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GIACOMO LEOPARDI

letteratura



GIACOMO LEOPARDI


L. nasce nel 1798 a Recanati, uno dei luoghi più marginali dello Stato Pontificio, lo Stato più conservatore e chiuso alle innovazioni. Paradossalmente L., anche dalla sua posizione marginale, si crea un osservatorio privilegiato, sfuggendo alle mode che attraversano invece le città, dove le persone rischiano di farsi trasportare troppo da esse: L. diventa così un critico, egli è fuori dalla storia perciò considera l'uomo e le cose in modo universale ed eterno.

La sua è una famiglia dissestata, gestita dalla madre, che impone un tenore di vita rigido e si irrigidisce ella stessa per quanto riguarda gli affetti, soprattutto nei confronti dei figli. L'infanzia di L. si presenta quindi come un ambiente oppressivo dominato dalla figura materna, che però è arcigna e arida di sentimenti; per distrarsi da tale situazione, egli si rifugia nella fornitissima biblioteca del padre, tanto che a dieci anni è più istruito del proprio istitutore e decide di studiare da solo. Il periodo dai dieci ai sedici anni è caratterizzato da uno "studio matto e disperatissimo" che gli causa la deformazione fisica e la diminuzione della vista. Lo studio porta L., tra i tredici e i quattordici anni, alla conoscenza delle lingue antiche (greco, latino ed ebraico), inoltre egli inizia a scrivere per "scaricare" la massa di informazioni: poesie, tragedie, inni sacri cristiani (perché egli è educato secondo nella religione cattolica, che poi rifiuterà criticandone l'assurdità). questa la fase dell'erudizione, anche se basata sulla cultura stagnante fornita da libri vecchi. Poi però L. passa al bello, leggendo altri libri che non provengono dalla biblioteca del padre 717f51h , ma sono libri moderni: Foscolo, Goethe, ma anche Omero, Shakespeare e gli illuministi francesi (le acquisizioni materialistiche degli illuministi sono alla base del pensiero di L.).



Nel 1819, stanco del mondo di Recanati, L. vuole conoscere il mondo esterno; già prima del 1819 le lettere di Giordano lo avevano invitato e stimolato a fuggire con la descrizione delle città europee visitate dall'amico, così L. tenta la fuga, ma viene scoperto dal padre e sorvegliato, tanto che Recanati diventa per lui una prigione; la situazione è aggravata dal fatto che in questo periodo egli è colpito da una malattia agli occhi e il medico gli impone di non leggere, quindi L. può fuggire né nello spazio né nei libri. È adesso che si ha il passaggio dal bello al vero: L. si rende conto della verità degli uomini, della loro infelicità e angoscia. L'uomo cerca però di sfuggire all'infelicità, cercando i momenti di piacere, un piacere non intellettuale ma fisico (salute, benessere materiale), concepito cioè secondo la cultura materialista illuminista abbracciata anche da L.; l'infelicità è dovuta al fatto che l'uomo tenderebbe a vivere sempre in condizioni di piacere, mentre la vita è in realtà una continua alternanza tra momenti di piacere e di noia o dolore, quindi il piacere infinito è irrealizzabile.

L. compensa la mancanza del piacere eterno con l'immaginazione, con la quale l'uomo crea una realtà piacevole, allargando i piccoli spazi piacevoli che la vita gli concede. La fantasia e l'immaginazione sono le facoltà che la natura dona all'uomo: è questa la prima fase del pensiero di L., nella quale egli considera la natura benigna, in quanto essa ha fornito all'uomo gli strumenti per rendere la vita meno infelice. Perciò L. giudica gli antichi favoriti rispetto ai moderni, poiché essi erano più vicini alla natura, più capaci di usare l'immaginazione con i miti e le favole, invece da quando la scienza si è sviluppata sempre di più, l'uomo, con la ragione, si è allontanato dalla fantasia per raggiungere il vero, quindi la sua facoltà immaginativa si è inaridita (l'uomo è più scettico e meno sognatore): L. definisce l'uomo moderno vigliacco e mediocre (pessimismo storico).

