sottende spesso un giudizio morale su fatti e persone.

Negli anni '70 il film "I berretti verdi" venne pesantemente criticato (in America e i Europa) come una vera e propria apologia dell'intervento americano nel Vietnam. Sul fronte opposto, un film storico e classico da cineteca come "La corazzata Potemkin" di Sergei Eisenstein venne proiettato ossessivamente nei cineforum di sinistra, fino al celebre intervento di Paolo Villaggio che lo fece sparire dalle programmazioni. Oggi è quasi introvabile. Per fare un altro esempio, possiamo citare un altro celebre film, "Soldato blu" del 1970. Dopo decenni in cui il western americano sembrava sposare sistematicamente l'idea che "l'unico indiano buono è un indiano morto", improvvisamente lo spettatore occidentale veniva sfiorato dall'idea che i "cattivi" fossero i bianchi.

Radio e televisione

Abbiamo già detto che la tecnologia di base per il funzionamento della radio, cioè la trasmissione a onde corte, non si rende disponibile fino agli anni '20. Il primo utilizzo di questa tecnologia è ancora rivolto alle esigenze del telegrafo; tuttavia, quasi immediatamente la nuova possibilità tecnologica trova un utilizzo alternativo di grandissimo rilievo. Il telegrafo premette una trasmissione "uno a uno"; la radio supporta questo tipo di trasmissione, ma anche quella di tipo "uno a molti": il broadcasting.

Il valore politico, oltre che di intrattenimento, del nuovo medium è così chiaro ai governi dell'epoca, che le prime trasmissioni radiofoniche sono tutte gestite da enti pubblici. Tuttavia, come ogni novità tecnologica di rilievo, anche la radio si pone naturalmente sul versante del business. La pressione verso un utilizzo mediatico (in senso moderno) del nuovo mezzo è così alta, che nel giro di un decennio esso è già sfuggito al controllo rigido degli stati.

In America, ad esempio, il broadcasting fu all'inizio monopolio degli enti pubblici RCA (nato proprio a questo scopo) e ATT (che già deteneva il monopolio telefonico). Tuttavia nel 1934 un gruppo di stazioni indipendenti si aggregarono tra loro per formare un terzo grande polo radiofonico.

A differenza del cinema (che può contare sugli introiti dei botteghini) e dei giornali (che comunque hanno un prezzo di vendita), la radio come business non può prescindere dalla sua simbiosi con la pubblicità. Questo è infatti l'unico canale attraverso cui le trasmissioni radiofoniche possono essere remunerative per chi le gestisce. La radio è il primo medium veramente moderno, cioè con quelle caratteristiche miste di aspetti informativi, ricreativi e pubblicitari che sono tipiche dei grandi media di oggi.

Le prime agenzie pubblicitarie nascono nel XVII secolo in Inghilterra, con il fine di concentrare gli annunci per la stampa inglese, ma è solo con l'avvento della radio che la pubblicità potrà raggiungere il livello di importanza e capillarità che oggi conosciamo.

Il connubio tra radio e pubblicità crea un nuovo fenomeno: l'interesse spasmodico per la audience. Sulla base dei dati di audience, infatti, si può stimare il grado di penetrazione del messaggio pubblicitario, quindi il suo valore intrinseco. Stimare la audience non è un compito semplice, e richiede strutture in grado di compiere le opportune rilevazioni e di elaborarle poi in senso statistico. Le fasce orarie non sono, ovviamente, identiche; il messaggio pubblicitario può essere efficace o meno in funzione del complesso rapporto che esiste tra i mezzi espressivi che adotta e le specifiche fasce di pubblico a cui è rivolto; eccetera.

La posizione psicologica del lettore di quotidiani e dell'utente della radio è molto diversa. Leggere un quotidiano implica, prima di tutto, comprarlo: un'operazione attiva, che richiede una volontà precisa e una precisa capacità di scelta. La radio entra nelle case come il vento da una finestra aperta: resta accesa e la gente la ascolta. Non richiede un atteggiamento attivo, è il sottofondo della vita quotidiana nel quale ci si culla. Le parole altisonanti di Churchill o di Roosevelt si mescolano agli ultimi successi musicali, entrano a far parte dello sfondo esistenziale di tutti (si può dire) i cittadini.

