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Italo Calvino - Biografia

letteratura



Italo Calvino



Biografia


Il 15 ottobre 1923 Italo Calvino nasce a Santiago de las Vegas, nell'isola di Cuba. I genitori sono entrambi sanremesi e studiosi di scienze naturali: il padre, Mario, è agronomo e si trova a Cuba per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura, la madre Evelina Mameli, è botanica. Due anni dopo la famiglia rientra a San Remo nella villa "la Meridiana", immersa in un giardino ricco di esemplari esotici. Italo impara presto a conoscere le piante, gli animali e i sentieri delle Prealpi liguri. Nel 1926 nasce il fratello Floriano. Dai genitori, entrambi di formazione laica, liberi pensatori, legati a tradizioni repubblicane e socialiste, riceve un'educazione tollerante e anticonformista rispetto a quella della maggioranza dei suoi coetanei. Frequenta poi il prestigioso Liceo Cassini dove ha per compagno Eugenio Scalfari, affascinato dal romanzo d'avventura e di formazione divora Kipling, Conrad, Stevenson e Nievo; compone le prime poesie. Suscitano inoltre la sua attenzione le riviste umoristiche, i fumetti e il cinema. Negli anni del primo conflitto mondiale, il giovane Calvino è di fronte a nette scelte politiche e morali. Durante l'occupazione tedesca è fra i renitenti alla leva della repubblica di Salò e, dopo aver appreso della morte in combattimento di un giovane medico comunista, si unisce insieme al fratello sedicenne, alle Brigate partigiane Garibaldi operanti nella zona delle alpi marittime. I suoi genitori vengono presi in ostaggio dai tedeschi. Dopo la liberazione, iscritto al PCI, frequenta gli ambienti della Einaudi dove conosce Pavese e Vittorini. Nel 1947 si laurea in letteratura con una tesi su Conrad. Nel 1949 è Pavese ad esortarlo a mettere mano al suo primo romanzo, "Il sentiero dei nidi di ragno". Collabora con l'Unità Il Politecnico e Cultura e realtà. Il suicidio di Pavese nel 1950 lo coglie di sorpresa e segna una svolta nella sua vita. Nel 51 perde anche il padre. Fra il 52 e il 56 pubblica, fra gli altri romanzi Il visconte dimezzato. Il 56 segna anche una frattura storica: si allontana dal PCI a causa della crisi in Ungheria. Fino al 66 pubblica Fiabe italiane, Il barone Rampante, Il cavaliere inesistente. Compie escursioni nel settore dell'astronomia, della biologia, della cibernetica. Calvino si trasferisce poi a Parigi dove resta sino al 1980, pubblica Le città invisibili. Dal 74 Calvino avvia una discontinua collaborazione col Corriere della sera. Nel 78 perde la madre 92enne e vende "La meridiana", inizia quindi la collaborazione con la Repubblica. Pubblica "Se una notte di inverno un viaggiatore". Nel 1980 dichiara chiusa un'intera stagione culturale pubblicando tutti i suoi saggi con l'emblematico titolo Una pietra sopra. Nel 1980 torna in Italia e si stabilisce a Roma, un anno dopo riceve la legione d'onore. Nell'estate del 1985, intento a preparare un ciclo di conferenze a Harvard, è colto da ictus muore a Siena il 19 settembre.






Il visconte dimezzato





Quando scrive l'opera Calvino vede svanire, nel trapasso dall'entusiasmo della resistenza al clima della guerra fredda, il sogno di creare una letteratura che attinga la propria linfa vitale dall'epos popolare. L'autore proietta dunque i propri dubbi morali e ideologici sul protagonista, il visconte Medardo, diviso fra due verità: egoismo ed altruismo, logica e sentimento, viziosità sadica e bontà angelica. Abbandonata l'ipotesi di conoscere la totalità delle cose, tipica della vicenda di Pin, Calvino dà vita ad una figura irrigidita in un ritratto elementare, emblematico e allegorico. Sposta l'ambientazione della vicenda alla fine del 600, durante le guerre austro-turche, al fine di costruire un'astrazione concettuale, adatta al genere del racconto filosofico. A ben guardare nel Visconte la metafora del dimidiamento vive anche nei personaggi minori: mastro Pietrochiodo è un geniale artigiano costretto a fornire solo forche e strumenti di tortura, il dottor Trelawney è uno scienziato che vive ai margini della società, i lebbrosi sono irrigiditi in un perenne ed irresponsabile edonismo, gli ugonotti impersonano l'eccesso di moralismo. Resta comunque la ricerca di una ricomposizione, di un incontro organico tra individuo e società: le due metà del visconte alla fine si ricongiungono in un "uomo intero" per l'amorosa virtù femminile di Pamela. Nel testo si nota la presenza di una costante destinata a un largo sviluppo nella produzione successiva: compaiono cioè personaggi-scrittori e personaggi-lettori che conferiscono al testo una dimensione metanarrativa, ossia di riflessione sui meccanismi interni alla narrazione. Il narratore testimone è, infatti, il giovane nipote di Medardo, che ci fa sapere di aver assistito agli avvenimenti con quella curiosità tipica del narratore calviniano, già manifestatasi in Pin. La metà buona del visconte, inoltre, ama leggere alla pastorella le ottave di Tasso, ma la sua lettura è sterile e lontana dalla realtà: egli cerca nel libro solo ciò che gli sta a cuore, finendo per annoiare il suo pubblico. La lettura - sembra avvertire Calvino - diventa fonte di interesse solo quando si riconverte in vita, solo quando cioè un colpo di falce del Gramo taglia in due il libro disseminandone le pagine fra i cespugli.

