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Tristia elegia I,7

letteratura latina



Tristia elegia I,7



Nella elegia I,7 dei Tristia, Ovidio si rivolge ad un amico che doveva ammirarlo molto, in quanto teneva al dito un anello che portava come sigillo proprio il ritratto del poeta. A questo amico Ovidio vuole affidare la sua opera più grande, perché a lui era impossibile tutelarla da lontano.



Versi 11-16


[mi] è gradito il tuo affetto, ma la mia maggiore immagine sono le poesie che ti affido di leggere quali esse siano, poesie che cantano le forme mutate degli uomini, poiché l'infelice fuga del padrone interruppe  l'opera.



io in persona andandomene [in esilio],  così come molte delle mie cose (opere), ho posto [le metamorfosi] addolorato di mia mano sul fuoco;



Il verbo mando è qui usato, in tono molto forte, anche perché è un verbo utilizzato proprio per le volontà testamentarie.

Nei versi successivi abbiamo poi la conferma del fatto che tra i testi dati alle fiamme (immagine poetica) nella sua giovinezza c'era anche quello delle Metamorfosi.



Versi 17-22


e come è tramandato che testiade (la figlia di testio) aveva bruciato suo figlio sotto un tizzone, e che fosse migliore come sorella che come madre, così io ho posto (non ho non posto) sugli ardenti roghi i benemeriti libri, le mie [proprie] (nostre) viscere, affinché morissero con me, o perché avevo detestato le muse, come i miei propri componimenti, o perché l'opera era ancora non completa e rude.



In questi versi, Ovidio afferma di aver detestato le Muse in quanto proprio a causa loro e del suo gusto e la sua indole poetica è stato cacciato dalla sua città.

Nonostante egli affermi di aver bruciato le Metamorfosi, noi sappiamo che comunque a Roma l'opera circolava tranquillamente, dunque affermiamo con certezza che quella di Ovidio è solo una trovata letteraria che già si riscontra in Orazio.



Versi 23-32


poiché queste [poesie] non sono state distrutte interamente, ma restano - penso che fossero stati scritti in più esemplari -, ora ti prego che vivano e che  il [mio] tempo libero non pigro (non ignavo) diletti chi legge e ammonisca di me.

e tuttavia quella (l'opera) non potrà essere letta pazientemente da nessuno, se quello non saprà che questa manca dell'ultima mano; l'opera fu strappata dall'incudine e mancò l'ultima lima ai miei scritti, e io chiedo perdono per lode, lodato io abbondantemente, o lettore, se non ti sarò di fastidio.



Scorrendo con i distici di questa elegia ci rendiamo conto del fatto che il periodare diventa sempre più ampio rispetto a prima, e anche rispetto ad altre elegie.

Dal verso 27 in poi, il poeta utilizza il lessico classico per parlare del suo lavoro: la summam manum, o anche l'ultima lima, sono termini chiave che indicano l'attività di Ovidio, l'attività del poeta, che impiega i suoi otia in maniera "non pigra" (non ignava). Il paradosso sta proprio in quest'ultimo aspetto: l'otium, ossia l'inattività per eccellenza, che si opponeva ai negozia, diventa, per i poeti che vanno dai cantores Euphoriones in poi, il momento di pieno lavoro poetico, ch 333g69d e si conduce all'interno di una sorta di "laboratorio poetico", dal quale l'opera delle Metamorfosi è stata però strappata prima del tempo, impedendo dunque al poeta di dare un'ultima lettura e correzione.

Anche il lavoro di poeta, quindi, è duro e faticoso (lo si può paragonare a quello di uno scultore, di un artigiano), e Ovidio si inserisce con questi versi tra i poetae docti come Catullo, e cerca di spiegare a chi non lo sa ancora che si fatica anche per scrivere un'opera letteraria.



