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LEOPARDI - LA FORMAZIONE DI LEOPARDI

letteratura



LEOPARDI

Viene inevitabile il confronto fra le opportunità iniziali ricevute dal conte milanese Alessandro Manzoni e quelle ricevute dal conte recanatese Giacomo Leopardi. Balza agli occhi la differenza tra queste opportunità di partenza nel senso che Manzoni cresce nella città culturalmente più viva d'Italia, in una famiglia di notevoli mezzi finanziari, mentre Leopardi cresce in un piccolo borgo dello Stato politicamente e culturalmente più arretrato d'Italia, lo Stato Pontificio, e in una famiglia fedele all'ancien regime. Tutto ciò creò un senso di disagio in Leopardi, disagio che traspare con evidenza nelle sue lettere, e in particolare da una lettera del 1817 indirizzata a Pietro Giordani, letterato classicista che godeva di larga fama (pag.601). In questa lettera, dopo aver lamentato la sofferenza del suo soggiorno a Recanati, luogo privo di ogni stimolo culturale, Leopardi cita apertamente il sentimento della noia, scrivendo ".tutto il resto è noia". Con tale termine si deve intendere la profonda insoddisfazione che attanaglia l'animo del poeta, incapace di trovare nella realtà un qualche piacere duraturo. Per Leopardi, la noia, che egli definirà anche come "vizio dell'absence", è dunque una malattia radicale del suo animo, che lo rende incapace di aderire a una realtà mediocre. In questo senso la noia lo accomuna a tanti intellettuali romantici europei, che cercavano l'evasione proprio per sottrarsi a un presente insoddisfacente; è la stessa noia, che rivivrà, poi, come spleen (angoscia) esistenziale, nella poesia di Baudelaire e nella poesia decadente in genere. Dunque il tema della noia/absence/spleen attraversa tutta la sensibilità ottocentesca, dai romantici ai decadenti. Inizialmente, Leopardi pensa che il sentimento di noia dipenda solo dal luogo in cui vive e che la felicità sia possibile al di fuori del "natio borgo selvaggio". Scriverà molti anni dopo, nelle "Ricordanze", che egli si immaginava ignoti mondi e ignote felicità oltre quei monti e quel mare che lo serravano come una prigione. In realtà il viaggio a Roma non modifica il suo spleen (angoscia) esistenziale, per cui è evidente che la noia non è un fatto contingente, ma è appunto malattia radicale del suo animo.



la formazione di leopardi.

Sappiamo che la prima formazione di Leopardi è tutta quanta nel segno dell'erudizione (ha letto tantissimo ma in modo disordinato), fino alla prima conversione "dall'erudito al bello" che avviene nel 1816, quando cioè Leopardi scopre gli scrittori più recenti, la letteratura romantica europea. Addirittura, nel 1818, egli interviene direttamente nell'aperto dibattito classico-romantico, col saggio "Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica" spedito a "La bibli 141f51b oteca italiana", e mai pubblicato. In esso, Leopardi prende decisa posizione contro il romanticismo, in difesa della poesia di immaginazione. Egli non condivide affatto la tendenza del romanticismo milanese verso la poetica del vero, ritenendo che il realismo uccida le illusioni, di cui la poesia deve farsi portatrice; di contro alla poesia dei moderni, Leopardi difende la poesia immaginosa degli antichi, i quali, nelle loro belle fole, davano vita alla natura, riscaldavano il cuore dell'uomo, liberandolo dalla noia e dai cattivi pensieri. Sia ben chiaro che la difesa che Leopardi fa della lirica classica, non è di retroguardia: egli rifiuta, come i romantici, la vuota imitazione degli antichi, così come rifiuta le regole e la mitologia decorativa alla Vincenzo Monti. Leopardi difende, invece, come scrisse un critico, "la mitologia serbatoio di belle illusioni capaci di allietare il cuore del lettore". Inoltre gli stessi romantici milanesi cadevano in contraddizione poiché postulavano un'arte realistica e civile, ma prendevano, poi, come esempio la lirica nordica cupa e funerea (Berchet che cita due ballate di Bürger). Aggiunge ancora Leopardi, che il sentimentale propugnato dai romantici non era ignoto all'arte classica (come attesta anche la lettura di Omero e Virgilio), e che essa era stata capace di diffondere quegli ideali di virtù e coraggio ormai ignoti alla vile realtà contemporanea. La contrapposizione tra antichi e moderni si risolve, per Leopardi, a favore degli antichi. Ai critici si pone dunque il problema di conciliare il supposto romanticismo leopardiano con i suoi giudizi critici verso il romanticismo europeo e italiano, tanto più che Leopardi criticherà in seguito aspramente lo spiritualismo romantico, nel nome di una ideologia integralmente materialistica. Ora, fermo restando che il classicismo rimane una componente tenace della poetica leopardiana, non c'è dubbio che romantica è la sensibilità di Leopardi e romantici sono i temi che egli tratta: il tema della noia, l'ansia di infinito, lo spirito titanico (che si afferma soprattutto nelle ultime opere), e infine il pessimismo totale della sua ideologia, che lo avvicina alla Weltschmerz (dolore mondiale) dei romantici tedeschi.