L'essere dimezzato non si riferisce più soltanto alla spaccatura tra io politico e io naturale, ma assume una significazione più generale: Il visconte dimezzato è simbolo di uno stato che riguarda sia la sfera privata che quella naturale, che tutte le infinite altre relative all'essere umano. Il dimidiamento è la prospettiva da cui valutare le scelte possibili, un'ipotesi logica, o emotiva, che difficilmente può essere veri­ficata nelle sue implicazioni più ardite nella realtà quoti­diana e che quindi deve poggiare su uno zoccolo narrativo di invenzione dichiarata: il racconto assume un tono ir­reale ma verosimile. In generale la produzione di Calvino viene divisa in due settori, uno realistico e uno fantastico. Ma sono, questi, territori stilistico-poetici validi per le teorie letterarie dell'altro secolo, in cui inf 838e46i atti esse sono nate, quando al termine realismo corrispondeva, grosso modo, l'accettazione di una visione del mondo positivista, e al termine fantastico l'applicazione di categorie filosofiche della verosimiglianza, ma fatte funzionare su dati inventati o visionari, sui "buchi neri" della causalità: in America il fantastico era il genere popolare per eccel­lenza, come aveva ben capito Edgar Allan Poe che, per vivere, scriveva racconti nati anche dall'esigenza di esor­cizzare i lettori ingenui dei magazines dalle loro paure più elementari: quella della malattia (le eroine di Poe: Ligeia, Morella, Eleonora, hanno un aspetto poco sano, con il loro pallore di morte), quella della restrizione degli spazi vitali nelle grandi città (l'angoscia claustrofobica di tanti personaggi), quella della sepoltura prematura; o per sod­disfare la loro curiosità verso le esplorazioni geografiche (La discesa nel Maelstrdm, Gordon Pym), o scientifiche (i racconti sul mesmerismo), o ancora per appagare la curio­sltà morbosa verso i fatti di cronaca nera e così via. Poe, nel suo Ottocento, voleva creare una letteratura che "non fosse troppo elevata per il gusto popolare e, insieme, non al di sotto del gusto critico" L'obiettivo non era difficile da raggiungere, dal momento che in America lo scrittore può contare su una cultura naturalmente predisposta a fondere i due li­velli: la scelta popolare è determinata più dal gusto che dalla classe. Nel caso specifico, Poe si trovava a esercitare la sua professione in un'epoca di trapasso da una società preindustriale a una industriale, e operava in un'indu­stria culturale che per raggiungere anche i ceti sociali me­dio-bassi aveva ridotto sensibilmente il prezzo d'acquisto di giornali e riviste. Così, doveva scrivere per un pubblico allargato, interpretandone timori ancestrali e problemi storici senza cullano, come accade in molta letteratura di massa nostrana, nelle sue illusioni. Critico verso il perbe­nismo predicato nelle rubriche delle stesse testate per cui scriveva, metteva così in guardia, implicitamente, dai ri­schi di vivere nella violenza delle città industriali, e in quella esercitata nell'intimità delle case di una società così puritana. Calvino quando scrive il Visconte si trova anche lui in un momento delicato dello sviluppo della nazione, e vive il dramma dell'intellettuale di sinistra che vede sva­nire non solo il sogno, cullato sul «Politecnico», di dar vita a una letteratura che attinga la propria linfa dal bas­so, ma anche la prospettiva di una ricostruzione armonica della vita democratica del paese. Il racconto risente del clima teso della guerra fredda e delle forti tensioni interne e dà luogo a una serie di situazioni chiastiche: i lebbrosi, che potrebbero alludere a una società malata, vivono in un gaio edonismo, mentre gli ugonotti, che potrebbero alludere a una società teoricamente sana, quella socialista, tirano a campare in uno sterile moralismo. L'autore poi proietta i propri dubbi morali e ideologici sul protagoni­sta, personaggio dimidiato per eccellenza, il visconte Medardo di Terralba spaccato in due da una cannonata turca durante la guerra tra Austria e Turchia. Ma mentre in questo si identifica, contemporaneamente si nasconde, come aveva visto fare a uno dei suoi maestri, l'Ariosto, facendosi raccontare da un altro personaggio, il narrato­re, per potersi leggere come proiettato su uno schermo, fuori di sé: "E restituii lo sguardo a me stesso nel com­pleto distacco della distanza", racconta il narratore della Linea d'ombra (Conrad, La linea d'ombra, in Al limite estremo) a cui il nostro aveva già preso l'e­pigrafe per il Sentiero: "A Kim, e a tutti gli altri". Il nar­ratore comincia la storia dalle ultime fasi di una guerra in qualche modo santa, presumibilmente vinta, ma non senza qualche incertezza, dai nostri. Ma il narratore, il giovane nipote del visconte Medardo, a lume di logica, non poteva aver seguito lo zio in battaglia, tanto è vero che lo ritroviamo nella ligure Terralba ad attendere l'ar­rivo del congiunto, anzi della sua metà cattiva, il Gramo. E dunque ipotizzabile che anche dietro il nipote sia l'au­tore stesso, che cerca di vedersi allo specchio dopo il ri­torno da una esperienza di lotta che lo aveva dimezzato: la guerra partigiana, dopo la quale la prospettiva intera e rassicurante di un antifascismo naturale si era, come sap­piamo, incrinata. Comincia quindi a colpire le persone a lui "naturalmente" più care, il padre, la balia Sebastiana, il nipote; a piegare la tecnica per costruire strumenti di tortura; a spaventare il popolo degli ugonotti, che però avevano perduto la loro religiosità, e i lebbrosi, che no­nostante la malattia si godevano edonisticamente la vita. La cattiveria, rivolta anche verso i propri averi, suggeri­sce il senso di una necessaria distruzione degli affetti, evi­dentemente anche ideologici, più cari, per cogliere il nocciolo del proprio rapporto contraddittorio con quel preciso momento storico: "Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l'aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza", racconta il visconte al nipote, cioè a se stesso. L'invito a diventare sempre la metà di se stessi è fatto per capire "cose al di là della co­mune intelligenza dei cervelli interi". La cattiveria è dunque il risultato di uno sforzo d'intelligenza, che per conoscere deve rompere a metà qualsiasi oggetto in questione. Quando arriva inaspettatamente l'altra metà, il Buono, non solo gli esseri dimezzati del Gramo vengono ricom­posti, ma anche i personaggi usi fino a questo momento a compiere studi socialmente inutili (il dottor Trelawney) o persecutori (il carpentiere Pietrochiodo) vengono inutiliz­zati per alleviare i bisogni e le sofferenze degli altri. Tut­tavia, se idilliaci diventano i rapporti individuali tra que­sto mezzo visconte e i singoli, disastrosi si rivelano le prospettive di bontà per ugonotti e lebbrosi, cioè i due gruppi sociali. L'ipotesi complementare a quella del Gra­mo, di non analizzare il mondo, ma di immergervisi col cuore, funziona male anch'essa: "capire d'ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno ha per la propria incompletezza", avere "una fraternità [...] con tutte le mu­tilazioni e le mancanze del mondo", e "soffrire dei mali di ciascuno", non basta a mettere a punto un pia­no d'azione valido per l'intera collettività: "ci sentivamo come perduti tra malvagità e virtù egualmente disumane" è infatti la sensazione diffusa. Passato il mo­mento eroico in cui era la storia a spingerci a una scelta obbligata, Calvino comincia impercettibilmente a decli­nare le proprie responsabilità di intellettuale impegnato a indicare, come dice Fenoglio, "the right side", la parte giusta. Le categorie che stabilivano i modi corretti di rap­portarsi a un essere almeno storicamente autentico non sembrano più istintivamente separabili da quelle che incoraggiavano un atteggiamento contrario. Già nell'Essere e il nulla Sartre aveva chiarito che:

"Il pensiero moderno ha realizzato un notevole progresso col ni-. durre l'esistente alla serie di apparizioni che lo manifestano [.]. Le apparizioni che manifestano l'esistente non sono né interiori né esteriori: esse hanno tutte uno stesso valore, rinviano ad altre apparizioni e nessuna di esse è privilegiata [.]. Il dualismo essere-apparire non deve più trovare diritto di cittadinanza in fi­losofia. L'apparenza rinvia alla serie completa delle apparenze e non ad un reale nascosto che verrebbe ad assorbire per sé tutto l'essere dell'esistente [.]. Perché l'essere di un esistente è pre­cisamente ciò che esso appare [.]. L'essenza d'un esistente è la legge manifesta che presiede la successione delle sue apparizio­ni, è la ragione della serie [.]. Così l'essere fenomenico si ma­nifesta, manifesta tanto la sua essenza che la sua esistenza, e non è altro che la serie ben collegata delle sue manifestazioni".


