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TACITO - AGRICOLA - LA GERMANIA

latino letteratura



TACITO


AGRICOLA


L'attività letteraria di Tacito comincia, con quest'opera, nella sua età matura, dopo la morte di Domiziano. Questo aspetto è di fondamentale importanza perché Tacito pone l'esperienza negativa della tirannide come punto di partenza delle sue riflessioni politiche e storiografiche.

Infatti una delle tematiche principali dell'Agricola, prima opera da lui scritta, è proprio la condanna del regime di Domiziano.


L'Agricola è una biografia encomiastica, scritta tra il 97 e il 98, del suocero di Tacito, Gneo Giulio Agricola, che era stato governatore della Britannia sotto Domiziano.

Cominciamo con il dir 646j96g e che il genere biografico è uno dei più praticati nel I secolo d.C. e che si riallacciava alla tradizione romana dell'orazione di encomio funebre, ma nei tempi di Tacito aveva assunto anche una connotazione più polemica perché veniva utilizzato dall'opposizione senatoria per ricordare i "martiri" del principato.

Proprio in questo senso si configura anche l'Agricola di Tacito.

Dato che Tacito non aveva potuto essere presente al funerale del suocero, scrive per lui quest'opera che, pur presentandosi come encomio funebre, si inquadra perfettamente nella riflessione politica tacitiana.



L'incipit stesso dell'Agricola afferma che, mentre nei tempi antichi (la Roma Repubblicana), agire virtuosamente era cosa normale, nel suo tempo colui che agisce virtuosamente viene avversato, a causa della corruzione dei tempi.

E qui parte il ricordo della vita del suocero, che viene presentato da Tacito come un uomo che aveva sempre attivamente collaborato coi principi, sia buoni che cattivi, per il bene dello Stato.

Il fatto che Agricola fosse stato collaboratore anche dei principi corrotti avrebbe potuto essere interpretato come una sorta di "collaborazionismo", come una scelta opportunistica.

Per evitare questa interpretazione Tacito utilizza due argomentazioni: il primo è riportare nella biografia delle "voci", dei "rumori" che egli sostiene circolassero a Roma dopo la morte di Agricola, ovvero che sia stato lo stesso Domiziano a far uccidere Agricola, che così appare vittima della tirannide.

Il secondo è un'apologia non solo del suocero, ma di tutti coloro che non si opposero apertamente a Domiziano.

Agricola aveva due possibilità: opporsi o collaborare.

Opporsi alla tirannide sarebbe stato un atto magari anche eroico, ma totalmente vano, perché l'esito sarebbe stata sicuramente la morte.

Solo collaborando con Domiziano, e cercando, nel suo piccolo, di agire bene indipendentemente dalla corruzione del sistema, Agricola aveva la possibilità di fare qualcosa di tangibile per il bene della patria ("Si può essere uomini grandi anche sotto cattivi principi").

E' vero che alla fine Agricola è morto comunque, ma ha saputo morire in silenzio dopo una vita vissuta al servizio dello Stato, ben più proficua di quelle degli "uomini illustri" che per la loro totale intransigenza, si sono opposti apertamente al principato facendosi uccidere inutilmente.


Già nell'Agricola, dunque, vediamo due aspetti fondamentali della riflessione politica di Tacito.

Da una parte prende posizione nel conflitto tra ideologia senatoria e monarchia in linea di principio, dall'altra parte però prevale il sostanziale pragmatismo di Tacito, la coscienza della necessità di scendere a compromessi per il bene dello Stato.

E questo è un aspetto che ritornerà anche degli Annales, in cui, pur rispettando l'alta dignità morale degli oppositori al regime della dinastia giulio-claudia, mostra come la loro abrupta contumacia sia risultata sterile per la comunità.



Dal punto di vista prettamente letterario l'opera è definibile una monografia storico - biografica.

I primi capitoli sono essenzialmente biografici, perché parla degli episodi della vita di Agricola. Tuttavia abbiamo anche un'ampia sezione a carattere etnografico sulla Britannia (e qui c'è l'influenza fortissima di Cesare), poi una ventina di capitoli riguardanti proprio la conquista della Britannia ad opera di Agricola.

Infine abbiamo altri capitoli nuovamente a carattere biografico che culminano con l'elogio funebre.

Oltre al già citato Cesare, l'influenza maggiore che Tacito avverte è proprio quella di Sallustio, soprattutto nelle narrazioni delle vicende di guerra (Bellum Iughurtinum). Anche dal punto di vista stilistico da Sallustio è mutuato l'uso di infiniti storici e di ellissi. Nei capitoli finali, dal tono più prettamente oratorio, invece c'è un po' di influenza anche da parte di Cicerone.