Nel 1819, in Leopardi avviene la seconda conversione, quella "dal bello al vero", cioè dalla poesia di immaginazione alla poesia di sentimento. Leopardi si convince, a questo punto, che la poesia non può sottrarsi alla vita, non può limitarsi a evocare le belle favole, a suscitare amabili illusioni. L'arte, insomma, deve fare i conti con la realtà di dolore dell'individuo ( si ricordi che il 1819 fu un anno di grandi dolori per Leopardi, che attraversò una grave crisi, e fu colpito da una grave malattia agli occhi che gli impedì persino di leggere). Il poeta deve dunque volgersi alla poesia sentimentale (nel senso che i romantici tedeschi davano all'aggettivo "sentimentale"), che deve essere una poesia intrisa di pensiero e di riflessione; la poesia riflette, cioè, sul male di vivere. Ne deriva la definizione data alla poesia di Leopardi come di una "poesia pensante" o di un "pensiero poetante", in ogni caso poesia intrisa di riflessioni. Per capirla fino in fondo, sono, dunque, importanti anche le opere in prosa di Leopardi, dove il poeta ha fissato la sua Weltanschauung (visione del mondo): dalle "Operette Morali" ai "Pensieri" (abbozzo di un'opera filosofica mai completata) fino allo "Zibaldone" (che è una raccolta di centinaia di annotazioni che riguardano gli argomenti più diversi, dalla letteratura alle lingue, alla politica, alla società, e fu pubblicato postumo: infatti fu Giosuè Carducci a curarne la pubblicazione). La stesura dello Zibaldone accompagnò quasi tutta la vita dell'autore, anche se la maggior parte delle note risalgono al decennio 1817-27.

Intorno allo stesso anno (1819) si afferma il cosiddetto pessimismo cosmico leopardiano, nel quale il poeta attribuisce alla società moderna la colpa dell'infelicità umana, assolvendo completamente la natura. La natura, infatti, ha creato l'uomo felice, dotandolo di quelle amene illusioni (come l'amore) che servono ad attenuare il vero volto della realtà. Il progresso distorto ha, invece, lacerato il sipario delle illusioni, cosicché l'uomo moderno si trova indifeso davanti al male di vivere. Non c'è dubbio che la civiltà moderna è stata propiziata dalla ragione, tuttavia, mai rinverremo in Leopardi delle voci ostili verso la ragione, che costituisce, anzi, il valore più prezioso per l'individuo (alla razionalità è dedicato proprio l'estremo messaggio del canto "La Ginestra"). Sono gli uomini che, per il loro male, hanno utilizzato impropriamente la ragione, condannandosi all'infelicità. Tale infelicità colpisce ogni individuo, e anche coloro che si credono felici, sono in realtà uomini superficiali, che non si interrogano sul perché della vita, che non si pongono quelle domande che il "philosophe" (l'uomo che si domanda il perché, che riflette) si pone continuamente. Viene spontaneo richiamare a questo punto alcuni versi di Eugenio Montale (che condivise con Leopardi la concezione pessimistica del vivere), il quale scrive, nella sua poesia "Spesso il male di vivere ho incontrato": "Ah, l'uomo che se ne va sicuro e l'ombra (=il dolore) sua non cura, che il sole stampa su uno scalcinato muro". Ma, allora, la malattia personale di Leopardi non ha avuto alcun peso nelle sua dolorosa Weltanschauung? Nell' '800 si attribuiva al dolore personale del poeta un notevole condizionamento nella sua visione del mondo, come a dire che la sua filosofia della vita è dolorosa perché dolorosa è la sua vita. Un fine intellettuale come Tommaseo, con assai scarsa sensibilità, scrisse di un Leopardi che saltellava sulla riva del mare cantilenando "Dio non esiste perché io sono gobbo e io sono gobbo perché Dio non esiste". Leopardi reagì con veemenza a tale insulto, e nel 1832 scrisse all'amico svizzero De Sinner, in una lettera, che intendeva reagire con tutte le sue forze contro quella mistificazione che attribuiva la sua Weltanschauung alla sua personale malattia. Come suggerisce il Timpanaro, non si può tuttavia negare che la malattia abbia avuto una qualche influenza, ma di ordine "squisitamente conoscitivo": essa ha, cioè, spinto il poeta a rendersi conto precocemente dei condizionamenti che la natura esercita sull'uomo, indagando, di conseguenza, il rapporto uomo/natura fino a giungere alle drammatiche conclusioni del pessimismo cosmico.


