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LA CANZONE DI LEGNANO

letteratura



LA CANZONE DI LEGNANO



Federico imperatore è a Como. Ad un tratto un messaggero entra a Milano da Porta Nova e passando chiede al popolo di Milano di fargli scorta sino al console Gherardo. Il console era in mezzo alla piazza e il messaggero piegandosi verso il console proferì poche parole e corse, col suo cavallo, via. Allora il console Gherardo fa un cenno e le trombe del parlamento squillarono.


Le trombe del parlamento squillarono: perché anche il grande pal 252h76c azzo del podestà non era risorto su grandi pilastri, ne il luogo riservato alle riunioni dei cittadini del libero comune medioevale c'era, ne la torre c'era, ne alla torre in cima la campana. Fra i ruderi che neri verdeggiano le spine, fra le basse case di legno nella piccola piazza i milanesi tennero parlamento sotto il Sole di maggio.


"Signori milanesi" il console dice, "la primavera in fiore arricchisce i tedeschi come di consueto. Fanno festa gli obesi nelle loro case e poi scendono a valle. Per l'Engadina due arcivescovi scomunicati fecero uno sforzo. La bionda imperatrice trasse al re oltre che il cuore anche un giovane esercito. Como passò dalla parte dell'imperatrice e lasciò la lega". Il popolo grida "Alla distruzione Como".




"Signor milanesi" il console dice: l'imperatore ha fatto una spedizione militare a Como, muove l'esercito per raggiungere il marchese di Monferrato e i pavesi. Quale volete milanesi? O aspettare dal nuovo argine armato, o mandare messaggeri a Cesare, o affrontare in battaglia il Barbarossa con lance e spade?

"Lance e spade" tuona il parlamento."Lance e spade contro il Barbarossa in campo di battaglia".


Ora si fa avanti Alberto di Giussano. Di ben tutta la spalla egli sovrasta i presenti in piedi intorno al console. Nella sua grande stazza della sua persona che grandeggia in mezzo al parlamento. in mano ha l'elmo, la bruna parrucca che copre una parte del collo e tutte le spalle. Il Sole batte sull'onesta faccia nella chioma e negli occhi risplende.


"Fratelli milanesi, popolo mio! Vi ricordate..." dice Alberto di Giussano, "le calende di marzo? I consoli cavalcarono a Lodi e con le spade sguainate in mano giurarono obbedienza. Cavalcammo in 300 nel quarto giorno ed ai piedi, baciando, gli demmo i nostri 36 stendardi. Mastro Guglielmo gli offrì le chiavi di Milano povera. E non successe nulla".


"Vi ricordate", dice Alberto di Giussano, " il 6 marzo? Egli ha voluto ai suoi piedi tutti i fanti e il popolo. Gli abitanti venivano dalle tre porte, il carro era pronto per la guerra; tutto il popolo è ridotto in schiavitù e le croci tenevano in mano. Dinanzi a lui le trombe del carro suonarono gli ultimi squilli, davanti a lui l'antenna del carroccio piegò lo stendardo. Egli toccò i lembi".  


"Vi ricordate", dice Alberto di Giussano, " eravamo vestiti con i sacchi della penitenza, con piedi scalzi e avevamo le corde al collo, i capi erano sparsi di cenere, nel fango ci inginocchiavamo e tendevamo le braccia e chiedevamo misericordia. Tutti piangevano, signori e cavalieri, a lui attorno. Esso, dritto in piedi, presso lo scudo imperiale, ci guardava molto con il suo sguardo quasi trasparente ".


"Vi ricordate", dice Alberto di Giussano, "che tornando il giorno dopo vedemmo l'imperatrice a guardarci dai cancelli? E ai piedi dei cancelli noi lanciammo le croci gridando a lei: -O bionda, o bella imperatrice abbi pietà delle nostre donne!-.

Essa tiratasi indietro ci impose di buttar giù le mura cosìcche lui e il suo esercito possano entrare".


"Vi ricordate", dice Alberto di Giussano, "nove giorni abbiamo aspettato, per poi vedere essere mandati via l'arcivescovo, i conti e i valvassori. Venne il decimo giorno - Uscite, milanesi, come le donne, con i figli e con i vostri averi: l'imperatrice vi da otto giorni-.

E noi corremmo invocando sant'Ambrogio, ci abbracciammo agli altari e ai sepolcri. Ma ci scacciarono via con le donne e i figli come cani".


"Vi ricordate", dice Alberto di Giussano, " la triste domenica degli ulivi? Aia alla passione di Cristo e di Milano! Dai quattro corpi santi vedemmo ad una ad una le trecento torri della cerchia; e alla fine della rovina polverosa apparsero le case distrutte: sembravano file di scheletri in un cimitero. Sotto le macerie giacevano le ossa dei defunti.


Così dicendo Alberto di Giussano con tutte e due le mani si coprì gli occhi, singhiozzando e piangendo come un fanciullo. Ed allora per tutto il parlamento trascorse un frammento di belve. Dalla porta e dai balconi le donne pallide e con i capelli scompigliati, con le braccia tese e gli occhi fissi sul parlamento urlavano - Uccidete il Barbarossa -.


"O ecco", dice Alberto di Giussano, "ecco, non piango più. Verrà il giorno nostro, milanesi e bisogna vincere. Ecco mi asciugo gli occhi e guardo te bel sole di Dio, faccio sacramento. Domani sera i nostri morti avranno una dolce novità in purgatorio: e la mando pure io! ". Ma il popolo dice: " meglio che siano i messaggeri a recargliela". Il Sole, intanto, sembrava sorridere durante il suo tramonto.




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