Versi 33-40


eccoti anche questi sei versi, se riterrai che essi siano da porre davanti all'opera: «chiunque tocchi i volumi orfani del loro padre, a questi almeno nella vostra città sia dato uno spazio; e poiché anche tu sia più favorevole, questi volumi non sono stati pubblicati da lui steso, ma quasi sono stati strappati dal funerale del padrone. tutto ciò che di vizioso dunque avrà il rude poema, lo avrei corretto, se fosse stato lecito».



La forma hos iniziale è un dimostrativo deittico.

L'espressione in prima fronte libelli, tradotta "davanti all'opera", in realtà rappresenta una parte precisa dell'antico papiro, che per noi oggi può corrispondere al frontespizio.

La grande opera delle Metamorfosi, che comprende quindici libri, è chiamata qui dall'autore libellus. Questa scelta di termine la si fa risalire al significato affettivo che il diminutivo di liber contiene in sé.

Più volte notiamo come Ovidio insista sulla paternità della sua opera, per esempio ai versi 37-38, quando parla del funere domini, e del fatto che l'opera gli è stata strappata dalle mani.

Alla conclusione dell'elegia stanno questi sei versi. Ovidio li lascia all'amico, che si possa occupare di quello che è rimasto delle Metamorfosi, cioè di quelle copie che sono state fatte circolare anche se il poeta afferma di non aver completato l'opera con l'ultima lima. L'aver ammesso di aver bruciato il suo ultimo lavoro non è che un gesto plateale che ha solo valore letterario: infatti, in nessun codice sono tramandati questi sei versi che dovevano essere posti all'inizio del libellus.

Il motivo letterario dell'opera lasciata incompiuta è da ricercarsi nella biografia di Virgilio, che era morto prima di completare il suo ultimo e più importante lavoro, l'Eneide, opera volta soprattutto alla celebrazione del principato di Augusto.

Svetonio ci tramanda parte del testamento di Virgilio, che scrisse che, se l'Eneide non fosse stata compiuta prima della sua morte, l'opera doveva essere bruciata. Inoltre si legge anche dei suoi esecutori testamentari, che sono Lucio Vario e Porzio Tucca; al primo Virgilio affidò l'Eneide prima di partire per la Grecia: se durante il viaggio gli fosse accaduto qualcosa, che Vario bruciasse i suoi ultimi scritti. Ma quest'ultimo si rifiutò di farlo, come si rifiutarono tutti anche quando Virgilio era sul punto di morte.

Soprattutto Augusto andrò contro le ultime volontà del poeta e quindi anche ciò che era imperfetto fu pubblicato e letto in pubblico.

È evidente dunque, da questi aneddoti, che Ovidio si rifà alla biografia del tanto amato Virgilio: come lui, anche Ovidio, prima di andare in esilio (quindi la sua morte civile) brucia il suo poema epico, la sua opera maggiore.










































Tristia elegia I,1




Nell'elegia I,1 dei Tristia Ovidio personifica l'opera stessa, che nella finzione letteraria viene mandata a Roma al suo posto (questo tema era già stato utilizzato da Orazio, nelle sue Epistulae, in particolare nella I,20, e poi verrà ripreso anche successivamente, per esempio da Cavalcanti).

Ovidio manda la sua opera a Roma con tutte le paure che il messaggio spedito al popolo può suscitare. L'Ars amatoria è stata per lui la causa del suo esilio: per lui è stato un patricidio (un po' come tra Edipo e Telegono), ovvero l'opera ha ucciso (di morte civile) il suo autore. Infatti, Ovidio guarderà sempre con rammarico e con dolore la Roma che ha perduto per sempre, affermando di essere come morto, ora che si trova in una terra barbara, e dove non ha quasi nessuno dei suoi diritti di cittadino romano.



Versi 117-124


[a roma] ci sono anche quindici (i tre volte cinque) volumi delle forme mutate, strappati da non molto dalle mie esequie.

a questi ti affido che tu dica che tra i corpi mutati può essere rivolto il volto della mia fortuna; e infatti quella improvvisamente è stata resa diversa da prima e bisogna piangerla ora [mentre] un tempo fu favorevole.

molte più cose certamente, se tu me lo avessi chiesto, avrei avuto da affidarti, ma temo di essere [già] stato motivo di ritardo del viaggio.



