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Commento al Canto XXXIII dell'Inferno di Dante

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Commento al Canto XXXIII dell'Inferno di Dante


Il canto ha i suoi punti nodali nell'incontro con i cittadini di Pisa e di Genova, due città in cui Dante ritrova confermata la sua diagnosi pessimistica sullo stato della civiltà comunale: nati dalla necessità di creare una società più democratica e civile, ed un'economia più agile e moderna, i Comuni impigliatisi in una serie di guerre fratricide sembrarono col tempo regredire verso costumi di ferocia barbarica. Le lotte tra le fazioni, spesso verniciate di ideologie, tutte però alimentate dalla frenesia del potere e dal disprezzo del debole e del vinto, insanguinarono le città e coinvolsero nella distruzione anc 858c23i he gli innocenti. Su questo sfondo di violenza barbarica si colloca in un'ambientazione infernale di allucinante immobilità (ghiaccio, un deserto bianco popolato di teste, un orrido pasto cannibalesco) l'episodio del Conte Ugolino. Il quale è rimasto e rimarrà eternamente chiuso nei limiti feroci della sua società e della sua storia, dominate da tradimenti, crudeltà, odio, brama di potere, guerra; onde, come portato della illogicità umana, la dissoluzione del vivere civile, la corsa del genere umano alla dannazione, dolore in terra e nell'al di là. Ugolino, nel fondo dell'inferno, diventa simbolo del male umano e della sua forza dissolvente. Intorno a lui, nella Muda e nella ghiaccia infernale, c'è la città, c'è il mondo di cui egli è frutto: perciò l'angoscia che egli soffrì, e ora in eterno soffre non può generare pietà per lui, ma per gli innocenti travolti da quel gorgo di passioni irrazionali. Infatti l'episodio ruota su due temi che si congiungono e si riflettono: il tema della ferocia dell'uomo di parte, che conserva le forme di brutalità che gli furono proprie in terra; l'altro della vita affettiva, del Conte Ugolino che è di strazio, di dolore e soprattutto di desiderio di vendetta. Il Conte diventa il concreto simbolo di una società che ha tra le altre anche la responsabilità di assassinare gli innocenti: quei bambini non li uccise lui, ma è anche vero che di quella morte è indirettamente responsabile perché protagonista di una politica faziosa e proterva. Quei figli non stanno sullo sfondo da accusare solo l'arcivescovo, ma anche Ugolino. Questi è accusato anche come padre: non aiutò i figli perché impigliato nelle passioni che lo condussero nel carcere doloroso, perché dominato da quel feroce urto di forze che ora lo legano per sempre alla brutalità. E sono i figli con l'offerta che fanno di sé come pasto alla fame del padre a porsi come simbolo di una società così insaziabile da travolgere e mangiare i suoi figli. Ancora una volta dietro quei volti di ragazzi che implorano c'è il volto brutale e rapace di una società che presa dalla furia demoniaca del potere non sa salvare neanche gli affetti elementari. Della pietà per i caduti, per gli straziati dagli odi altrui, si fa portavoce Dante. Alla fine la tragedia evocata da Ugolino è quella dei suoi figli, ed è più grande dei due protagonisti, è la tragedia della feroce ingiustizia delle parti, e del mondo e dell'umano destino. Corretto, dunque, il giudizio di chi distingue nell'episodio i due drammi, di odio e di strazio del padre, e di pietà e tenerezza per i figli e tutto l'episodio unifica in un rapporto dialettico di odio e di pietà.



La seconda parte del canto affronta il tema dell'anima che è all'inferno, prima che abbia esaurito la sua carica vitale: un demonio si impossessa del corpo e lo regge secondo linee di apparente normalità mentre l'anima è già confitta in Cocito. Se l'episodio di Ugolino si incentra sulla interazione di orrore e di pietà, l'episodio di Frate Alberigo si svolge attorno ai motivi della perfidia cinica e spietata, così ottusa da diventare inconsciamente grottesca. E dietro frate Alberigo si affaccia Branca Doria, esponente della vita tortuosa di una città come Genova, centro di ignominia e di ingiustizia. Questi episodi più che l'incontro con Lucifero chiudono coerentemente l'Inferno, in cui confluiscono gli uomini che con i loro traffici, con la oro crudele brutalità, con la mortificazione delle leggi elementari della vita religiosa e morale hanno intorbidato e sconvolto la vita del Comune accelerandone il processo di disgregazione. A questa crisi di cui la prima cantica offre ampia casistica di esempi Dante non dà altra risposta che quella che si addice alla sua coscienza e alle sue convinzioni: bisogna puntare sulla riedificazione della società devastata e percorsa da tanto male e ripartire dagli insegnamenti dati da Cristo e testimoniati e riaffermati da tanti santi, da uomini che non conobbero la violenza e respinsero le tentazioni del denaro e del potere.