Nel rapporto essere-apparire il primo termine non permette più di gerarchizzare i molteplici aspetti di una realtà i cui contorni cominciano a sfumare. L'antinomia kantiana si fa serie: su questa ipotesi Calvino sembra far muovere il proprio personaggio che risulta dimidiato tra egoismo e altruismo, logica e sentimento, sadismo e sacrificio di sé, distruzione e risanamento, assolutezza e compromesso, e così via, ma senza che le norme comportamentali di una delle due serie di termini antinomici pos­sono essere senz'altro prese a modello. La vita ritorna alla normalità solo quando il medico riesce a far combaciare perfettamente le due metà, affrontatesi in un ultimo grottesco duello. Ma Trelawney alla fine fugge su una nave carica di cancarone, il suo vino preferito, dove un capitano Cook sbucato all'improvviso lo aspetta per continuare una partita di tresette; e il narratore, che vorrebbe disperatamente seguirli nel loro viaggio verso il continente australiano da poco scoperto e quindi ancora da colonizzare, deve restare in quello vecchissimo, "pieno di responsabi­litá  e di fuochi fatui". Certo che non bastava un visconte completo a far diventare completo tutto il mondo, ma l'esperienza dell'una e dell'altra metà fuse insieme poteva offrire qualche garanzia, se non di felicità, almeno di sag­gezza. Se Nino aveva chiuso il suo diario con il proposito di vederci più chiaro, non si può certo dire che questo cauto invito all'ottimismo abbia risolto il suo problema, anzi, da un punto di vista politico si può dire che l'abbia ulteriormente complicato. Ricomposta si è, piuttosto, la scissione tra impegno e sentimento, perché scivolata anch'essa in quell'indistinto che è il mondo. La donna, qui personificata nella pastorella Pamela amata sia dal Gramo che dal Buono e sposata dal visconte riunito, si rivela l'es­sere intero e quindi disposta naturalmente al compromes­so: aggirando le scelleratezze dell'uno e le sdolcinatezze dell'altro, riesce sempre a decodificare in tempo i messaggi cniptici dei due e a salvaguardare la propria indipen­denza, sentimentale e decisionale: la predisposizione alla sintesi tra gli opposti può valere nella vita pratica, ma non può dare una soluzione a una ricerca teorica, che il nar­ratore sfoga, ancora una volta, nel racconto: "Un ago di pino poteva rappresentare per me un cavaliere, o una da­ma, o un buffone; io lo facevo muovere dinanzi ai miei occhi e m'esaltavo in racconti interminabili. Poi mi prendeva la vergogna di queste fantastichenie e scappavo. Sembra quasi una dichia­razione di poetica, fatta da un autore che vuole sottoli­neare da un parte la serietà del suo tema e dall'altra la libertà di fantastichenia da indurre in un lettore che nel testo voglia trovare anche altro. Come in una fiaba, non solo i personaggi sembrano inventati di sana pianta, ma anche la dimensione temporale, pur resa concreta dall'al­lusione a precisi eventi storici, finisce per perdersi in per­cettibili anacronismi fino a sfumare in un tempo e in uno spazio indefinibili. La vicenda, insomma, non si sottrae a una decodifica molto più generalizzabile, come allegoria dell'essere uomo. L'io storico dell'autore dimidiato, quel­lo narratologico del fabulatore, e ancora quello falso-ingenuo del personaggio narrante recintano una forma ab­bastanza simile a quella di un'epica nazional-popolare. All'artificiosità della ricerca del punto di vista da cui guardare i fatti si aggiunge anche l'artificiosità di una lin­gua che appare depurata rispetto a quella del Sentiero. Calvino scrive come se l'italiano non fosse affetto dalla secolare questione, appunto, della lingua. Pasolini, in un articolo famoso, La confusione degli stili, aveva ben notato la sua scrittura lucida, nitida, asciutta e nello stesso tem­po spregiudicata e corrosiva. Pin ha ricevuto un'educa­zione linguistica che, se non gli ha evitato l'emarginazio­ne dal mondo dei grandi, gli ha tuttavia permesso di raccontare le sue storie a tutto il mondo. Una volta ab­bandonata l'ipotesi di conoscere nell'interezza, il narratore ha a disposizione solo immagini parziali, che vengo­no tuttavia ordinate una accanto all'altra secondo l'ordine sintattico ridotto alla elementarità della paratas­si. Si capisce allora che le figure così sbozzate e irrigidite in ritratti e pose forzate solo in apparenza possano simu­lare levita e astrazione. Sotto la calma si intuisce invece la passione, come se da queste statuine di cristallo potesse sgorgare sangue: è forse proprio il motivo per cui queste pagine ci sembrano ancora così vicine.