le opere.

Premettiamo che tutte le liriche di Leopardi vennero da lui raccolte sotto il titolo di "Canti" perché la poesia non descrive la realtà, ma si solleva, col canto, al di sopra di essa.

Le Canzoni Civili.

Nella sua giovinezza, Leopardi coltivò vari generi poetici e meditò anche di comporre un romanzo autobiografico (dal titolo "Vita al poggio", oppure "La vita di Eugenio"), che rimase però allo stato di un primo abbozzo. L'inizio vero e proprio della poesia leopardesca si suole far coincidere con la canzone "All'Italia" del 1818, una lirica civile, animata da spiriti patriottici e da un caldo tono enfatico che induce il poeta a gridare la sua disponibilità a lottare per la patria e a morire per essa, visto che l'indifferenza e la viltà sono i connotati degli italiani del suo tempo. Scrive infatti Leopardi "solo io combatterò, soccomberò solo io". Seguirono poi un'altra decina di canzoni riguardanti sia vicende private ("Nelle nozze della sorella Paolina"), sia eventi culturali ("Ad Angelo Mai"), sia eventi della storia o del mito, fino all'ultima canzone del 1823 "Alla sua donna" in cui Leopardi canta non una donna concreta, ma l'eterno femminino, cioè l'idea platonica della bellezza che vive solo nel mondo delle idee.

Ma le due canzoni più alte richiamano l'una il mito ("Ultimo canto di Saffo" del 1822, in cui la poetessa si suicida perché respinta dal bel Faraone) e l'altra la storia romana ("Bruto minore", in cui Bruto si uccide dopo la sconfitta di Filippi). Sono queste le due canzoni del suicidio in cui Leopardi canta, in sostanza, la vanità dei sogni di amore e di gloria, cioè di quegli ideali che il suo animo avvertiva in modo cruciale. Saffo e Bruto sono parti della sua anima, e il loro suicidio può essere inteso in chiave alfieriana: essi non fuggono per viltà dal mondo, ma col suicidio intendono protestare contro un mondo che impedisce la realizzazione dei sogni più alti, come appunto l'amore e la gloria. La canzone di Saffo presenta poi un ulteriore motivo di interesse perché dal citato pessimismo storico si passa ad una fase intermedia in cui è il fato, sono gli dei, i responsabili dell'infelicità umana, quasi che essi si divertano a creare l'uomo per farlo soffrire.



I Piccoli Idilli.

Si tratta di sei componimenti scritti tra il 1819 e il 1821 (si intrecciano, quindi, con le canzoni) da Leopardi chiamati "Idilli" ("piccoli" è un aggettivo dato dalla critica successiva).

"L'infinito" del 1819

"La sera del dì di festa" del 1820

"Alla luna" del 1820

"La vita solitaria" del 1821

"Il sogno" del 1821

"Lo spavento notturno" del  

Il termine "idillio" deriva dal greco eidos (visione), e in effetti l'idillio greco consiste per lo più nella visione di scene di vita campestre o pastorale (pensiamo oggi agli idilli di Mosco, che Leopardi aveva tradotto in italiano, o a quelli di Teocrito di Siracusa, che costituirono il modello per le Bucoliche di Virgilio).

