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Orazio

letteratura latina



Orazio

Orazio ha scritto i versi più perfetti della letteratura latina: l'espressione che lo qualifica è simplex munditiis, "elegante senza artifici". Egli ha quella semplicità che viene valorizzata, non mortificata dalla tradizione precedente, dal labor limae, il lavoro faticoso. Nei secoli è stato imitato come modello classico (ciò che è eccelso, ciò che è degno di essere imitato, ciò che possiede un valore universale).

Altri elementi che compongono l'immagine di Orazio sono la sua humanitas, cioè quel tratto amabile che però solo superficialmente può essere scambiato per serenità senza inquietudine. Orazio raggiunge il vertice poetico nei momenti tardi della sua vita. Cantò d'amore ma non fu poeta d'amore. Prevale la nostalgia di chi ha superato l'età dell'innamoramento e guarda al proprio passato con tristezza. La felicità risiede nell'immutabilità dell'animo di fronte agli eventi esterni e alle angosce interiori.

La vita

Orazio nacque l'8 dicembre del 65 a.C. a Venosa; da padre liberto, cioè un ex schiavo liberato. Non più giovane egli si trasferì a Roma, adattandosi a fare l'esattore nelle aste. Orazio frequentò la scuola di Orbilio. A vent'anni Orazio si recò ad Atene. Il giovane s'immerse nell'atmosfera intellettuale ateniese, con le sue scuole filosofiche e retoriche.



Orazio era incline per la respublica; divenne sostenitore e collaboratore di Bruto. Partecipò alla battaglia dei Filippi nel 42 a.C. fu l'unico poeta generale. La sconfitta fu ricordata da Orazio come un giorno infausto.

Il padre morto, nel 39 a.C. Orazio tornò a Roma. Nel 38 a.C. lo presentano a Mecenate, che lo riconvocherà e lo accoglierà nella sua cerchia. L'amicizia con Mecenate significava vicinanza a Ottaviano, il futuro Augusto, e l'integrazione nell'élite letteraria del nuovo regime. Si trattava di amicizia vera, di un rapporto cordiale e rispettoso, destinato a non mutare più.

Scrisse gli Epòdi e le Satire; ma le Odi (anni 20) segna il vertice della poesia oraziana.

Dopo la morte di Virgilio, era lui il poeta romano per eccellenza. Con il tempo crebbe la familiarità con Augusto. Il poeta morì nell'8 a.C., poche setimane dopo Mecenate.

Epòdi (31 o 30 a.C.)

Negli Epòdi Orazio ristabilisce il contatto con le grandi voci della tradizione arcaica e si sforza parallelamente di allargare il proprio pubblico e i propri temi.

Orazio lo chiamava Iambi (giambi), riferendosi sia al prevalente ritmo giambesco che li caratterizzava sia al tono dell'invettiva, tipico della poesia giambica greca. Il poeta si rivolge a tutta la comunità civile; con tono prevalentemente di invettiva, di aspro attacco verso i contemporanei. La poesia presenta una crudezza d'immagini spesso ispirata da motivi di disgusto. Orazio rivendica il merito di averli riscoperti. Ma già Catullo li aveva introdotti. Orazio separa i due generi del giambo (greco) e della satira (latina).

Orazio riprende il modello di una parola libera e sferzante, che de 444i83e ve bastonare i viziosi ed esprimere l'umor nero suscitato da un'esistenza che non può soddisfare il poeta. Negli Epòdi il tono si fa, rispetto al modello giambico, meno aspro e l'invettiva meno diretta.

All'origine dell'ispirazione giambica di Orazio rimane il desiderio d'intervenire nella vita sociale e politica; il poeta vuole dire la sua, formulare giudizi, muovere all'azione chi ascolta o chi legge. Gli Epòdi riflettono la crisi storica che segna la delicata fase di passaggio delle guerre civili al principato di Ottaviano.

