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Il Teatro: dalle origini al Novecento

letteratura



Il Teatro: dalle origini al Novecento



"Il teatro è la prima medicina che l'uomo ha inventato per proteggersi dalla malattia dell'angoscia"

Jean-Louis Barrault


Alle origini.da Atene a Roma.

La Grecia

La Grecia fu sicuramente la culla del teatro occidentale. Le sue espressioni piu compiute furono la tragedia e la commedia , strettamente legate al contesto politico e culturale della polis del VI e V secolo a.c. Alle origini gli spettacoli erano l'espressione di tutto il popolo. Gli spettacoli teatrali si svolgevano durante feste religiose , in delle gare , gli agoni drammatici. Tali spettacoli riscuotevano un enorme successo , essi divennero uno strumento di coesione tra i cittadini e la polis che partecipavano con passione trasformando la recita in uno spettacolo attivo. L'allestimento era affidato ai cittadini più ricchi. Al te 747g62h atro veniva attribuito un enorme valore educativo tanto che veniva offerto un gettone di presenza in denaro come risarcimento per il tempo trascorso a teatro. Venivano messe in scena soprattutto episodi della mitologia greca, opportunamente attualizzati e calati nel contesto storico, e più raramente episodi storici. La messa in scena era divisa in tre parti recitate: il prologo, la parodos e l'esodo, intervallati da stasimi, cioè interventi del coro. Inizialmente l'attore era solo uno, lo stesso autore dell'opera, e solo in seguito fu portato a tre. Essi indossavano maschere e vistosi vestiti, per farsi facilmente riconoscere dal pubblico e per interpretare anche parti diverse, tal volta anche femminili. Tra i principali tragediografi ricordiamo: Eschilo, Sofocle, Euripide; tra i principali commediografi: Aristofane e Menandro, fondatore della cosiddetta commedia nuova, nella quale l'attualità politica e sociale, tipica delle opere aristofanesche, scompare per lasciar spazio ai problemi dell'individuo.



Il mondo italico

Nel mondo italico esistevano antiche forme di spettacolo legate soprattutto alle attività agricole e alla feste agresti. È il caso dei fescennini:in occasione della vendemmia i contadini delle campagne romane si scambiavano burle e insulti usando un linguaggio sfrenato e licenzioso. Dalla Campania, inoltre si diffuse la farsa atellana. Gli attori improvvisavano storie realistiche su canovacci già stabiliti. Le atellane rimasero a Roma lo spettacolo più gradito, anche quando, i romani in seguito all'espansione militare vennero in contatto la cultura greca e ne adottarono i modelli teatrali, soprattutto la commedia. La professione di attore era considerata scandalosa, tanto che era esercitata da schiavi, liberti o stranieri. Riuniti in compagnie, gli attori, tutti di sesso maschile, recitavano indossando la maschera (persona) e i più bravi ricevevano compensi vertiginosi. Certamente i romani, alle commedie di modello greco, preferirono sempre altre forme di spettacolo come i giochi circensi e quelli dei gladiatori. Ma da I secolo a.c. si affermarono due generi teatrali originali, il mimo e il pantomimo, che soppiantarono gli altri nel gusto del pubblico. I mimi(uomini e donne senza maschere) danzavano, mimavano e recitavano storie ispirate alla vita romana o alla mitologia. I principali drammaturghi latini sono Plauto e Terenzio, autori di commedie, e Seneca , autore di tragedie.

Dal medioevo al primo risorgimento

Le sacre rappresentazioni

Dopo la decadenza del teatro latino, di cui l'ultimo importante esponente è Seneca con le tragedie, in tutti i secoli successivi non esiste una vera forma di teatro, ma prende corpo nel 1200 un tipo di componimento a carattere religioso detto lauda lirica e drammatica (dialogata) a due o più voci che viene cantata o raccontata o recitata in concomitanza con la celebrazione di un rito liturgico. Nel 1300 prendono una più precisa fisionomia teatrale le laude drammatiche, che costituiscono un sicuro precedente per lo sviluppo del teatro religioso del 1400 (sacre rappresentazioni).

Nel 1400 segue nella letteratura religiosa lo sviluppo della sacra rappresentazione che consiste nello svolgimento scenico della lauda dialogata, componimento di drammi sacri tratti da episodi della storia biblica, vita dei santi ecc. La sacra rappresentazione è uno degli esempi tipici della derivazione degli spettacoli delle cerimonie religiose, di cui si rinvengono tracce presso tutti i popoli. Questa è uno spettacolo primitivo e ingenuo allestito generalmente sul sagrato delle chiese o nelle piazze cittadine su un rudimentale palcoscenico non a scena unica e fissa come nel teatro latino, ma multipla dove si allineavano uno accanto all'altro i luoghi più vari che sarebbero stati teatro dell'azione. Come gli ambienti tra loro più lontani sono presenti e contigui sul palco così le vicende, qualunque sia il loro tempo ideale, si svolgono senza alcun intervallo tra l'annunciazione dell'argomento e la licenza pronunciate da un angelo.

Forse da questo primitivo spettacolo religioso avrebbe potuto derivare un originale teatro nostrano (gli umanisti, infatti, hanno tentato di laicizzarlo, in altre parole, di utilizzare lo schema scenico della sacra rappresentazione per la narrazione di argomenti mitologici, o profani o allegorici come nel Timone del Boiardo), ma nella 2° metà del 1400 subentrò l'imitazione del teatro classico e la sacra rappresentazione sopravvisse solo ai margini senza possibilità di sviluppo.


Il teatro cortigiano

Dalla sacra rappresentazione nella 2° metà del 1400 si passa al teatro cortigiano diffusosi in tutte le corti. Questo teatro è destinato ad una forma di spettacolo diversa dalla precedente perché non viene più allestito sui sagrati delle chiese o sulle piazze ma nelle corti dei principi, tuttavia utilizzando la stessa tecnica della sacra rappresentazione della compresenza dei vari luoghi e tempi, però viene messa in scena la materia profana, mitologica che ha per personaggi gli antichi e i loro dei, il tutto per un pubblico raffinato e scelto formato da una schiera di cortigiani e cittadini di riguardo. Lo spettacolo è allestito come uno dei momenti del ricevimento a corte perciò assai breve, appena un intermezzo tra il ricevimento e le danze, e realizzato dal principe in una sala del palazzo come documentazione esemplare del proprio prestigio. Le opere teatrali importanti di questo tipo sono l'Orfeo di Poliziano, preparato per una recita alla corte dei Gonzaga, e il Timone del Boiardo, rielaborazione in forma scenica di un dialogo dello scrittore greco Luciano, rappresentato alla corte di Ferrara


Il dramma pastorale

Su questa linea di genere letterario vanno collocate anche opere del 1500 come il Tirsi di B. Castiglione e l'Egle di G. Girardi Cinzio. E' la stessa linea che poi porterà ad un nuovo genere teatrale che avrà il maggior sviluppo nella 2° metà de 1500: la tragicommedia o dramma pastorale che riprende gli argomenti della poesia bucolica della letteratura classica, il mondo cioè dei pastori e delle ninfe arricchito da situazioni psicologiche tipiche della tragedia. Nel clima della controriforma questo genere consente agli autori di evadere dalla faticosa realtà contemporanea e di rifugiarsi in un'atmosfera di musicali dolcezze e nella rappresentazione di un'età incontaminata di serena delizia. I rappresentanti più importanti del dramma pastorale sono G. Battista Guarini (1538-1612) con il Pastor Fido, e T. Tasso (1544-1595) con l'Aminta. Ambedue queste opere furono rappresentate alla corte di Ferrara e pur presentando caratteristiche diverse nella struttura generale, evidenziano l'adeguamento al moralismo della controriforma. Infatti, il pastore e la ninfa dopo vari peripezie si ricongiungono e il loro amore, che nella letteratura classica era normalmente libero, in queste due opere si conclude con il matrimonio.