In Leopardi, tuttavia, cambia notevolmente il concetto di "visione", che non è più, come nella tradizione greca, la rappresentazione di un scena esterna, ma è, invece, la rappresentazione di una situazione interiore, o, come lui stesso definisce l'idillio, "un'avventura storica dell'anima". Il poeta parte, sì, da una situazione esterna quotidiana e banale, come il trovarsi su un colle, con la vista impedita da una siepe, oppure il vegliare a letto in una sera festiva, ripensando al vissuto di quel giorno; poi, però, la linea da lui seguita porta all'interiorizzazione di quelle situazioni, che, da banali fatti quotidiani si trasformano in miti poetici universali (si ricordi che anche nei 4 principali sonetti di Foscolo l'occasione privata veniva superata da considerazioni universali, che diventavano motivo di riflessione generale). Leopardi passa, dunque, dal canto esteriore delle Canzoni, canto che riguarda fatti esterni, alla lirica fortemente interiorizzata degli Idilli, modificando, al tempo stesso, anche le strutture espressive (lo stile): dalla rigida divisione in strofe delle Canzoni, infatti, si passa, ora, agli endecasillabi sciolti (che non hanno una struttura strofica), molto spesso legati da inarcature (enjambement), cosicché scompare la rigida cesura del verso, e si creano ritmi sempre nuovi. Aggiungiamo poi che il "legato" (enjambement) che salda fra loro i versi risulta quanto mai congruo per una poesia sentimentale (nel senso di riflessiva). Inoltre, dal registro solenne delle Canzoni, Leopardi, negli Idilli, passa ad un registro più semplice e quotidiano; il lessico degli Idilli non ha nulla di particolarmente ricercato, eccezion fatta (e ce lo dice lo stesso Leopardi in una nota dello Zibaldone) per alcuni voluti arcaismi, che conferiscono preziosità all'espressione. In alcuni di questi Piccoli Idilli, come per esempio "La sera del dì di festa", è presente un tono a tratti enfatico, e il poeta dà l'impressione di volersi ribellare al proprio destino, mentre, nei due Idilli più grandi ("L'Infinito" e "Alla Luna") ogni volontà di ribellione è ormai accantonata, e prevalgono una pena sorda, una malinconia diffusa. Sempre in questi due Idilli, inoltre, compaiono due temi fondamentali della poetica leopardiana, cioè il tema dell'infinito e quello della rimembranza.

In "Alla Luna" Leopardi pone l'accento sulla dolcezza del ricordo, nonostante essi siano dolorosi. La ricordanza, d'altronde, riveste un ruolo di grande rilievo nella poetica leopardiana, e lo Zibaldone contiene numerose note su questo tema: scrive Leopardi che il presente è impoetico e che la poesia risiede tutta nel passato, richiamato attraverso il ricordo. La sensazione presente (una voce, un suono, una visione) funge da stimolo a ricordare analoghe voci, suoni, visioni, udite o viste durante la fanciullezza, che è l'età nella quale si forma la nostra prima visione delle cose, una visione immaginosa, destinata poi a persistere per sempre nel nostro animo (la conoscenza della fanciullezza è dunque fondamentale). In larga misura, la poesia leopardiana fino al 1830 è imperniata sul ricordo, e questo giustifica anche quell'alone di magia che impregna tante visioni leopardiane, perché al ricordo si lega la nostalgia del passato, che attutisce l'acerbità di tanti ricordi. La presenza ubiquitaria della ricordanza ha dei risvolti importanti anche in campo linguistico perché comporta l'uso di un lessico indefinito, carico di suggestione. Leopardi, negli Idilli piccoli e grandi, utilizza quelle riserve di parole che alludono alle cose più che definirle, parole cariche di suggestive risonanze (vago, lontano, lontananza, notturno, forse.).  [v. Decadentismo]