Notiamo come il poeta non utilizzi mai il nome Metamorfosi, che è un grecismo, nel suo testo. La stessa opera è indicata anche nei codici con il nome di Mutatae formae, oppure con l'emistichio iniziale del primo verso, come si usava fare anche per le altre opere letterarie in genere.

Al verso 119 l'His iniziale si riferisce ovviamente ai volumina.

Nei versi successivi, invece, Ovidio parla di una metamorfosi subita da lui stesso: il suo è un mutamento nello spirito, non più quello che scrive elegia amorosa, ma poesia triste (lo dice lo stesso titolo dell'opera).
















Tristia elegia IV,10



Ovidio chiude il quarto libro dei Tristia con un ultima elegia che possiamo definire la sfagiV (la firma, il sigillo) del racconto di sé (i vari elementi biografici che ritroviamo in quest'opera sono ovviamente congeniali al genere letterario a cui appartengono i Tristia, ossia quello elegiaco), attraverso cui egli cerca anche di difendersi dalle accuse che gli sono state rivolte di fronte ai propri lettori, tra i quali troviamo ovviamente anche Augusto. Quest'ultimo è uno dei pochissimi destinatari delle elegie dell'opera, che non si riferisce a qualcuno in particolare, in quanto parlare di amici poteva far correre loro pericolo, parlare di nemici poteva essere pericoloso per Ovidio stesso. Alle volte, però, oltre che ad Augusto nel secondo libro (dove cerca di difendersi dalle accuse dell'esilio per tornare a Roma), Ovidio dedica alcune sue elegie alla moglie.


L'elegia è organizzata schematicamente, in questo modo:

dal verso 1 al 2 = proemio

dal verso 3 all'80 = narratio (fino all'esilio)

dal verso 81 al 90 = invocazione ai genitori

dal verso 93 al 114 = ii narratio (in cui si parla ancora dell'esilio)

dal verso 115 al 132 = congedo (con invocazione alla divinità, usata come escamotage per dire di non avere colpa in quanto egli è solo un poeta) e peroratio.


A conclusione dell'elegia, Ovidio si augura di poter essere conosciuto per sempre tra i posteri, soprattutto dopo la sua morte, anche se in realtà egli già si sente morto trovandosi lontano dalla patria.



Versi 1-2


quello che io sono stato, cantore disimpegnato di teneri amori, ascolta, per apprenderlo, posterità che [mi] leggi.



Per quanto riguarda questi due versi iniziali, brevi, ma che sanciscono il ruolo di Ovidio in poesia, ciò che bisogna sottolineare è proprio il termine usato per definire la sua attività e il tipo di poesia cantata: il termine è lusor, che deriva dal verbo ludere e che è un nomen agentis (come orator o quaestor). Con questo sostantivo egli si presenta ai lettori come poeta di poesia d'amore disimpegnata e leggera.

Ille ego qui sono le prime tre parole che danno inizio all'elegia, e che sottolineano una certa solennità nell'affermazione del poeta.

Attraverso questi due versi notiamo come il metro del distico elegiaco riesca ad esaurire un concetto, anche molto importante, con estrema concisione e brevitas. Ciò ci rimanda in qualche modo alla tradizione epigrafica, e alle epigrafi (una delle più famose è quella di Virgilio, che scrisse Manta me genuit): con questi due versi Ovidio sembra quasi additare un passante con il proprio scritto su un'epigrafe.



Versi 3-6


la mia patria è sulmona fecondissima per le gelide acque, che dista nove volte dieci miglia da roma.

qui io sono venuto alla luce , perché tu sappia quando, quando caddero con pari destino tutti e due i consoli.



