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L'ERMETISMO: LA POESIA PURA

letteratura



L'ERMETISMO: LA POESIA PURA.

Poeti come Ungaretti, Montale e Saba venivano un tempo definiti poeti ermetici, mentre la critica moderna preferisce la definizione di "poesia pura", intendendo con questo termine una lirica essenziale, che rifiuta l'esteriorità illusoria e la falsa apparenza, fondata sulla magia della parola, tutta rivolta a scrutare il mistero infinito del vivere, anche attraverso il ricco gioco delle analogie che, come diceva Ungaretti, legano tra loro immagini senza fine. Di ermetismo (da Ermete, dio delle scienze occulte) si parla solo a partire dagli anni '30 con Quasimodo, per il quale i principi prima esposti (essenzialità) divengono come delle regole a priori e il poeta si compiace della sua incomprensibilità, di una ricercata oscurità (si pensi a "Oboe sommerso", una delle prime raccolte di Quasimodo).

Sulle concezioni della parola dei poeti puri (Ungaretti e Montale soprattutto, perché Saba fa delle scelte linguistiche molto diverse, prediligendo parole chiare e quotidiane, che non richiedono alcuno sforzo di comprensione) ebbero notevole influenza i simbolisti francesi (Unga 828d34i retti visse numerosi anni a Parigi), i quali puntavano sulla parola allusiva, che, secondo Mallarmé (poeta decadente), doveva liberarsi dalle scorie del linguaggio delle tribù per ritrovare una sua verginità semantica (depurare le parole della valenza che avevano assunto con l'uso, e riportarle al loro significato originale).

Un'altra influenza determinante fu quella delle Riviste letterarie, in particolare della rivista romana classicista "La Ronda", del 1919, della fiorentina "Solaria", del 1926, nonché dell'ultima stagione de "La voce", che abbandonò le tematiche sociali dell'inizio (Prezzolini). Queste riviste teorizzavano la prosa d'arte o, nel campo della poesia, il frammento lirico, cioè puntavano tutto il lavoro del letterato sulla distillazione della parola.



Infine, c'è anche una motivazione di carattere storico per cui questi poeti scelsero di puntare sulla forza evocatrice della parola, su un discorso poetico squisitamente esistenziale: chiusi nel tempio della sacra poesia, essi evitavano di compromettersi col Regime e di farsi celebratori delle conquiste del fascismo come tanti mediocri poeti dell'epoca (Quasimodo era comunista, Ungaretti no).


GIUSEPPE UNGARETTI (Alessandria d'Egitto, 1888 - Milano, 1970)

La prima raccolta di Ungaretti, "Il porto sepolto", è del 1916; il titolo allude al porto sepolto di Alessandria d'Egitto, città natale del poeta, e, metaforicamente, significa quanto c'è in noi di oscuro, di indecifrabile. Seguì, nel 1919, la raccolta "Allegria di naufragi". Ambedue queste opere confluirono poi, nel 1931, in un'unica raccolta "L'allegria", che ebbe la prefazione di Benito Mussolini. Ne "L'allegria" dominano le esperienze biografiche della Prima Guerra Mondiale, quando Ungaretti combatté come fante sul Carso; egli ci presenta la guerra nel suo crudo orrore, demistificando così le affermazioni dissennate degli interventisti e dei futuristi che nel Manifesto affermavano che la guerra era la sola igiene del mondo.

In queste poesie domina l'io lirico: Ungaretti parte da una tragica esperienza individuale, ma poi la universalizza, facendola divenire esperienza di una intera umanità. In che senso va inteso il titolo "Allegria di naufragi" (ossimoro)? Ungaretti allude al naufragio delle guerre e alla sofferta allegria dei reduci che, come naufraghi, ritornano alle loro case e si riappropriano della vita. Il naufrago, però, per riappropriarsi delle cose che gli sono ormai divenute straniere, deve rinominarle, dare ad esse un nome: partendo da questo presupposto, si comprende, allora, la ricerca ossessiva di Ungaretti riguardo alla singola parola, di cui egli vuole riscoprire e ritrovare il significato fonico primitivo, l'originaria valenza semantica. Per sottolineare come ogni singola parola viene dal poeta sottratta al silenzio, al buio, Ungaretti scrive versi spezzati, ricchi di pause, inframmezzati da spazi bianchi, che stanno ad indicare il silenzio da cui sboccia la singola parola. Ungaretti stesso, quando leggeva le sue liriche, scandiva con estrema lentezza le singole parole, lasciava dei profondi silenzi fra un gruppo di versi e il successivo. Ungaretti, proseguendo il discorso dei futuristi (che erano quelli che avevano iniziato a spezzare il verso), innova profondamente il discorso poetico. Nella raccolta "L'allegria" viene distrutto il sistema strofico, non c'è più la punteggiatura, Ungaretti si affida alla forza evocatrice della parola, che costituisce una frammentaria illuminazione della realtà. Le analogie diventano fulminanti , e accostano immagini che all'apparenza non hanno "fili" di congiunzione.

