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Monti nacque alle Alfonsine di Romagna il 13 febbraio del 1754

letteratura



Monti nacque alle Alfonsine di Romagna il 13 febbraio del 1754 (24 anni prima del Foscolo); fece i primi studi nel seminario di Faenza, dove rimase fino al 1771, quindi si recò a Ferrara per studiarvi legge all'Università e si fece notare per certe sue poesie di stampo arcadico e per una cantica in terzine, la "Visione di Ezechiello", che piacque al cardinale legato Scipione Borghese, dal quale nel 1778 fu chiamato a Roma.
Divenuto segretario del duca Braschi, nipote di Pio VI, ottenne il titolo onorifico di abate e una pensione papale, e ben presto, adulando, seppe guadagnarsi i favori della Curia e, cantando, procacciarsi, in vent'anni di vita romana, fama di grande poeta.
Sono del periodo romano (1778-1797) "La bellezza dell'Universo&quo 111d33b t;, cantica in terzine che esaltano la potenza della Beltà nella creazione delle cose e degli animali; nella "Prosopopea di Pericle", paragona l'età dì Pio VI con quella del grande ateniese; l'ode "Al Signor di Montgolfier" che celebra la prima ascensione aerea; il poemetto "Il Pellegrino apostolico", scritto in occasione del viaggio del Pontefice a Vienna; i sonetti "Sulla morte di Giuda"; i "Pensieri d'amore"; le due tragedie "Aristodemo", d'argomento classico, e "Galeotto Manfredi", di soggetto medievale, l' "Epistola" in versi sciolti ad Anna Malaspina per la stampa dell' "Aminta" e la "Musogonìa" in ottava rima.

Nel 1791 il 36enne abate Monti sposò la bellissima Teresa Pikler, che doveva più tardi far parlare molto di sé; nel 1793 a Roma, come già accennata all'inizio, fu ucciso dalla furia popolare Hugon di Bassville, propagandista della rivoluzione, e il poeta compose un poemetto in terzine in cui immagina che, per espiare le sue colpe, l'anima dell'ucciso accompagnata da un angelo, sia spettatrice degli orrori di quella rivoluzione che voleva diffondere. La "Bassvilliana" rimase incompiuta ed è assai lontana dalle altezze della Divina Commedia che il Monti imita nel metro e nella forma di visione; eppure "...c'è in essa gran vigoria descrittiva e, se - come scrive il De Sanctis- fa difetto il calore della passione, c' è quella ricchezza, forse superflua, di colori e di suoni che contribuì in grandissima parte fortuna della poesia montiana".

La sera del 3 marzo del 1797, il Monti, che fino allora era stato il poeta della tradizione fieramente avverso alla democrazia rivoluzionaria, partì improvvisamente da Roma con il generale Marmont, inviato dal Bonaparte al Papa per la ratifica del trattato di Tolentino, e, prima a Firenze, poi a Bologna e infine a Milano, si mostrò ardente fautore delle nuove idee, sforzandosi di far dimenticare agli altri il suo passato, e la tanto applaudita e arcinota "Bassvilliana", anzi cercando di far credere che a Roma l'aveva cantata solo per paura.
Messosi sulla nuova via, "esaltò quel che aveva detestato e vilipese ciò che aveva lodato" nelle terzine sonanti delle cantiche "Il fanatismo", "La Superstizione", "Il pericolo". A Milano cominciò a adulare il Bonaparte nell'incompiuto poema in endecasillabi, "Prometeo", e nel gennaio del 1799 con un inno da cantarsi al teatro della Scala "Il tiranno è caduto. Sorgete", - all'opposto di come aveva fatto prima, glorificò il regicidio, infierendo contro il "vile Capeto" che, alcuni anni prima, aveva, esaltato nei versi della Bassvilliana. Ma il trasformismo non era ancora finito!

Venuti gli Austro-russi in Italia, il Monti, per sfuggire alle vendette, riparò in Francia, e a Parigi compose la sua terza tragedia, d'argomento romano, "Caio Gracco". Poi dopo la vittoria di Marengo di Napoleone, rivalicò le Alpi, salutando la patria con l'ode famosa "Bell' Italia, amate sponde", e la tranquillità della vita gli ispirò un magnifico poemetto in terza rima "In morte di Lorenzo Mascheroni", qui per bocca dell'autore dell' "Invito a Lesbia Cidonia", salito in Cielo e conversante con il Parini, con il Beccaria e con Pietro Verri, deplora gli esaltati e i demagoghi.
Avuta la cattedra d'Eloquenza e Poesia all'Università di Pavia, tenne per un anno l'insegnamento, ma nel 1804 interruppe le lezioni ed accettò l'ufficio di poeta del Governo Italiano. In realtà da allora fu il poeta di Napoleone, che celebrò in parecchi componimenti, fra cui "Il beneficio", "Il Bardo della Selva Nera", "La spada di Federigo II", "La palingenesi politica".
Intanto era nominato "Storiografo del Regno Italico" e nel 1810 portava a termine la meravigliosa traduzione dell 'Iliade, che può considerarsi il suo capolavoro.