Peraltro, la radio possiede un'immediatezza sconosciuta alla stampa. Un conto è leggere su un quotidiano l'ultimo discorso del presidente Roosevelt, un conto è sentirlo con le proprie orecchie dalla viva voce del protagonista. Quei grandi del mondo che solo pochi anni prima erano e restavano lontanissimi dalla gente comune si trasformano in personaggi vivi, presenze reali nell'esistenza di tutti. Per la prima volta i politici e i potenti si dovranno porre il problema di avere una voce gradevole e di non biascicare le parole.

La tecnologia di base della televisione era già nota negli anni '20, tuttavia questo medium dovette aspettare gli anni '50 per trasformarsi, da progetto tecnico concepibile ma quasi irrealizzabile in una realtà effettiva. Quando questo avvenne, la radio aveva già aperto tutte le frontiere che doveva aprire. La televisione deve esser vista, quindi, come una semplice evoluzione dello strumento radiofonico, per quanto immensamente più versatile[19].

Un aspetto critico è invece quello dell'infrastruttura necessaria al mezzo televisivo. Le onde radio si propagano in linea retta; tuttavia, le trasmissioni vengono effettuate a frequenze sufficientemente lunghe perché la parte alta dell'atmosfera terrestre sia in grado di riflettere le onde[20]. Il risultato è che la radio possiede intrinsecamente un raggio di diffusione molto ampio. Ad esempio, una trasmissione intercontinentale dagli Stati Uniti all'Europa richiede, in linea di principio, solo di disporre di un'antenna abbastanza potente.

La televisione usa onde ultracorte. Queste onde non vengono riflesse dall'atmosfera. Viaggiando in linea retta, quindi, esse coprono spazi limitati. La televisione ha bisogno di un'infrastruttura gigantesca, ben superiore a quella richiesta dalla radio. Per quanto riguarda le trasmissioni intercontinentali, l'unico strumento che le rende possibili è una rete di satelliti che facciano da ripetitori.

Questo implica che, al di là della differenza di costo tra una stazione radio e di un'emittente televisiva, il sistema televisivo nel suo complesso richiede uno sforzo distribuito che la radio non conosce. Oltre agli enti (pubblici o privati) che gestiscono l'emittenza, occorre che altri enti forniscano l'infrastruttura adeguata. Questa infrastruttura si è formata nel tempo, con la crescita continua (e vertiginosa) del business pubblicitario.

Gli appassionati di calcio, ancora nel 1962, furono costretti a vedere le partite del campionato del mondo che si svolgeva in Cile con un ritardo di diversi giorni. Ovvero: si poteva sentire la diretta radiofonica, ma le immagini dovevano essere filmate e trasportate fisicamente in Europa. I mondiali in Messico del 1970, invece, si avvalsero della "nuova" rete di satelliti intercontinentali. Il pubblico esultò in diretta per il goal di Rivera contro la Germania, e si riversò in piazza per festeggiare la vittoria dopo aver visto con i propri occhi la mezzala italiana spiazzare il portiere tedesco. In fin dei conti, sono passati solo poco più di trentacinque anni.

Oggi la televisione è senz'altro un medium globalizzato. Le sue caratteristiche di immediatezza delle immagini (tenendo conto dello sviluppo legato all'uso dei colori e all'aumento di risoluzione rispetto alle prime trasmissioni) ne fanno uno strumento di informazione globale insostituibile, almeno per ora. Per quanto riguarda il futuro, c'è da attendersi un'integrazione sempre più spinta tra televisore e computer. Il pushing di informazione e i film "on demand" sono già oggi realtà su Internet; nel prossimo futuro potremmo avere in casa un unico strumento che è insieme televisore e computer.