La commedia classica

Fin dalla 2° metà del 1400, sulla scia della riscoperta dei testi classica, incomincia a rifiorire anche il genere della Commedia classica. Le opere degli autori greci e latini sono studiate in lingua originale per recuperarne interamente i valori. Dopo il 1429, anno in cui vengono ritrovate dall'umanista Nicola Cusano, dodici commedie di Plauto, sorge un grande interesse per questo genere: vengono rappresentate ovunque le commedie di Plauto e Terenzio, ne vengono scritte di nuove in latino restando entro esperienze ristrette dirette ad un pubblico di studenti universitari e di circoli umanistici.

La commedia volgare

Un grosso passo avanti si ha quando le commedie latine vengono rappresentate in traduzione volgare (in terzine) nell'ambito delle feste e degli spettacoli di corte soppiantando il teatro che abbiamo chiamato cortigiano.

Uno dei centri principali di produzione di testi tradotti, di rappresentazione degli stessi e di creazione di testi originali è la corte di Ferrara al tempo di Ercole 1à d'Este. Ben presto però entrano in gara anche le altre corti: Mantova, Milano, Urbino, Venezia e naturalmente Firenze e Roma.

I volgarizzamenti di testi plautini si inaugurano con i Manechini rappresentati a Ferrara nel 1488 e nei decenni successivi. Questo e altri volgarizzamenti sono importanti perché educano il gusto del pubblico e lo preparano ad accogliere i testi più complessi di Machiavelli e Ariosto.

Si vuole fissare la nascita della commedia volgare nel 1503 con il Formicone di Mantovano che ha però scarso interesse. La vera paternità spetta a Ludovico Ariosto che non è solo autore ma è anche regista e organizzatore degli spettacoli. Egli scrive e fa rappresentare la prima delle sue commedie, la Cassaria, nel 1508.

Seguono fino al 1529 le altre sue commedie: i Suppositi, il Negromante, la Lena, gli Studenti (completata dal fratello). Seguono altre commedie di perfetta qualità come la Calandria del cardinale Bibbiena del 1513, la Mandragola e la Clizia di Machiavelli del 1518 e 1525, la Cortigiana di Pietro Aretino del 1525, la Venexiana anonima e di carattere più spregiudicato rispetto a tutte le altre menzionate.

Con le commedie di Ariosto e la Clandria del Bibbiena si pongono le basi di una codificazione che, in varia misura per tutti gli autori, costituisce un punto di riferimento:

w Il modello è generalmente Plauto o Terenzio, preferito Plauto.

w Intrecci e tematiche di questi testi si basano sullo sconvolgimento temporaneo di un microcosmo familiare provocato da due passioni: l'amore e l'avidità di denaro. I personaggi rappresentano dei caratteri di solito contrapposti fra loro (avaro- prodigo, intelligente- sciocco) che vengono personificati da una serie di opposizioni fisiche (giovane- vecchio, uomo- donna), sociali (ricco- povero, servitore- padrone), di parentela (moglie- marito, padre- figlio). Si tratta degli stessi ingredienti della commedia latina alla quale si aggiungono gli elementi della novella (a partire da Boccaccio) che offriva intrecci, personaggi e materiale linguistico più vicini al pubblico del 1500.

w La riscoperta della Poetica aristotelica in periodo umanistico detta, come nel teatro greco e latino, le regole riguardo all'unità di tempo, di azione e di luogo che vengono seguite fedelmente anche se non rigidamente. L'unità di luogo impone l'utilizzo della scena fissa e unica con la presenza di un solo luogo teatro dell'azione. L'unità di tempo impone che l'azione si svolga nel giro di 24 ore (massimo 30). Anche l'azione principale è unica.

w Ogni commedia è composta, come la latina, da un prologo e cinque atti (Ariosto). Il prologo nella maggior parte dei casi non informa sulla commedia come in Plauto, ma serve come occasione di dibattito letterario come in Terenzio.

w Secondo i modelli latini vi è la presenza di tipi fissi, di personaggi topici: lo sciocco, l'amante che deve conquistare la sua donna, il vecchio babbeo ecc. A questi si aggiungono altri due tipi specifici del 1500: il pedante, personificazione comica dell'uomo di cultura sclerotizzato nelle sue citazioni latine (ripreso poi da Molière nelle sue commedie), e lo spaccone nel quale si possono cogliere allusioni agli spagnoli (soprattutto accentuate nella Commedia dell'Arte).

w La lingua utilizzata è il volgare o il dialetto (per la commedia dialettale Ruzante). La lingua è importante perché i diversi livelli linguistici utilizzati corrispondono alla stratificazione sociale dei personaggi. Dopo il 1550 si accentua il legame del personaggio con la sua caratteristica inflessione linguistica (il pedante = latino maccheronico).Perciò nella commedia, c'è una miscela linguistica nella quale c'è posto per la lingua sociale a livello alto e spesso sublime per i personaggi d'elevata posizione sociale, per il parlato o il dialetto per i personaggi di basso livello sociale. Nel contempo la lingua è un espediente di comicità. La cristallizzazione di questo procedimento approderà alle maschere regionali dialettali della Commedia dell'arte. La lingua della commedia si muove quindi in una direzione di plurilinguismo e sperimentalismo, opposta alla codificazione fatta da Pietro Bembo.


Nella 2° metà del 1500 e nel 1600 la commedia mantiene i caratteri fondamentali assunti durante il maturo rinascimento: l'imitazione dei classici, apporto della novella di Boccaccio, viva aderenza alla realtà e alla vita comune del tempo, rispetto non sempre rigido delle regole aristoteliche.

Diretta ad un pubblico letterariamente più colto continua ad avere i suoi esemplari soprattutto in Toscana, però il valore letterario della commedia di questo periodo è modesto. Ricordiamo Michelangelo Buonarroti il Giovane per la ricchezza della lingua popolaresca cittadina e l'uso della parlata del contado fiorentino.