Dopo aver individuato la possibilità di fuggire dalle insidie della vita attraverso l'immaginazione, L. inizia a scrivere lo "Zibaldone" (1817-1832, opera con una struttura di diario), nel quale egli annota osservazioni e riflessioni (oltre a tutto ciò che gli viene in mente: per questo il testo è una fonte inesauribile di informazioni sulla poetica di L.), situazioni e sensazioni che danno piacere. Quella contenuta nello "Zibaldone" è considerata la teoria del piacere, che L. suddivide in teoria del suono e teoria della visione: l'autore riconosce e descrive suoni e immagini che danno piacere, perché tutte le sensazioni parziali, delle quali non si coglie la fonte e che si colgono solo in parte, stimolano l'immaginazione, procurando quindi piacere; dà piacere anche la memoria, il ricordo delle immagini dell'infanzia (anche se non sono positive) dalle quali si è stati colpiti per la prima volta.

Trasportando la teoria del piacere alla poesia, la poesia di L. deve dare piacere al lettore, stimolando la sua immaginazione, per fare ciò il poeta una immagini vaghe e confuse (poetica del vago e dell'indefinito).

Nel 1822 L. si trasferisce a Roma, ma viene deluso sia dalla città, troppo sfarzosa e teatrale, sia dai salotti degli intellettuali romani, dove le discussioni sono futili e ipocrite e gli intellettuali sono solo eruditi che si preoccupano di sfoggiare la loro cultura. L. torna quindi a Recanati e decide di abbandonare la poesia (alla quale si era dedicato dal 1819 e nella quale vi è la compresenza tra immaginazione e concetti del pensiero leopardiano) per dedicarsi alla prosa; nel 1824 egli compone la maggior parte delle "Operette morali". Egli cambia genere ma anche ideologia, in quanto la poesia è caratterizzata dall'illusione e dall'uso della fantasia, mentre la prosa consente all'autore di prendere coscienza della realtà degli uomini e di comunicarla in modo razionale. In questa nuova fase, L. dà la colpa dell'allontanamento dell'uomo moderno dalla natura non all'uomo ma alla natura stessa, egli passa cioè dal pessimismo storico al pessimismo cosmico; la natura matrigna condanna tutti gli individui all'infelicità con le malattie, le catastrofi ambientali, la vecchiaia e la morte (dati oggettivi dipendenti dalla natura, non dall'uomo). Le "Operette morali" sono la massima espressione del pessimismo cosmico di L.; nel "Dialogo di un islandese e della natura" la natura appare come il meccanismo cieco e spietato di distruzione, che mette al mondo gli uomini solo per farli morire.

Nel 1825 L. va a Milano, dove ottiene l'impiego di traduttore e compilatore di commenti presso la casa editrice Stella, poi, per ragioni economiche e di salute torna a Recanati, fermandosi però prima a Pisa, città in cui la sua salute migliora e il poeta sente il bisogno di tornare a scrivere poesie (1828). L. resta a Recanati altri sedici mesi ("sedici mesi di notti orribili"), un periodo molto critico, in quanto egli era considerato dai suoi come un figlio degenere, verso il quale riservare rancore e diffidenza.

Tra il 1829 e il 1830, L. riceve un assegno mensile (per la durata di un anno) dai suoi amici facoltosi per vivere fuori da Recanati. Infatti nel 1830, a Firenze, egli si butta nel dibattito politico e culturale della città, che gli consente un'apertura verso il sociale. A Firenze inoltre egli incontra l'amore-passione per Fanny Targioni Tozzetti, anche se lei considera la loro solo un'avventura; quando la storia con Fanny finisce, L. scrive una serie di poesie, il "Ciclo di Aspasia", il cui nome è riferito alla donna (Aspasia era una prostituta dell'antica Grecia, che frequentava la corte di Pericle): queste poesie sono poesie d'amore, ma anche molto realistiche.

Successivamente L. incontra l'amico Antonio Ranieri e va a vivere con lui a Napoli, dove morirà nel 1837 di colera.