Caduto Napoleone, il Monti fece buon viso agli Austriaci e cercò d'ingraziarsi con cantate ed azioni drammatiche quali "Il mistico omaggio", "Il ritorno d'Astrea", "L'invito a Pallade". Dai nuovi padroni -forse un po' diffidenti- , ebbe dei vantaggi, ma non certo come quelli ricevuti da Napoleone e passò gli ultimi anni della sua vita lontano dalla politica, tutto immerso nei suoi studi e tutto dedito alla Musa.
Sono di quest'ultimo periodo della sua attività l'idillio mitologico "Le nozze di Cadmio e di Ermione"; alcuni ritocchi alla "Feroniade" poemetto in versi sciolti cominciato a Roma e dove esaltava l'inizio della bonifica delle Paludi Pontine dovuta a Pio VI; il celebre "Sermone sopra la Mitologia" in difesa del classicismo; ed alcune liriche piene di dolcezza di sentimento; accettò la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca, in cui difende con calore "i diritti della lingua universale italiana contro le arroganti pretensioni dei Toscani, che alla lingua scritta e illustre, comune a tutta la nostra bella penisola, vogliono di sostituire il dialetto particolare che si parla al Mercato Vecchio o nel Casentino".

Afflitto dalla perdita del genero Giulio Perticari, dalle maldicenze contro la bellissima figlia Costanza, da una malattia degli occhi che gli tolse la gioia del lavoro e infine da una paralisi che lo costrinse quasi all'immobilità, il Monti cessò di vivere a Milano il 13 ottobre del 1828. Un anno dopo il Foscolo.

Come uomo il Monti fu fino all'inizio del Novecento giudicato molto severamente; oggi si cerca, forse con eccessivo impegno, di riabilitarlo attenuandone i difetti. Come poeta la fama di cui godette è di gran lunga superiore ai meriti. "La sua arte - scrive il Cesareo, forse un po' esagerando - è una continua menzogna. Per parer sincero dà in iperboli sgangherate; per parer magnifico cerca amplificazioni ventose; per parer ispirato sfoggia figurazioni eccessive; per parer armonioso riesce uniformemente sonoro. Fu un tenace assimilatore, ma dei grandi poeti, che egli imitò, non ritenne se non le abitudini esterne: della Bibbia l'accento profetico, di Dante il cipiglio vendicativo e la terza rima, del Klopstock la decorazione soprannaturale, dell'Ossian la falsa sublimità. Come tutti gli immaginifici, vale a dire i falsi poeti, ogni sua cura egli rivolse alla tecnica, e se ne rese veramente signore. Seppe la varia ricchezza della lingua italiana, trattò tutti metri con agile maestria, fu elegante e spesso potente coloritore d' immagini sparse, ebbe 1a frase pronta e fedele. Appunto per ciò riuscì molto meglio in qualche sonetto, come quello per il ritratto della figliuola, il cui pensiero si compie tutto dentro un'immagine sola; nel poema didascalico della "Feroniade" ove per la natura stessa dell'argomento ciascuna immagine sta da sé e nelle traduzioni, in quella dell' "Iliade" e nell'altra più bella, quantunque meno famosa, della "Pulcella d'Orléans", in cui non si tratta che di lucidare, con perspicacia evidenza, l'espressione dell'originale
"



Tra l'ultimo decennio del Settecento e i primi dell'Ottocento, si cominciò a chiamare romantico un orientamento culturale che abbracciava ormai ogni ambito dell'attività intellettuale, dalla filosofia alla scienza, dalla letteratura alle arti fugurative, alla musica.
Se in Germania rappresentò la reazione intellettuale della nazione tedesca all'oppressione francese,
i primi colpi di una stessa battaglia (l'oppressione era quella austriaca) ben presto si fecero sentire anche in Italia, ed ebbe il suo pro e contro.
Monti visse in un'epoca di grandi trasformazioni politiche, sociali, di costume. Ogni caso contemporaneo, drammatico o lieto che sia, è semplificato nei suoi versi, ridotto a spunto per esercizi di stile, scorribande esperte nell'amato mondo della mitologia, visite commosse al museo della letteratura. Come poeta e come persona fu ambiguo: tra opportunismo politico, incapacità a scelte coraggiose, fragilità di carattere, attuatore di una idea di arte-per-arte. Fu poeta mondano e d'occasione, un eclettico che diffuse nuove mode culturali. Per *De Sanctis si trattò di un autore leggero e superficiale, per *Binni un poeta del consenso. Usò materiali disparati: moduli e motivi biblici, virgiliani, alighieriani, della tradizione illustre del XVI secolo, shake speariani, ossianeschi ecc. I suoi esiti espressivi sono però al nostro orecchio monotoni, il verso è sempre sonoro e rilevato, sfasato rispetto agli affetti in gioco (o per troppo colore, o per troppa soavità). Come rilevò *Leopardi, Monti è "poeta veramente dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore in nessun modo". La sua lezione formale ebbe influenza sulla poesia italiana di tutto il secolo.

