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Gaio Valerio Catullo (Sirmione, Verona, 84? - Roma, 54? a.C.) - Vita

letteratura latina



Gaio Valerio Catullo

(Sirmione, Verona, 84? - Roma, 54? a.C.)

Vita.

Biografia incerta. Scarse e incerte sono le notizie su C., di cui non ci è giunta alcuna biografia antica: i suoi carmi restano la fonte principale per la conoscenza della sua vita, se non proprio per le indicazioni più strettamente biografiche e cronologiche, almeno per ricostruirne e comprenderne, in generale, personalità e stati d'animo.

La formazione e l'ingresso nel bel mondo romano. C. proveniva dalla Gallia Cisalpina e apparteneva ad una famiglia agiata. Trasferitosi a Roma (intorno al 60) per gli studi, C. trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue doti di scrittore: trovò, infatti, una Roma nel pieno dei processi di trasformazione (la vecchia repubblica stava vivendo il suo tramonto), accompagnati da un generale disfacimento dei costumi e da un crescente individualismo che caratterizzava le lotte politiche, ma anche le vicende artistico-letterarie. Entrò a far parte dei "neóteroi" o "poetae novi" ed entrò in contatto anche con personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio Nepote. Tuttavia, C. non partecipò mai attivamente alla vita politica, anche se seguì sempre con animo attento o ironico o sdegnato i casi violenti della guerra civile di quegli anni. Di contro, nella capitale, un giovane come lui si lasciò prendere dal movimento, dal lusso, dalla confusione, dalla libertà di costume e di comportamento pubblico e privato, che distingueva la vita della città in quel momento. Tuttavia, la sua anima conservò sempre i segni dell'educazione seria ricevuta nella sua provincia natale.



L'incontro con Lesbia-Clodia. C. è stato definito come il poeta della giovinezza e dell'amore, per il suo modo di scrivere e di pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, la donna che il poeta amò con ogni parte del suo corpo e della sua anima, conosciuta nel 62, forse a Verona, più probabilmente nella stessa Roma. Il vero nome della donna era Clodia (chiamata Lesbia, "la fanciulla di Lesbo", perché il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la donna amorosa appunto di Lesbo), moglie del proconsole per il territorio cisalpino Q. Metello Celere.

Una storia difficile. La storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: Clodia era una donna elegante, raffinata, colta, ma anche libera nei suoi atteggiamenti e nel suo comportamento: nelle poesie di C. abbiamo diversi accenni allo stato d'animo provato per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti di lei: tutto, fino all'addio finale.

Il lutto familiare e la crescente delusione d'amore: il viaggio in Oriente. C. era a Roma, quando ebbe la notizia della morte del fratello nella Troade. Tornò a Verona dai suoi, ma le notizie da Roma gli confermavano i tradimenti di Lesbia. Il poeta fece così ritorno nella capitale. Deciso ad allontanarsi definitivamente da Roma il poeta accompagnò, nel 57, il pretore Caio Memmio in Bitinia. Laggiù, in Asia, il giovane C. entrò in contatto con l'ambiente intellettuale dei paesi d'Oriente; fu probabilmente dopo questo viaggio, dopo essersi recato alla tomba del fratello nella Troade per compiangerlo, che compose i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in patria.

Il ritorno e la morte. C. tornò dal suo viaggio nel 56, e si recò nella villa di Sirmione, dove trascorse gli ultimi due anni della sua vita, consumato fisicamente da un'oscura malattia e psichicamente dalla sfortunata esperienza d'amore e dal dolore per la morte del fratello.

Opera.

Il "Liber" catulliano consta di 116 di "carmi" (per un totale di circa 2300 versi), raggruppati in 3 sezioni non in base ad un ordine cronologico, bensì in base al metro ed allo stile, seguendo un criterio di "variatio" e di alternanza fra temi affini, secondo la mentalità e l'usanza tipiche degli editori alessandrini. Abbiamo, così:

- (cc. 1-60) sono brevi carmi polimetri che C. chiama "nugae", o "coserelle", "versi leggeri": ovvero, espressioni di una poesia intesa come "lusus", scritta cioè per "gioco", per passatempo e divertimento, a cui però il poeta stesso consegna la propria profonda e tormentata personalità e augura l'immortalità;

- (cc. 61-68) sono definiti "carmina docta", di maggior respiro e complessità, tal che si è portati ad individuarvi un maggiore impegno compositivo [ma, a tal proposito, vd. oltre]. Si tratta di elegie, epilli ed epitalami nei quali cresce il tono esplicitamente letterario, lasciando naturalmente ancora spazio alle caratteristiche catulliane: ovvero, l'epitalamio per le nozze di Manlio Torquato; un altro epitalamio, in esametri, studiata e felice trasposizione moderna di Saffo; l' "Attis", poemetto in versi galliambi, strana evocazione dei riti dedicati alla dea Cibale, un pezzo di bravura callimachea; il celebratissimo carme 64, vasto epillio per le nozze di Péleo e Tétide, che è una piccola epopea mitologica sempre alla maniera di Callimaco; la traduzione in esametri della "Chioma di Berenice" di Callimaco, preceduta dalla dedica all'amico Ortalo in distici elegiaci; un'elegia epistolare di gusto alessandrino, c 343j91d he ricorda il tempo felice dell'amore di Lesbia.