Il secondo tempo della poesia di Ungaretti è rappresentato dalla raccolta "Il sentimento del tempo", del 1933. Ungaretti mantiene intatto il suo concetto di poesia come rivelazione irrazionale di frammenti di realtà, mantiene intatta anche la fitta rete di analogie, ma introduce profondi cambiamenti sul piano formale. Scrive, infatti, Ungaretti di aver sentito rinascere in sé la "volontà di canto", e di aver provato il desiderio di cimentarsi con il metro nobile della poesia italiana, l'endecasillabo (di Cavalcanti, Leopardi, Petrarca). Dunque, in questa seconda raccolta domina l'endecasillabo, ritorna il sistema di strofe e di rime. Come denuncia il titolo, queste liriche sono dedicate per lo più allo scorrere del tempo, all'alternarsi delle ore della giornata, e delle stagioni, al dolore di sentire invecchiare la propria carne e il sentirsi perciò messo ai margini della vita.

Del 1947 è la raccolta "Il dolore", che è dedicata a due grandi sofferenze: la prima individuale, costituita dalla morte del suo bambino a San Paolo in Brasile; l'altra, invece, pubblica, civile, e riguarda l'occupazione di Roma durante la guerra. La raccolta è quindi divisa in due sezioni, intitolate rispettivamente "Giorno per giorno" e  "Roma occupata". Il dolore personale e quello collettivo danno vita ad un caldo invito verso la pace e la solidarietà fra gli uomini. Bisogna dimenticare i recenti contrasti politici (fascisti - partigiani) per lavorare in uno spirito di fratellanza.



Al 1950 risalgono i frammenti di un'opera mai conclusa, "La terra promessa", che avrebbe dovuto costituire un vero e proprio melodramma. Ungaretti ritorna al mito di Enea, al suo amore per Didone, all'abbandono e alla morte della donna; il viaggio Enea simboleggerebbe il tentativo di sfuggire alla legge del tempo, ma il tentativo è vano e si conclude, appunto, con la morte.



EUGENIO MONTALE (Genova,1896 - Milano,1981)

Faceva il giornalista critico musicale sul "Corriere d'informazione", Nobel, vacanze a Monte Rosso protagonista delle sue liriche, voleva diventare un cantante lirico.

Fin dagli inizi, la poesia di Montale appare sgombra da ogni mito, da ogni sovrastruttura, tutta tesa a indagare il mistero dell'esistenza. Si tratta di una poesia scarna, essenziale, che non si lascia sedurre da alcun mito decadente e che giunge ad un'unica certezza: non esistono certezze, e la vita è un enigma imperscrutabile. Per questo aspetto la poesia di Montale è stata accostata a quella di Leopardi: le accomuna la teologia negativa dei due intellettuali. Nelle sue opere mature Leopardi distrugge ogni ideologia progressista e rappresenta con chiarezza l' "arido vero" della vita, l'illusorietà di ogni fede; allo stesso modo, Montale non crede in alcun messaggio salvifico ed è convinto che l'artista non possa che lanciare agli uomini dei messaggi in negativo: "ciò che (noi) non siamo e ciò che (noi) non vogliamo".

Questo nucleo della poetica di Montale è già presente nella prima raccolta del 1925, "Ossi di seppia", ambientata in larga misura nel paesaggio delle Cinque Terre, assai familiare al poeta; non si tratta però di una lirica descrittiva, in quanto tutti i particolari della natura che vengono evocati assumono un valore emblematico: la natura, cioè, diventa simbolo della sofferenza umana universale. Ecco, allora, le colline aride, il rivo strozzato, la foglia riarsa, tutti emblemi del male di vivere, secondo quella tecnica del correlativo oggettivo, già sperimentata da T. S. Eliot in "The waste land".

Correlativo oggettivo: la natura è in pena per l'uomo in pena. Già Leopardi, in un pensiero dello Zibaldone, parlava di una serra in cui le diverse piante soffrono in maniere differenti.