Ancora una volta riscontriamo lo stile epigrafico in questi due distici. Per motivi metrici notiamo la perifrasi utilizzata da Ovidio per far rientrare il numero 90. Notiamo inoltre una certa solennità nell'espressione nec non. Ricordare di essere nato inolte nel 43 a.C., cioè quando nella battaglia di Modena morirono i due consoli Irzio e Pansa, significa anche alludere alla dolora situazione nella quale Ovidio si trova adesso.



Versi 7-8


se ciò vuol dire qualcosa, fin dai lontani antenati antico erede dell'ordine, non solo per dono della fortuna sono stato fatto cavaliere.



Questo distico si riferisce ad una situazione particolare della società romana: durante un momento estremamente difficile per la città di Roma come quello delle guerre civili, il ceto che si arricchì fu quello dei cavalieri. Come nell'elegia III,9 degli Amores, anche in questo caso Ovidio ricorda, definendosi povero, che la sua famiglia, che apparteneva all'antico ceto equestre, non si era arricchita con le ferite altrui.

Il fatto di discendere da una famiglia benestante, permette a Ovidio di evitare la carriera di oratore nel foro, ma di dedicarsi invece a quella di poeta, che certo non gli avrebbe portato gli stessi guadagni. E soprattutto la disponibilità economica che Ovidio aveva gli permette di non doversi necessariamente appoggiare ad un mecenate come appunto Mecenate o Messala Corvino, al quale tuttavia egli si avvicinerà.



Versi 9-14


e non fui il primo genito, sono nato dopo la nascita di un fratello, che era nato prima di me quattro volte tre mesi.

la stessa stella del mattino fu presente durante il giorno natale di entrambi; un solo giorno veniva celebrato con due focacce: questo è dei cinque giorni di festa dell'armigera minerva [il giorno] che suole essere bagnato di sangue dalla prima battaglia [dell'arena].



In questi versi si parla del fatto che Ovidio aveva un fratello nato nel suo stesso giorno ma un anno dopo (stessa perifrasi di qualche verso prima per indicare dodici mesi). Questo li faceva quasi essere gemelli, perché rafforzava il loro legame.

Siccome la formazione dei un giovane non avveniva in un'età precisa, ma in un arco di tempo che poteva andare dai dodici anni in su, i due fratelli frequentarono la scuola nello stesso periodo. La prima formazione avveniva attraverso il grammaticus, che probabilmente era della stessa zona in cui visse la famiglia di Ovidio, dunque in provincia. Poi i due si dovettero spostare a Roma per frequentare le scuole di retorica del foro.

Era il 20 di Marzo a segnare l'inizio dei festeggiamenti, qua chiamati "cruenti", in quanto si poteva assistere a delle vere e proprie battaglie nell'arena, ma anche ad una serie di spettacoli teatrali.





Versi 15-16


subito ancora molto giovani e per sollecitazione del padre ci rechiamo presso maestri insigni a roma per la [loro] arte.



Le scuole di retorica davano una formazione di base di lingua greca, e poi di lingua latina. Prima dunque si leggevano opere greche, in particolare Omero, e solo dopo venivano quelle in latino, perché sempre più importanza verrà data alla lettura dei testi antichi, come dirà anche Quintiliano nella sua Institutio oratoria.

Nell'opera del padre di Seneca, il retore indica tutti i maestri di retorica dei passati autori della storia della letteratura, e tra quelli di Ovidio segnala Arelio Fusco e Porcio Latrone. Inoltre egli tratta del fatto che il poeta di Sulmona mostrò da subito una certa propensione per la poesia, e se doveva disputare una orazione optava per quelle fittizie di tipo etico, cioè in riferimento al carattere in senso lato. In Ovidio ci fu da subito una forte predisposizione alla creazione di personaggi che venivano da lui stesso caratterizzati, e questa sua caratteristica la notiamo soprattutto nell'opera delle Metamorfosi.