- (cc. 69-116) sono carmi brevi e di presa immediata, o "epigrammata" (epigrammi, elegie): i temi sono praticamente gli stessi del I gruppo, ma resi con metro diverso: il distico elegiaco.

Il "liber" è dedicato a C. Nepote [c. 1], ma esso non è certamente il "libellus" della dedica, nel senso che questo doveva comprendere, per esplicita dichiarazione del poeta stesso, solamente le "nugae", e non anche i "carmina docta", come invece noi lo possediamo. L'opera, quale a noi è giunta, è con molta verosimiglianza, una raccolta postuma, nella quale accanto ai carmi del "libellus" trovò definitiva sistemazione il corpus della produzione poetica catulliana: insomma, di quella produzione, esso sarebbe una raccolta antologica.

Considerazioni sull'autore e sull'opera.

Le "nugae" e il difficile rapporto con Lesbia. Il I e il III gruppo costituiscono, come detto, le "nugae", a cui è consegnata tutta la storia dell'amore di C. per Lesbia, "frammentata" in 25 carmi che percorrono trasversalmente i due gruppi [cc. 2, 3, 5, 7, 8, 11, 36, 37, 38, 40, 43, 51, 58, 70, 72, 75, 76, 79, 83, 85, 86, 87, 92, 107, 109]. Le peripezie di questa vera e propria autobiografia d'amore "romanzata", proprio a causa di questa frammentazione e di una disposizione non cronologica delle varie tappe del rapporto, non ci appaiono molto chiare: dovettero esservi giorni di felicità, ma anche molte sofferenze, giacché Clodia prestava grande attenzione alla propria reputazione e al suo onore di gran dama, e anche, molto più probabilmente, perché lei e C. non concepivano l'amore nello stesso modo. Egli l'amava con la foga di un uomo giovane, si compiaceva nel fantasticare sull'idea che Clodia fosse per lui "la sua sposa"; a lei, invece, quel nodo nuziale, dal quale la morte di Metello la liberò peraltro piuttosto presto, ripugnava. Clodia, inoltre, era una donna che aspirava al successo e che amava civettare con uno stuolo di giovani al suo fianco: C. era solo uno fra i tanti, mentre avrebbe desiderato essere l'unico, in nome degli illusori diritti che dà l'amore. Quando si avvide che non era più amato, o quando se ne persuase, lo proclamò ad alta voce in versi atroci, dove pretendeva che Lesbia addirittura si prostituisse con chi le capitava. Seguì la separazione, dolorosa per lui e forse non senza noie per lei: "Amo e odio", le scriveva, "tu vuoi sapere perché è così? Non so, ma so che è così, e soffro."

Il disimpegno e la rottura. Dunque, nel rapporto con Lesbia C. programmaticamente trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del "civis" romano: tende insomma a ritagliarsi una sorta di "spazio del privato" ("otium"), dove vivere e parlare esclusivamente d'amore.

Orbene quel rapporto amoroso nel farsi oggetto esclusivo dell'impegno morale del poeta tende però, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni dello stesso come un tenace vincolo matrimoniale; o quantomeno come un "foedus", un ibrido originale dei due valori cardinali dell'ideologia e dell'ordinamento sociale romano (la "fides" e la "pietas"), trasferiti dal piano pubblico ad un piano più decisamente "privato", e quindi rinnovati nel loro significato.

Tuttavia, l'offesa ripetuta del tradimento (il "foedus violato") produce in C. una dolorosa dissociazione fra la componente meramente sensuale ("amare") e quella profondamente affettiva ("bene velle"), fin allora profondamente ed esistenzialmente intrecciate: resta forte il desiderio sessuale, mentre l'affetto, a fronte delle delusioni e del tormento della gelosia, diminuisce man mano d'intensità.

Gli altri temi. Tuttavia, il "Liber" catulliano non coincide esclusivamente e completamente con la tormentosa storia tra il poeta e Clodia: accanto e in mezzo ad essa, quasi a formarne la cornice "di costume e società", si trovano numerosi altri carmi, cui sono consegnati gli altri "temi" che vanno a intarsiare la sfaccettata e complessa esistenza del poeta. La varietà di quei temi impone che se ne rilevino almeno i più "importanti" o quantomeno i più caratterizzanti, tal che sia possibile individuare dei veri e propri "cicli" alternativi e integrativi rispetto a quello amoroso: si trovano, così, carmi rivolti contro "vizi privati e pubbliche virtù", ovvero di polemica scopertamente sociale e letteraria, ma anche larvatamente politica in tono volentieri scurrile, satirico e spesso goliardico; carmi dedicati al tema dell'amicizia, un sentimento che C. vive quasi con la stessa intensità con cui vive l'amore; carmi, infine, che esprimono profondi affetti familiari e altissimi vincoli di sangue: tra questi ultimi, spicca sicuramente il bellissimo c. 101, estremo e commovente saluto sulla tomba dello sfortunato fratello.

Continuità tra "nugae" e "carmina docta". Il II gruppo di carmi (61-68), invece è quello che più lega C. al movimento neoterico, e quello che più corrisponde alla variante romana del gusto alessandrino.