LA GERMANIA


Poco dopo l'Agricola, nel 98, Tacito pubblica anche De origine et situ Germanorum, ovvero la Germania.

Si tratta di uno scritto di carattere etnografico, sulla scia di tutti gli excursus su paesi e popoli stranieri ampiamente presenti in tutta la letteratura greca e latina. In realtà però questa è la più antica monografia esclusivamente etnografica della letteratura latina che sia arrivata fino a noi, perché nel De bello Gallico di Cesare gli inserti etnografici erano solo a livello di excursus.


E' probabile che Tacito non sia mai stato in Germania, proprio perché non attesta nessun riferimento personale. Si rifà invece ad una serie di fonti, tra cui c'è appunto il De bello Gallico di Cesare, il III libro delle Historiae di Sallustio, che non ci è pervenuto, e il libro 104 degli Annales di Livio, anch'esso non pervenutoci.

Si pensa che tra le fonti ci fossero anche Plinio il Vecchio e addirittura alcune fonti greche. Tutto questo però non permette a Tacito di riportare anche notizie relative alle operazioni militari romane più recenti in Germania.


Tacito scrive quest'opera da una parte per un certo interesse in quanto ormai erano due secoli che Roma si confrontava con questo popolo, e non era ancora riuscito pienamente a sottometterlo. Infatti nel momento in cui Tacito scrive quest'opera, Traiano stava guidando una spedizione sul Reno con un forte esercito nel tentativo di consolidare i confini.

L'intento con cui Tacito scrive questa monografia, però, non è tanto una finalità geografica o erudita, ma sempre inquadrata nell'ambito storico - politico: il confronto tra il popolo romano e quello dei germani.


Il messaggio centrale della Germania consiste nella sottolineatura della purezza "naturale" dei costumi dei germani.

Per i popoli "primitivi", infatti, "la corruzione non si chiama moda".

Gli austeri costumi dei germani, il loro senso religioso, il desiderio di gloria militare, l'assenza di raffinatezze nell'educazione dei figli diventano un'occasione di rimprovero per la società romana.

Ai popoli "esterni", ai "barbari", i Romani avevano sempre guardato con un duplice sguardo. Da una parte c'è il compiacimento per il superiore grado di civiltà raggiunto; dall'altra c'è questo timore per la loro forza, strettamente connesso, per alcuni popoli, alla loro estraneità al vizio. Il popolo germanico, quindi, appare quasi come il "buon selvaggio", se mi è concesso l'utilizzo di questa figura tanto anacronistica, proprio in quanto la sua forza deriva da una naturalità ormai perduta dai Romani.

Una delle novità rispetto alle precedenti etnografie che conosciamo è la totale assenza dell'elemento fabulosum, della deformazione fantastica che era una delle ragioni del fascino di questo tipo di letteratura presso il pubblico.

Ma il fascino di questo elemento è sostituito dall'idealizzazione dello stato di natura, cosa che ha affascinato molto anche il nazionalismo moderno, con effetti che noi tutti conosciamo.

Tuttavia, se la forza dei Germani è la loro naturalità, Tacito non dimentica comunque che si tratta di un popolo barbaro, privo di leges e di instituta, e che Roma, per quanto vittima di una decadenza morale, resta comunque superiore.

Il modello romano risulta tanto superiore a queste popolazioni da giustificare, agli occhi di Tacito, il diritto alla conquista quale mezzo di diffusione dell'urbanitas, della civiltà.



DIALOGUS DE ORATORIBUS


Quest'opera è generalmente attribuita a Tacito benché permanga qualche dubbio sulla paternità.

Infatti Tacito è dato come autore dell'opera in gran parte dei manoscritti, che però sono tutte copie rinascimentali di un codice medioevale perduto, che conteneva anche l'Agricola, la Germania e il De Grammaticis di Svetonio. Pare che il nome non fosse presente, quindi a lungo studiosi hanno dibattuto tra diverse opzioni, se l'opera fosse di Tacito, di Svetonio oppure di autore non identificato.

Tra l'altro anche l'argomento non è molto vicino al tematica principale che adotta Tacito, e soprattutto lo stile è più vicino ad un classico ciceroniano che ad un baroccheggiante tacitiano.

Tuttavia abbiamo una lettera di Plinio che, rivolgendosi a Tacito, gli attribuisce una riflessione che è praticamente la stessa e con parole pressoché identiche a quelle di questo Dialogo, quindi si propende ad attribuirla a lui.


Il Dialogo si presenta come il resoconto di una conversazione cui l'autore ha assistito nel 75, quando aveva vent'anni.