L'ultima fase della poetica leopardiana (a Napoli) è rappresentata da "La ginestra", una poesia in cui L. trova una forma di mitigazione del proprio pessimismo cosmico: l'infelicità di ogni individuo trova conforto nella solidarietà e nell'aiuto reciproco fra gli uomini.


Leopardi e il Romanticismo

Nel dibattito tra classicisti e romantici dopo la pubblicazione dell'articolo di Madame de Sta l, L. si schiera con i classicisti e scrive due testi per la "Biblioteca italiana" (il giornale sul quale l'intellettuale francese aveva scritto il proprio articolo), intitolati "Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana" e "Discorso di un italiano sopra la poesia romantica"; entrambi non vengono però pubblicati. In questi due scritti L. difende la letteratura classica, che i romantici accusano invece di contenere luoghi comuni e stereotipi ripetuti, ma in realtà anche la letteratura romantica è così, ripete cioè temi fissi. Come punto forte della difesa del classicismo, L. riconosce agli artisti classici la capacità dell'immaginazione e della fantasia; anche i romantici le esaltano, ma secondo L. non le usano veramente: paradossalmente, quindi, L. utilizza lo strumento dei romantici per difendere i classici.

I romantici italiani, verso i quali L. muove principalmente la propria critica, si basano soprattutto sul realismo, mentre L. non ha fiducia nel progresso, ritenendo l'uomo condannato alle malattie e alla morte; egli è ufficialmente contro i romantici, anche perché egli non è idealista come loro bensì materialista (ideologia illuminista), ma comunque condivide gli aspetti dell'immaginario romantico: temi quali l'infinito, l'angoscia, il dolore, il sogno, la ricerca di una poesia musicale (infatti L. ha scritto poesie chiamate "Canti"), la separazione tra l'io dell'artista e il mondo (artista solitario "Il passero solitario"), il colloquio con la natura.


"Canti"

L. ha scritto un'unica grande silloge (raccolta) di quarantuno (poi ve ne furono aggiunte altre due) poesie, i "Canti", pubblicati per la prima volta nel 1831. Il titolo dell'opera è originalissimo e l'autore lo ha scelto per sottolineare il carattere lirico e spontaneo delle poesie, frutto dello sfogo dell'animo del poeta; ma se è vero che le poesie esprimono condizioni soggettive, ci sono anche momenti di riflessione e ragionamento (indagine conoscitiva), vi è quindi la fusione tra L. pensatore e L. lirico.

I "Canti" hanno tre momenti compositivi:

1818-1822: composizione delle canzoni (1818-1822) e degli idilli (1819-1821)

1828-1830: composizione dei canti pisano-recanatesi

1831-1836: composizione del "Ciclo di Aspasia" e delle poesie impegnate (delle quali fa parte "La ginestra")

Il periodo dal 1822 al 1828 è un periodo di "silenzio poetico", occupato dalla produzione in prosa delle "Operette morali".

Nei "Canti", inoltre, L. non ha inserito "Pralipomeni della Batracomiomachia", un'operetta poetica che parla della battaglia tra rane e topi; essa è un'opera satirica scritta dal poeta per scoraggiare i partiti politici del tempo contro i moti rivoluzionari.


CANZONI

Una canzone è un poema articolato ma regolare e rigido (basti pensare alla suddivisione in stanze). I temi delle canzoni di L. sono di carattere civile-patriottico, infatti egli esalta il mondo antico e la capacità degli antichi di compiere grandi imprese eroiche (egli guarda al passato classico con malinconia) titanismo di L., che vuole imitare i grandi del passato, sfidando e provocando chi non segue il sue esempio. La lingua che egli usa è erudita, arcaizzante, con parole scelte, latinismi e figure retoriche (espressione diversa dalla lingua comunemente parlata).