C. primo vero poeta romano dell'amore "soggettivo". L'opera di C., anche se non è ancora quella di un "elegiaco", è comunque l'espressione vivente di un sentimento personale e profondo, che ha già acquistato diritto di cittadinanza nella poesia: egli fa dell'amore l'unica ragione di vita, anzi in lui amore poesia e vita veramente coincidono. Per ciò che conserva ancora in sé di tumultuoso, di ricercato e, in qualche modo, di impuro, C. è da mettere fra i predecessori immediati piuttosto che fra i poeti augustei, che formeranno in seguito il "classicismo" della poesia (anche "erotica") romana.



Publio Ovidio Nasone

(Sulmona, Abruzzo 43 a.C. - Tomi, Mar Nero 17-18 d.C.)

Vita.

Nascita e formazione. O. nacque da antica e agiata famiglia equestre. A Roma, ove si recò col fratello (31 a.C.), studiò grammatica e retorica presso insigni maestri, come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Destinato alla carriera forense e politica, O. avvertì invece subito imperiosa l'inclinazione verso la poesia, al punto che tutto ciò che tentava di dire era già in versi.



L'incontro con Roma e con la poesia. Dopo il rituale viaggio di perfezionamento ad Atene a 18 anni, il nostro rientrò a Roma, ove esercitò solo qualche magistratura minore: fu dei "tresviri" ("capitales"?), e dei "decemviri stlitibus iudicandis", ma rimase pago dell'ordine dei cavalieri e non mirò al senato, alieno "sollicitae. ambitionis".

Ad alimentare la sua vocazione poetica fu Valerio Messalla Corvino; ma O. fu vicino pure a Mecenate, e conobbe i maggiori poeti dell'epoca, come Orazio, Properzio, Gallo. Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati (da cui ebbe però una figlia), sposò una giovane fanciulla della "gens Fabia", che amò teneramente sino alla fine. Il legame coniugale non gli impedì di essere il poeta galante, cantore di una Roma ormai dimentica delle guerre civili, vogliosa soltanto di vivere e di godere.

Il triste declino: "carmen et error" e "relegatio". Nell'8 d.C., quando ogni cosa sembrava sorridergli, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto, che lo relegava a Tomi, l'attuale Costanza, sulle coste del Mar Nero. Si trattò, è vero, di una "relegatio" che, a differenza dell' "exilium", non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. E tuttavia, di fatto, O. fu costretto a rimanere isolato in una terra selvaggia e inospitale, nella più cupa tristezza, sino alla morte.

Ignoti restano i motivi del severo provvedimento di Augusto, anche se O. parla, enigmaticamente, di due colpe che l'avrebbero perduto: "carmen et error". Nel "carmen" deve essere allusione all' "Ars amatoria", il suo trattato sull'amore libertino che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche pubbliche: trattato, evidentemente, in contrasto col coevo programma augusteo di restaurazione morale dei costumi. Riguardo l' "error", l'ipotesi più verosimile è che O. sia stato in uno scandalo di corte, che l'imperatore aveva tutto l'interesse a mantenere segreto: fatto è che, nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di adulterio con un giovane patrizio.

Opere.

Possiamo dividere comodamente la pur multiforme attività poetica di O. in tre momenti, che corrispondono ad altrettante fasi della sua vita.

Al I periodo [ciclo della poesia propriamente elegiaca amorosa] appartengono le poesie erotiche, che cantano l'amore nella galante cornice della vita di Roma: gli "Amores", un canzoniere d'amore; le "Heroides", lettere di eroine ai loro infedeli amanti; l' "Ars amatoria", una precettistica dell'arte d'amare; i "Medicamina faciei femineae", un trattato di cosmetica; i "Remedia amoris", composti per aiutare a guarire dalle pene d'amore.

Al II periodo [ciclo della poesia epico-mitologica] appartengono le opere mitologico-narrative, di più ampio respiro, composte a partire dal 3 d.C., e in varia misura collegate con la celebrazione del principato: sono le "Metamorfosi", il poema delle trasformazioni, e i "Fasti", un poema che doveva illustrare il calendario romano, ma che fu interrotto dalla relegazione del poeta a Tomi.

II III periodo [ciclo della poesia dell'esilio] comprende la composizione dei "Tristia" e delle "Epistulae ex Ponto", i canti della solitudine e della nostalgia, della noia e della disperazione.

Contenuti e analisi delle singole opere

*"Amores". Gli "Amores", in 3 libri (una I ed. era però in 5 libri), furono composti tra il 23 e il 14 a.C.: O. ne iniziò la composizione, dunque, intorno ai vent'anni.

Sono elegie che si strutturano in una sorta di romanzo amoroso, nel quale è cantata una donna, Corinna. Ma Corinna è uno pseudonimo forse di un personaggio puramente letterario, certamente lontanissimo dalle donne intensamente vagheggiate dagli altri poeti d'amore latini, e più verosimilmente vero e proprio filtro o simbolo delle galanterie amorose di O., in una Roma splendida, smaliziata e gaudente.