Tuttavia ne parla come un episodio abbastanza lontano, oltre al fatto che utilizza diverse critiche anche nei confronti di personaggi influenti del periodo neroniano e flavio, quindi conoscendo Tacito si pensa che l'opera sia stata scritta in età post - flavia. A questo si aggiunge il fatto che è dedicata a Fabio Giusto, console nel 102, quindi si pensa che la data di stesura sia questa.


L'argomento del dialogo è proprio la decadenza dell'oratoria, presentata da alcuni tra i maggiori retori del tempo, Curiazio Materno, Giulio Secondo, Marco Apro, Messalla.

Apro nega che vi sia decadenza e dice che con il mutare dei tempi mutano anche i gusti e le forme dell'eloquenza.

Lo stesso Cicerone, dice, ora non sarebbe sopportato nei tribunali, perché troppo lungo e verboso. Bisogna trovare degli espedienti che rendano il discorso incisivo e brillante.

In Apro abbiamo il più efficace ritratto di un oratore di quel periodo, che ha una concezione schiettamente "professionale" e spregiudicata della sua arte, vista non più come espressione di tutto un insieme di valori, ma semplicemente come mestiere di avvocato. In particolare è un'impostazione molto sofistica: Apro ha coscienza del grandissimo potere della parola, e sembra pronto a farne un uso che si discosta totalmente non solo dalla visione aristocratica tradizionale, ma anche dalla morale.




Messalla riconosce la decadenza di quest'arte e ne individua le ragioni nel deteriorarsi dell'educazione e nell'impreparazione dei maestri. Viene dato un profilo idealizzato del sistema educativo antico; si polemizza invece contro il carattere fittizio e astratto delle declamazioni.

Messalla, contrariamente ad Apro, è il classico oratore ciceroniano. Ha un'idea di oratore che si forma attraverso lo studio di tutte le discipline e trasfonde tutta la sua cultura in un'arte che deve saper trattare anche di problemi generali. Tuttavia, è evidente, l'intervento di Messalla è totalmente anacronistico.


Anche Curiazio Materno dice la sua dando forse la spiegazione più valida per la decadenza dell'oratoria: l'oratoria fiorisce solo nelle fasi di "crisi politica". Quando si stabiliscono periodi di "pace" come quella in età imperiale l'oratoria ha minore influenza e quindi decade.

Materno si oppone alla amoralità del modello di Apro pur inquadrandosi in un'analisi oggettiva dei tempi, diversamente da Messalla. Se vogliamo questo personaggio è la voce più tacitiana della situazione.

Secondo lui quello dell'oratoria non è un declino naturale né un declino morale o educativo.

L'oratoria è tramontata perché è tramontata la Repubblica. Già Cicerone aveva profetizzato questa decadenza come conseguenza della fine del regime repubblicano.

Materno da uno sviluppo più originale. L'oratoria per lui non è cosa "tranquilla e pacifica", ma fiorisce solo in momenti di crisi. Così la medicina non può che fiorire in periodi di grandi malattie.


LE HISTORIAE


L'opera è senza titolo nel manoscritto che le conserva, ma questo titolo lo possiamo ricavare da una citazione di Tertulliano. Girolamo ci testimonia che le Historiae e gli Annales costituivano un'unica opera di 30 libri, ma a noi ne sono giunti solo 17 (si pensa che fossero 12 o 14 per le Historiae, 16 o 18 per gli Annales).

Le Historiae sono dedicate all'età flavia (dal 69 al 96), ma noi possediamo solo i primi 4 libri e parte del 5°, che trattano solo fino agli inizi del 70.

La composizione dell'opera è incerta, ma va sicuramente tra il 100 e il 110, perché in una lettera di Plinio il Giovane a Tacito egli fa riferimento a materiali che servivano alla composizione delle Historiae.

Nell'Agricola Tacito annunciava il progetto di scrivere un'opera che testimoniasse dello stato di schiavitù da cui Roma era appena uscita e della felice età presente.

Con le Historiae Tacito mantiene la prima promessa, promessa che si presentava molto ambiziosa: si trattava di rievocare gli eventi di un passato molto recente, di parlare quasi di fatti di cronaca, di un'età contemporanea che, con la sua brutalità e tirannia, aveva segnato profondamente l'Impero.

Tanto più che Tacito, come molti personaggi di spicco dell'epoca, avevano collaborato attivamente con Domiziano ed erano giunti a considerevoli cariche politiche.

Quindi Tacito ha bisogno di ribadire, nell'accostarsi a quest'opera, la propria imparzialità nel proprio giudizio: infatti, dice nel proemio, chi si accosta alla verità deve parlare di tutti senza né amore né odio.

E oltre a questa vicinanza cronologica, che impedisce una visione distaccata, un'altra difficoltà è l'oggettiva complessità della materia a cui Tacito si accosta.

Si rende conto, infatti, che questo è un periodo denso di eventi: 3 guerre civili, 4 principi morti di morte violenta, problemi anche nelle provincie.