Le Bucoliche virgiliane così come gli Epòdi e le Satire di Orazio, sono carichi di inquietudini e polemiche. Entrambi i poeti avvertono che è la pace il bisogno primario; ma se in Virgilio il tono di fondo è la fiducia nel futuro, grazie alla nuova "età dell'oro" portata al mondo da Ottaviano, nell'epòdo graziano sembra prevalere una nota più preoccupata per le sorti di Roma. Mentre Virgilio mira al rinnovamento; Orazio suggerisce di abbandonare il suolo natio e di far vela verso le isole beate, dove la natura elargisce agli uomini spontaneamente i propri doni. Alla pace si contrappone il pessimismo romano. Nell'Epòdo 7 Orazio accentua l'angoscia per l'autodistruzione, esplicitando il vero male oscuro della storia romana; responsabile di questo delitto fu Romolo e responsabili sono a loro volta i romani. La maledizione ereditaria colpisce l'intero popolo e le guerre civili ne sono la conseguenza. Nell'Epòdo 9 il poeta canta la propria gioia per la vittoria ,nella battaglia di Azio, di Ottaviano, accompagnandola ad una rinnovata fiducia dell'Urbe.

La struttura del libro presenta alcune ricercate simmetrie: l'inizio e il centro della raccolta sono contrassegnati da una dedica a Mecenate; gli ultimi epòdi di entrambi i gruppi sono invettive contro una donna vecchia; i penultimi due gruppi si rivolgono ai romani. L'estensione varia dai 16 ai 102 versi.


I Sermones (35-34 a.C. / 30-29 a.C.)

Accanto alla produzione lirica degli Epòdi e delle Odi, s'intreccia una produzione esametrica delle Satire e delle Epistole.

I due libri delle Satire, o dei Sermones, come li chiamava Orazio, condividono con gli Epòdi il gusto per l'osservazione della società circostante. Accenti di crudo realismo ispirano l'arringa contro gli eccessi in materia sessuale, tema tradizionale per il genere satirico. Nel libro dei Sermones gli attacchi nominali si diraderanno e la materia e il tono appariranno integrati con il più raffinato ambiente di Mecenate. Rispetto agli Epòdi, nei Sermones l'esplorazione della realtà viene attuata in termini rispettivamente più cordiali. Preme al poeta condurre una pacata ricerca morale, priva di toni predicatori e ricca invece di quella umanità che diviene comprensione dei difetti propri o altrui.

La filosofia di Orazio più che in attiva ricerca della virtù, in rinuncia agli eccessi e in senso della moderazione, una filosofia fatta di consapevolezza dei limiti umani: il saggio migliora se stesso tenendo sotto controllo le passioni, evitando gli eccessi e opponendo il proprio rifiuto ai piaceri smaccatamente superlui. Evita di farsi eccessive illusioni. Le passioni non vanno negate, bensì progressivamente smussate, tenute al freno dall'intelligenza.

I due ideali di vita che Orazio mette davanti al lettore sono quelli della metriótes, il "giusto mezzo", e della autárkeia, l'"autosufficienza". A prima è il senso della misura nel rapporto con la realtà, gli uomini, le ricchezze, gli amori. La seconda traduce questo senso della misura nell'ambito della libertà interiore. La medierà diviene alla fine lo spazio ideale della propria indipendenza morale.

I temi del controllo delle passioni, della ricerca della tranquillità d'animo, del bonario distacco dai tumulti dalla vita cittadina traducono un intento di autonomia interiore, sono cioè espressioni di quell'individualismo che è tipico di tutta la poesia oraziana.

L'individualismo è il filo conduttore nella trama di tutta la produzione oraziana. Pochi autori come Orazio ci hanno parlato di sé in modo così consistente. Orazio nelle Satire e nelle Epistole, offre generosi squarci autobiografici. Nella satira del libro I, il poeta disegna non una critica, ma un affettuoso elogium alla figura di suo padre. La celebrazione dei valori familiari era un tratto tipicamente romano, ma poco romano ci appare l'orgoglio per un padre ex liberto. Questo tratto così originale imprime alla voce di Orazio un tocco nuovo. La satira 6 nel libro II è dedicata al patrono Mecenate. In essa Orazio contrappone il valore della vita rustica alla molestie cittadine, attraverso la favola del topo di campagna e di quello di città.