Amore come avventura, dunque, con tutto ciò che ogni avventura comporta: corteggiamento, attese, vezzose ritrosie, conquiste mai definitive, ma legate al momento, a un cenno di compiacenza, a un assenso finalmente ottenuto, ma pronto a dissolversi alle prime nuove brezze. Arguto è O. in questo gioco dei sentimenti, d'una arguzia gradevolmente ironica, che costituisce una delle note più gustose di questo suo disincantato mondo poetico. E' una sequela di quadri, di scene di vita, che s'alternano a precetti d'amore, a casistiche varie, alle infinite situazioni che l'incontro di una donna può destare. Il tutto con un distico elegiaco estremamente musicale, che segue con rara aderenza la materia trattata.

*"Heroides". Le "Heroides" sono 21 lettere d'amore in metro elegiaco, indirizzate da donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. In particolare: le prime 14 sono lettere di eroine mitiche (Penelope a Ulisse, Fillide a Demofoonte, Briseide ad Achille, Fedra a Ippolito, Enone a Paride, Ipsipile a Giasone, Didone a Enea, Ermione a Oreste, Deianira a Ercole, Arianna a Teseo, Canace a Macareo, Medea a Giasone, Laodamia a Protesilao, Ipermestra a Linceo); la 15a è l'unica lettera di un personaggio non mitologico, ma storico: quella della poetessa Saffo a Faone; le ultime 6, disposte a coppie, e composte da O. forse successivamente, sono lettere di eroi alle loro amate, seguite dalla risposta di queste (Paride a Elena, Leandro a Ero, Aconzio a Cidippe).

Il mito e la donna: è questo, insomma, il fulcro poetico dell'opera. Certo, non nel senso properziano dell'idealizzazione mitica della figura femminile: piuttosto, e al contrario, O. "umanizza" le antiche eroine. Le solenni vicende del mito rivivono, infatti, col palpito delle passioni e dei turbamenti delle donne della Roma contemporanea, delle donne di sempre. Alla base è il motivo dell'amore infelice, quale fu cantato dalla poesia alessandrina, in particolare quello della donna abbandonata, al quale s'affiancano numerose altre suggestioni letterarie: Omero e i tragici greci, e poi Catullo, Virgilio e Orazio.

*"Ars amatoria". L' "Ars amatoria", composta tra l'1 a.C. e l''l d.C., consta di 3 libri in distici elegiaci. I primi due libri sono indirizzati agli uomini, ai quali O. insegna come incontrare, conquistare (1), conservare (II) l'amore di una donna; nel III, composto in un secondo momento, il poeta rivolge gli stessi consigli alle donne.

Dunque, l' "Ars amatoria" si propone come un genere nuovo, laddove presenta, nella formale struttura "didascalica", i contenuti caratteristici del più smaliziato mondo poetico ovidiano. L'opera vuole essere, infatti, un vero e proprio trattato sui comportamenti d'amore, vera summa di tutta l'elegia latina precedente, una precettistica di galanteria erotica, condita di arguzie e piacevolezze. Di qui un contrasto sottile, che offre al poeta l'occasione per istituire un suo gioco, intellettualistico e ironico, su quell'eterno gioco che è l'amore (egli è "lascivi... praeceptor Amoris").

*"De medicamine faciei". Anche il "De medicamine faciei" ("L'arte del trucco") è opera a suo modo precettistica: un trattatello di circa 100 versi, in metro elegiaco, che si divideva in due parti: la prima, una difesa dell'eleganza della vita di città, in confronto all'antica semplicità campagnola dei costumi; la seconda, una serie di 5 ricette di cosmetici che permettessero alle donne di conservare e rendere più attraente la loro bellezza.

*"Remedia amoris". Sempre in distici elegiaci (per un totale di circa 800 versi), i "Remedia amoris" - "Rimedi all'amore" - vogliono invece insegnare i mezzi con cui curare gli effetti nefasti dell'amore, in particolare degli amori sfortunati. A ben vedere, essi sono una risposta scanzonata e pungente alle critiche che, da parte dei moralisti, erano state rivolte alla sua precettistica d'amor galante.

*"Metamorfosi". Le "Metamorfosi" ("Metamorphoseon libri XV"), il "poema delle trasformazioni", che O. iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri, contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata.

*"Fasti". Anche i "Fasti" sono opera narrativa, che vuole illustrare il calendario romano ("fasti" vale appunto "calendario"). Composti contemporaneamente alle "Metamorfosi", essi dovevano comprendere 12 libri, ma furono come quelle interrotti, a causa della relegazione a Tomi: ne rimangono così i primi 6 libri, quelli cioè relativi ai mesi che vanno da gennaio a giugno. Durante l'esilio, il poeta rivide l'opera, in particolare il I libro che, dopo la morte di Augusto, dedicò a Germanico, figlio adottivo di Tiberio.

Conclusioni.

O., vero poeta della Roma del suo tempo, realizza una sua letteratura dell'immaginario e del misteriosofico: non curò la pensosità filosofica di Lucrezio, giacché, a proposito delle origini del mondo, si rivela un "superficiale" narratore di miti; non l'innovativa sensibilità di Catullo; non la rappresentazione dell'arcano di Virgilio e di Tibullo; non infine la sana ironia di Orazio. O. compie il miracolo dell'affabulazione e rappresenta le cose in divenire, le persone nel mistero dei sentimenti: fu sempre poeta pronto a replicare con la sua grande teoria della icasticità immaginaria.