Tra rinascimento e barocco


Col Rinascimento italiano si afferma, sia contro il teatro più o meno ingenuamente religioso sia contro quello goffamente buffonesco, il teatro erudito. Nato dallo studio dei classici greci e latini che tra la fine del sec. XV e il principio del XVI, a Roma, Firenze e altrove furono riportati su scene improvvisate, davanti a un pubblico raffinato, talvolta addirittura nel testo, ma assai più spesso tradotti il teatro del Rinascimento foggia le sue tre forme tipiche: il dramma pastorale, creazione italiana che fra i secoli XVI e XVII invade molti paesi europei; la commedia umanistica, che trasmette all'Europa l'eredità comica dei Greci e dei Latini; e, assai più frigida e meno imitata, la tragedia, ricalcata su Euripide e specie su Seneca. Il teatro diviene, allora, divertimento di signori e di principi, di cardinali e addirittura di papi (Leone X); insomma, senza escludere il gran pubblico, è per eccellenza fenomeno di corte. Dapprima i suoi interpreti sono gentiluomini, accademici, studenti; eccezionale è un caso come quello del cardinale Ippolito d'Este, che fa recitare a Roma dai suoi domestici, cuochi e stallieri, una commedia del Molza e del Tolomei, del reato con tale afflusso di pubblico che si deve trattenerlo con le guardie. A ogni modo si tratta sempre di attori dilettanti; e gli spettacoli del genere sono promossi non da impresari, ma da mecenati o da enti culturali, come accademie e simili. Ma già nella prima metà del sec. XVI s'è rivelato il fenomeno nuovo, l'apparizione degli attori professionali, detti perciò comici a dell'arte. Da molti storici si è parlato di costoro come di genialissimi ma rozzi improvvisatori, emersi dalla farsa plebea; in realtà, essi o almeno i più famosi, quelli cioè che già nella seconda metà del secolo avevano avuto enorme successo in quasi tutti i paesi d'Europa erano metodicamente esperti nell'arte loro (in cui dovevano avere gran parte le doti mimiche, acrobatiche, coreografiche, musicali, ecc., dato che recitavano davanti a spettatori la massima parte dei quali non ne intendeva la lingua). Interpreti acclamati di opere regolari (Aminta e Pastor Fido furono per la prima volta recitati da loro), essi conseguirono però la massima fama, come si sa, nella cosiddetta commedia improvvisa, dove i personaggi erano stilizzati in altrettanti tipi fissi, o maschere. Ma queste non erano se non la trasformazione dei caratteri della commedia classica; alla quale erano di regola attinti anche i loro "scenari", o intrecci. Si aggiunga che i più famosi comici dell'arte erano quasi tutti colti e letterati (al punto che recentemente il Pirandello, in uno scritto polemico, ha voluto addirittura considerarli come autori che facevano anche gli attori); e si comprenderà come e perché, pur non avendo creato opere di poesia in quanto rinunciarono a scrivere, essi adempirono tuttavia al compito di trasmettere dall'Italia a tutta l'Europa, oltre i principi dell'arte dell'attore moderno, le formule e i modi dell'eterna sostanza comica ereditata dalle letterature classiche (Roma, Magna Grecia, Grecia). Interessante è poi la commedia dell'arte anche come documento sociale e morale, in quanto la sua abituale sconcezza, che sollazzava principi, re e regine, può dare un'idea del costume dell'alta società nei secoli XVI, XVII e XVIII. Questo, e la vita nomade e irregolare dei comici - fra cui non mancarono gli scapestrati e i delinquenti, mentre per la prima volta, dopo la millenaria parentesi medievale, riapparvero in scena le donne - provocò contro la professione dell'attore i rigori della Chiesa, con censure e scomuniche la cui applicazione variò di paese in paese, ma che più o meno durarono sino e oltre la fine del sec. XVIII. Gli attori, sia italiani sia quelli che sul loro esempio si erano educati negli altri paesi, si difesero riparandosi dietro lo scopo morale o religioso o benefico (in Spagna, ottennero la protezione della Chiesa col dare una parte degli introiti ai poveri e si malati), e ricorrendo alla protezione dei sovrani. Questi dal canto loro, sia cattolici sia (ma più di rado) protestanti, accordarono spesso (non sempre; ci furono periodi di severità, e anche di persecuzione) la loro protezione al teatro. Ma, in cambio, ne regolarono la vita e l'organizzazione con leggi e privilegi che, concessi a qualche compagnia, si tradussero in ferree restrizioni per le altre, e spesso in un vero e proprio regime di monopolio: altrove si è esposto come i re di Francia e d'Inghilterra abbiano disciplinato questa materia delle licenze per recitare concesse a un dato numero di teatri e di compagnie e non più, e delle sovvenzioni ad essi accordate. Intanto, nel nuovo tipo di teatro a palchetti che gli architetti italiani hanno creato dopo la nascita di un nuovo spettacolo genuinamente italiano, il melodramma, si rispecchia lo spirito d'una società gerarchica e fastosa, che anche a teatro vuole la separazione delle classi: i principi e gli ottimati ai posti d'onore, i gaudenti nei palchi dove si fa conversazione, si amoreggia, e all'occorrenza si mangia e ai beve, e infine gli umili (quando ci sono) negli infimi posti. La sala illuminata (malgrado le raccomandazioni in contrario di qualche scenografo) non meno sfarzosamente del palcoscenico, e popolata, specie nelle grandi rappresentazioni liriche e coreografiche, da un pubblico in costumi fulgidissimi, è già uno spettacolo essa stessa. Sovente le stampe dell'epoca, fatte per documentare lo splendore d'una messinscena, si danno cura di riprodurre anche il teatro e gli spettatori. Più lentamente tutto ciò si diffonde negli altri paesi, dove ancora in parte del sec. XVII il teatro rimase spesso affidato ad artisti girovaghi e avventurieri, se non lestofanti e ladri: chi voglia farai un'idea di ciò che fossero, per esempio, gli artisti spagnoli, via via accampati nelle piazze e nei cortili dove recitavano davanti a folle di spettatori che lanciavano frutta e sassi, legga il Viaje entratenido del De Rojas; o, per i francesi, il Rosnan comique di Scarron; o le descrizioni del pubblico incredibilmente eterogeneo che frequentava gli spettacoli drammatici dell'età elisabettiana. Con un pubblico di tal genere furono alle prese Lope de Vega e Calderòn, Shakespeare e Molière. Ed è solo fra il Sei e il Settecento che, sotto l'impulso italiano, ai corrales di Madrid, ai teatri di tipo popolare come il Globe shakespeariano, e a quelli misti come l'Hôtel de Bourgogne di Parigi dove il pubblico grosso stava in piedi nel parterre e i signori nella galleria o addirittura in poltrona suul proscenio, si sostituiscono via via i nuovi e belli teatri all'italiana. Ciò, s'intende, non impedisce la insistente sopravvivenza degli spettacoli plebei, più o meno irregolari; a Parigi i théâtres de la Foire, e in tutte le metropoli, e in provincia, guitti e saltimbanchi, sempre cari al popolino e spesso anche alla piccola borghesia, continuano come possono il loro mestiere. D'altra parte, in periodo di Controriforma, quando più si acuisce la guerra che alcune chiese protestanti e, anche per reazione, la cattolica, fanno al teatro (comprese le degenerate rappresentazioni religiose: contro le recite del famoso mistero del Vieux Testametzt in Francia, riboccante di indecenze, dové intervenire il parlamento), si delinea il fenomeno del teatro edificante che si rifugia nei collegi. La tradizione si può far risalire a Rosvita; ma le sue origini prossime sono italiane (le laudi del Savonarola nel chiostro di San Marco, l'oratorio di San Filippo a Roma). Essa è coltivata specialmente dai gesuiti e, sul loro esempio, dagli altri ordini religiosi che si dedicano all'insegnamento, maschile e femminile. Eccezionalmente, produce anche opere di gran classe, come l'Esther e l'Athalie, scritte da Racine per le educande di Saint Cyr. Ma in genere i trionfi del teatro gesuitico riguardano soprattutto la messinscena, che specie in Francia, e più ancora in Germania e in Austria, raggiunge grandi splendori. La moda dei teatrini di corte, o addirittura di salotto, si diffonde pure