Le città invisibili



Dal 1968 al 1971 Calvino legge Fourier, "l'Ariosto degli utopisti", e pubblica per Einaudi una scelta dei suoi scritti sotto il titolo Teoria dei Quattro Movimenti - Il Nuo­vo Mondo Amoroso. Dall'introduzione a questo volume si possono cogliere alcune indicazioni utili a indovinare l'or­dine di interessi che lo spingono ad occuparsi di un uto­pista così poco dotato di senso realistico. Calvino lo legge infatti come poeta e come alchimista sociale capace di ma­nipolare la materia linguistica e mitica nella speranza di riuscire attraverso ad esse a "cambiare la vita". É evidente che Calvino si diverte molto a ingrandire le contraddizioni palesi di un progetto che da una parte costruisce un mo­dello scientifico e dall'altra lo tara in funzione degli an­goli bui del nostro essere. Si dilunga a illustrare con gioia un'utopia polverizzata e sospesa, nata dalla ricerca di una morale antirepressiva fondata sull'esattezza e sostenuta da una straordinaria alleanza tra eros e cibernetica, visio­narietà e matematica, occultismo e illuminismo, vale a di­re dalla fusione delle due anime del suo tempo. Calvino sogna così una città che ci abita invece di essere abitata, una città nata dall'urto tra nuovi condizio­namenti interiori ed esteriori. E pensa che quello che il vero utopista deve fare non sia tanto rappresentare sen­sorialmente una città del futuro, quanto far riflettere "nelle pieghe, nei versanti in ombra, nel gran numero d'effetti involontari che il sistema più calcolato porta con sé senza sapere che forse là più che altrove è la sua verità": Importa non ciò che dice, ma ciò che vor­rebbe fosse intuito. Nel 1972 Calvino pubblica Le città invisibili, un testo complesso, che risente di tutte queste suggestioni e che sembra nascere proprio dall'esigenza di piegare le proprie zone oscure alla chiarezza di una loro sistemazione razio­nale. Ricordi, desideri, sogni, assenze sono le pietre con cui edifica delle architetture da incubo, mentre proietta l'oggi di un mercante in terra straniera sul passato che avviluppa il presente. Negli anni in cui la Cina di Mao Tse-tung pareva, a una certa parte della gioventù di sinistra, il luogo dove la rivoluzione culturale aveva realizza­to l'utopia, Calvino ambienta le proprie riflessioni nello stesso paese che tanti secoli prima aveva visto giungere un altro giovane osservatore occidentale, Marco Polo, rac­contatore poi di tante storie meravigliose. Il modello di­chiarato delle Città invisibili è infatti Il milione, naturalmente rifatto in chiave novecentesca, e quindi testimo­nianza di spazi mentali e non geografici: narra infatti non di città che si vedono, ma di quelle che non si vedono, ma che non per questo non esistono, di città invisibili, ap­punto. Kublai Kan e Marco Polo rappresentano le cate­gorie contrapposte della mente umana, la razionalità classificatoria (vuole le mappe di tutte le città, di quelle che esistono e di quelle che non esistono) e la sensibilità in­ventiva (Marco parla di città che probabilmente non ha visto, e al proprio vissuto, a Venezia, cioè a San Remo, sempre fa riferimento). Ancora una volta il testo è il luogo d'incontro di due prospettive conoscitive interne all'au­tore, che qui però vuole privilegiare la seconda, usando della prima soprattutto come contraddittorio. Kublai rimprovera a Marco di inventare le atmosfere che descri­ve, ma preferisce il racconto del veneziano all'oggettività scientifica con cui i suoi esattori relazionano. L'infinita possibilità di rapporti tra i segni delle cose sfugge alla capacità della mente di riprodurne la map­pa: l'infinito diventa indefinito, che si percepisce senza conoscerlo, ignoto, che è sempre più attraente del noto. E quindi attraverso un percorso misto che si può sperare di rompere le catene del presente. Nella partita a scacchi tra razionalizzazione geometrica e interpretazione delle sensazioni che comunicano le cose, è Kublai a dare scacco a Polo: l'abyme è infatti, come nel Cavaliere, in una figura che metaforizza se stessa, in questo caso la scacchiera. Kublai, a forza di ridurre la conoscenza del suo impero alla combinatoria dei pezzi degli scacchi di una scacchiera fatta di tasselli d'ebano e acero, si accorge che l'oggetto della sua conquista si riduce al tassello su cui posa i pezzi, il nulla, come sappiamo. Ma allora Marco lo obbliga ad osservare meglio quel nulla e da quell'anonimo pezzo di legno recupera tutta la sua storia: l'albero da cui fu ta­gliato, la brina della notte che ha trasformato una gemma in un nodo, il nido di una larva che ha aperto un poro, i tronchi sulla zattera che discendono il fiume, il porto do­ve e arrivato, le donne alla finestra che guardano il mo­vimento: insomma quel nulla cela la vita. Certo, della vita possiamo avere solo degli scorci soggettivi, immaginari come il viaggio nel Catai, e l'accumulo di esperienza parte sempre da una memoria privata che non si può cancellare: sempre di Venezia parla Marco. Ciò che vede viene recepito come "uno specchio in negativo" sulla cui superficie il viaggiatore "riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà". Solo con la coscienza perenne di una mancanza si può leggere l'espe­rienza. Calvino nell'indice segna la progressione logica con cui l'argomento di partenza sfuma lentamente negli altri fino a sparire, come un filo di fumo, quasi a mostrare che la struttura logica entro cui ricostruiamo le nostre percezio­ni prende forma solo dall'esterno, separando un flusso che potrebbe anche essere indistinguibile. Formati da brevi relazioni di Marco (10 nella parte iniziale e in quella finale, 5 nelle intermedie) compaiono infatti 9 blocchi narrativi, ognuno dei quali è racchiuso tra una introdu­zione e una conclusione nelle quali Kublai e Polo discor­rono mentalmente, come sottolinea l'autore, che dichiara così di essersi narrativamente sdoppiato. Per questo l'ap­prendimento della lingua del Kan, da parte di Marco, non avevano cominciato ad avere. L'impossibile ordine geo­metrico con cui avrebbe voluto prendere il mondo, con­trapposto all'impossibile apertura alle infinite probabilità delle sue forme, spinge Calvino a coniugare la logica concettuale algebrica di Queneau e le serie storiche ascendenti e discendenti di Fourier per formare uno schema che, tenendo presenti i due poli centrali della sua ricerca, dia vita ad una figura (per la cui descrizione rimando alla bibliografia sulle Città invisibili) in cui si dispongono i 55 racconti di Marco, 5 per ogni tipo di città. Al centro, in un crescendo di leggerezza, si pone Bauci, luogo dell'as­senza, meta della ricerca di interiorità che Kublai andava perseguendo. "E tempo che il mio impero, già troppo cre­sciuto verso il fuori, - pensava il Kan, - cominci a cre­scere al di dentro". Una volta doppiato questo punto vuoto, che sarà il tao della Taverna, centro di ogni simmetria, il racconto procede verso la constatazione del­l'ineludibile duplicità e specularità della realtà anche in­teriore, dell'azzeramento che si aggiunge al vuoto cui ave­va condannato il senso della storia e della preistoria. Anche il dopo-storia è contrassegnabile dall'assenza, creatasi per l'annullamento reciproco delle due ipotesi co­noscitive, quella di poter racchiudere il mondo in una struttura di cristallo, e quella di tenerlo infinitamente aperto alle probabilità. Tra stato di indiffe­renza (la coscienza che il modello opera scavalcando l'au­tore) e stato di drammaturgia (la coscienza che il gioco ha senso solo se in palio è la propria pelle), come dice Calvino negli Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, continua la partita che dopo il turno di andata superato con una certa tranquillità vede cambiare la sorte durante un turno di ritorno in cui sotto il liscio legno della scacchiera guarda aprirsi baratri che lasciano intravedere un formi­colio incontrollabile di forme. Per questo, come nella suc­cessiva Taverna, il centro del racconto è vuoto. Nelle Città invisibili deve dichiarare lo scarto dal paradigma di Gali­leo, lo scienziato-scrittore da lui tante volte citato, che basava il suo metodo d'indagine sulle "figure, i numeri e i moti, ma non già gli odori néi sapori, né i suoni, li quali fuor dell'animai vivente non credo che siano altro che no­mi" come scrive nel Saggiatore. Questa svolta impressa al­la scienza, in senso tendenzialmente antiantropocentrico e antiantropomorfico, ha raggiunto anche la semiotica, ma non è riuscita a dar ragione di molti indizi che sono stati trascurati. Nel Catai, come a Venezia, gli abitanti, al di là delle condizioni astratte del loro sapere, vivono in­fatti anche in base a una conoscenza bassa, ma univer­sale della vita. A Eudossia tutta la confusione "i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l'odore di pesce, è quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tap­peto prova che c e un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio". La conoscenza deve esercitarsi anche su quelle macchie, perché è il tap­peto che ogni abitante di Eudossia guarda quando "con­fronta all'ordine immobile del tappeto una sua immagine della città, una sua angoscia, e ognuno può trovare nasco­sta tra gli arabeschi una risposta, il racconto della sua vi­ta, le svolte del destino". Non solo frecce e linee dovrebbero stare nel racconto ma anche una trama impalpabile di sensibilità che collabora alla definizione degli spazi entro cui si vive. Gradualmente la coscienza dello sfacelo senza fine né forma verso cui Kublai Kan vede precipitare il suo impero si attenua. Quando chiede a Marco Polo quale pietra sostiene il ponte appena descrittogli, il veneziano risponde che esso è sostenuto dalla linea dell'arco ma, aggiunge, "Senza pietre non c'è arco". Non è quindi solo la rete della conoscenza a contare, ma anche la materia di cui è fatto l'uomo. E al­lora quando nuovamente si rivolge al giovane per chie­dergli verso quale delle città che furono sono e saranno, la cui mappa ha lì davanti, si dirigerà in futuro, questi risponde che non smetterà mai di cercare la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, di istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e che non sa chi raccoglierà. In questo inferno, infatti, bisogna cercare l'anello che non tiene. La sfida al labirinto riprende, anche se essa viene giocata ora su una mappa; quando invece forse la città "mentre noi parliamo sta affiorando sparsa en­tro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto". Ormai l'impegno è puramente teorico, ma non esclude a priori che l'ultimo ap­prodo non debba essere proprio lo sguardo impotente sul­la disfatta. L'antropocentrismo, negato sui piano teorico, viene quindi riproposto su quello percettivo, in un'alter­nanza di speranze e frustazioni che movimentano la let­tura di un'opera senza dubbio suggestiva, ma dai contorni vaghi, che credo ognuno veramente possa ridisegnare co­me vuole in un esercizio solipsistico che permette di vin­cere la partita a scacchi perché manca un altro giocatore.