L'idea dell'infinito connette, ovviamente, Leopardi con la moderna cultura romantica, nella quale abbiamo evidenziato uno slancio dello spirito verso il superamento della mediocrità del presente (dell'hic et nunc). Ma al tempo stesso è doveroso collegare questa immaginazione dell'infinito a quella teoria del piacere enunciata nello Zibaldone. C'è, nell'uomo, una tendenza al piacere che non ha limiti né di durata, né di intensità; ma la vita offre solo piaceri momentanei e mediocri, per cui, attraverso l'immaginazione, l'uomo sogna quel piacere infinito che la realtà gli nega. Ormai abbandonata è, invece, l'interpretazione religiosa cara alla critica di Croci, secondo cui questo itinerario verso l'infinito condurrebbe a Dio. Si tenga presente che Leopardi si sta, anzi, avviando verso una concezione del tutto materialistica dell'esistenza.  (pag. 608)

[ Si può dire che Leopardi sia più legato al Sensismo che alla corrente romantica. Il Sensismo era quello teoria filosofica settecentesca, diffusa da Condillac e Condorcet, secondo cui l'arte doveva suscitare una ricca gamma di immagini per dare piacere al lettore (anche Parini) ]

Le Operette Morali.

Le Operette Morali hanno una gestazione abbastanza lunga; già in una nota del 1821 dello Zibaldone il progetto dell'opera comincia a delinearsi con una certa chiarezza: scrive, infatti, Leopardi di voler comporre delle "novelle lucianee per scuotere la mia (sua) povera patria e secolo". Leopardi vuole, dunque, scrivere delle prose in grado di scuotere e ammonire il suo tempo, un tempo che egli ritiene vile e troppo credulo nei confronti di fedi prive di fondamento. Tali ammonimenti egli intende rivolgere, e lo fa attraverso l'arma dell'ironia, così come fece Luciano di Samosata (ecco il perché dell'aggettivo "lucianee"), scrittore dell'età ellenistica che nei suoi "Dialoghi" era solito celare amare verità dietro invenzioni festevoli e ironiche. Da questa volontà di insegnare attraverso l'arma dell'ironia e della satira (anche se la satira è più pesante dell'ironia di cui si serve Leopardi), nascono, nel 1824, le prime 20 Operette Morali, che assommeranno al numero complessivo di 24 (le ultime due sono del 1832). Si tratta di dialoghi (o racconti) che hanno ad oggetto leggende, miti, fatti storici o della letteratura. E' proprio durante la composizione di queste prose (nel 1824) che matura in modo definitivo la concezione del pessimismo cosmico leopardiano. Vi sono, infatti, alcune Operette in cui è ancora presente il pessimismo storico, come nel "Dialogo di un folletto e di uno gnomo", in cui queste due bizzarre creature dei boschi si incontrano, e rilevano come ormai non si senta più alcuna voce umana sulla terra. Essi se la ridono tra loro, pensando alla stupidità dell'uomo, che si credeva signore della terra, mentre ora sembra scomparso, eppure la terra prosegue il suo ciclo vitale. E' avvenuto, cioè, che la civiltà distorta voluta dall'uomo, ha condotto, in realtà, a un tale regresso, ad una tale inciviltà, che l'uomo stesso è scomparso dalla faccia della terra. Se, invece, leggiamo il "Dialogo della Natura e di un Islandese" del 1824 (pag. 641) troviamo già pienamente definito il pessimismo cosmico. In questa Operetta incontriamo la Natura, simile a una gigantesca donna paurosa, che risponde a un infelice islandese che le ha chiesto il perché del suo continuo soffrire in tutte le parti del mondo in cui si recava: la Natura afferma la sua totale indifferenza al destino dell'uomo. Si ricordi che Leopardi aveva cercato, finché gli fu possibile, di preservare la Natura, ma poi il suo dolore personale (che altro non era che specchio del dolore universale) lo indusse ad analizzare più a fondo il rapporto uomo/natura, convincendosi della malignità di quest'ultima. Non è vero, allora, che la Natura si sforza di rendere felice l'uomo con le "belle fole" e le "amene illusioni": essa crea l'uomo e lo abbandona nella selva degli accadimenti terreni, senza offrirgli alcuno strumento per essere felice. Questa infelicità investe tutto l'universo, è una malattia mondiale (Weltschmerz, dolore mondiale) che avvolge in un unico destino sia gli esseri animati che quelli inanimati. [La Natura malvagia non è un unicum nella letteratura europea: si pensi al Francese De Vigny, che, nella sua opera "La casa del pastore", mette in bocca alla Natura la significativa battuta: "Tutti mi chiamano madre, ma io sono una tomba"].  Nello stesso tempo, Leopardi abbraccia un "integrale materialismo" che lo avvicina a quello settecentesco, a quello di tanti pensatori illuministi; come appare con chiarezza nell'Operetta intitolata "Frammento di Stratone di Lampsaco", Leopardi è sempre più convinto che esista solo la materia, che è soggetta ad un perenne circuito di produzione e distruzione, e la distruzione è necessaria per lo stesso sopravvivere del cosmo. (La filosofia di Leopardi è molto complessa e profondamente legata al '700).