Versi 17-20


il fratello fin da giovanissimo propendeva verso l'eloquenza, nato per impugnare le forti armi del foro eloquente.

ma per quanto mi riguarda fin da fanciullo mostravo inclinazione (amavo) le cerimonie sacre agli dei e la musa di nascosto mi trascinava verso la sua attività.



Nell'aggettivo che si riferisce al foro possiamo intravedere una sfumatura forse un po' negativa, in quanto si tratta pur sempre di un aggettivo in -osus. Le cerimonie sacre agli dei di cui Ovidio parla erano probabilmente in onore di Apollo. Per quanto riguarda invece "la Musa", si tratta ovviamente della musa poetica, che com'egli dice lo trahebat (dal verbo traho), verbo molto forte che segna l'incantamento, l'ispirazione divina, e anche una sorta di "attrazione fatale" tra il poeta e la Musa stessa. Preme sottolineare che la Musa è giocosa, scherzosa, non seria come le scuole di retorica che Ovidio doveva frequentare per la sua formazione.



Versi 21-26


spesso il padre disse: «perché tenti un inutile studio? il meonide stesso non ha lasciato alcuna fortuna».

ero scosso dalle sue parole e lasciato da parte tutto l'elicona provavo a scrivere in prosa (parole sciolte dal metro). spontaneamente la poesia si formava nei ritmi appropriati e ciò che tentavo di scrivere erano versi.



Notiamo la scelta di un lessico estremamente semplice, quasi del sermo quotidiano, tranne alcune parole o disposizioni di aggettivi che ci fanno capire che ci troviamo in poesia.

L'Elicona, il monte di cui aveva parlato Esiodo per la sua ispirazione e investitura poetica, lo si ritrova a Roma con Ennio negli Annales e poi in Persio, nei suoi Choliambi.



Versi 27-40


intanto con passo silenzioso scorrendo gli anni da me e dal fratello fu presa la toga più libera, e viene indossata sulle spalle con il laticlavio la porpora, ma a noi rimane la [stessa] attitudine (inclinazione) che avevamo prima.

già il fratello aveva raddoppiato dieci anni di vita quando morì, e cominciai a mancare di una parte di me.

ricoprii le prime cariche dell'età più giovane e una volta fui uno dei triunviri.

rimaneva il senato: la misura del laticlavio fu ristretta.

quel peso era troppo per le nostre forze; né il [mio] corpo lo poteva sopportare né la [mia] mente, e fuggivo (ed ero del resto codardo) [quel]l'ambizione che dà preoccupazione; le sorelle aonie mi indirizzavano a dirigermi verso il porto sicuro degli ozi.



Qua si parla del cosiddetto cursus honorum, ovvero quella carriera politica che veniva intrapresa dalla questura fino alla carica di console, ma che fu interrotta da parte di Ovidio con l'andar avanti negli anni. Infatti, se ai giovani veniva fatta indossare, con buon augurio, una veste con il laticlavio largo (che potesse raccogliere i simboli di tutte quante le cariche), a Ovidio il laticlavio viene ristretto, in quanto egli preferisce tornare al ceto equestre.

Il senato è indicato con il termine curia, che era l'edificio nel foro romano dove si trovava. L'immagine del "peso insopportabile per le proprie forze" è quella topica della recusatio.

La parola ambizione, che è intesa al verso 38 come la spinta alla carriera politica, è un termine molto antico, che ha le sue radici nel verbo ambo, ossia "andare in giro". Da questo deriva anche la degenerazione dell'ambizione, l'ambitus, che era parola per indicare il broglio elettorale.



Versi 41-44


io venerai e ho avuto caro i poeti di quel tempo e quanti poeti erano presenti, credevo che fossero vicini a me gli dei.

spesso macro, più grande di me di tempo (più anziano di me) mi lesse i suoi uccelli, e il serpente che nuoce, l'erba che giova;



Ovidio inizia proprio a partire da questi versi una lunga lista dei poeti che, attraverso la sua formazione retorica, aveva avuto modo di apprezzare, amare e anche incontrare. Egli parla inoltre di retori e maestri, ai quali non guarda con rammarico, ma come figure conosciute durante quella tappa obbligata che era la scuola di retorica, che comunque gli fu molto utile.