Sono caratteristiche in lui la prontezza del verso, la fluidità e il ritmo della metrica, le riflessioni gnomiche, le ridondanze di espressione, il gioco delle figure e dei colori, il modo retorico che raffina la mancanza della lima. E' O., infine, a dare la definitiva sistemazione al distico elegiaco, venuto a perfezione attraverso l'opera dei suoi predecessori, soprattutto Tibullo.



Albio Tibullo

(Gabii? 55/48 - 19 o 18 a.C.)

Vita.

Biografia incerta. Abbiamo poche e incerte notizie sulla vita di T. (anche il "praenomen" è ignoto), il poeta elegiaco che Orazio, in una sua epistola, pur ritrae bello e dotato di ogni bene, mentre s'aggira nella campagna di Pedum (nei pressi di Tivoli) troppo immerso in penosi pensieri, ridotto come un "corpo senz'anima".

La vita in campagna. Di ceto equestre, T. nacque in territorio laziale, anche se è molto improbabile l'identificazione del luogo di nascita nel villaggio di Gabii, come da qualcuno è stato proposto. Vittima come tanti altri dell'ondata di confische di terre a favore dei veterani di Filippi, egli poté tuttavia conservare del suo patrimonio quel tanto che gli permise di condurre un'esistenza non più ricca come i suoi avi, ma certamente agiata.

L'incontro con Messalla. Il fatto più importante della sua vita "pubblica" fu l'incontro con Messalla Corvino, cui fu sempre legato da intensa amicizia e del cui circolo romano fu il principale rappresentante, fino alla morte: pur avversando la vita militare, T. accettò di accompagnarlo addirittura in due spedizioni militari, una in Oriente, nel corso della quale dovette fermarsi, ammalato, a Corcira (Corfù); l'altra in Aquitania, ove si distinse per meriti militari.

Opera.

Corpus Tibullianum I codici ci hanno trasmesso, sotto il nome di T., 3 libri di elegie, comunemente noti come "Corpus Tibullianum". I primi due sono sicuramente del nostro poeta: il I fu composto tra il 30 e il 25, consta di 10 elegie e vi si canta sopra tutto l'amore per una donna, Delia, che Apuleio, nell' "Apologia", dice chiamarsi Plania; il II comprende 6 elegie, in 3 delle quali è cantata un'altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi: come una "Vendetta" per i tradimenti di Delia. Di un altro nome di donna fa cenno Orazio: una certa Glicera, "crudele" perchè venuta meno al patto d'amore col poeta.

C'è poi il III libro, ch'è un'antologia di 20 componimenti in distici elegiaci (salvo il VII, in esametri), divisa dagli umanisti italiani in 2 parti, o addirittura in 2 libri distinti (il III e il IV): la prima parte contiene una raccolta di 6 elegie [1-6] che l'autore, un poeta che si fa chiamare Ligdamo, dedica alla sua Neera; la seconda consta di 11 elegie [8-18] che cantano l'amore di Sulpicia e Cerinto, per concludersi con 2 componimenti, verosimilmente attribuibili a T. giovane: un'elegia per una "puella innominata" e un epigramma. Fra l'una e l'altra sezione, è inserito infine il "Panegyricus Messallae", un elogio, appunto, delle imprese di Messalla.

Considerazioni.

Opera "collettiva". Molto probabile è che l'intero "Corpus" sia frutto di poeti del circolo letterario di Messalla Corvino: vi si nota come una ispirazione comune, quasi monocorde, comunque lontana dall'estrema ricchezza e varietà di toni dei poeti appartenenti invece alla cerchia di Mecenate.

I temi. Come ci rivela già la "programmatica" I elegia del I libro, i temi fondamentali della genuina poesia tibulliana, rinvenibile nei primi 2 libri del "Corpus", sono la campagna e l'amore, sempre vagheggiati, molto spesso intrecciati: il poeta ama vedere la sua donna, Delia, sullo sfondo della campagna, e contemplarla con tenerezza, talora appena tinta di un'indefinita malinconia e nostalgia.

L'amore. A Delia, nel I libro, egli dedica 5 elegie [I, II, III, V, VI]: ella è quasi certamente una creatura reale, una bella biondina, sposata e liberta, o comunque di umile condizione: è lei la donna ideale per T., è lei l'ispiratrice degli accenti più teneri e delicati, dei pensieri più umani e gentili del canzoniere: il poeta, come già detto, sogna di vivere con lei una vita serena e felice nella pace dei campi e di averla accanto a sé in punto di morte. Eppure Delia si rivela tutt'altro da come T. se la rappresenta: è una creatura volubile, che sa anche tradire senza scrupolo. Inevitabile, così, la rottura, che il poeta, nonostante il voltafaccia di lei, pur non sopporta: egli si lascerà andare all'ira, ma un'ira essa stessa dolce, e portata al perdono: l'invettiva cruda e feroce è solo nei confronti della mezzana, che ha procurato alla "sua" Delia un nuovo amante.

Nel II libro i toni divengono forse più sofferti e più "crudi": vi sono 3 elegie [III, IV, VI] dedicate a Nemesi, la "saeva, dura puella", una cortigiana sensuale ed avida di denaro, tra le cui braccia il poeta malauguratamente si getta per "vendicarsi" dei tradimenti di Delia: ma il nuovo amore ben presto si mostra per quello che è veramente, imponendo al poeta un'umiliante schiavitù, un triste "servitium".