nell'alta società del Settecento. E si può dire che solo a questo tipo appartiene, dalla metà del sec. XVII a tutto il XVIII, il nascente teatro russo; dove Pietro il Grande accoglie però anche il pubblico estraneo, e a cui Caterina Il dà nuovo impulso. Come si vede, a veri e propri spettacoli d'arte la folla è tuttavia ammessa solo in parte, e nelle massime città: l'autentica arte drammatica è, salvo rari periodi, inaccessibile alla maggioranza della popolazione. Le battaglie letterarie di un Corneille e d'un Racine, le lotte di più vasta portata sostenute da un Molière, o, in Italia, quelle di un Goldoni, che pure sono seguite da un certo pubblico borghese nelle città dove si svolgono, interessano soprattutto un élite; le gazzette le descrivono e le commentano, ma ilcerchio degli spettatori è sempre ristretto. Quanto agli attori, il contegno della società a loro riguardo è incerto e contraddittorio. Sospetti all'autorità civile, e respinti, come si è detto, dalla Chiesa, che almeno in certi paesi li considera viventi in peccato e non li ammette ai sacramenti neanche in punto di morte se non rinnegano l'arte loro, spesso però sono idolatrati dal pubblico, e divengono familiari agli Stessi sovrani. Per citare solo gli esempi più noti, si ricorderanno i re di Francia che proteggono e ammettono alla loro intimità alcuni famosi comici italiani dell'arte, e particolarmente Luigi XIV, regalmente benevolo verso l'attore-autore Molière; sebbene l'Accademia creata dal cardinale di Richelieu rifiuti d'ammettere nel suo seno, appunto perché esercita un mestiere "infame", l'autore de L'Avare, e alla sua morte pressoché improvvisa il parroco stenti a concedergli i funerali religiosi, che hanno luogo solo per l'intervento, sollecitato dalla corte, dell'arcivescovo di Parigi, e in forma pressoché clan- destina, senza nessuna pompa. Incidenti analoghi si verificano, del resto, anche in morte d'altri attori, e specialmente attrici, celebri. Difatti, se taluna di queste è celebrata per le sue virtù non solo d'artista ma di donna - come nel 1604 Isabella Andreini, Cantata dal Tasso, dal Marino, dal Chiabrera, e da altri poeti italiani e francesi - la più parte menano vita dissoluta, e il loro nome ai mescola agli scandali del tempo: dalla Duparc, l'amica di Racine, morta in circostanze tragiche, per le quali caddero sospetti fin sull'insigne poeta, alla Lecouvreur, la cui esistenza avventurosa e morte pietosa hanno poi dato origine, come ai sa, a racconti e melodrammi romanticheggianti. Ma accade pure che l'arte giunga a redimere qualche grande attore, almeno agli occhi della società intellettuale, dai pudori o dai pregiudizi del secolo. Nel sec. XVIII, Garrick diverrà l'idolo del più eletto mondo britannico, al punto che non ai esiterà a seppellirlo nell'abbazia di Westminster, accanto a Shakespeare (che pure era Stato attore di mestiere); onore poi concesso a un altro autore-attore, Sheridan, malgrado gli stravizi che avevano inquinato la sua esistenza e addirittura, si dice, causato la sua morte.Chi riporta il gran pubblico a teatro, anche con l'idea di tornare agli esempi delle democrazie classiche, è la rivoluzione francese. Essa vuol fare il teatro non più per le élites, ma per il popolo; proclama di voler trasformarlo, da scuola di corruzione a uso delle classi gaudenti e corrotte, a scuola di virtù. I teatri di Parigi diventano, allora, una specie di succursale dei comitati rivoluzionari; quel che vi ai rappresenta, è di gusto assai discutibile; gli autori, incerti fra gli ideali delle decantate virtù greco-romane (che li riportano alla tragedia classicista e alla sua morale), e le proclamate libertà nuove (talché si provano in una quantità di lavori di propaganda, fra i quali non uno e rimasto nella storia dell'arte), invitano gli spettatori alla discussione, alla disputa, al tumulto; gli spettacoli si svolgono tra roventi entusiasmi, e incidenti clamorosi. Al tempo del consolato e poi dell'impero, Napoleone amico personale del grandissimo Talma, che dopo la sua caduta lo ripagò con notevole ingratitudine - si fa protettore del teatro, promovendone l'incremento, e disciplinandone l'attività pratica, con leggi insieme amorose e severe. L'ultima è, come si sa, quella per la riforma della Comédie-Francaise, a tutt'oggi il più antico teatro d'Europa, che vanta le sue origini dalla troupe di Molière sussidiata dalla cassetta privata di Luigi XIV, e che Napoleone riorganizza col famoso "decreto di Mosca", firmato nel momento più critico della sua vita, dalla reggia degli zar da lui occupata. Sennonché il rinnovamento del teatro, non solo francese ma europeo, si deve al Romanticismo. Per esso il dramma vuol diventare l'agitatore dei grandi problemi proposti dagli spiriti più vigili all'anima delle folle. Da esso muoverà il teatro dell'Ottocento, la cui caratteristica essenziale sarà appunto il suo profondo desiderio di creare una nuova morale, e di esercitare una profonda influenza sociale. I primi bandi e squilli in questo senso erano partiti dalla seconda metà del sec. XVIII, in Italia grazie all'Alfieri, in Francia grazie al Diderot, e soprattutto in Germania grazie al Lessing, e al movimento intitolato dal famoso dramma del Klinger, Sturm und Drang: le speranze in una nuova e libera umanità, la vita giustificata in sé, l'ansia d'una perpetua ricercca proposta non più come mezzo ma come fine, il culto dell'io, della sensibilità e della passionalità, il ripudio delle vecchie regole così etiche come estetiche, il ritorno al senso della natura e dell'infinito, l'adorazione per Shakespeare campione di tutte le virtù, l'attesa d'una grande arte nuova e d'un grande teatro tedesco e universale che ne sia la suprema espressione, sono via via i sogni del Herder, del cenacolo degli Schlegel, e dello stesso Goethe che, particolarmente riguardo al teatro, ne fa oggetto del suo Wilhelm Metster, e consacra gran parte della vita all'attività non solo di drammaturgo ma anche di direttore di teatro, istruttore d'attori e regista. L'influenza del teatro nella Germania di quell'epoca è, effettivamente, immensa. Schiller è salutato non solo poeta drammatico, ma maestro di vita; dopo il trionfo dei suoi Masnadieri, giovani della buona società abbandonano il tetto familiare per farsi banditi.In Francia il teatro romantico, specie per opera di colui che ne vien ritenuto il profeta, Victor Hugo, non tanto s'effonde nei fremiti della fede tra melanconica e vagamente religiosa dei romantici tedeschi, quanto si fa accusatore del passato monarchico e cattolico, e propagandista d'un ottimismo laico, demagogico e umanitario. Certo non entrano in queste formule il breve teatro del Vigny, ch'è intimamente aristocratico, né quello più dovizioso del Musset, che però dopo un infelice esordio scenico rimane per lunghi de- cenni estraneo alla ribalta e confinato nel libro. Ma, dalla prima dell'Hernani in poi, le grandi battaglie teatrali, con polemiche e zuffe fra gli spettatori, si combattono intorno ai drammi di Hugo (sebbene il poeta non abbia certo dato in essi i frutti migliori del suo ingegno). Né vogliono esser battaglie soltanto estetiche; ma concretare in qualche modo un aspetto della lotta fra tradizione e rivoluzione, reazione e libertà. Caratteri più bonari ebbe il romanticismo inglese, fatta eccezione per gli atteggiamenti fra satanici e immoralisti del Byron, il cui teatro del resto fu un fenomeno soprattutto letterario. In Italia il teatro romantico - che diede i suoi massimi fiori nei due capolavori essenzialmente mancati, ma ricchi di particolari stupendi, d'Alessandro Manzoni - presto dai cauti accenti religiosi, di carità e giustizia cristiana, passò a quelli nazionali. Le sale degli spettacoli italiani ospitarono, travestiti e compressi, gli inni alle idee del Risorgimento; successo in gran parte politico fu quello della Francesca del Pellico; interamente politico quello delle tragedie del Niccolini; patrioti gli autori, gli attori, le attrici, tanto che alla più grande fra essi, la Ristori, il Cavour si rivolgeva come ad "ambasciatrice d'Italia".