Sul piano letterario, vi sono modelli sia greci sia latini. Orazio mutua il modello della satira dialogica con l'introduzione di due interlocutori che incarnano differenti punti di vista.

Da Lucilio Orazio accoglie il metro dell'esametro, ma ne stempera l'aggressività verbale e di giudizio; dalla satura di Ennio e Marrone riprende la quotidianità e la discorsività, la tematica etica, la varietà degli spunti tenuti insieme dal fino della conoscenza individuale, ma rifiutando l'impasto così arcaico di verso e prosa.

Il criterio della medietas diviene il criterio formale attorno a cui s'incentra l'organizzazione del discorso satirico. La tradizione della satura romana forniva ad Orazio il duplice modello della varietà tematica ed espressiva e dell'abbassamento di tono rispetto al sublime del genere lirico. Il poeta si è concentrato soprattutto su secondo elemento, meno adatto alla sua ricerca di medietas. La medietas suggerisce all'autore di riequilibrare verso il basso il tono, ogniqualvolta esso tenda verso la solennità; immagini ironiche, qualche scenetta gradevolmente comica, osservazioni bonarie di senso comune, apologhi (topo di campagna e topo di città) vengono a correggere il dettato.

La costruzione dei singoli componimenti non segue una logica razionale. Il poeta passa impercettibilmente da un tema all'altro; procede per accostamenti associativi e assimilazioni. Altre volte dà l'impressione di ricominciare da capo, ma spesso una lettura più attenta evidenzia come i vari elementi siano tenuti insieme da un criterio comune.

La lingua impiegata nelle Satire è il sermo cotidianus, privo di volgarismi. Per questo il poeta chiama Sermones le sue satire. Sermo designa un atteggiamento di comunicazione alla buona, distante dai toni accesi o appassionati dell'oratoria politica o del poema epico. I Sermones adottano il linguaggio della conversazione colta, il più adatto alla riflessione su dì sé e sul mondo. Orazio riduce nettamente la portata del suo uditorio. Il sermo oraziano infatti si rivolge ad una cerchia ristretta di amici, selezionati dall'affinità dei gusti culturali e degli interessi di vita.

Il poeta non approva la facilità di metrica del predecessore Lucilio: neppure la sua vena esametrica può rinunciare all'indispensabile labor limae. Con il sermo satirico il lettore attento può perciò apprezzare il ricorso al repertorio delle figure retoriche, la studiata collocazione dei termini nel giro della frase, la stessa varietà di soluzioni metriche adottate nell'ambito dell'esametro.


Emulazione dei lirici greci e il classicismo

Un tratto dominante dell'età augustea è la competizione poetica con i capolavori greci. È tramontata l'epoca del complesso d'inferiorità; ora il vincitore non è più rozzo e tenta l'aemulatio, mettendosi in gara con quel patrimonio culturale greco che agli antichi pareva l'immagine stessa della civiltà.

Orazio afferma che la Grecia ha prodotto i frutti migliori nella sua fase più antica. Egli punta alla varietà dei modelli e dei temi più che ad imitarne uno solo.

Per l'attenzione alla lirica greca arcaica, Orazio ricevete l'appellativo di "Alceo romano". Proprio a Orazio spetta il merito di avere riempito sistematicamente il latino in metri e ritmici lirici di Alceo. Oltre ai metri, i temi: da Alceo Orazio ha ripreso parecchi motivi di canto, quali i legami d'amicizia, le schermaglie amorose, le gioie del simposio, la riflessione gnomica.