Le due canzoni (scritte nel 1822) che si distaccano dalle altre e preparano le "Operette morali", sono "Il Bruto minore" e "Ultimo canto di Saffo"; entrambe introducono il tema del suicidio. Bruto si uccide perché riconosce che il comportamento eroico è una stoltezza, in quanto non consente di ottenere favori e apprezzamenti né dagli uomini né dagli dèi: entra così in crisi la concezione del titanismo, L. riconosce l'inutilità della virtù. "Ultimo canto di Saffo" segna invece la crisi del rapporto armonico con la natura, perché Saffo è una donna con un animo sensibile ma brutta per natura (riscontro autobiografico) e questo le crea un senso di esclusione dalla bellezza della natura, perciò si suicida. Vi sono quindi, in queste due canzoni, due punti di rottura: il primo a livello della concezione di eroismo, il secondo a livello della concezione dell'armonia con la natura.


IDILLI

Sono stati chiamati dai critici "Piccoli idilli" per differenziarli dai "Grandi idilli", ovvero dai canti pisano-recanatesi. Gli Idilli sono: "L'infinito", "La sera del dì di festa", "Alla luna", "Il sogno" e "La vita solitaria".

La parola "idillio" ha origine greca, significa "piccola immagine" e indicava anche il genere letterario iniziato da Teocrito; l'idillio consisteva nella presentazione di scenette ambientate in luoghi campestri (anche se lo scenario campestre è stilizzato e idealizzato), basate sulla contrapposizione tra la spontaneità della vita in campagna e l'artificiosità della vita in città. Il genere si diffuse poi anche a Roma e venne ripreso da Tibullo e Virgilio, quindi torna con i preromantici e i romantici [questo tipo di idillio non è da confondere con quello di Goethe, che rappresenta la tranquilla vita quotidiana della famiglia borghese].

L. introduce nell'idillio nuove caratteristiche: la brevità, il paesaggio naturale (come il colle de "L'infinito"), che diventa il luogo sul quale si proietta l'interiorità dell'autore, quindi il paesaggio non è più, come negli idilli greci, l'elemento principale, infatti è il poeta che interroga la natura, creando un rapporto affettivo con essa. Successivamente L. allarga i suoi Idilli anche alle speculazioni e alle riflessioni filosofiche.

Mentre le Canzoni hanno una struttura rigida, negli Idilli è presente una metrica "libera", un ritmo e una struttura diversi per ognuno di essi (musicalità differenti).


"Operette morali"

L'opera è composta da ventiquattro prose, la maggior parte delle quali sono state scritte nel 1824.

Vi è una grande varietà di strutture e di forme (narrazioni, dialoghi, discorsi di parvenza filosofica.), diverse ambientazioni (tempi antichi o moderni, luoghi reali o immaginari) e vari tipi di personaggi reali (Cristoforo Colombo e Torquato Tasso o la gente comune) o immaginari (folletti, il genio del Tasso, incarnazioni di concetti e oggetti, quali la Luna, la Terra, la moda.).

Lo scopo dell'opera è comunque unitario ed è quello di svelare la verità della vita e del mondo, di smascherare i miti, le superstizioni e le religioni, suggerendo al lettore i comportamenti da tenere, i quali possono essere di due tipi:

distacco di fronte all'infelicità

impegno massimo nell'azione eroica.

Le "Operette morali" sono quindi prose con un contenuto satirico nelle quali L. usa un tono scherzoso e ironico (anche se vi è un fondo di amarezza) per presentare argomenti seri; l'aggettivo "morali" deriva dal loro contenuto, ovvero dallo studio dei comportamenti dell'uomo e dal consiglio che l'autore dà ai lettori riguardo ai comportamenti da tenere.

I temi sono l'infelicità dell'uomo, il carattere materialistico dell'universo (privo di un fine trascendentale), le virtù viste come qualcosa di assurdo perché non sono apprezzate dagli uomini, la critica alle ideologie dominanti del tempo, ovvero quella cattolica, contro l'ottimismo della ragione e contro il progressismo (la fede nella scienza).

La prosa di L. è una prosa ricca, lontana da quella dei romantici milanesi che usano la lingua popolare; L. utilizza una lingua colta, con strutture classicheggianti e latinismi, ma nonostante ciò piacevole da leggere.