La Commedia alla spagnola

Nel corso del 1600 acquista grande diffusione anche la cosiddetta Commedia alla spagnola. Nell'ambito della situazione politica della nostra penisola si diffonde dalla Spagna la conoscenza di autori teatrali come Lope de Vega, Calderon della Barca, le cui opere attestano profondità di pensiero e conoscenza dell'animo umano della vita. Il dramma spagnolo sia di soggetto religioso, sia di argomento profano (di avventura e di coppa e spada) rivela grande libertà d'ispirazione e si distacca dalle norme classiche, si avvale dell'elemento fantastico e meraviglioso per indagare nella mente umana e mettere a fuoco problemi morali. Gli imitatori italiani del dramma spagnolo, mirando a soddisfare un pubblico avido di spettacoli insoliti e meravigliosi secondo il gusto barocco non colgono i valori più veri, cioè l'assenza concettuale, sentimentale delle opere originarie ma ne derivano azioni sceniche nelle quali danno rilievo solamente agli intrighi romanzeschi e avventurosi.

La Commedia dell'Arte

Il teatro di cui abbiamo parlato finora appartiene alla sfera letteraria. Già dalla 2° metà del 1500 abbiamo un'altra produzione teatrale, che sorge al di fuori del mondo letterario, che punta sul teatro come spettacolo e non come testo letterario, che valorizza non l'autore ma l'attore e che avrà un grandissimo consenso di pubblico (perché non proponeva profondità di pensieri e sentimenti ma sola occasione di divertimento): La Commedia dell'Arte. Essa ha origine quando si formano le prime compagnie fisse di comici professionisti (la prima è del 1545 a Padova) che sono al tempo stesso attori e musici, mimi e acrobati, e quando sorgono i primi teatri stabili. L'attività di queste compagnie sarà fiorente fino ai tempi del Goldoni.



Il processo di formazione della commedia dell'arte è molto discusso dagli studiosi, pare comunque che la maggior parte sia concorde nel sostenere che gli attori del teatro non letterario (non scritto) utilizzassero gli intrecci, i personaggi e le diverse inflessioni linguistiche presenti nella commedia del 1500: i furbi, gli sciocchi, il vecchio, il babbeo ecc., lo scambio di persona e l'agnizione. Questi intrecci e personaggi vengono via via cristallizzati i "tipi fissi" (in "maschere fisse") di cui sono scontate e prevedibili le vicende e la cui identificazione risulta sempre più facile agli spettatori per la ripetitività del linguaggio, del costume, dei gesti nelle varie commedie (es. Pantalone è il vecchio mercante veneziano, capofamiglia danaroso ma avaro, caratterizzato dal costume rosso e nero e dal ricorso dialetto veneziano). In tutte le commedie i personaggi hanno le stesse caratteristiche, sono dei "tipi", delle "maschere fisse"; questa fissità della maschera determina innanzitutto la chiusura da ogni sviluppo psicologico ed inoltre comporta la fissità del ruolo dell'attore che per tutta la sua carriera interpreterà sempre la stessa maschera. L'attore perde anche agli occhi dello spettatore la sua vera identità, le sue connotazioni analogiche: basti ricordare il ruolo di Charlot interpretato da Charlie Chaplin in cui la maschera ha sopraffatto l'attore.

Alcune tra le maschere della commedia dell'arte, note ancora oggi, hanno origine regionale, rappresentano cioè i caratteri considerati più caratteristici degli abitanti di una determinata regione di cui parlano anche il dialetto (Pantalone -veneto, Balanzone- bolognese ecc.)

Il termine "Arte" significa "mestiere", ad indicare il carattere non dilettantesco ma professionale delle varie compagnie teatrali. Infatti, la recitazione degli attori si fonda soprattutto sulla capacità di improvvisazione. Infatti, la caratteristica peculiare della commedia dell'arte è la mancanza di un testo scritto; gli attori seguono un canovaccio o scenario opera del capocomico, nel quale sono annotati semplicemente gli sviluppi dell'azione e al massimo la successione delle scene. Entro lo schema impostato dal canovaccio ciascun attore inserisce la propria inventiva sia improvvisando, sia attingendo ad un patrimonio di dialoghi, di sonetti ("chiusette" per concludere un dialogo), di Tirate cioè soliloqui di un personaggio, concetti che venivano tramandati da una generazione all'altra di comici e che l'attore utilizzava, come dei prefabbricati nel punto giusto, a comporre la commedia.

L'azione resa vivace da canti, danze, duelli, cadute e bastonature, veniva arricchita anche da "lassi" una sorta di gaf, compromesso tra la barzelletta e la scena comica. A tutto ciò si aggiunge poi la componente mimico-acrobatica, di derivazione giullaresca.

La fama dei comici dell'arte fu vastissima in tutta Europa, ebbe grande successo in Spagna e in Francia dove, dal 1653 al 1697, una compagnia italiana recitò stabilmente al Palais Royal, alternandosi con quella di Molière.



Il teatro Elisabettiano

Si usa questo termine per indicare il periodo che fiorisce durante il regno di Elisabetta I Tudor (1558-1603) in Inghilterra. Nel nostro paese i letterati (con alcune eccezioni), anziché assecondare lo sviluppo del dramma medievale, riportarono il nostro teatro all'imitazione della tragedia e della commedia greco-latina. Invece in altri paesi, tra cui l'Inghilterra, dall'esperienza medievale popolare nasce un teatro nuovo, in cui assume fondamentale importanza il ruolo, sempre più ricco e complesso, degli attori. I loro personaggi acquistano una personalità ben definita. Gli attori diventano professionisti, non recitano più per fini religiosi, ma per vivere e quindi sono molto attenti ai gusti del pubblico che determina la scelta dei soggetti: guerre, tradimenti, vendette, amori, drammi avventurosi, avvenimenti della storia dell'Inghilterra. Queste opere sono scritte da drammaturghi il cui repertorio rifiuta le unità classiche (tempo, luogo, azione), usa la scena multipla, una tecnica teatrale raffinata ed un linguaggio spregiudicato, mescola il genere tragico con il comico.