La critica romantica rimproverò al poeta la mancanza di originalità, per il grado di dipendenza dai modelli greci. La critica novecentesca ha messo in luce il bagaglio di doctrina e ars, il patrimonio della tradizione greca ed ellenistica, che costituisce il retroterra della cultura poetica oraziana, non sia affatto un limite, ma rappresenti semmai uno stimolo per l'ispirazione lirica. Lo stesso Orazio non ha mai nascosto i suoi rapporti con i modelli greci, anzi vuole impegnare i propri lettori a riconoscere il modello di partenza e ad apprezzare il sottile gioco di riprese, citazioni e variazioni a cui il poeta dà vita, in dialogo con la tradizione precedente.

Il vino nel banchetto, gli amori, l'invocazione alla divinità protettrice, l'allegoria fortunata della nave che cerca riparo dalla tempesta nel porto, sono dei temi spunto da cui Orazio riparte, ora utilizzando la corda delle passioni tenui, ora invece avvertendo il richiamo del sublime, allorché vuole farsi vate.

La cura formale nella scelta della parola dipende dal fatto che per lui le ragioni formali erano avvertite come dominanti; la poetica del leptós, del componimento tenue, raffinato e limato, era una sorta di obbligo letterario, così come il gusto dell'armonia e della simmetria nella disposizione interna dei carmi entro la raccolta. La scelta del vocabolo più appropriato, il decorum, l'attenzione sintattica, la cura dei nessi delle parole, le iuncturae insolite: ecco gli strumenti di questa esigenza di un equilibrio perfetto.

La perfezione formale è l'espressione che possiamo riassumere nel concetto di classicismo. Il poeta ha saputo raggiungere una perfetta fusione di forma e contenuto: la forma si fa espressione di un ideale di vita dal respiro universale, quello della mesotes o metriotes, l'"autosufficienza" del saggio, nella mediocritas come "giusto mezzo"e riparo delle bufere del vivere. Egli ha scelto in piena consapevolezza altissimi modelli poetici e li ha riproposti, rinnovandoli.

La mia fama, dice Orazio, resta assicurata dalla gloria poetica. Tanto orgoglio e tanta autocoscienza sono alimentati dall'assidua emulazione dei modelli greci e dalla ripresa e attualizzazione del mito e della tradizione nazionale di Roma.


Le Odi (23 a.C.)

Le Odi rappresentano il prodotto più raffinato del corpus poetico graziano. Orazio conquista nel Carmina la propria maturità poetica, fatta di concentrazione espressiva e di superamento dell'autobiografismo, materia dominante delle Satire. Il linguaggio si depura e il tono di universalizza, mentre il poeta raggiunge il completo dominio sui materiali linguistici e tematici.

Il pensiero delle Odi non è molto diverso da quello delle Satire: però si sono raffinate sia la fuga degli eccessi, sia l'autárkeia. Diversamente da Virgilio e Augusto, Orazio è sempre stato diffidente di fronte alle grandi utopie della storia. Tuttavia nelle Odi il poeta accetta l'umanità così com'è, pur rimanendo fermissimo nella difesa dei risultati raggiunti nella costruzione di se.

Un primo grande filone tematico attivo nei Carmina è quello intimo. Esso si lega alla dimensione degli affetti e dell'amicizia; alla saggezza quotidiana, di matrice epicurea, che porta a constatare lo sfiorire della giovinezza e la necessità di riconoscere i limiti umani; infine, alla cornice campestre, i cui paesaggi si trasformano in loca amoena, in tranquilli rifugi per la vecchiaia, contrapposti alla vita tumultuosa della metropoli. I motivi dominanti sono quelli dello scorrere del tempo e della meditazione sulla morte. Se il tempo dell'uomo è finito e tutt'altro che circolare, com'è invece il tempo eterno della natura, se ne ricava la necessità di godere delle brevi gioie del presente. Nasce il carpe diem.

Carpe diem non è un banale invito a godersi la vita. Per un poeta autunnale si traduce nell'arte del saper vivere giorno per giorno, disponendo del presente nella coscienza di non essere un poeta giovane com'era Catullo.