Il castone in cui si colloca, dunque, l'episodio di Ugolino è quello etico-politico, l'unico che in Dante dà sempre concreti risultati di poesia e in cui bisogna trovare il nucleo di idee da cui muove e di finalità a cui tende. L'episodio di Ugolino ha avuto una serie di interpretazioni ed accettabili o no che siano, in tutto o in parte, recano il segno di nobiltà del poeta studiato. Alcuni di questi interventi critici, come il saggio del De Sanctis, sono anche autentiche pagine di buona prosa. E si deve al De Sanctis il primo moderno intervento sull'episodio, cercato e studiato nella sua essenza poetica oltre che come riflesso di un'epoca di durezza e di violenza. Per lui la tragedia di Ugolino è quella del padre che assiste impotente ma intimamente furibondo alla distruzione per fame di ragazzi che da lui implorano aiuto o a lui si offrono come vittime sacrificali: ma è anche dello stesso De Sanctis il cenno che in Ugolino abbia il suo posto anche il senso di colpevolezza di un padre che per la sua insania politica ha condotto nella sua stessa rovina i figli che l'età novella rendeva innocenti. Nella sua solitudine Ugolino grandeggia non più come un eroe che rivendica una vittoria, ma come lo sventurato su cui si accentra intera nella sua vastità, in ogni momento e in ogni prospettiva, la vicenda che si consuma all'interno di una torre, come in un inerme padre che vede dissolversi in modi atroci i figli l'uno dopo l'altro e assiste alle urla di dolore che lo colpiscono proprio nella sua affettività protettiva. Ed è questa segreta tragedia fatta di isolamento e di scansioni di morti, che Ugolino vuole che Dante comunichi ai vivi: questi devono sapere e devono imparare. E questo vuole Dante che i suoi contemporanei sappiano, perché tragedie come quella più non si ripetano. "Sanguinante protesta dell'umanità offesa contro la vendetta e il castigo che trapassano i confini dell'umanità stessa", definì l'episodio Benedetto Croce. Ed insiste anch'egli sulla tragedia dell'impotenza di un padre che soffre generosamente e si strazia non per sé ma per gli altri, e sul tema della paternità inumanamente trattata ed offesa dagli avversari. E su questa tematica insiste Ramat: "Ugolino è un peccatore giustamente punito, ma è stato uomo offeso da altro uomo in un diritto che deve sempre essere rispettato; la punizione inflitta dagli uomini ai loro simili non deve travalicare mai i segni che Dio vuole che siano osservati sempre. Qui si tratta del diritto della paternità e del diritto dell'innocenza e appunto dalla violazione disumana di tali diritti scaturisce la pena morale di Ugolino offeso; poiché in lui, pur degradato che sia, resta vivo quel legame umano essenziale del padre col figlio, che è segno universale della natura dell'uomo; vivo ancora in lui perché vi si radichi il suo dolore infernale". Ed un altro lettore finissimo dell'episodio Sansone, spostando il centro di interesse illumina la posizione dei figli il cui dolore si riflette sul padre che per essi non è più un anonimo seppur terribile esempio di imbestia mento infernale. Oggi, proprio movendo dall'osservazione centrale che Ugolino è un dannato ferocemente intento ad un pasto cannibalico, un traditore guardato con una certa freddezza iniziale da Dante, isolato da altri dannati ed evidenziato per la brutalità del suo gesto, si tende dai critici a sottolineare la posizione emblematica di Ugolino nella lotta comunale. La violenza non è solo degli avversari di Ugolino che sottopongono i ragazzi, i figli innocenti a tanto martirio: ma è anche in Ugolino. E se l'arcivescovo è condannato ad essere mangiato perpetuamente dal nemico abbattuto, Ugolino nel sogno assimila sé ad un lupo; implicitamente lupi sono anche i figli: sarebbero diventati degli uomini capaci delle stesse violenze che li hanno travolti. Ma i ragazzi sono lì il punto terminale della ferocia: per la violenza del padre anche loro sono implicati, per punire il padre o per sbarazzarsi di lui gli avversari scatenano il loro odio anche sui figli, intorno ai figli non ci sono come persecutori solo le grandi famiglie pisane, ma anche tutta la società che assiste partecipe o passiva al dramma e non lo ferma. Tutti colpevoli dunque, tutti responsabili: e l'accusa viene non da Ugolino, anche lui colpevole, ma dai figli, gli innocenti. Di qui l'invito ai Pisani a non commettere altri delitti efferati come questo. Dante non è il moralista manicheo che divide il mondo in bianco e in nero e vuole la pace come supremo ed unico bene; egli riconosce l'insuperabilità delle guerre e delle lotte. Ciò a cui mira e di cui vuole persuadere gli uomini, nel momento in cui li richiama al dovere di uomini e alla coscienza perché ne nasca il rimorso, è di vedere nascere una società che sopprima le vendette sui figli, gli eccessi degli odi, le dure e totali antitesi, le esasperazioni.


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