E soprattutto è ambizioso l'intento che Tacito si propone: indagare le radici della crisi che agitava ai suoi tempi la compagine senatoria e che aveva reso necessario un cambiamento dei rapporti politici all'interno delle istituzioni, cioè che aveva reso necessario il principato.

Pur senza nascondere i propri sentimenti repubblicani, Tacito riconosce la necessità storica del principato in un momento in cui il senato è arrivato ad una degenerazione tale da non poter più reggere un impero.

Il problema però si pone quando anche il principato degenera in comportamenti tirannici, come è successo storicamente in particolare sotto Nerone e Domiziano. Per evitare questa complicazione e per assicurare un clima di concordia istituzionale tra senato e principe (la nuova libertas), Tacito propone il sistema dell'adoptio, sulla quale opera una lunga riflessione nei primi libri dell'opera.

Infatti Galba, il primo imperatore dopo Nerone, aveva adottato Pisone, e in quest'occasione pronuncia un discorso che funge da argomentazione sulla superiorità politica ed etica del principio di adozione rispetto al principio di eredità familiare del potere.

Questa riflessione risulta di grande attualità nel momento in cui Tacito scrive quest'opera: anche Cocceio Nerva aveva adottato un più giovane e valente successore, Traiano. Si tratta, per dirla alla Vico maniera, di corsi e ricorsi storici.

Tuttavia anche il principio dell'adozione sembra essere un'arma a doppio taglio, perché già il successore adottato da Traiano, Adriano, era un suo parente.

Una caratteristica importante dal punto di vista narrativo è l'organizzazione il blocchi.

Poiché la materia da trattare è complessa e si svolge in teatri differenti e topograficamente distanti, non si può utilizzare completamente uno schema narrativo lineare, una fabula.

Tacito quindi organizza il racconto dedicando ad avvenimenti contemporanei blocchi narrativi distinti e successivi; deve quindi a volte tornare indietro nel tempo a riprendere l'esposizione da un punto anteriore a quello che aveva già raggiunto, perché comincia a trattare di una tematica diversa.

Oltre a questo, la narrazione risulta fortemente asimmetrica, con un fortissimo rallentamento temporale nel primo anno (69), tanto che gli dedica 4 libri.




GLI ANNALES


Nel manoscritto che la tramanda, l'opera è intitolata ab excessu divi Augusti.

Presumibilmente questo era un sottotitolo che doveva essere preceduti da Libri o Annales.

L'opera trattava la storia dell'impero dalla morte di Augusto fino alla morte di Nerone, per poi ricongiungersi con le Historiae. Ora ci rimangono due serie di sei libri, entrambe lacunose: il regno di Tiberio, parte del regno di Claudio e il regno di Nerone fino al 66. I più sono propensi a credere che gli Annales secondo il progetto di Tacito dovessero constare di 18 libri.

Come nelle Historiae anche qui Tacito professa la propria imparzialità; afferma che narrerà sine ira et studi, non avendo motivo di rancore verso la dinastia giulio - claudia.

A caratterizzare l'epoca narrata negli Annales non sono gli eventi esterni come le campagne militari o la politica interna; è la personalità del princeps e accanto a lui le sue mogli, i suoi liberti, i suoi consiglieri.

La chiave per chi voglia comprendere questo periodo è penetrare nella mente dei principi e di quanti compongono l'entourage del potere.

Proprio in questa capacità di penetrazione psicologica e in questo sguardo cinico e disilluso con cui guarda dietro le quinte del potere stanno le grandi doti di Tacito narratore.














CARATTERI DELLE OPERE MAGGIORI


IL PROGRAMMA STORIOGRAFICO DI TACITO


Tacito non mantenne l'impegno, assunto nell'Agricola, di celebrare con un'opera storiografica l'età contemporanea.

Probabilmente non ebbe mai quest'intenzione, perché il suo animo critico e lucido non era adatto alle celebrazioni.

Ma, nel caso in cui avesse voluto davvero celebrare il presente, probabilmente ha desistito perché i fatti lo delusero.

Si rese cioè conto che quella libertas che era stata raggiunta sotto Traiano e Adriano non era poi così ampia da permettergli di trattare in maniera oggettiva dei fatti contemporanei.

Di fatto però, secondo il critico Citroni, la considerazione del presente è sempre implicita nel disegno storiografico di Tacito.

In realtà il processo storiografico di Tacito consiste nel tornare mano a mano indietro per comprendere le ragioni che hanno portato poi agli sviluppi storici successivi.

Con le Historiae, partendo dall'esperienza dell'asservimento in cui era vissuta la generazione sotto Domiziano, cerca le radici di questo fenomeno storico nel periodo precedente, a partire dall'inizio dell'età Flavia.