Tuttavia, nonostante i cambiamenti di registri e situazioni, l'ispirazione di fondo permane sostanzialmente identica: infatti, le avventure con Delia, con Nemesi o, ancora, col giovinetto Màrato (cui T. dedica ben 3 elegie nel I libro) sembrano spesso svaghi di fantasia e di sogno più che reali, effettive esperienze: il poeta non ama soffermarsi su ciò che è attuale e presente, ma abbandonarsi sempre alla speranza, al desiderio, alla rievocazione nostalgica del passato. La stessa Nemesi, pur se descritta, talora, con qualche tratto realistico, adempie troppo scopertamente ad una funzione di contrappunto, per riuscire a celare la letterarietà della sua costruzione artistica.

La campagna. Se metà di ogni libro è per la donna che domina, in quel momento, la vita del poeta, l'altra metà tocca altri temi cari a T.: rispettivamente, nel I libro, oltre al già detto amore per il giovinetto Màrato [elegie IV, VIII, IX] troviamo, quindi, la VII elegia che celebra la gloria di Messalla dopo il trionfo del 27, e la X, che loda la pace e la vita nei campi; nel II libro, la I elegia descrive la festa rurale degli "Ambarvalia" (rito di purificazione dei campi), la II è per l'amico Cornuto che festeggia il compleanno, la V è un'esaltazione  del Lazio agreste e idillico anteriormente alla fondazione di Roma.

Si affaccia, così, prepotente il "mito" della campagna: essa non è solo quella di Delia e delle tenerezze d'amore: è anche la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi guadagni e al fragore delle armi; T., infatti, non cerca la ricchezza e detesta la guerra, nella quale vede un mezzo di arricchimento, non di diffusione della civiltà: al contrario, egli s'accontenta di un' "aurea mediocritas", che gli consenta una vita moderatamente agiata e soprattutto tranquilla, nel segno di un profondo e desiderato "disimpegno".

Lingua e stile. L'andamento vago, ondeggiante del testo poetico di T. si combina poi con un linguaggio chiaro, elegante nella sua sobrietà, in apparenza semplice, ma in realtà risultato di un sorvegliatissimo, dotto studio, espressione consumata di quel senso della misura caratteristico del classicismo augusteo. Armonioso e musicale è infine il suo distico; forse - se proprio vogliamo muovergli una critica - solo un po' "monotono".

Sesto Properzio

(Assisi? 50 ca a.C. - Roma, dopo il 15 a.C.)

Vita.

La formazione e l'ingresso precoce nel mondo della poesia. P. nacque da agiata famiglia di rango equestre che però, dopo la guerra perugina del 41, perse buona parte dei suoi averi. Morto il padre, fu condotto dalla madre a Roma, dove fu avviato alla carriera forense. Ma P. rivelò precoce attitudine per la poesia: già al 28 a.C. risale la pubblicazione del suo I libro di elegie, il cosiddetto "monobiblos" ("libro unico"), intitolato dal nome della donna amata (Cynthia), secondo la tradizione dei poeti alessandrini.

Il successo che gli arrise spinse Mecenate ad ammetterlo nel suo celebre "circolo". Qui, P. conobbe i più importanti poeti dell'epoca: da Virgilio a Ovidio, al quale era solito recitare i propri "roventi" ("ignes") versi. Difficili, invece, i rapporti con Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi ideali poetici. Tibullo e P. sembrano poi ignorarsi del tutto.

Il rapporto con Cinzia. Uno dei primi amori cantati dal poeta fu la giovane schiava Licinna, ma forse l'unico avvenimento davvero importante nella sua vita fu l'incontro con Cinzia. Hostia era il vero nome della donna, come ci riferisce Apuleio: il nome Cinzia sembra collegarsi con Apollo e Diana, che nacquero a Delo, sul monte Cinto. Cinzia, una fascinosissima donna, forse più grande di P., dagli occhi neri e dai capelli fulvi, colta e mondana, elegante, amante della danza, della poesia, ma anche di facili avventure d'amore, dominò incontrastata nell'animo del poeta, nonostante il tormento continuato di un rapporto reso difficile dalla stessa eccessiva intensità della passione.

Si amarono, talora "nevroticamente", per quasi cinque anni. Cinzia morì intorno al 20 a.C., ma, dopo la sua scomparsa, la presenza e il desiderio di lei si fecero ancora più acuti nella mente del poeta. Dunque, una vera e definitiva "rottura" nel rapporto non ci fu mai: nonostante le due ultime elegie del III libro, quelle che vorrebbero segnare il "discidium", la separazione definitiva; nonostante la stessa morte di lei.



Opera e contenuti.

P. compose 4 libri di "elegie" (per un totale di 92 componimenti):

- Come "monobiblos", fu pubblicato nel 28 il I libro (22 elegie); il suo contenuto è omogeneo: soprattutto, legami di amicizia e rivalità, ma su tutto domina la figura ora realisticamente sensuale, ora idealizzata di Cinzia, in una vicenda subito segnata da reciproche passioni e gelosie, tradimenti e riconciliazioni. Il tono prevalente è, tuttavia, ancora quello dell'abbandono malinconico e di un'atmosfera sognante.