Nelle Operette Morali ritornano temi cari a Leopardi come quello della noia, ribadito a più riprese, e in particolare nel "Dialogo di Colombo e Gutierrez". Al nostromo, che, di fronte alle incertezze del viaggio, gli domanda se non sarebbe stato meglio non iniziare quella impresa difficoltosa, Colombo risponde che è molto meglio il rischio rispetto a una vita piatta e noiosa: se fossero rimasti in Spagna, certamente la loro vita sarebbe stata preda della noia.

In questo quadro carico di disincanto c'è un valore, tuttavia, che Leopardi si sforza di preservare, come risulta dal "Dialogo di Plotino e Porfirio", quello della solidarietà. Porfirio medita il suicidio per sfuggire alla pena del vivere, ma il suo maestro Plotino (neoplatonico) lo dissuade dal compiere quel gesto con le famose parole "stringiamoci insieme per meglio sopportare i colpi del destino". Leopardi crede, dunque, nel valore della solidarietà tra gli uomini, e lo riaffermerà con decisione nel canto "La Ginestra", in cui egli condanna la stoltezza dei suoi simili, che lottano contro gli altri uomini, non avendo compreso che la vera colpevole del loro soffrire è la Natura.

Un discorso a parte meritano le ultime due Operette Morali del 1832, scritte, cioè, in quella fase della poetica leopardiana che va sotto il nome di "titanismo". Nel "Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere" assistiamo al contrasto fra  un ingenuo venditore di calendari, che prospetta un felice anno nuovo, e un passeggere (alter ego di Leopardi), che sorride di fronte a tanta disarmante ingenuità. E' opportuno, a questo punto, ricordare come Leopardi si rivolga con un tono pacato e quasi sorridente verso le persone semplici e ingenue, per riservare, invece, un tono aspro nei confronti di chi, al contrario, egli ritiene saccente. La seconda Operetta del 1832 è il "Dialogo di Tristano e di un amico". (pag 676)





I Grandi Idilli

La grande poesia di Leopardi tace negli anni che vanno dal 1824 al 1827, quasi che l'ispirazione poetica fosse come soffocata da quell'amaro sistema filosofico che Leopardi stava esponendo nelle Operette Morali. E' nel 1828, quando si trova a Pisa, che il poeta sente rinascere prepotente in sé il bisogno di ricordare, e la ricordanza è la chiave di volta della sua poetica. Annota nello Zibaldone (in una nota del 1827) che in qualunque luogo si trovasse o qualunque voce o suono udisse, egli avvertiva la necessità di ricordare la situazione in cui aveva già visto quel luogo o udito quella voce. Nello stesso anno (1827) compone la canzonetta "Il Risorgimento", in cui canta la risorta capacità del suo cuore di palpitare, di coltivare le illusioni, di ricordare l'età delle illusioni. E' da questa rinnovata capacità del suo cuore di sentire, che negli anni 1828-1830  nascono i "Canti pisano-recanatesi" o "Grandi Idilli" (ricordiamo che "grandi" è una definizione della critica). Il primo è del 1828, "A Silvia", scritto a Pisa. Dopo il ritorno a Recanati, invece, Leopardi scrive gli altri cinque idilli: "Le Ricordanze", "La quiete dopo la tempesta", "Il sabato del villaggio", "Il passero solitario" e il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia".