Con gli Annales, cercando le radici dei fenomeni osservati in età flavia, arriva fino all'inizio dell'età imperiale, cioè dal passaggio del regno da Augusto a Tiberio, ossia dal momento in cui la monarchia diventa un'istituzione a base ereditaria.



E negli Annales si ripromette anche, in un'opera futura, non solo di celebrare il presente, ma di risalire ancor più indietro nel tempo, nell'età repubblicana.

Insomma, Tacito, muovendo dall'attualità e dall'osservazione di fatti storici contemporanei, ricerca le cause e le origini nel passato.

Quest'analisi, però, è vista però in relazione ai meccanismi propri del potere e ai rapporti che gravitano attorno ad esso.

Non a caso, negli Annales, il punto di partenza della narrazione non è tutto il principato augusteo, ma la sua ultima parte, quella in cui cominciano le macchinazioni e i giochi di potere per la successione ad Augusto.

Questo metodo di ricerca attraverso il meccanismo causa - effetto era stato tipico, prima di Tacito, solo di Sallustio nella letteratura latina.

Livio era stato uno storico quasi "letterario", in quanto aveva concepito la sua opera a scopi che prescindevano da intenti analitici, ma dovevano essere da esempio morale per i romani.

Sallustio, nelle sue opere, aveva un'impostazione d'indagine che ricorda molto quella di Tacito.

Le analogie sono dovute essenzialmente al fatto che sia Sallustio che Tacito sono esponenti della storiografia senatoria.

Differentemente da Livio, Tacito e Sallustio, avendo delle dirette esperienze politiche, erano dei "tecnici" della storia, potevano concepire la storia solo come qualcosa di strettamente connessa con l'azione politica.

E infatti la storiografia è la ricostruzione di vicende del passato che costituisce un patrimonio di conoscenze e riflessioni indispensabili per chi è a sua volta impegnato nell'azione politica.

Per questo motivo la storiografia senatoria è essenzialmente storiografia politica, che come argomento i conflitti di potere. Non potremmo mai trovare in Tacito le vicende delle eroine Clelia o Lucrezia, volte a fornire un esempio di virtus del popolo romano delle origini.

A Tacito interessa ricostruire i rapporti e i conflitti esistenti tra i diversi titolari del potere: monarchia, senato, eserciti e, in ultima istanza, popolo.




IL METODO STORICO DI TACITO


Tacito nel corpus delle sue opere si è valso di numerose fonti, anche documentarie, che ha vagliato con spirito critico.

Mentre in Livio si potevano notare spesso contraddizioni interne nella sua opera, più versioni di uno stesso avvenimento sovrapposte o confuse, in Tacito c'è una forte rielaborazione di fondo che si traduce in un'opera molto organica e impostata con rigore quasi scientifico.

Innanzitutto Tacito scrive una storia dell'impero, e la storia dell'impero è incentrata sul problema del potere e delle responsabilità di chi lo gestisce. Il che vuol dire che la storia di Tacito deve incentrarsi sui depositari del potere, ossia la corte imperiale e, in misura minore, anche l'aristocrazia.

Poiché Tacito si interessa soprattutto dei rapporti di potere, risulteranno sicuramente in secondo piano la vita civile e amministrativa dell'Impero, nonché le condizioni economiche e sociali, soprattutto delle province.

Bisogna dire però a questo punto ricordare quel che Tacito afferma nell'Agricola: anche se gran parte del potere è in mano ad imperatori corrotti, è comunque possibile ai depositari marginali del potere (i funzionari statali), operare in modo giusto, favorevole alla collettività.

Tuttavia l'operato dei governatori delle province e funzionari statali è valutato secondo criteri in primo luogo moralistici, senza rifarsi ad una legislazione di fondo.

Anche gli imperatori, del resto, sono giudicati in base al loro comportamento morale più che al loro effettivo operato.

Tutto questo si traduce dunque in una visione moralistica della problematica storica.

Nella storiografia di oggi questo risulta un difetto inaccettabile, ma in realtà questo è effettivamente un limite di tutta la storia antica, e Tacito non poteva superarlo.

Tuttavia, rispetto ad altre fonti antiche, Tacito presenta comunque caratteristiche più vicine al metodo storiografico moderno.

Infatti offre, seppur in maniera sporadica, informazioni e riferimenti sull'attività legislativa, su misure economiche ed anche sui problemi dell'organizzazione della vita civile.

Ed è proprio grazie a questi riferimenti che Tacito menziona quasi per caso che la moderna storiografia ha potuto rivalutare in qualche modo l'operato di imperatori come Tiberio e Claudio, che Tacito stesso in realtà denigrava.