Già il titolo, "Ossi di seppia", è una dichiarazione di poetica: gli ossi di seppia sono quei rifiuti marini che il mare deposita sulla battigia e stanno a simboleggiare l'arida e dissecata condizione esistenziale dell'uomo. "Ossi di seppia" si pone in una linea di continuità rispetto alla poesia di Pascoli e dei crepuscolari. In primo luogo, anche Montale rifiuta la poesia aristocratica che predilige solo temi scelti, elevati (e questa scelta appare con chiarezza nella lirica proemiale intitolata "I limoni"); non attendiamoci, però, in Montale le atmosfere sfatte, i paesaggi grigi dei crepuscolari, e neanche la commozione a volte esibita da Pascoli, che rievoca il proprio nido: Montale è uno "storico dagli occhi secchi" (come diceva Orazio), che contempla con impassibile rigore la desolata condizione esistenziale dell'uomo. Ancora a Pascoli e al fanciullino può far pensare la precisione linguistica di Montale: in effetti, egli usa un lessico da trattato naturalistico, sfoggiando una precisione da trattato enciclopedico; manca, tuttavia, in Montale, la curiosità del fanciullo che scopre la natura per la prima volta. Montale vuole evocare la realtà in tutti i suoi aspetti e in modo rigoroso, e fa quella scelta di plurilinguismo che era stata propria di Dante, mentre invece Ungaretti è più vicino alla scelta monolinguistica di Petrarca. [Montale è stato accostato a un pittore suo contemporaneo, De Chirico, per le atmosfere che riesce a creare: all'apparente oggettività della rappresentazione fa riscontro un'estrema inconsistenza.]



La poesia di Montale è ricchissima di citazioni dantesche, soprattutto la terza raccolta, "La bufera e altro": Montale è infatti un buon conoscitore di Dante (così come Eliot), e come nelle poesie di Dante è frequentissima la presenza di figure femminili mute, di donne-angelo, così Montale si rivolge vanamente a donne misteriose, alla ricerca di una risposta ai suoi interrogativi esistenziali. La donna in Montale, come negli stilnovisti, è portatrice di salvezza, e Montale la immagina come la conoscitrice della verità, e proprio per questa sua prerogativa, ella può aiutare l'uomo nella sua angoscia.

[La donna amata da Montale per molti anni, Elsa Brandeis, era una americana ebrea a cui piaceva Dante.]

Nel 1939, Montale pubblica la sua seconda raccolta, intitolata "Le occasioni", che rappresenta il tempo della memoria: egli si abbandona ai ricordi, ricerca nella sua mente frammenti di vissuto, volti di donne, oggetti all'apparenza insignificanti, scorci di paesaggio. Sono queste le "occasioni" per cercare di fare luce sul senso del passato e, attraverso di esso, per illuminare il presente enigmatico. Stiamo parlando di memoria, ma non attendiamoci un Montale che cede alle lacrime: Montale controlla ogni abbandono sentimentale e questo ritorno al passato si svolge in una cornice di totale disincanto. Tuttavia, anche nel passato domina lo stesso caos del presente, per cui da esso non può giungere alcuna luce per dare un senso all'oggi, anzi, il passato tende a sfuggire dalla memoria. Non c'è, dunque, in Montale, come invece c'è in Proust, la gioia del tempo ritrovato, ma il passato sfuma in una indistinta nebbia di memoria.

Solo nel 1956 viene pubblicata la terza raccolta, "La bufera ed altro", titolo che allude alla lunga stagione di odi, di violenze, di lotte, che si è conclusa da pochi anni e aveva raggiunto il suo apice nella Guerra Mondiale. La poesia di Montale si è sviluppata, fino ad ora, in una dimensione esistenziale, con qualche raro accenno alla contemporaneità (ad esempio, nella lirica "Dora Markus", che fa parte della seconda raccolta, "Le occasioni", del 1939 si allude al veleno nazista che sta appestando l'Europa). Ora, invece, la raccolta "La bufera ed altro" apre anche a un discorso di tipo politico-civile, in quanto si esprimono esplicite condanne contro le nefande ideologie nazi-fasciste e le tante torture portate dal conflitto. Anche in questa raccolta, tuttavia, la cifra prevalente del discorso montaliano rimane legata al destino di pena dell'uomo, rimane cioè in una dimensione squisitamente individuale, né Montale intende farsi portavoce di messaggi sociali o politici, come afferma esplicitamente in una delle liriche conclusive, "Piccolo testamento", in cui scrive di non credere ad alcun "chierico rosso o nero", di non prestare fiducia, cioè, ad alcuna fede politica o religiosa.

Dell'ultima stagione di Montale ricordiamo la raccolta "Satura", del 1971, che rappresentò una svolta decisiva nella poetica di Montale, tant'è vero che lo stesso poeta afferma che le prime tre opere rappresentano il diritto e la quarta il rovescio della sua personalità. "Satura" richiama una raccolta mista che riprende da Orazio il tono epigrammatico e sentenzioso. Non è mutata la concezione della vita di Montale, solo che dall'alto dei suoi ottant'anni, sempre convinto dell'assurdità del vivere, egli devia la sua riflessione verso la Satura (l'ironia) e dà alla sua disperazione la leggerezza del paradosso (versi scherzosi e ironici).

Un nucleo consistente di liriche, "Xenia" (dal greco, significa "dono per gli ospiti"), è dedicato alla moglie scomparsa chiamata affettuosamente "mosca", che egli rievoca in momenti insignificanti della vita in comune, ma senza mai cadere nella lacrima.






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