La malinconia è lo stato d'animo prevalente. Per non rovinarci la gioia, dobbiamo pensarci il meno possibile; ci sarà utile la compagnia di pochi ma scelti amici (Mecenate, Vario Rufo, Virgilio). L'amicizia costituisce l'orizzonte affettivo ed esistenziale graziano, mentre l'amore rappresenta la sua faccia espansiva: esso s'incarna in una galleria di personaggi femminili. Gli spunti erotici sono quali sempre temperati da una bonaria ironia. Un filo di nostalgia s'impone al pensiero che Fillide è l'ultima.

Mentre gli anni fuggono, rimane la gioia de simposio (riunione del bere): è l'ambiente di cordialità nel quale si trascorrono momenti di spensieratezza, in cui meglio si apprezza il calore umano degli amici e in cui anche l'amore diviene una preoccupazione tenue, depurata dalla giovanile passionalità.

Accanto ai temi intimi e privati, l'ispirazione oraziana conosce anche un filone civile, già presente negli Epódi, ma ora reinterpretato nell'ottica della cerchia vicina al princeps e dunque nutrito di miti greci, di mores romani, di storia antica e recente, fino alla nuova era aperta al principato di Ottaviano.

Un gruppo omogeneo di Carmina del libro III si misura con i grandi temi della politica augustea: si tratta del ciclo delle odi romane, quasi componessero una sorta di poema unitario, dedicato ad Augusto.

Sussistono delle relazioni: è comune il solenne metro alcaico; lo stile è alto e solenne, di tono uniformemente pindarico. Il poeta lamenta la corruttela dei costumi, celebra il tradizionale binomio virus/pietas, identifica in Augusto il depositario della volontà celeste degli dèi.

Il Carmen speculare composto da Orazio su diretta sollecitazione di Augusto, si stendeva per 76 versi, in strofe saffiche, intonato secondo l'inno religioso, era destinato ad essere cantato in duplice coro di ragazzi e ragazze in occasioni dei solenni ludi saeculares in cui si celebrava il nuovo secolo, l'età dell'oro per Virgilio. Orazio esalta la grandezza dell'imperum romano e ancorarla ai valori morali e religiosi della tradizione che ne è all'origine.

L'ambito di Orazio era la cerchia di Mecenate; il suo tempo era quello della pax Augusti, di un regime che sollecitava dagli intellettuali forme di consenso e di appoggio al suo progetto di cultura nazionale, ma senza mai imporre un modello ideologico unico. La poesia di Orazio traduceva quel bisogno di quieto vivere che ispira il suo filone poetico più intimistico. La sua esigenza di vita tranquilla poteva realizzarsi solo in una società ordinata, in cui i conflitti sociali fossero guidati da un'autorità salda. Il principato fu individuato da Orazio quale garanzia di pace e di serenità.

Orazio restò ben determinato a difendere la separatezza della cultura e a tale scopo ne accentuò l'aristocraticismo. Siamo davanti a un'aristocrazia dello spirito che investe direttamente l'autocoscienza del poeta. Orazio aveva orgogliosamente ribadito la superiorità della propria vocazione di cantore lirico, compagno delle Muse e separato dalla folla ignorante, innalzato ai vertici della scala culturale, così come il suo interlocutore e dedicatario Mecenate lo era nella scala sociale.

Il poeta predilige le strofe alcaiche a quelle saffiche, soggiacente a criteri assai severi, meglio potevano esaltarne la fantasia creativa. Spesso le chiuse offrono immagini di grande pregnanza e suggestione.

L'arte di Orazio rispende nel lucidus ardo, nella sapiente tessitura sintattica e metrica e nella collocazione delle parole entro i versi. La felicitas oraziana consiste nella scelta della singola prola, nella sua capacità di cogliere (carpere) il reale attraverso il linguaggio, di valorizzarlo attraverso la parola: un'arte che gli veniva dalla tékhne e dal labor limae ellenistici.

Il vocabolario graziano è piuttosto quotidiano, ricco di parole usato per lo più nella prosa.


Le Epistole (23 a.C.)