Un altro elemento di novità in Tacito è che Tacito per primo evidenzia come sedi potenziali, seppur marginali del potere, anche l'esercito e il popolo.

Quanto Tacito narra le vicende militari, mostra impegno nell'analizzare i rapporti tra soldati e comandanti e i processi che muovono le masse militari al consenso o al dissenso con i capi. Ma il fatto che l'esercito venga visto come soggetto politico non è tanto sorprendente quanto il fatto che questa caratterizzazione venga assunta, in maniera minore, anche dal popolo.

E' vero che molto spesso il popolo è presentato solo come una massa apolitica che subordina le proprie azioni a impulsi irrazionali, ma vi sono anche momenti in cui nel popolo aleggia una parvenza quasi indistinta che però non trova altra denominazione se non quella di opinione pubblica, con cui il potere deve confrontarsi.



La storiografia tacitiana è appunto la risultante di questo processo dialettico tra le masse politiche e pseudopolitiche, che viene indagato secondo il metodo scientifico dei rapporti causa - effetto.

Tacito ha un approccio interamente razionale alla storia; lo storico può condurre l'analisi alla storia solo attraverso lo strumento della ragione.

Questo aspetto più di ogni altro lo pone sulla scia di altri "scienziati della storia" come Tucidide e Sallustio.

Ma proprio per questa metodologia così ferrea, questi autori hanno tutti in comune una visione desolatamente pessimistica della storia e della natura umana: gli uomini agiscono spinti da passioni, istanze opportunistiche, da interessi. Questo atteggiamento disincantato e lucido è possibile a Tacito in quanto esponente dell'aristocrazia senatoria.

Il senato, avendo per secoli detenuto il potere, conosceva per esperienza bassezze e inganni che all'esercizio del potere sono direttamente collegati. E infatti spesso Tacito evidenzia come, dietro a patine nobilitanti di restauratori della libertas, si nascondano governi autocratici responsabili delle più atroci brutalità.

Tuttavia, anche se la storia può essere indagata attraverso strumenti razionali, Tacito non nega che esistano anche delle variabili, che sono essenzialmente di due tipi: le scelte soggettive di chi detiene il potere e il caso.

Quando il potere si trova nelle mani di un'unica persona, esso è gestito secondo leggi oscure che non tutti possono penetrare: le chiama arcana imperii, "segreti del potere", che costituiscono una componente imperscrutabile che sfugge al controllo umano e alla comprensione storica.

La condizione fondamentale dell'imperare era che gli imperatori non dovevano rendere conto a nessuno del proprio operato, e giustificavano le proprie azioni dicendo che solo all'imperatore era dato conoscerne le motivazioni.

In realtà per la maggior parte gli arcana imperii erano dettati da motivi di interesse, ma attorno ad alcuni di essi esistevano motivazioni assolutamente misteriose.

Ma esistono per Tacito variabili casuali di più ampio genere, che possono condizionare pesantemente le vicende umane.

Tuttavia non assume verso questi problemi una posizione filosofica definita, ed in questo è senz'altro erede di Tucidide.

Si limita a fare riferimenti alla potenza del caso, del destino, che sistematicamente si prende gioco degli uomini.

Filosoficamente un problema affine era stato affrontato dagli stoici: la providentia degli stoici costituiva una componente razionale ma spesso di difficile comprensione, che però garantiva che, nel loro insieme, i fatti si svolgessero sempre nel modo migliore in cui si potessero svolgere.

Tacito non condivide questa visione: come è pessimista sulla natura umana, è pessimista anche sulla natura divina.

Se gli dei intervengono nella storia, essi intervengono non a vantaggio degli uomini, ma a loro danno.

Più volte insomma Tacito fa riferimento a questo insieme di variabili imperscrutabili e incontrollabili che condizionano la storia. E tutto questo costituisce una nota di angosciante enigmaticità che rende ancora più tragica la vicenda umana ricostruita in quest'opera.






TACITO E L'IMPERO


L'ideale etico - politico di Tacito, al cui servizio egli pone la sua storia, non ha in sé una vera e propria originalità.

Tacito è l'ultimo erede di quella austera tradizione moralistica che aveva caratterizzato personaggi di spicco della letteratura latina come Sallustio.

Egli è nostalgicamente legato al costume e al ricordo della vecchia repubblica aristocratica: il suo ideale di vita è ancora quello del civis romanus che si consacrava al negotium.

Il conservatorismo moralistico di Tacito rimanda al mito di un passato senza tempo  incorrotto, ed ogni mutamento avvenuto nel corso della storia gli pare segno di decadenza e corruzione (infatti il modello insuperato di legislazione sono le Dodici Tavole).