Il libro più importante del periodo parigino, del momento cioè, in cui Calvino ricercò un più stretto rapporto fra letteratura e scienza e in cui assimilò lo strutturalismo e la logica combinatoria. Le categorie logiche fondate sull'alternativa binaria, presenti in questo testo, sono, infatti, le stesse impiegate nei calcolatori elettronici. Mediante questo approccio Calvino intende rappresentare ancora una volta, ma in forma più estrema, l'attitudine razionale e ordinatrice di fronte all'infinità del reale. Il testo è composto da nove capitoli, nei quali la cornice in corsivo si alterna a 55 brevi descrizioni. I protagonisti, Marco Polo e Kublai Khan, in dialogo silenzioso, impersonano le due facoltà della mente umana: l'immaginazione e la razionalità. Marco ritrova nel fondo della memoria, nell'inconscio o nella ragione, le figure di molte città, per raccontarle al Khan, potente imperatore assetato di notizie sul suo impero vastissimo e vicino alla catastrofe. Tutte hanno nomi di donne; essi alludono ad una pluralità di mitologie e formano un itinerario che via via si sdoppia e procede verso disordini e miserie sempre maggiori. Reale e irreale si specchiano l'uno nell'altro con geometrica simmetria: in molte descrizioni il dritto è uguale al rovescio, il dentro al fuori. Gli spazi narrati non sono geometrici ma mentali, appartenenti all'invisibile campo dell'immaginario. Lo scenario è fiabesco orientale, fitto di carovane, spezie, deserti, pastori, donne alla fontana, ma le desolazioni descritte alludono di continuo a quelle ecologiche e sociali, metropolitane e industriali, tipiche della contemporaneità. Se tutta la realtà raffigurata nel testo è duplice, se ogni città ha cioè il suo doppio, rovesciato di segno, ogni cosa e valore risultano infine frantumati e spezzati. In tal modo nel testo circola un forte pessimismo e un soggiacente nichilismo, ai quali, come di consueto, Calvino cerca di reagire mediante un atto di volontà: il romanzo termina, infatti, con l'invito alla ricerca di ciò che non è inferno entro "l'inferno che abitiamo tutti i giorni", al paziente rinvenimento della città ideale entro il caos delle tante città. Uno dei temi conduttori del discorso calviniano nelle Città è la riflessione sul linguaggio, il rapporto fra le cose e le parole, fra le mutevoli sensazioni comunicate dalla realtà e i segni designati ad interpretarle: esemplare il capitolo VIII in cui l'intera mappa dell'impero di Khan viene ridotta ad una scacchiera.




Il sentiero dei nidi di ragno


Il Sentiero dei nidi di ragno è il romanzo d'esordio di Calvino e si colloca in modo del tutto originale rispetto ai canoni del neorealismo narrativo, dominanti nell'immediato dopoguerra. 