Da quanto si è detto appare chiaro che l'uomo Monti non ebbe un carattere fermo né una intelligenza coerente della vita e del mondo. Se a questo si aggiunge che i suoi frequenti e repentini mutamenti di opinioni furono sempre a favore del vincitore di turno, è evidente che la sua immagine venga avvolta in un sinistro alone di spregiudicatezza e di tornaconto che il comune criterio di valutazione morale non riesce a tollerare e giustificare. Eppure il Manzoni, buon conoscitore di uomini e cose e geloso custode della moralità civile e politica, non espresse alcuna riserva sul Monti ed anzi, in un giudizio rivolto all'artista ma che coinvolge anche l'uomo, gli riconobbe "il cor di Dante e del suo Duca il canto", volle cioè paragonarlo nel sentimento al "fiero" Dante e nello stile al "soave e georgico" Virgilio. E si badi che proprio il Manzoni, nell'ode "5 maggio", mentre si esime dall'esprimere un giudizio su Napoleone ormai morto - e quindi incapace di favori e di vendette - e lascia ai posteri "l'ardua sentenza", ci tiene a distinguere la sua poesia dalle altre "mille voci" che si erano macchiate "di servo encomio e di codardo oltraggio" (fra le quali, ovviamente, non include quella del Monti).

Fu quindi una tendenza assai comune e diffusa esaltare i vincitori e denigrare i perdenti, tendenza che in parte si spiega - se non si giustifica - con la difficoltà psicologica di accettare l'eccessiva celerità e aggressività dei fatti dell'epoca: si pensi che nell'arco di un quarto di secolo si passò dal regime monarchico assolutistico tradizionale (cioè inveterato e fatalisticamente accettato dalle masse popolari) al regime monarchico assolutistico del Congresso di Vienna e della Santa Alleanza (sentito come un'ingiustizia troppo palese e troppo gravosa da sopportare), attraverso la Rivoluzione Francese (che aveva proclamato i "Diritti dell'Uomo e del Cittadino", ma aveva anche promulgato diversi esemplari di Costituzioni liberali, ognuno dei quali rifletteva le esigenze del ceto sociale che si trovava al momento a gestire la rivoluzione) e attraverso l'avventura di Napoleone (che da rivoluzionario e liberatore s'era fatto tiranno). Naturale quindi che un temperamento un po' fragile - come certamente fu quello del Monti - si disorientasse facilmente in tanta confusione politico-sociale e si lasciasse trasportare dalle onde delle circostanze.

Ma l'atteggiamento politico del Monti si spiega forse in modo più radicale se si riflette sul ruolo che egli intese svolgere nella vita per naturale vocazione. A noi sembra che il Monti fosse sostanzialmente distante mille miglia dalle reali problematiche politiche e fosse invece esclusivamente intento a "realizzarsi" come artista. Al di là delle apparenze, forse a nessun poeta neoclassico riuscì, come a lui, di eludere psicologicamente i fatti della realtà e librarsi, fuori del tempo e dello spazio, su di un magico "Olimpo", ove fosse possibile rievocare i fantasmi senza età della Bellezza classica e farli rivivere per il puro godimento dello spirito. Tutto quello che realmente accadeva intorno a lui non lo interessava seriamente. A ciò si aggiunga che la fortuna e il favore, che accompagnarono la sua attività artistica, lo esaltarono a tal punto che egli finì col considerarsi la "voce" più alta del tempo e, quindi, l'unica cui spettasse di tramandare ai posteri le vicende della sua epoca. Egli si considerò per davvero il cantore ufficiale del suo tempo ed assunse l'onere di cantare quelli che egli considerava i "fasti" di quegli anni (e naturalmente sceglieva i fatti più risonanti e spettacolari, senza minimamente penetrarli nella loro essenza e nella loro validità storica ed umana).





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