Ma questo passato incorrotto è per l'appunto senza tempo, al di fuori della dimensione storica, in un mondo prettamente ideale. E in Tacito non è l'idealismo a prevalere, ma una forte lucidità che si traduce in un quasi cinico pragmatismo.

Anche la repubblica, infatti, non è esente da pecche.

La res publica si caratterizzava per una forte debolezza strutturale che comportava sempre il rischio terribile delle guerre civili e dell'anarchia militare.

Finché il dominio di Roma rimaneva ristretto alla sola Italia, la gestione di uno Stato repubblicano era ancora sufficientemente stabile.

Ma con un territorio così sterminato è necessario uno Stato che presenti una forte coesione che l'ordinamento repubblicano non era in grado di fornire.

E qui scatta la necessità storica dell'Impero.

La valutazione di Tacito sulla monarchia e il rapporto tra aristocrazia e impero è il problema centrale dell'interpretazione della sua opera.

Tacito non ama il principato come istituzione, perché significa la negazione della libertas come era stata intesa in età repubblicana.

Ha preso atto però che la monarchia è stata imposta per porre un freno all'eccesso di licenziosità che caratterizzava l'ultima età repubblicana, e che a questo punto la monarchia è indispensabile per salvaguardare lo Stato da minacce esterne e guerre civili. E salvaguardare lo Stato da invasioni esterne e guerre civili è l'unica cosa che Tacito pone sopra a tutto, persino sopra le libertà individuali che si erano raggiunte in età repubblicana.

E' però un errore di Tacito non capire il valore delle idee e della trasformazione della società, di vedere nel passato il depositario di ogni virtù, nello spirito tradizionalista della vecchia aristocrazia l'ideale etico supremo.

Da qui c'è il contrasto tra grandezza del passato e bassezza del presente; in questo modo lo spirito conservatore si manifesta attraverso il forte pessimismo.

Tacito vede solo degenerazione là dove è evoluzione storica: la virtù per lui è nella vecchia nobiltà, secondo una concezione tradizionalistica che fa del ceto non aristocratico una gente moralmente e intellettualmente inferiore.

Fatta questa premessa è naturale che Tacito non vedesse di buon occhi l'impero che aveva condotto ad un certo livellamento delle classi sociali, al cosmopolitismo, alla mescolanza delle genti, alla contaminazione dei costumi.

Il sentimento di casta è fortissimo in Tacito e si manifesta con il profondo disprezzo per la gente salita dal basso: schiavi, liberti, plebei.

A parte questi "inconvenienti" correlati quasi fisiologicamente all'Impero, esiste anche un altro pericolo insito nel principato, ovvero che il principato degeneri a dispotismo, come effettivamente è successo, specie con Nerone e Domiziano.

La storia dell'Impero è per Tacito in gran parte storia del decadimento morale dei Roma e dell'asservimento delle coscienze sia aristocratiche che popolari.

Infatti Tacito si preoccupa di mettere sempre bene in luce i vili episodi di servilismo di alcuni senatori che elogiavano prontamente gli imperatori anche nel loro compiere gli atti più brutali e meschini.

L'impero, pur avendo portato pace, ha significato l'avvento del dispotismo e ha segnato il venire meno della dignità dell'aristocrazia.

Ecco perché, pur volendo restaurare la repubblica, questo non sarebbe possibile: perché il senato ha perso qualsiasi forza e dignità.

Questi sono i pericoli connessi al regime tirannico.

L'unico modo per prevenire questa degenerazione è l'utilizzo di un sistema di successione basato sul principio dell'adoptio invece che sulla discendenza.


Delineato il pensiero di Tacito riguardo alle istituzioni imperiali, rimangono due interrogativi di carattere pratico che interessavano particolarmente la vecchia classe dirigente senatoria:

1) E' possibile conciliare in qualche modo la libertas con l'Impero?

2) Qualora si instaurasse un regime tirannico, la classe senatoria deve collaborare e svilirsi nel servilismo o opporsi?


Cominciamo con il dir 646j96g e che Tacito da una nuova interpretazione del termine libertas, intesa non più come rivendicazione dei diritti e prerogative di una classe che governava la res publica, ma come sano e corretto rapporto tra il principe e il senato.

La libertas è quindi l'insieme delle condizioni necessarie che permettono un comportamento non servile nei confronti dell'imperatore, ma una leale collaborazione per il bene dello Stato.

Storicamente la dinastia giulio-claudia e quella flavia hanno sistematicamente calpestato i valori umani di moralità, giustizia e dignità.

Ma con Traiano si è aperta, dice Tacito, una nuova era: ma se davvero Tacito avesse creduto che sotto questi imperatori si fosse realizzata una perfetta fusione di principato e libertas, allora perché tutta la sua opera è dominata da un panorama tanto fosco e desolante?