In questa elegia notiamo come molto probabilmente la sua formazione non dipese da personaggi politicamente rilevanti, anche se frequentemente la figura di Ovidio è avvicinata al circolo di Messala Corvino.

Notiamo in questi versi l'uso della parola vatis per indicare un certo tipo di poeta, ovvero quello ispirato, il grande poeta.

Macro era un alessandrino che scrisse un'opera di scienza antica che non ci è pervenuta. L'opera trattava probabilmente temi come il pericolo dei serpenti velenosi e forse anche di cure per i veleni, erbe e medicinali (ricordiamo che per opere come questa si prediligevano scenari esotici; anche Lucano, inoltre, nella Pharsalia, descrive serpenti pericolosi).



Versi 45-48


spesso properzio era solito recitarmi i suoi amori infiammati in virtù del sodalizio che lo legava a me;

pontico illustre per la poesia epica, anche basso per i giambi furono parte diletta della mia convivenza [con gli altri] (cerchia di amici),



Gli amori cantati da Properzio sono definiti ignes in quanto egli sarà, nell'ambito dell'elegia, il poeta più passionale. Poi vengono fatti i nomi di altri due poeti, che per noi sono solo nomi, ma che anche Properzio cita nel suo Canzoniere.



Versi 49-50


e orazio ricco di ritmi affascinò le nostre orecchie, mentre ferisce con la lira ausonia la poesia colta (raffinata).



Questi versi (in particolare il 49) sono stati parecchio discussi dalla critica, che più volte si è chiesta quale opinione avesse Ovidio di Orazio. Il dibattito si fonda sull'aggettivo numerosus, a parer di molti poco affettuoso; Ovidio, in realtà, non vuole criticare Orazio, ma semplicemente prenderne le distanze come poeta, in quanto la sua poesia non è lo stesso tipo di poesia che veniva fatta da Orazio. Quell'aggettivo, inoltre, si riferisce alla varietas di metro che caratterizza l'opera delle Odi oraziane.

Orazio viene inoltre omaggiato da Ovidio, avvicinandolo ad un poeta come Alceo, che tanto Orazio aveva tentato di imitare: il verbo teneo sottolinea la vera e propria fascinazione, che si poteva provare per un poeta come Orfero, per esempio, che realmente cantava con la lira.

Particolare è invece il verbo ferire, inusuale, in quanto ci si aspetterebbe cano oppure dicere (carmen), mentre qua invece l'immagine è molto moderna, come del plettro che colpisce la corda di uno strumento moderno.



Versi 51-52


virgilio l'ho visto soltanto né il destino ingiusto concesse tempo a tibullo per la mia amicizia.



Sappiamo da Seneca padre, attraverso una delle suasorie contenute nella sua raccolta di orazioni, e tramite l'affermazione di uno dei maestri di retorica di Ovidio, che il poeta di Sulmona amava molto attingere da Virgilio. Più volte infatti anche nelle sue opere mature riconosciamo alcuni versi che già si trovano nelle opere virgiliane. Ovidio, però, non aveva alcuna intenzione di copiare spudoratamente Virgilio: la sua è una palese imitazione proprio per ricordarlo. Non è dunque un volgare plagio, un furtum.

In realtà gli antichi romani non concepivano il concetto del plagio letterario. Da un altro però esisteva quello di "ladro" di opere letterarie, ma questo non comportava di incorrere in un processo. Solo quando si rappresentavano opere teatrali diffamatorie c'era la possibilità di ricorrere in giudizio.