Questi canti pisano-recanatesi hanno in comune con gli idilli giovanili (Piccoli Idilli) il tenero colloquio fra il poeta e la Natura, il recupero di scene, situazioni della  gioventù recanatese di Leopardi, che superano ogni elemento biografico per divenire miti poetici universali. Silvia e Nerina non sono, quindi, solo due fanciulle precocemente scomparse, ma divengono il simbolo universale della giovinezza tradita, delle illusioni troncate crudelmente da una Natura indifferente. In comune con i Piccoli Idilli è anche il linguaggio limpido, musicale, colloquiale, anche qui impreziosito da termini desueti, e anche il gioco delle marcature e delle cesure che danno ai versi ritmi sempre differenti (ora il verso si allunga, ora si spezza a metà). Diverso dai Piccoli Idilli è, invece, il recupero delle strofe, intessute liberamente di endecasillabi e settenari. I primi cinque tra i canti citati furono definiti dal Sapegno come i "miti del borgo", in quanto è Recanati la protagonista, con le sue viuzze, le sue piazze, le sue situazioni quotidiane, le sue figure familiari, attraverso cui questo mondo recuperato sul filo del ricordo si tinge di un alone di magia perché il ricordo, inevitabilmente, attutisce i dolori, gli affanni. Questo non significa, però, che il poeta abbia acquisito una visione più serena del vivere; sulla magia del ricordo, infatti, si innesta la visione "smagata" (disincantata) del vivere del poeta, che ormai sa con certezza che ogni speranza, ogni attesa di felicità è mera illusione (Silvia e Nerina sono morte e nessuna primavera potrà più destarle). Il piacere non esiste per sé ma solo come momentanea cessazione del dolore ("La quiete dopo la tempesta"): l'uomo interroga vanamente il cielo per conoscere il senso del suo tragico cammino terreno. A questo proposito si veda il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia", il solo idillio privo della ricordanza, e proprio per questo il più disperato: manca, infatti, la magia del ricordo ad attutire il dolore).

I Grandi Idilli constano per lo più di una parte lirico-descrittiva e di una più scopertamente  riflessiva, tuttavia i due momenti sono strettamente connessi tra loro, nel senso che la riflessione sgorga in modo spontaneo dalla prima parte, più squisitamente lirica. Non ha più senso, allora oggi il giudizio della critica di Croci (ritenuto valido fino al 1940-50), che tendeva a svalutare la parte riflessiva ritenendola "non poesia", in quanto intrisa di valutazioni filosofico-morali, di pertinenza non del poeta. Per Croci la poesia è lirica pura, che sgorga dal primo momento del divenire dello Spirito dell'Universo, cioè da momento estetico.

Il movimento del divenire dello Spirito veniva rappresentato come un movimento circolare, e consisteva in quattro momenti fondamentali: 1-Estetica (=conoscenza del particolare); 2-Logica (=conoscenza dell'universale); 3-Economia (=volizione del particolare); 4-Morale (=volizione dell'universale). Il poeta, dunque, secondo Croci e tutta la critica crociata, deve astrarre da ogni motivazione filosofica, politica, religiosa che non sono di pertinenza del poeta, ma spettano solo al filosofo.

Il Leopardi eroico

Con la partenza definitiva da Recanati ha inizio l'ultima stagione della poesia leopardiana, nella quale il poeta, ormai consumata fino in fondo la poetica della ricordanza, si confronta coraggiosamente con la realtà presente, dinanzi alla quale si pone con un atteggiamento esclusivamente razionalistico. L'ultimo Leopardi, dunque, non cerca più conforto al male di vivere nella sfera consolatoria della memoria, ma prosegue nel suo cammino conoscitivo smascherando la vanità di ogni fede e invitando anche i suoi simili ad un analogo comportamento, che sia dignitoso per la nostra umanità, senza cullarsi nelle ciance religiose.