- Tra il 28 e il 25 P. compose, invece, il II libro (34 elegie). Rispetto al "monobiblos", questo è meno omogeneo nel contenuto ed è anche il libro più problematico sia per lo stato in cui è giunto il testo, sia per alcune sue caratteristiche: è sempre dominante il tema amoroso, ma le situazioni sono spesso esasperate e tese, con un procedere a sbalzi, anche all'interno della stessa elegia, che porta alcuni interpreti a postulare lacune e/o trasposizioni di versi. Ma per altri, tutto ciò potrebbe essere voluto dallo stesso poeta: manifestazione, nella scrittura, di uno stato d'animo frenetico ed appassionato.

- P. pubblicò il II libro forse insieme col III (25 elegie) nel 22. Quest'ultimo segna un mutamento decisivo, rispetto ai primi due: Cinzia è sempre presente, coi suoi umori e coi suoi amori, coi suoi abbandoni e le sue ripulse, ma accanto a questi temi "soliti" appaiono, ben rilevati, altri motivi: primo fra tutti, quello dell'ambiziosa consapevolezza del proprio valore di poeta e una più decisa adesione al tipo di poesia dotta e raffinata che era stata di Callimaco e di Fileta. Come ha ben chiarito il Fedeli, più che dell'amore P. ora s'interessa dello "status" di poeta d'amore, inteso sia come missione poetica, che come stile di vita, e lo si vede nella compatta e solenne dichiarazione di poetica delle 3 elegie proemiali, e anche nelle 2 successive, che trattano dell'opposizione fra poesia d'amore e l'avidità di conquista e di ricchezza. Notevoli, inoltre, anche i due epicedi (= canti funebri) per il naufrago Peto e per Marcello, nipote di Augusto morto a Baia nel 23. Sul fronte della passione per Cinzia, inoltre, c'è un calcolato accrescersi della tensione, fino all'ultima elegia del libro, che segnerebbe il distacco definitivo [il "discidium"] tra i due.

- Il IV libro (11 elegie), che contiene le cosiddette 5 elegie "romane", volte a cantare leggende e riti dell'antichità romana, collegate con culti o luoghi particolari, fu probabilmente pubblicato nel 16 a.C., data a cui risalgono gli eventi cui vi si fa riferimento; i temi cantati in queste elegie "eziologiche" sono: il dio Vertumno, il tradimento della vergine Tarpeia, la dedica del tempio di Apollo Palatino, la leggenda di Ercole e Caco, il culto di Giove Feretrio.

Considerazioni.

Poesia e amore. Poesia e amore sono i due elementi fondamentali e inscindibili in P.: il poeta si sente vittima d'amore, e proclama il suo "servitium Amoris", la sua dedizione totale alla passione. Questa è una precisa scelta di vita, lontana dalle tradizionali ambizioni del foro e della politica, una vita di "nequitia" di cui il poeta è consapevole; ed è pure una scelta di poesia e di poetica: di una poesia che esprima una vita dedita completamente all'amore, e che dunque sia idonea a far innamorare la donna, e di una poetica, quella callimachea, che con la sua "brevitas" e l'impiego del mito meglio si presti agli intenti del poeta elegiaco.

Cinzia sangue e carne. A differenza di altri elegiaci più "fantasticanti", P. ha poi un'immaginazione corposa, che ama le tinte intense, i bruschi trapassi: come in quelli, l'amore è certamente al centro della sua vita e del suo canto, ma è un amore fatto soprattutto di passione e di tormento, assoluto e coinvolgente, che si proietta oltre il reale, oltre la vita stessa, sino a superare le barriere della morte, sino a farsi mito.

Cinzia è innanzitutto splendida presenza fatta di carne, che ossessiona la fantasia e il ricordo e alimenta la gelosia di P.; quella donna che pure, teneramente nella mente del poeta, da sola costituiva "la sua casa, i suoi genitori", ogni possibilità di gioia per la sua vita. Ma raramente in lui, come detto, l'amore è appunto gioia e tenerezza, quasi sempre è dolore: egli vive questo sentimento in modo drammatico, come una tormentosa passione che lo sfianca.

. ma anche "mito". Le "Elegie romane". Pure per altra via la presenza di Cinzia diviene, nel poeta, memoria grandiosa: attraverso il mito, preziosa eredità della poetica alessandrina: ma, a differenza di quello, il mito usato da P. non è inteso puramente come brillante e talora divertito sfoggio di erudizione: in lui, la realtà stessa, l'intero suo mondo degli affetti viene trasfigurato e, per così dire, eternato dall'atmosfera incantata del mito. Sotto questo rispetto, la critica recente è portata a non ravvisare una reale frattura tra il P. cantore d'amore e il P. che canta antichi miti romani e italici.


*Si potrebbe intendere per "letteratura latina" l'insieme delle opere d'intento letterario scritte in latino. Ma questa definizione è eccessivamente vasta e comprende, di fatto, varie letterature differenti l'una dall'altra. L'uso letterario del latino, che comincia ad affermarsi nel corso del III sec. a.C., è destinato infatti a svilupparsi ininterrottamente da allora in poi.