Le vicende di un ragazzino di nome Pin, Che quasi per gioco si trova a partecipare alla lotta partigiana contro i tedeschi durante la seconda guerra mondiale, dapprima nel suo paese e più tardi sulle montagne liguri. Infatti, Pin, ragazzo ribelle e scanzonato, è rinchiuso in prigione perché ruba la pistola di un tedesco per vincere una scommessa con i grandi del bar. Riesce però a fuggire con un compagno di prigionia, Lupo Rosso, un partigiano, che lo condurrà fra gli altri suoi compagni. Così Pin entra tra i partigiani, ma il suo scopo non è quello di combattere i nazisti ma di trovare un amico che abbia le sue stesse idee, per confidarsi, per sentirsi importante. Il suo obiettivo sembra raggiunto dopo l'incontro con Cugino, un partigiano che diventerà suo amico. Il testo è realistico, in quanto narra le vicende di un ragazzino al contatto con gli adulti durante la guerra partigiana; oltre alla descrizione di figure verosimili, anche quest'elemento storico rende il racconto credibile e verosimile. Con questo racconto Calvino descrive le difficoltà dei partigiani senza idealizzare le vicende e i comportamenti, e contemporaneamente fa riflettere il lettore sul mondo dei giovanissimi spesso incompreso dagli adulti. Il narratore è onnisciente, il linguaggio è semplice e la narrazione, veloce, intervallata da molti dialoghi. Mentre gli altri scrittori partigiani scrivevano diari e memorie, Calvino si proponeva con rigore una ricerca antitetica al populismo della letteratura propagandistica. Raccontare la guerra significava per lui cogliere un'entusiasmante occasione storica: la forte concretezza dell'esperienza partigiana aveva restituito l'illusione di una rinascita delle forme più semplici e originarie dell'affabulazione. Scrivere significava dunque tradurre una grande esperienza vitale collettiva. Questo progetto è ben visibile nelle scelte tematiche e formali del Sentiero. La scelta fondamentale, sul piano del sistema dei personaggi, consiste nell'utilizzare come punto di vista Pin, che spia le vicende di guerra e di sesso degli adulti e vede la Resistenza come un'avventura o una fiaba. Numerosi sono, infatti, i moduli fiabeschi utilizzati nel testo, come la scia di nocciolo lasciati da Pin dietro di sé, vero calco del modello di Pollicino, o il Topos del bosco come luogo misterioso dove si celebrano strani riti funebri. Il sentiero si può considerare come un romanzo di iniziazione incompiuta: il bimbo, infatti, come il protagonista di ogni fiaba, supera diverse prove, anche per mezzo di veri e propri aiutanti, ma la mancanza di consapevolezza lo esclude dal mondo degli adulti, e l'oggetto magico di cui è entrato in possesso (la pistola rubata), non basta a fargli compiere la conquista della maturità. Il capitolo IX costituisce però un'eccezione: il punto di vista diventa quello del commissario di brigata Kim, e qui si trovano le riflessioni calviniane sulla natura e sulla storia. A Kim il compito di enunciare alcune certezze: in particolare il discrimine tra lotta giusta dei partigiani e quella ingiusta dei fascisti e la relazione tra i grandi progetti politici e la partecipazione alla guerra degli uomini del Dritto, mossi solo da istinti elementari. Non a caso nel capitolo IX Kim si propone di studiare e razionalizzare i meccanismi della psiche: la storia, infatti, per il giovane Calvino non funziona solo secondo le regole della coscienza, ma anche secondo quelle dell'inconscio e della realtà biologica, con le sue "paure bambine" e i suoi "furori".

Che la prima prova in volume di Calvino solo appa­rentemente possa definirsi romanzo dice già molto sull'o­rientamento culturale scelto da un giovane cresciuto nel fascismo e uscito dalla Resistenza. La storia del ragazzo Pin, ritrovatosi quasi per gioco tra i partigiani, non si svi­luppa infatti e non acquista senso dall'intreccio comples­so tra i temi ideologici, di cui altri personaggi sono por­tavoce, e gli eventi storici tra i quali è stato catapultato. Gli episodi che danno il ritmo alla vicenda troppo spesso sono mossi da motivi occasionali più che da scelte dettate da convinzioni a poco a poco conquistate: i capitoli così si susseguono per accumulo di storie piuttosto che per fu­sione di esperienze successive. La struttura  narrativa a romanzo avrebbe dato una discussione rappresentazione dialettica del tema di fondo, quella a racconto dà vita a una varietà maggiore di motivi: di qui, anche, quella sensazione di levità e al tempo stesso di angoscia claustrofobica, come se la molteplicità delle prospettive aperte per leggere la vita fosse solo un'illusione ottica. L'antitesi tra progetto ed esito dell'a­zione umana forma il continuum degli episodi del Sen­tiero dei nidi di ragno e illumina quella che sarà una delle caratteristiche della scrittura calviniana. Era molto giovane quando nel dicembre 1946, per partecipare a un concorso indetto dalla Mondadori, scrisse la storia di Pin, storia che tra l'altro non entrò neppure nella rosa dei vincitori. Calvino è attento a trasformare narrativamente alcuni punti della riflessione esistenzialistica: ansia heideggeriana della concretezza è risolta in un rac­conto-testimonianza che non sfuma mai nelle alterazioni del ricordo; la necessità di un passaggio della filosofia ol­tre la logica e l'intuizione delle essenze sono messe in si­tuazione attraverso spiegazioni non razionali, ma affetti­ve (Pin ruba la pistola al tedesco amico della sorella per qualcosa di serio e misterioso detto dagli uomini dell'osteria); il problema dell'essere dell'uomo parte da quella che il filosofo tedesco chiama la 'quotidianità' (i partigiani cominciano a ragionare mossi dalla preoccupazione per la mancanza di cibo e disinfettanti); la conoscenza di un es­sere obliato nell'esistenza quotidiana pare non possa av­viarsi se non partendo dalla banalità "della chiacchiera, della curiosità e dell'equivoco" (Pin si apre alla vita attraverso i discorsi spesso incomprensibili dei grandi); il cir­colo ermeneutico, ovvero l'ipotesi di una conoscenza co­me articolazione di una pre-comprensione originaria, porta tutti questi sgangherati partigiani a cercare nelle proprie pulsioni affettive (l'odio per gli studenti, o per le donne) la causa della guerra. Nel 1943, a caldo, Calvino aveva scritto tre racconti in parte auto­biografici (pubblicati solo nell'edizione del 1949 di Ulti­mo viene il corvo): La stessa cosa del sangue, Attesa della morte in un albergo, Angoscia in caserma, testi che possono considerarsi quasi dei cartoni del Sentiero. Ci sono alcuni personaggi che ritornano, come il traditore Pelle (Pelle di biscia), altri che vengono successivamente ritoccati (il cuoco Mancino e la moglie Giglia), e uno, il capobanda Dritto, che allora si chiamava Giglio, e che, nella scena in cui spiava il bombardamento sulla città, sperava che l'e­splosione uccidesse i fascisti e risparmiasse gli altri: nel Sentiero il desiderio di morte è esteso a tutti. Dunque qualcosa è cambiato, e per dare una spiegazione mi sem­bra necessario entrare nel merito delle scelte biografiche di Calvino. Quando, renitente alla leva della Repubblica sociale, entra nelle Brigate Garibaldi, che operavano sulle «sue» Alpi Marittime, aveva vent'anni: antifascista più per educazione familiare che per convinzione politica, senza una sua storia intellettuale alle spalle, è profonda­mente diverso dall'ancor giovane autore del Sentiero, scritto però dopo aver svolto attività politica nel Pci, col­laborato a diverse testate, abbandonato la facoltà di Agraria alla quale si era iscritto per tradizione domestica e approdato a Lettere dove si laureerà con una tesi su Conrad.