Come le Satire, anche le Epistole sono scritte in esametri; il tono conserva la colloquialità, l'amabilità, l'autobiografismo che già caratterizzava i sermones.

L'epistola I del libro I è l'ultimo componimento che Orazio dedicò a Mecenate. Il poeta ripete di volersi dedicare ai temi dell'auscultazione interiore. Si tratta di raggiungere l'autárkeia, l'autosufficienza o indipendenza spirituale del saggio.

Della scelta filosofica fanno parte la ricerca dell'aecus animus contro l'inquietitudine che tutti ci affatica; la ricerca del giusto mezzo e della saggezza; il controllo delle passioni come segreto del bene vivere; infine la riflessione sulla morte, che è uno dei temi fondanti delle Epistulae.

Nella chiusa delle Odi il poeta aveva proclamato "non morirò del tutto". Ora il punto cruciale diviene affrontare con dignità quel passaggio come per allontanarlo il più possibile da se. La filosofia non serve a dare equilibrio alla propria esistenza, ma a porsi diversamente in essa, senza smetterla di viverla, ma neppure illudendosi che possa durare per sempre.

L'orazio intende la poesia davvero e soltanto come sermo, persegue uno stile di tonalità più basse e intime. Una poesia pacata, di marca filosofica e definitivamente depurata dall'invettiva satirica. Ritorna il bonario umorismo che circolava nelle satire. Un senso di humour assai moderno. Nella chiusa si trova il biglietto inviato a Tibullo in cui il poeta non esita a definirsi un porcello del gregge di Epicureo.

La prima epistola è indirizzata direttamente ad Augusto; Orazio tratta dell'evoluzione storica della letteratura romana e prende posizione contro il gusto arcaicizzante. L'autore manifesta il proprio garbato ma deciso dissenso rispetto alle direttive culturali del principe.

Lo spazio a cui Orazio ambisce è quello della poesia come lettura, come sommesso colloquio con i lettori e con se stesso.

Nella successiva epistola a Giulio Florio, Orazio ritorna sui motivi che lo hanno indotto ad abbandonare la poesia, spingendolo verso la ricerca della saggezza: esorta l'interlocutore a cercare un giusto mezzo tra avidità e dissipazione, ad esaminarsi per valutare se il trascorrere degli anni lo renda migliore, a ritirarsi, prima di diventare ridicolo, come ha fatto lui.


L'Ars poetica

Il libro II delle Epistole viene associata all'Ars poetica o Epistola ad Pisones, indirizzato alla nobile famiglia dei Pisoni. Orazio disegna una sintesi teorica di grande respiro sulla natura, gli scopi e gli strumenti della poesia rispetto alla prosa. L'Ars poetica assume alcune posizioni non coincidenti con le linee auspicate dal princeps. Orazio esclude la ripresa della poesia e del teatro di età arcaica. Contro una visione troppo ristretta e gelosa dei valori nazionali, egli riafferma il ruolo dei modelli greci. Difende la poesia docta dell'età alessandrina e sottolinea l'importanza dell'ars e del labor limae: un impianto di conoscenze tecniche che deve agire a supporto del talento naturale. Orazio insiste sul dovere dell'autocritica e sulle necessità del duro lavoro, sui modelli e sulla forma.

Orazio segue Aristotele per quanto riguarda la dottrina dei generi letterari, l'importanza data all'arte drammatica; in più abbiamo dei principi che mirano a far raggiungere un equilibrio alle concezioni poetiche contrastanti del periodo. Il primo principio è che l'ars deve miscere utilis et dulcis (unire l'utile al dilettevole) per sconfiggere il tedium. Il secondo principio è che per raggiungere la poesia occorre l'ingegnum genialità nell'ispirazone poetica. Il terzo principio è l'ars poetica e cioè la perfezione dell'elaborazione stilistica. Su questo terzo punto Orazio insiste maggiormente.

Nell'ars poetica Orazio scelse di trattare riguardo al tema del decorum; dell'equilibrio e della misura per ottenere armonia e musicalità.




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