Incentivo e nucleo di questa nuova poesia fu l'amore per Fanny Targioni Tozzetti, a cui è dedicato un gruppo di liriche chiamato "Il ciclo di Aspasia"; ne fanno parte "Il pensiero dominante", in cui il poeta canta l'amore per Aspasia, un amore concreto e terreno, ben diverso dall'amore platonico della canzone "Alla sua donna". Ad esso seguono "Amore e Morte", in cui si canta l'indissolubile legame tra queste due indissolubili realtà, e "A se stesso" in cui Leopardi denuncia la caduta della sua ultima illusione, e lo fa con parole aspre, taglienti, ben lontane dalla dolce musicalità della poesia idillica. E' bene precisare che questo atteggiamento titanico di Leopardi di fronte alla realtà (che è uno dei temi che lo accomuna alla moderna sensibilità romantica) secondo alcuni critici come Walter Binni (saggio "La protesta del Leopardi") non è una novità nella poetica leopardiana e che, anzi, tutta l'arte di Leopardi è intrisa di accenti titanici e di volontà educatrice, dai toni ardenti della canzone "All'Italia" ai dolenti ammaestramenti delle Operette Morali, fino alla suprema razionalistica lezione del canto "La Ginestra". Non è possibile, quindi, secondo Binni, parlare di una dicotomia Leopardi idillico-Leopardi eroico: l'eroismo è, a suo parere, presente in tutta la produzione leopardiana, a partire dall'incipit della canzone "All'Italia", poi nella dolorosa lezione delle Operette Morali, poi anche negli Idilli (nei quali con toni accorati tratteggia il nero destino dell'uomo causato dalla natura), poi ancora riaffermato in modo più eroico ed energico nel canto "La Ginestra".

A quest'ultima stagione appartengono anche le ultime due Operette Morali, quelle del 1832; una è il "Dialogo di un venditore di almanacchi", di cui abbiamo già parlato, l'altra è il "Dialogo di Tristano e di un amico", in cui Tristano-Leopardi dichiara apertamente la sua visione negativa del mondo e si dichiara pronto ad affrontare eroicamente la morte ".con la fronte alta e il braccio armato". L'uomo, insomma, secondo Leopardi, non deve implorare pietà dalla Natura indifferente, ma accettare con dignità anche l'estrema prova (la morte). Un analogo invito alla coraggiosa accettazione della vita e della morte viene da "La Ginestra, o il fiore del deserto", un canto desolato che, essendo del 1836, precede di poco la morte del poeta, avvenuta nel 1837, e contiene il suo estremo testamento. L'uomo deve seguire l'esempio dell'umile fiore che cresce anche nei luoghi più aridi, come le falde del Vesuvio, e che ben presto soccomberà al rinnovato fiotto della lava, ma senza aver mai implorato pietà dalla Natura assassina. Nel profumo della Ginestra non è difficile riconoscere il profumo consolatorio della poesia: ha scritto, infatti, Leopardi, nello Zibaldone, che la poesia, anche quando rappresenta in toto la miserabile condizione umana, serve sempre di consolazione a un uomo grande e, pur non rappresentando altro che la morte, sembra restituire all'uomo, al poeta, per un attimo l'illusione della vita. In questo canto, Leopardi ribadisce il suo credo razionalistico e aggiunge la nullità dell'uomo nella economia dell'universo; riprendendo poi il Leopardi invita gli uomini alla solidarietà, a stringersi in "social catena" per meglio fronteggiare i colpi della Natura, della sorte. C'è chi ha voluto vedere in questa espressione un invito alla ribellione, ma in realtà, la social catena leopardiana ha un valore consolatorio, non di lotta (sarebbe una lotta perduta in partenza: la Natura è onnipotente): stringiamoci insieme per consolare ed essere consolati.









G. Leopardi

Dalle  Lettere

Il natio borgo selvaggio  (601)

Dallo Zibaldone

La teoria del piacere  (608)

Il vago, l'indefinito e le rimembranze della fanciullezza  (610)

Parole poetiche (612)

La doppia visione (614)

La rimembranza (615)

Dai Canti

L'infinito  (616)

Alla luna (fotocopia)

La sera del dì di festa  (619)

Ultimo canto di Saffo (630)

A Silvia  (650)

Le ricordanze  (656)

La quiete dopo la tempesta  (661)

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia  (667)

A se stesso  (689)

La ginestra o il fiore del deserto  (697)

Dalle Operette morali

Dialogo della Natura e di un Islandese  (641)

Cantico del gallo silvestre  (646)

Dialogo di Tristano e di un amico  (676)





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