Inoltre c'è anche da dire che l'imitazione di Virgilio da parte del poeta mostra come il pubblico a cui erano destinate le varie opere letterarie è un pubblico d'elite, conoscitore della letteratura. Tuttavia dobbiamo anche sottolineare che, soprattutto nei Tristia, Ovidio cerca di allargare (forse anche per intenti apologetici) il pubblico dei suoi lettori e ascoltatori ad uno di media cultura, differenziandosi dunque da poeti precedenti come Virgilio e soprattutto Orazio.

Ovidio dovette conoscere sia Virgilio che Tibullo, tuttavia entrambi morirono nel 19 a.C., un anno infausto, che gli portò via la possibilità di approfondire il suo rapporto con Tibullo, che era molto più giovane di Virgilio.



Versi 53-56


questo fu successore a te, o gallo, properzio a lui, io stesso fui il quarto da questi in serie di tempo (in ordine di tempo).

e come io venerai i poeti più grandi, così venerarono me i più giovani, e la mia talia non tardò a diventar nota.



Talia è la musa della commedia, citata qui soprattutto per ragioni metriche.

Ovidio afferma di avere una lunga serie di ammiratori: specialmente durante l'esilio il poeta si vanterà di chi lo apprezzava, usando questo come espediente per essere richiamato a Roma (formula tipica della peroratio).



Versi 57-58


quando lessi per la prima volta al popolo (in pubblico) le mie poesie giovanili, la barba mi era stata tagliata una o due volte.



Ovidio scrisse molto. La sua prima opera, gli Amores, c'è pervenuta in tre libri, anche se sappiamo che la primissima edizione constava di cinque libri, ma poi fu ridotta dal poeta, che bruciò i suoi componimenti giovanili.



Versi 59-60


aveva mosso la [mia] emozione (il mio genio), cantata per tutta quanta la città, corinna, donna chiamata con un nome non vero.



Nel IV secolo d.C., Aurelio Vittore ci rivela che probabilmente Corinna sarebbe stata una delle Giulie della corte imperiale, una fanciulla che viveva a corte, figlia o nipote di Augusto, sfrontata e soprattutto alquanto volubile e di facili costumi.

Questa passione celata da un nomen falsum potrebbe, secondo alcune tesi, essere stata uno dei motivi che possono aver cacciato Ovidio da Roma; infatti, l'8 d.C. corrisponde non solo alla data in cui Ovidio lascia la città, costretto ad allontanarsi per il volere di Augusto, ma anche al momento in cui Giulia viene esiliata. Altri studiosi ipotizzano invece che Ovidio fosse stato solamente testimone di una relazione adulterina di Giulia con qualche uomo facoltoso di corte.



Versi 61-62


certamente scrissi molte cose, ma quelle che giudicai emendabili (non buoni, da correggere) io stesso le ho date alle fiamme affinché le correggessero.



Alcuni nei secoli hanno sostenuto che questi versi che Ovidio avrebbe in teoria dato alle fiamme fossero in realtà stati dispersi e poi confluiti nel Corpus tibullianum sotto il nome di Ligdamo, ma questa probabilmente rimarrà solo un'ipotesi.

L'atto di gettare i versi giovanili nel fuoco è sinonimo di labor limae, di una poesia che veniva limata come l'artigiano fa con il prodotto che lavora: anche il poeta, infatti, riguardava, rileggeva e correggeva continuamente i suoi manoscritti.



Versi 63-64


anche allora, quando ero in esilio, ho bruciato certe cose (poesie) che sarebbero piaciute, adirato dalla mia indole e dalla mia poesia.



Qui abbiamo una sorta di scissione con il concetto espresso precedentemente: se prima Ovidio ha bruciato i versi che non sarebbero stati apprezzati, ora invece ha dato alle fiamme cose gradite.

Il poeta è irato con se stesso in quanto è proprio la sua indole, è proprio la sua poesia che lo ha fatto allontanare dalla città che ama, dagli affetti e dagli amici.

Il verso 64 poteva anche essere tradotto «irato della mia poesia elaborata», con la parola studium in endiadi.





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