Il protagonista quindi non può essere il maturo intellettuale vittoriniano o pa­vesiano alle prese con il rimpianto di ciò che ha significato per lui in termini di esperienza politico-conoscitiva la Re­sistenza, né il combattente d'istinto che ha forgiato il proprio antifascismo con la durezza delle proprie condizioni di vita. Mentre Pin se ne sta coi parti­giani e scopre che uno può tradire, un altro può perdersi per un'infatuazione amorosa, e così tra un popolo colora­to e vociante, viene iniziato alla vita, il dibattito teorico si svolge altrove, nel capitolo IX, quando si incontrano Kim e Ferriera, lo studente commissario e l'operaio coman­dante. Tutto deve essere logico, tutto si deve capire, nella storia come nella testa degli uomini: ma tra l'una e l'altra resta un salto, una zona buia dove le ragioni col­lettive si fanno ragioni individuali, con mostruose devia­zioni e impensati agganciamenti. Uno sa, l'altro intuisce di essere nel giusto, uno vede la lotta come lotta di classe, l'altro come lotta di simboli: la divergenza è solo filosofica, ma non è poco. Scegliere un sapere in­teso come controllo totalizzante o come abbandono all'e­sperienza per intensificarla e approfondirla significava scegliere tra l'azione propositiva e la ricerca potenzial­mente infinita di interpretazione. Due sono i ragazzetti, Pin ché resta affet­tivamente legato ai partigiani e Pelle che li tradisce; due i capibrigata, il Dritto che "acculato accanto alla Giglia" non si accorge di un focolaio d'incendio e perde tutto, e Baleno, cui tutto fila liscio; due i giustizieri del gruppo, Lupo Rosso eroe scatenato in difesa della propria ideologia, e Cugino che silenzioso ma implacabile uccide una per una tutte le spie, compresa la sorella di Pin; due le tipologie femminili, una presente, lasciva e disonesta, una assente, perfetta, la madre; due i comunisti, come abbia­mo visto, e così via. Pin, intellettuale nuovo, deve muo­versi tra due piste possibili, ma intuitivamente perché non ci sono segnali espliciti a indicare la direzione giusta. La pistola serve al giovane protagonista piuttosto per fare nuovi gio­chi, sparare alle rane e alle cose che, attraversate dalla pallottola, rivelano aspetti nuovi, mostruosi e affascinan­ti. Tra l'altro, prima il ragazzo aveva paragonato la sorella, vista tante volte attraverso il pertugio tra la sua stanza e quella da letto, a una rana, liscia e nuda. L'intellet­tuale giovane non attraverso l'azione politica ha potuto quindi uscire dal fascismo, così come non attraverso la solidarietà di gruppo ha condotto la propria personale esperienza: la scelta di articolare la narrazione in episodi che si rincorrono l'un l'altro impedisce che i personaggi vengano effettivamente a confronto. Ogni figura resta misteriosa, incapace di uscire dal proprio solipsismo. Anche Pavese e Vittorini nei loro conti con la Storia avevano dovuto constatare il fallimento della loro aspirazione a poterne modificare il corso in quanto Vittorini proiettava il proprio impegno sui te alla ricerca di una nuova cultura che però evidentemente non riuscì a trovare. Calvi­no, se non si allinea con l'ottimismo prospettico di una certa parte della cultura italiana di sinistra, cerca tuttavia uno spiraglio per uscire dalla secca conoscitiva. Che aspetto avrebbe un oggetto come una scarpa attraversata da un proiettile? "A farli incontrare uno con l'altro si pos­sono fare cose mai pensate, si possono far loro recitare storie meravigliose". L'atto del conoscere deforma l'oggetto ma può anche permettere dei racconti stupendi. Ed è questo, narrativo, l'ambito d'azione: se non si può cogliere nella Storia il progressivo svelarsi di una verità dal punto di vista di un sapere assoluto, si può arretrare nel senso di prendere le distanze e collocarsi da un punto di vista che racconti alcuni "nascondimenti" e limiti di qualsiasi sapere. Fin non ha progetti, anche se inconsciamente desidera a morte della sorella, e neppure Kim li ha, anche se, leggendo la vita degli uomini come se fosse piena di miracoli, attende, incerto, un futuro mi­gliore. Ma Pin, anche senza capir tutto ciò che canta, fa divertire gli adulti e con i versi della canzone popolare Chi bussa alla mia porta incastra il Dritto. Mentre Kim, quan­do è solo, torna bambino e si lascia prendere da fantasti­cherie. E il "raccontare", anche orale, a sprigionare la "differenza" tra i possibili significati della realtà. Il Sen­tiero mi sembra un testo in cui viene dato molto peso all'azione "raccontata" più che vissuta. La preoccupazione di Pin è, infatti, trovare il modo giusto per riferire sul furto della pistola:


"Il primo impulso sarebbe di entrare nell'osteria di corsa, an­nunciando agli uomini: - Ce l'ho e non mi scappa! - tra l'en­tusiasmo di tutti che esclamano: - Ma no! - Poi gli sembra che sia più spiritoso chiedere loro: - Indovina cos'ho portato? - e farli spazientire un po' prima di dirlo. Ma certo loro pen­seranno subito alla pistola, tanto vale entrare subito in argomento, e cominciare a raccontar loro la storia in dieci maniere differenti, facendo capire che è andata male, e quando loro son più sulle spine e non si raccapezzano più, posare la pistola sul tavolo e dire: - Guarda cosa mi son trovato in tasca, - e ve­dere un po' che faccia fanno".