Numerosi sono gli autori che sanno unire raffinatezza stilistica ed efficacia spettacolare, dolcezza sentimentale e crudezze violente, realismo comico e realtà sublime. Tra di essi spicca William Shakespeare il quale, con assoluto disinteresse per norme e regole di stampo classico, spazia nella produzione dalla ricostruzione storica alla fiaba, dalla commedia di equivoci all'avventura romanzesca, dalla tragedia psicologica al dramma d'amore. Nelle su opere il tragico e il comico, i due elementi che compongono la vita dell'uomo, si alternano e si mescolano per raccontare l'esperienza umana con tutte le sue contraddizioni e passioni. La scena elisabettiana è semplice e valorizza soprattutto la qualità evocativa del testo. In contrasto a ciò Inigo Jones crea raffinati spettacoli di corte basati su un'elaborata tecnica scenografica.


Il Settecento: periodo di grandi cambiamenti.


In Italia, nel settecento si afferma un genere teatrale già conosciuto: la commedia. Prima del Settecento questa forma teatrale aveva prodotto rappresentazioni volgari e bizzarre , con personaggi caratterizzati sempre nello stesso modo, fino a fissarsi nelle maschere. Ispirata dai modelli antichi classici, soprattutto latini, tale forma teatrale trova il suo antecedente più vicino soprattutto nella cinquecentesca commedia dell'arte. Il Settecento vede in Goldoni il decisivo artefice del rinnovamento della commedia.

Dalla fine del Settecento, in seguito alle grandi trasformazioni sociali legate alla rivoluzione francese, il teatro si diffuse anche presso il pubblico popolare; ma fu soprattutto col Romanticismo che si verificò il vero rinnovamento del teatro: il dramma fu visto come un modo per agitare i problemi dell'anima, e per tutto l'Ottocento il teatro avrà la caratteristica essenziale di voler creare una nuova morale e di esercitare una profonda influenza sociale.

In Francia Moliére crea la grande commedia di costume e intorno alle sue opere si accendono polemiche che coinvolgono schieramenti religiosi, politici e lo stesso sovrano. Nel 1664 il "Tartufi", splendida satira dell'ipocrisia, è accusato di empietà. Attore egli stesso, che "recitava come parlava", secondo la testimonianza dei contemporanei, quando fu costretto a rispondere ai suoi nemici, lo fece attraverso il teatro. Uomo di teatro, ma anche moralista. Considerò i vizi degli uomini come deroghe alla naturalezza, autoinganni. Il ridicolo è la forma sensibile di questi vizi: Molière rise del borghese che vuol diventare gentiluomo, del gentiluomo tronfio e insolente, della donna che si atteggia a intellettuale. Diede un modello di opera teatrale chiusa, perfetta, classica, origine per secoli di una comicità esilarante ma anche intrisa di drammatica amarezza, consapevole del ridicolo, del patetico e del tragico delle debolezze umane. Nel 1673 Moliére, recitando "il malato immaginario" muore in scena. Racine da vita ad una tragedia tutta interiore, dove il conflitto si consuma nell'animo dei protagonisti. "Fedra e Ippolito" proietta nel mondo greco il tema della colpa e della predestinazione. Si istituzionalizzano, con la fondazione della "Comédie Francais", i rapporti fra teatro e cultura nazionale.

In Europa nasce il teatro borghese con personaggi più vicini alla quotidianità sia nei suoi risvolti comici, sia in quelli poetici. Generi tradizionali assumono nuove caratteristiche e altri ne nascono, come la commedia lagrimosa, che risponde al bisogno di toni commoventi e non altisonanti del pubblico. La recitazione si fa più naturale, i costumi meno fastosi e più realistici, la scenografia si arricchisce dal punto di vista tecnico con effetti di maggior illusorietà prospettica e di migliore illuminazione.


Goldoni: riforma di un genere.

Quando Goldoni intraprese la sua attività di scrittore per il teatro, la scena comica era dominata dalla "Commedia dell'arte", in cui gli attori improvvisavano le battute senza seguire un testo scritto solo sulla base del canovaccio, una sorta di scaletta che indicava le azioni della commedia. Goldoni, come esso afferma in alcune opere di carattere teorico, (Il teatro comico e Memories) si mostrava molto critico verso la commedia dell'arte; i motivi de suo rifiuto erano: la volgarità in cui era caduta la comicità, la rigidezza stereotipata a cui si erano ridotti i tipi rappresentati dalle maschere, la ripetitività della recitazione (gli attori ripetevano sempre gli stessi lazzi), le stesse azioni e battute convenzionali oramai prevedibili. Ma la ragione della riforma non si appoggiava su queste degenerazioni, quanto sull'impianto stesso della commedia dell'arte e sulla visione del reale che proponeva. Il bisogno di una riforma nasce già nello spirito del razionalismo arcadico che aspirava alla semplicità, all'ordine razionale al buon gusto. Già in ambito arcadico erano nati tentativi di riforma da parte di alcuni autori toscani (Giovan Battista Fagiuoli, Iacopo Angelo Nelli, Girolamo Gigli) ma i loro tentativi erano solo letterari e confinati nel chiuso delle accademie. Goldoni però non era un letterato, ma un uomo di teatro che lavorava a diretto contatto con il pubblico, di cui ne conosceva i gusti e le preferenze. Goldoni ebbe anche la fortuna di vivere a Venezia, dove il teatro era molto radicato, sia per la presenza di sale sia per le compagnie che vi lavoravano. La "riforma" non vuole solo modificare un genere letterario ma vuole incidere sullo spettacolo, nei suoi rapporti con la vita sociale. Goldoni, nella prefazione alle commedie, afferma che nella sua riforma non si è ispirato a modelli libreschi, ma gli unici libri su cui ha studiato sono "il mondo" e "il teatro"; la realtà e la scena. Goldoni vuole proporre testi che piacciano al pubblico ma che allo stesso tempo sia "verisimile", cioè attinente alla realtà. Per questo Goldoni si oppone alle maschere, troppo stereotipate; ad esse sostituisce i caratteri, colti nella loro individualità e varietà psicologiche. Per Goldoni i caratteri sono finiti in base al genere (ad es. l'avaro, il geloso, il bugiardo) ma infiniti nella specie, ci sono infatti infiniti modi di essere avari, gelosi e bugiardi. La ricerca dell'individualità è propria della civiltà borghese: l'arte classica rappresentava categorie di individui, quella borghese rappresentava i singoli individui. L'adesione di Goldoni a caratteri prettamente borghesi deriva sia dalla sua condizione sociale sia dall'ambiente in cui vive; Venezia, pur nella sua arretratezza, era caratterizzata dalla presenza di una solida classe borghese. I caratteri goldoniani non sono mai collocati su uno sfondo neutro, sono radicati in un contesto sociale ben definito. Secondo Goldoni i vizi e le virtù degli individui assumono diverse caratteristiche a seconda dell'ambiente sociale in cui si sono formati. Le commedie di Goldoni vengono divise in "commedie di carattere" e "commedie d'ambiente": le prime intendono a delineare una figura, le seconde a delineare un ambiente sociale. Ma proprio per quanto detto prima le differenze sono solo quantitative, non qualitative; si da cioè più o meno spazio ad un carattere e ad un ambiente. Le commedie di Goldoni si differenziano notevolmente dalla letteratura dell'epoca contemporanea, classicheggiante e aulica, proprio per il loro contatto diretto con la realtà. La commedia goldoniana presenta molte affinità con la commedia borghese dell'illuminismo europeo e si avvicina di molto al "genere serio" teorizzato da Diderot. La riforma vuole quindi restituire una dignità al teatro in generale, contrapponendosi sia all'eccessiva frivolezza della commedia dell'arte sia all'eccessiva tendenza eroica della tragedia. Il rifiuto dell'improvvisazione nasce dal fatto che gli attori, seguendo semplicemente il canovaccio e i generici non potevano fornire una rappresentazione completa del reale. Goldoni incontrò delle opposizioni alla sua riforma: in primo luogo quella degli attori, che si trovavano a ricoprire un ruolo secondario e che non erano abituati ad imparare a memoria un testo scritto; in secondo luogo quella del pubblico, oramai affezionato alle maschere e alle battute della commedia dell'arte. La riforma, proprio per ovviare a queste avversità, fu graduale: Goldoni scrisse prima solo la parte del protagonista (la prima commedia con queste caratteristiche fu il Momolo cortesan); in seguito passo alla stesura delle parti di tutti i personaggi (La donna di mondo). Egli fu molto abile nel mantenere le maschere modificandole però dall'interno e facendole assomigliare sempre più a caratteri individuali, fino a giungere alla loro completa eliminazione. Il pubblico iniziò ad apprezzare il nuovo teatro e Goldoni ebbe un gran successo. L'unico grande ostacolo con cui dovette ancora misurarsi fu la nobiltà: le commedie di Goldoni schernivano spesso l'aristocrazia e ciò poteva essere rischioso dato che a Venezia c'era un governo di tipo oligarchico. L'ironia di Goldoni si dirige verso i barnaboti (gli abitanti del quartiere di san Barnaba a Venezia), gruppo di nobili che per le loro tendenze avventuriere erano disprezzati dall'aristocrazia al potere; oppure si dirige verso nobili di altre città, come, ad esempio, Napoli, Firenze e città dell'Emilia Romagna. Basti infatti ricordare che nella commedia più nota di Goldoni, La Locandiera, il marchese di Forlimpopoli e il conte d'Albafiorita sono rispettivamente uno emiliano e l'altro toscano.