Si veda ad es. Luigi e Francesco Cavalli Sforza, Chi siamo, Mondadori (1993)

A. J. Toynbee, Il racconto dell'uomo, Garzanti 1987

E' stata sostenuta l'ipotesi che in realtà solo i mesopotamici, in tutta l'Eurasia, abbiano effettivamente "inventato" la scrittura. Si è argomentato che esistono forti somiglianze tra le scritture cuneiforme mesopotamica, geroglifica egizia e cinese; non, naturalmente, nei simboli che tali scritture utilizzavano, ma nella confusa mescolanza di segni ideografici e fonetici che le caratterizza tutte e tre. Se quest'ipotesi fosse vera, si dovrebbe concludere che anche egizi e cinesi abbiano mutuato il loro modo di scrivere partendo da un esempio preesistente.

Louis Godart, L'invenzione della scrittura, Einaudi 2001

L'autore di queste pagine si trovò un giorno a sbarcare alla stazione di Budapest. Avendo bisogno di un bagno pubblico scoprì, con suo disappunto, che in quel luogo si usava denotare i bagni maschili e femminili con le rispettive parole ungheresi, anziché con i consueti simboli (l'uomo e la donna) che sono, appunto, ideogrammi. Egli lesse e rilesse le parole "Ferfi" e "Noi" che apparivano stampate sulle porte dei bagni, in attesa che un ungherese di uno dei due sessi entrasse nel bagno appropriato.

Su Internet si trovano numerosi siti dedicati alla scrittura geroglifica egizia. Si veda, ad esempio, https://it.wikipedia.org/wiki/Geroglifici

Si tratta dell'opera "A Study of History" scritta tra il 1934 e il 1961. Non mi risulta che sia disponibile in italiano, per lo meno in versione integrale.

Tutti i frammenti noti della saga di Gilgamesh sono stati raccolti in un'unica edizione italiana da Giovanni Pettinato (G. Pettinato, La saga di Gilgamesh, Rusconi 1992)

L. Palmer, Minoici e Micenei, Einaudi 1979

Netz Reviel, Noel William, Il codice perduto di Archimede, Rizzoli (2007)

Un'analisi ampia e interessante del periodo storico della riforma è quella contenuta, ad esempio, nel volume di Giorgio Spini - Storia dell'età moderna - Einaudi 1982

Il clima culturale del tardo medioevo nel nord Europa è descritto mirabilmente in Johan Huizinga - L'autunno del Medio Evo - Sansoni 1978

Inferno, canto XXVII

Si veda Barbier e Bertho Lavenir, op. cit.

Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi Paperbacks (1978)

Questa affermazione è vera solo approssimativamente. Le stelle cambiano posizione, e l'intero sistema stellare di cui facciamo parte ruota su se stesso. Tuttavia i moti propri delle stelle sono così piccoli che è praticamente impossibile rilevarli a occhio nudo in un arco di tempo paragonabile a una vita umana. Quanto ai cambiamenti di luminosità, era noto già agli antichi che alcune stelle sono variabili; tuttavia il fenomeno non era ritenuto di entità tale da inficiare l'intero modello.

Il modello era ancora più complicato di così. Ad esempio, la velocità di rotazione apparente dei pianeti era variabile. Questo costrinse gli astronomi greci a definire un punto detto equante, rispetto al quale i pianeti sembravano effettivamente ruotare a velocità uniforme.

Occam è un filosofo inglese vissuto nel XIV secolo d.C. I greci non enunciarono mai un principio di economia di ipotesi, che tuttavia appare così "evidente" da essere stato adottato, di fatto, prima che venisse reso esplicito.

L'impatto mediatico della televisione fu enorme. Per fare solo un esempio, nell'Italia degli anni '50 i cinema furono costretti a sospendere gli spettacoli negli orari che si sovrapponevano al quiz televisivo Lascia o raddoppia? Condotto da Mike Bongiorno. Semplicemente, le sale erano vuote.

Questo è vero solo per le onde lunghe tipiche della trasmissione in modulazione di ampiezza (AM). Le stazioni radio moderne trasmettono quasi tutte in modulazione di frequenza (FM), che utilizza onde troppo corte per sfruttare questo fenomeno. Tuttavia, ai suoi inizi la radio utilizzava quasi esclusivamente la modulazione di ampiezza.




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