Esiste così una letteratura latina moderna, che fa direttamente seguito a quella dei secoli precedenti. Ma è del tutto evidente che essa non presenta i medesimi caratteri della letteratura del periodo di Cicerone o di Augusto, così com'è certo che la letteratura in lingua latina d'ispirazione cristiana forma, a sua volta, un settore a sé stante: le sue radici, essenzialmente orientali, e il suo fine, di edificazione e conversione, la distinguono dalla letteratura "pagana", il cui spirito è del tutto diverso.

Infine, ultima distinzione, andrebbero considerate a parte, anche all'interno della letteratura antica e "pagana", le opere composte tra il III sec. a.C. e il III o, al massimo, il IV della nostra era. Nel corso di questo periodo, infatti, si manifestano possibilità di rinnovamento che, più tardi, spariranno; la tradizione corre ininterrotta dalle origini; le opere sono direttamente accessibili, se non a tutti, almeno a quanti hanno acquisito i rudimenti della cultura.

*Senza dubbio si può riconoscere, da alcuni indizi, che a partire da questo momento la letteratura tende a divenire materia di scuola, dunque a sclerotizzarsi; ma tale sclerosi diventerà totale solo nel periodo seguente. Fino a che sopravvive, tra gli autori, il sentimento di partecipare a una cultura "romana", è possibile ammettere ancora l'esistenza di una letteratura latina, nel significato in cui, qui, l'intendiamo.

Questa letteratura, infatti, è essenzialmente quella di Roma, della Roma repubblicana e conquistatrice, della Roma imperiale e trionfatrice. E' animata dallo spirito romano, celebra la gloria di coloro che sono divenuti, con molte sofferenze, i padroni del mondo: ma si sforza anche di definire i valori fondamentali sui quali poggia questa conquista; segue, e talvolta anticipa, l'evoluzione intellettuale, contribuendo in questo modo alla formazione di una civiltà originale, quale appunto fu quella di Roma.

Sarebbe dunque allettante chiamarla "romana", più che "latina", se anche questa definizione non rischiasse, a sua volta, di creare confusione. Tra coloro che hanno contribuito a formarla, com'è noto, pochi autori furono romani di Roma: fin dal principio sono dei sudditi o degli alleati coloro che compongono le prime opere e, via via che la conquista avanza, si vedono provinciali, i barbari della vigilia, arricchire la letteratura dei loro vincitori. Il che lascia intravedere come questa letteratura sia in realtà il prodotto di una convergenza tra uno stato sociale e politico e uno stato linguistico, tra la città romana e la lingua latina. Ciò che dobbiamo tentare di cogliere e definire è una letteratura di lingua latina e di ispirazione romana. Si capisce, allora, perché essa potesse nascere soltanto nel momento in cui, simultaneamente, si trovarono realizzate le due condizioni che le erano necessarie, e perché, inoltre, non potesse sopravvivere alla scomparsa di una delle due.

*Alla sua nascita, era necessario che Roma fosse già affermata e sufficientemente forte come centro politico, e che la lingua latina avesse acquistato flessibilità e ricchezza sufficienti. Al momento del suo declino, fu il crepuscolo dell'Impero, la scomparsa dei valori tradizionali che ne compromisero definitivamente il vigore.

*Verso la metà del III sec., Roma conclude vittoriosamente la prima guerra contro Cartagine. La potenza punica, che fino a quel momento occupava gelosamente il bacino occidentale del Mediterraneo e limitava verso est l'espansione ellenistica, si trova indebolita e deve retrocedere, abbandonando a Roma la zona del mare Tirreno e ai focesi, alleati di Roma, quella della Liguria e della Spagna settentrionale.

Roma, la cui parentela con i popoli e le città elleniche è avvertita da molto tempo (la prima testimonianza certa, quella di Aristotele, risale a circa un secolo prima, ma la tradizione era certamente più antica e voleva che Roma appartenesse al gruppo di città la cui fondazione si collegava ai "ritorni" dei combattenti di Troia), non consentì, certo, di rinnovare l'influenza politica dei greci sull'Occidente, ma favorì, talvolta inconsciamente, talaltra anche però consapevolmente, l'espansione della loro cultura anche all'interno del proprio dominio.

Una testimonianza di questa simbiosi è costituita, appunto, dalla nascita di una letteratura di lingua latina. E' certo che la letteratura latina è figlia della letteratura greca, ma non dobbiamo credere che, inizialmente, essa non sia stata altro che una copia maldestra, scolastica, delle opere greche. Le sue composizioni sono una trasposizione, rispondente ai bisogni culturali propri di Roma, più della funzione che della materia di quelle opere che i romani vedevano vivere all'interno del mondo greco. Si creano, così, delle epopee e un teatro tragico, che tenderanno a fissare, per Roma, un passato mitico; la stessa commedia si svilupperà intorno a valori morali e sociali, come faceva, in Grecia, da tre quarti di secolo, la "commedia nuova". La prosa, quella degli storici, dei legislatori, dei giuristi, degli oratori, si integrerà anch'essa allo spirito della città, e l'imitazione dei grandi prosatori greci non sarà una schiavitù sterile, al contrario.

E' vano voler opporre una Grecia creatrice a una Roma che ne sarebbe soltanto l'imitatrice servile: la creatività si sussegue, dall'uno all'altro campo, tanto che l'anteriorità della letteratura greca spiega solo come quella di Roma abbia potuto svilupparsi così rapidamente e prendere una sorta di scorciatoia per giungere alla perfezione.







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