CANTI PISANO RECANATESI

Nel 1828 L. torna a scrivere poesie e compone i canti pisano-recanatesi, chiamati anche "Grandi idilli", per distinguerli dagli altri canti prodotti precedentemente. Gli elementi di diversità tra i "Piccoli idilli" e i "Grandi idilli" sono dovuti alla presenza, tra i due gruppi, delle "Operette morale", opera nella quale l'autore decide di comunicare agli uomini il vero, viene quindi meno la fiducia nell'illusione e nell'immaginazione (l'uomo è infelice solo perché si è allontanato dalla natura pessimismo storico). I canti pisano-recanatesi nascono dalla compresenza e dalla tensione creata in ogni poesia tra la sopravvivenza della vecchia concezione opposta alla nuova visione, alla nuova consapevolezza della natura matrigna (pessimismo cosmico).

I canti hanno una struttura libera, non vi è nemmeno uno schema di rime fisso, le composizioni sono solo più lunghe rispetto a quelli dei "Piccoli idilli".


"Ciclo di Aspasia" e poesie impegnate

Il 1830 (anno in cui L. se ne va definitivamente da Recanati) segna l'inizio di un nuovo periodo per l'esperienza dell'autore, che inizia a scrivere poesie che sembrano ispirate, come dicono alcuni critici, a una nuova poetica "anti-idilliaca" o a una "poesia eroica". L. recupera quindi il tema dell'eroe presente nelle prime Canzoni.

Il periodo durante il quale egli compose i "Canti" e le "Operette morali" fu un periodo di chiusura, mentre dopo il 1830, L. attraversa una fase di apertura sociale e culturale, un periodo di dibattito, L. decide infatti di discutere e difendere le proprie idee, consapevole della propria dignità e della propria grandezza intellettuale rispetto agli altri letterati e scrittori. Questo è il periodo Fiorentino e napoletano, nel quale L. si apre anche alle relazioni affettive: d'amore verso Fanny Targioni Tozzetti e d'amicizia per Ranieri. Alla fine della passione travolgente per Fanny, che L. definisce "estremo inganno", L. decide di abbandonare le delusioni e i sentimenti. Egli scrive il "Ciclo di Aspasia", contenenti poesie fatte non di immagini ma di concetti e pensieri, con una forma dura, un linguaggio aspro e una sintassi spezzata (poesie non scorrevoli come gli Idilli).

Sia nel "Ciclo di Aspasia" che nelle ultime poesie emerge la consapevolezza della dignità dell'autore; L. è infatti molto combattivo nell'opera di diffusione delle proprie idee, non perde mai la forza del pensiero (anche se perde quella dei sentimenti). La posizione di L. è molto critica nei confronti delle ideologie ottimistiche del tempo: la fede nel progresso scientifico, progresso considerato l'unica possibilità di felicità per l'uomo, e lo spiritualismo, cioè il ritorno della fede religiosa, della credenza che l'uomo è al centro di un disegno divino; secondo L. queste ideologie sono da respingere perché l'uomo non può essere felice affidandosi né al progresso né alla religione.

In questo periodo L. scrive anche altre opere: "Palinodia al Marchese Capponi", una lettera in verso contenente una falsa ritrattazione relativa alla volontà dell'autore di cambiare idea riguardo alla propria ideologia (impossibilità del raggiungimento della felicità), l'inno "Ad Alimane", nel quale L. si rivolge al dio del male della religione persiana antica, identificando in Alimane la natura matrigna. "Pralipomeni della Batracomiomachia" è un'operetta che consiste nel seguito di un'antica opera greca attribuita erroneamente a Omero; essa narra lo scontro (sommosse e morti), con valore simbolico, tra topi e rane: lo scontro raffigura le battaglie politiche del Risorgimento, infatti i topi rappresentano i patrioti che combattono per l'indipendenza dell'Italia, le rane rappresentano i Borbone, in aiuto dei quali intervengono i granchi (gli austriaci). L. da giovane era un conservatore, dopo il 1830 egli critica i moti risorgimentali, non dal punto di vista politico, ma da quello folosofico-esistenziale, considerando i moti inutili poiché non possono migliorare (come nient'altro, d'altronde) la situazione dell'uomo.




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