L'Ottocento: l'arte teatrale tra il popolo


La caratteristica essenziale del teatro del primo Ottocento è il ritorno allo spettacolo popolare: si assiste infatti al tentativo di riportare a quest'arte il grande pubblico, per proporgli testi di significativo valore morale, sociale, politico che educhino gli spettatori agli alti ideali. La tecnica teatrale è libera e fantasiosa, con continui mutamenti di scena, senza limiti di spazio, di tempo e di personaggi come nel teatro medievale. Gli autori di questo periodo storico rifiutano l'imposizione, da parte delle varie "scuole", di imitare pedissequamente gli antichi (Eschilo, Sofocle): preferiscono essere se stessi, non vogliono altra legge che la loro ispirazione; tuttavia gli autori romantici hanno l'ossessione dell'apparato scenico storicamente fedele e del particolare archeologicamente esatto: nulla deve essere suggerito alla fantasia dello spettatore, tutto deve corrispondere al vero storico. Questo è il parere di autori di rilievo come il tedesco Wagner e l'inglese Irving. L'attore, caduti i pregiudizi sulla sua identità morale ancora diffusi nel Settecento, acquista una nuova serietà: deve apprendere a fondo l'arte della recitazione (dizione, espressione corporale, armonia dell'insieme) perché il suo scopo non è quello di "cercare di ricopiare la natura, ma di darne la rappresentazione ideale unendo nello spettacolo verità e bellezza", come dice Goethe. Verso la metà del secolo la rappresentazione teatrale scade nella mediocrità, risponde esclusivamente alle esigenze e alle passioni della folla, è avvilita da mestieranti che, assecondando e esaltando i bisogni del pubblico, fanno affari d'oro. Negli uomini più colti c'è spirito di insoddisfazione e ricerca; si vuole reagire contro la bassa commercializzazione: i fatti della vita devono essere trasportati sulla scena da compagnie coerenti e disciplinate; la scenografia perde ogni creatività perché deve fotografare esattamente l'ambiente evocato, senza fantasia ed interpretazione. Verso la fine dell'Ottocento la pretesa di obiettività, di fotografia della "nuda" realtà, si accentua (naturalismo) con intenti di critica sempre più amara della società. Anton Checov in Russia e Enrick Ibsen in Norvegia si muovono, con un linguaggio drammaturgico diverso, dentro questa tendenza innovativa. Checov, del quale ricordiamo Il Gabbiano, Le Tre Sorelle, Il Giardino Dei Ciliegi, Vanja, modella il suo teatro sul tragico quotidiano, popolato da personaggi sconfitti e amaramente rassegnati al loro destino. L'esigenza di portare in scena la realtà, evidenziandone crudelmente i problemi morali e sociali, trova un fondamentale interprete in Ibsen, la cui opera lega la fine del secolo scorso alle tematiche del teatro contemporaneo.

Intorno alla metà del XIX secolo si attuò una evoluzione nei generi teatrali: si dissolse la distinzione tra la tragedia e la commedia "regolari", cioè costruite secondo le norme di ciascun genere a partire dall'antichità classica, lasciando il posto a una nuova forma teatrale, il dramma borghese. La comparsa di questo genere, che, come il romanzo, conobbe la massima fioritura nel secondo Ottocento e subì una progressiva trasformazione nel Novecento, fu correlata con l'evoluzione del mondo economico e sociale: l'emergere della società borghese europea rivolse l'interesse verso un teatro in cui essa potesse rispecchiarsi e che rappresentasse il suo mondo e le sue problematiche.

In Italia ci furono vari autori di drammi fra i quali emergono quelli dialettali, e anche testi narrativi veristi (come la Cavalleria rusticana di Giovanni Verga) vennero ridotti a testo teatrale. In Italia toccarono altri vertici il norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), che nei suoi tredici drammi rappresentò le crisi delle istituzioni borghesi e le contraddizioni interiori dei personaggi, lo svedese August Strindberg (1849-1912),e il russo Anton Chechov (1860-1904), nei cui drammi i personaggi parlano senza riuscire a comunicare realmente nel contesto di una vita quotidiana grigia e di proposti veritieri e illusori.

Sotto il profilo organizzativo, nel corso dell'Ottocento il teatro di prosa vide la nascita in tutta Europa (con molto ritardo, però, in Italia) di teatri stabili, che sostituirono le antiche compagnie nomadi, e fu attribuita maggiore dignità sociale agli attori, che incominciarono a essere considerati come artisti. Anche l'architettura teatrale fu oggetto di maggior e più diffuse elaborazione: nacquero il modello teatrale francese e quello tedesco. Il modello francese, esemplificato nel teatro dell'Opera di Parigi, vede crescere la separatezza tra il palco e la sala per gli spettatori ,che è a semicerchio, con una sola fila di palchi sovrastata da una galleria. Nel modello tedesco, concretizzato nel teatro voluto da Richard Wagner a Bayreuth, ricompaiono le gradinate per il pubblico disposte in cerchio con i palchi solo sulla parete di fondo, mentre il palcoscenico diventa più grande allo scopo di non distrarre il pubblico dallo spettacolo; per l'orchestra viene creato uno spazio apposito, in basso davanti al palcoscenico: è il " golfo mistico", presente tuttora nei teatri e operativo quando l'orchestra accompagna l'azione scenica, per esempio nell'opera lirica e nell'operetta.