L'importanza attribuita ai modi del racconto ha un po' il sapore di una mise en abyme: l'inclusione nell'opera di questo particolare che ne riproduce il senso più gene­rale, viene ripresa anche alla fine, quando il traditore Pel­le è catturato. Significativamente, non è il narratore a de­scrivere la scena, ma il personaggio che l'aveva vissuta. "Alle volte Lupo Rosso esagera un po' le cose che raccon­ta, ma racconta molto bene". Gramsci, che poco dopo il Sentiero cominciava a venir pubblicato all'Einau­di, veniva interpretato da Calvino senza essere filtrato da un'ideologia che parzialmente lo inquinava con il sugge­rimento di una ancora impossibile andata dell'intellettua­le verso il popolo. Con aria svagata, ma con ostentata du­rezza, Pin è fatto muovere dal carrugio alla prigione fascista, poi al distaccamento partigiano dove gli interlo­cutori non sono mai eroi positivi, e messo a confronto con situazioni in grado di dar luce a un'epopea vissuta senza sussulti populisti: la maggior parte dei partigiani solo per una congiuntura di circostanze sono passati all'antifasci­smo ma, come sa Kim, avrebbero potuto benissimo pas­sare dall'altra parte. Il Sentiero non è poi un racconto fre­sco e ingenuo fatto da un bambino, ma una costruzione consapevolmente elaborata da un Mito è ciò che vive di una vita incapsulata che a seconda del terreno che la circonda può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture, rendendo complessa l'interpretazione dell'opera. Calvino cer­ca di avvicinarsi al modello americano, infarcendo il testo di topoi letterari ormai assestati: il distaccamento del Dritto assomiglia molto a quello di Pablo di Per chi suona la campana, Gilda può ricordare alcune movenze della protagonista del Postino suona sempre due volte di Cain, divenuto il famoso film Ossessione di Visconti; la cattiva madre prostituta di Steinbeck ha lasciato qualche traccia nella Nera del carrugio, sorella di Fin; il ragazzino stesso, pasticcione e sgraziato, ha qualche tratto in comune con l'eroe del fumetto Yellow Kid; Lupo Rosso e Cugino at­traversano paesaggi avventurosi come i nuovi cavalieri er­ranti dello schermo, i cow-boys dai celebri volti hollywoo­diani; e c'è poi un impermeabile che Pelle, durante la sua rocambolesca cattura, vede spuntare da ogni parte, mol­tiplicato per quanti sono gli uomini che gli danno la cac­cia: è impossibile che Calvino, allora critico cinematogra­fico per l'edizione imperiese del "Giornale di Genova", non abbia pensato a Bogart di Casablanca o a Marlowe di Chandler. L'inserzione nel testo di canti popolari (Le quattro stagioni, Torna Caserio, Chi bussa alla mia por­ta), la citazione degli album di avventure, dei supergialli, del Conte di Montecristo, di Kipling rivelano l'intenzione di rivolgere la propria attenzione di scrittore c6lto, a riplasmare, per salvare dagli automatismi di formule espressive banalizzate, un patrimonio culturale entrato a far parte ormai dell'immaginario di ognuno. Di fatto Il sentiero dei nidi di ragno è un testo nuovo, per il modo in cui i temi esistenziali ed esistenzialistici vengono trattati: siamo di fronte a una vicenda d'azione che nega la vali­dità teorica della scelta, a una sintassi quasi cinematogra­fica nella sua visività alternata a lunghe pause medi­tative, a un'opera che scorre via senza apparenti diffi­coltà, che sembra scritta per tutti da un autore che, come Melville, non si vergogna d'essere colto. Il capitolo IX rivela però che il nuovo cantastorie non è popolare, ma sa usare materiale di diversa prove­nienza per dar voce a una polifonia in cui ciascuno possa riconoscere il suono che gli è familiare. Il quadro, visto da vicino, si rivela piuttosto un mosaico, dove le tessere che non sempre sono perfettamente allineate fanno intrave­dere il vuoto che c'è sotto: il sentiero dei nidi di ragno, luogo sicuro e al tempo stesso esposto al vandalismo degli altri, nega e afferma contemporaneamente la possibilità di un progetto e il nulla, divenendo simbolo palese di angoscia.


Il Cavaliere inesistente

Italo Calvino

(San Remo 1959)


GENERE: Fantastico-surreale.


CONTENUTO:

Rambaldo, figlio del marchese di Rossiglione, decide di vendicare suo padre e, quindi, uccide l'argalif  Isoarre. Rambaldo, che rischia di essere ucciso da un avversario, riesce a salvarsi grazie all'aiuto di Bradamante, che, travestita da cavaliere, è andata in suo soccorso. Rambaldo se ne innamora.

Rambaldo decide di chiedere ad Agilulfo, il cavaliere invisibile, se esso lo vuole come suo paladino. Rambaldo, però, si accorge che Bradamante è innamorata di Agilulfo, divenuto cavaliere perché ha salvato la verginità di Sofronia.

Dopo un po' di tempo, però, Torrismondo dichiara di essere figlio di Sofronia e del Sacro Ordine dei Gral e parte con Agilulfo per cercare sua madre. Partono, a loro volta, anche Bradamante e Rambaldo.

Dopo alcuni giorni di viaggio, Agilulfo arriva, finalmente, al monastero dove si trova Sofronia; lì viene a sapere che le suore sono state portate in Marocco e fatte diventare schiave da dei pirati moreschi. Agilulfo le raggiunge e porta via Sofronia.

Lasciata Sofronia in una grotta, Agilulfo va da Carlo Magno. Torrismondo entra nell'incavatura in cui si trova Sofronia e se ne innamora, i due si uniscono.

Torrismondo scopre che essa è Sofronia, ma poi viene a sapere che lui non è suo figlio, bensì il suo fratello illegittimo e, quindi, le dichiara che lei è figlia illegittima di suo padre e di una contadina.

Rambaldo va, quindi, a cercare Agilulfo che, avendo visto Sofronia e Torrismondo insieme, era fuggito. Di lui resta, però, soltanto l'armatura. Rambaldo la indossa e va incontro a Bradamante con cui si unisce. Quando, però, Bradamante si accorge che quello non era Agilulfo, bensì Rambaldo, fugge.

Suor Teodora, colei che ha raccontato tutta la storia, ha quasi terminato il suo libro quando sente la voce di un uomo che domanda se lì si trova la guerriera Bradamante; la suora, dopo essere andata alla finestra ed aver detto che è lei, si veste e va da Rambaldo.


TEMPO: Età medioevale.


PERSONA: Lo scrittore narra in terza persona.


PROTAGONISTA:

Agilulfo: E' un cavaliere che non esiste, ma che è più preciso, più realista, più perfetto di ogni altro. Non mangia, non ama le donne. Ama solo la perfezione. E' pignolo, forte e autoritario. La mattina, appena svegliato, si sente debole ed è per questo motivo che si mette ad ordinare pigne o a fare altre cose simili.


ALTRI PERSONAGGI IMPORTANTI:

Rambaldo: Va in guerra soltanto per vendicare suo padre. L'unica cosa veramente importante per lui è che Bradamante l'ami e per arrivare al suo scopo usa i vestiti di Agilulfo.


Bradamante: Pur essendo una donna è più forte di molti dei cavalieri di Carlo Magno, però è disordinata e viziata. Inoltre il suo amore per Agilulfo la porta a lasciare tutto per lui.

COMPRENSIONE DEL TESTO:

Il testo è abbastanza comprensibile, anche se durante il viaggio dei vari personaggi questo è un po' meno comprensibile.







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