Evidentemente le lodi a Traiano sono solo formulari, oppure, com'è più probabile, Tacito credette veramente che la situazione fosse cambiata ma poi i risultati lo delusero. Ciò non toglie che Tacito riconosca una grande differenza tra principatus e dominatus, ma nota comunque che nemmeno il principatus è esattamente il regime ideale.


Quindi, visto che la libertas non potrà più essere raggiunta pienamente, è lecito collaborare con il regime o bisogna chiudersi nella propria intransigenza?

Tacito aveva già risposto a questa domanda con la sua prima opera, la Vita di Agricola.

Tacito ci ricorda che esistono quei funzionari statali e personaggi politici che, pur vivendo sotto un regime corrotto, non hanno perso la propria grandezza, esercitando con giustizia gli incarichi militari o amministrativi che erano stati loro assegnati.

Questa è l'unica strada che Tacito vede positivamente, l'unico modo che la classe senatoria ha per cercare di fare del bene alla collettività.

Infatti Tacito critica fortemente coloro che tentarono di sovvertire il regime imperiale, sia perché ravvisa in loro un certo compiacimento esibizionistico, sia perché arrivati a questo punto qualsiasi sforzo risulta vano.

Repubblica e valori repubblicani sono certo ideali nobili, ma ormai inattuabili, perché ormai la degenerazione della classe senatoria è arrivata ad un punto tale da rendere la repubblica impossibile.





LA NARRAZIONE IN TACITO


Tacito ricostruisce gli eventi di un'età in cui la vita appare scandita dal succedersi dei vari imperatori; tuttavia l'impostazione che da alle sue opere principali è annalistica, e quest'impostazione era tradizionalmente legata al succedersi dei consoli della libera res publica.

Infatti le Historiae non cominciano con la morte di Nerone o con il regno di Galba, ma con il 1° Gennaio 69.

E' sintomo di una volontà di travalicare la condizione attuale di impero legato alle singole individualità imperiali per volersi porre sulla linea delle tradizioni repubblicane.

Tuttavia quest'impostazione presenta notevoli complicazioni per chi come Tacito vuole indagare la storia attraverso le connessioni più profonde dei fatti. In questo modo Tacito è costretto a spezzare spesso i fatti e a riprenderli successivamente, senza poter mantenere a lungo un filo logico - narrativo.

Nonostante queste difficoltà Tacito non abbandonò l'impostazione annalistica, il che significa che per lui l'istanza di collocare la storia di Roma imperiale entro una prospettiva repubblicana era di primaria importanza.

Significava, cioè, ricercare la sopravvivenza del prestigio repubblicano anche nella dimensione monarchica.

Questa scelta tuttavia non va a scapito della comprensione degli eventi perché Tacito inserisce la narrazione dei fatti entro quadri narrativi più ampi, che sono suddivisi per via tematica: per esempio la congiura di Pisone del 65, con anticipazioni degli eventi degli anni precedenti e seguenti. Le vicende tendono ad organizzarsi attorno alle figure degli imperatori, che costituiscono i protagonisti degli eventi storici.

A questo effetto è funzionale anche la suddivisione dei libri: negli Annales l'inizio e la fine del regno di un imperatore corrispondono all'inizio e la fine di un libro.

I libri non sempre finiscono con la fine di un anno, ma spesso con avvenimenti di notevole effetto narrativo (come grandi scene di morte): per esempio la morte di Messalina nel libro XII o la morte di Ottavia nel libro XIV.

L'effetto di "sequenza continua" degli eventi si combina con l'effetto "a grandi quadri", e questo dona alla narrazione maggiore vivacità e suggestione.

Insomma, abbiamo visto che Tacito si pone come erede della grande storiografia pragmatica di Tucidide e Polibio, in quanto la sua narrazione è volta alla ricostruzione oggettiva degli eventi; tuttavia, come aveva fatto anche Sallustio, combina gli insegnamenti greci con quelli della storiografia "tragica". E' pronto dunque a sfruttare momenti più avvincenti della narrazione per poter introdurre l'analisi psicologica dei personaggi o di qualche aneddoto sul loro conto.

L'introduzione di questi momenti, però, non va vista come una volontà di alterare la narrazione storica (come per esempio avveniva nella storiografia su Alessandro), proprio perché Tacito le inserisce entro limiti molto asciutti e severi e totalmente privi di componenti metastoriche o irreali.

Per esempio il racconto delle imprese militari, degli spostamenti dei soldati, del valore dei combattenti, ha talvolta un'imponenza epica. Ma non è un'epica trionfante, ma piuttosto amara e desolata, segnata da eserciti rissosi e sempre in cerca del proprio interesse, e, nel caso delle Historiae, segnata dalla cicatrice della guerra civile.







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