Novecento: una nuova ideologia di teatro


Naturalismo e decadentismo contribuiscono, anche se con motivazioni e premesse diverse, ad una elevata ed attenta esplorazione e alla rivalutazione degli strumenti del teatro. Notevoli innovazioni tecniche permettono sia il realismo, sia l'astrazione della scenografia.

Nel teatro d'arte a Mosca si realizza una feconda collaborazione tra un autore dal realismo pieno di risonanze come Cechov e un regista e innovatore come Stanislavskij.

Continua la produzione di Ibsen, considerato, pur tra polemiche e misconoscimenti, il più alto rappresentante di una teatralità profonda e impegnata.

La Nei primi decenni del Novecento si è manifestata la tendenza ad annullare la distanza tra gli spettatori e il pubblico, modificando l'architettura teatrale mediante l'abolizione della distinzione tra palcoscenico e platea. La concezione di un simile "teatro totale" (come fu proposto in Germania del regista Erwin Piscator e dall'architetto Walter Gropius) pone i palcoscenico in mezzo alla platea in modo che gli spettatori osservino gli attori da tutti i lati e partecipino allo spettacolo non solo con adesione emotiva ma soprattutto con maggiore riflessione critica e consapevolezza. Si tratta dunque di una nuova ideologia del teatro, che s propone di essere non tanto un luogo di evasione quanto l'occasione di riflessione e di presa di coscienza della realtà. Aderisce a questo nuovo teatro politico e didattico il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956),che con il suo teatro epico segna un totale rinnovamento del linguaggio teatrale nelle forme, nei contenuti e nel rapporto col pubblico, approfondendo la funzione critica e rivoluzionaria del teatro nella società industriale capitalistica.

In Francia la miglior letteratura drammatica è ancora legata al teatro di poesia simbolistica; per il resto la produzione corrente segue gli schemi semplici del teatro di consumo. In relazione a questo, Copeau sviluppa la sua concezione quasi ascetica del teatro, spogliando la scena di ogni inutile decorazione, recuperando le forme del passato in cui era più viva la maestria dell'attore, ricercando una comunicazione essenziale tra chi recita e chi assiste.


Pirandello: L'incomunicabilità

Nel teatro di Pirandello, raccolto sotto il titolo emblematico di Maschere nude, si rappresenta la perdita dell'univocità del reale (Così è se vi pare), la dissoluzione dell'identità (Come tu mi vuoi), la pazzia come unica manifestazione della consapevolezza e del rifiuto di ruoli e convenzioni (Enrico IV), il dramma dell'incomunicabilità (Sei personaggi in cerca d'autore). Pirandello mette in scena il teatro stesso: i Sei personaggi chiedono a una compagnia di attori di rappresentare la loro tragedia, che l'autore ha immaginato, ma non ha avuto il coraggio di portare a compimento. Ma gli attori nella realizzazione scenica tradiscono i personaggi, non sono in grado di comprendere e interpretare fedelmente ciò che essi hanno vissuto: le parole hanno un significato diverso per chi le dice e per chi le ascolta  Il dramma Sei personaggi in cerca d'autore è uno dei vertici del teatro pirandelliano; si tratta di un'opera in cui non si rappresenta semplicemente una vicenda sul palcoscenico: al centro dell'interesse dell'autore è l'evento teatrale stesso nel suo farsi, il processo attraverso il quale gli attori danno vita e consistenza ai personaggi immaginati dall'autore del testo. La scena è animata da due gruppi di personaggi: una compagnia teatrale e un nucleo familiare, in cui si intrecciano rapporti di odio-amore. Costoro irrompono in teatro mentre si svolgono le prove affermando di essere stati creati dalla fantasia di un autore che però non ha dato loro compiuta realtà artistica. Essi chiedono che la compagnia e il capocomico mettano in scena la loro tragica storia. Il tema centrale del dramma è l'incomunicabilità, il conflitto tra l'aspirazione a comunicare dei personaggi e l'impossibilità che gli attori, che devono dar corpo alla loro storia sul palcoscenico, li comprendano. L'arrivo sul palcoscenico dei sei personaggi, efficacissimo colpo di scena, rompe i confini abituali tra arte e vita: scatenando l'incredulità e l'ironia della compagnia teatrale i sei personaggi di fantasia rivendicano il diritto alla vita, che per loro coincide con la rappresentazione della loro vicenda da parte degli attori. Ma quando gli attori iniziano a recitare la parte dei personaggi, questi si lamentano di non essere stati compresi, si offendono per gli scherni e l'incredulità degli attori («Non sono forse abituati lor signori a veder balzare vivi quassù, uno di fronte all'altro, i personaggi creati da un autore?»), che reagiscono in modo infastidito e permaloso.
Tale incomunicabilità si approfondisce nel seguito dell'opera, dividendo anche i sei personaggi tra loro, e facendo fallire il tentativo di mettere in scena la storia della lacerazione familiare.


Il teatro dell'assurdo

Il teatro dell'assurdo mette in scena nel secodo dopoguerra l'alienazione dell'uomo contemporaneo, la crisi, l'angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni comunicazione attraverso situazioni e dialoghi surreali, costituiti da squarci di quotidianità scomposti e rimontati in modo da creare un effetto comico e tragico al tempo stesso. L'azione e, a volte, anche il dialogo sono ridotti al minimo, le vicende sono apparentemente senza senso: in questo modo si scardina ogni convenzione e regola teatrale, si capovolge ogni criterio di verosimiglianza e di realtà. La definizione «teatro dell'assurdo» è stata formulata dal critico Martin Esslin e accomuna autori che, pur svolgendo ciascuno autonomamente e senza influssi reciproci la propria ricerca, danno vita a un corpus di opere omogeneo. I maggiori esponenti sono Eugène Ionesco (La cantatrice calva, 1950; Il rinoceronte, 1959) e Samuel Beckett (Aspettando Godot, 1952; Finale di partita, 1957; Giorni felici, 1961). Strette sono le relazioni con l'esistenzialismo di Sartre, con le avanguardie surrealista (per il teatro, Jarry e il suo Père Ubu) e dadaista.

Teatro.cinema.televisione.

La cultura teatrale del novecento è stata fortemente condizionata dalla concorrenza con il cinema e con la televisione. Il linguaggio cinematografico ha sicuramente elementi in comune con il teatro, ma presenta dei vantaggi in termini di costi, di riproducibilità tecnica e di spettacolarità. A sua volta però il teatro ha il vantaggio di poter contare su un elemento, del quale cinema e televisione sono privi: la presenza fisica dell'attore. Oggi il teatro sta cercando di tornare alle origini, recuperando il coinvolgimento dello spettatore nell'evento teatrale. Ne è un felice esempio il teatro di Dario Fò, premio nobel per la letteratura nel 1997, che muta alcune delle sue battute ogni sera a seconda del pubblico che si trova davanti.


Ruoto Antonio

II liceo classico

































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