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Odissea - Ver. 1-224 e Ver. 385-640

greco



Odissea

Ver. 1-224 e Ver. 385-640


1) Nell'episodio di Ulisse nel regno dei morti si parla più volte di sorte, di volontà degli dèi, di destino. Cerca i versi e commentali.

Il responso di Tiresia è l'immagine stessa del destino di Ulisse, dei fatti che gli accadranno da ora in poi. Tuttavia  la sorte narrata da Tiresia possiede una caratteristica che nel concetto "classico" di destino non trovavamo: la possibilità di essere influenzato dalle azioni degli uomini.

Nonostante la questione sia controversa, e la probabilissima paternità del testo dell'Odissea da parte di più autori e quindi di più concezioni del mondo diverse, si intrometta, rendendo in alcuni casi impossibile l'estrapolazione di una unica corrente di pensiero, in questo episodio, 454d37e la sorte e immutabile fato dell'Iliade ci appare invece ora modificabile. Tiresia infatti predice a Ulisse tutto quello che gli accadrà ma pone una clausola che gli precluderà o gli aprirà due sorti diverse: se non toccherà le vacche sacre di Elio Iperione, potrà tornare pur subendo sciagure a Itaca, se invece lui o i suoi compagni ne mangeranno egli sarà costretto a ritornare in patria solo, dopo aver perduto tutti i compagni e su nave straniera, trovando inoltre al suo arrivo pretendenti al suo trono che gli sperpereranno i beni. Ecco dunque che si afferma sempre di più l'importanza dell'uomo negli eventi della propria vita. Egli non può più solo ritardare le decisioni di un destino inevitabile, ma ne può anche influenzare pesantemente il suo compiersi.



Una smentita a questa tesi sembra arrivare subito dopo al verso 409 quando il termine destino è usato sicuramente al nominativo come soggetto della frase detta da Achille "...Egisto, dopo aver preparato la mia morte e il destino, con la mia sposa funesta mi uccise..." e che quindi è ancora visto come una entità forte e presente nella determinazione della vita di ogni uomo. Queste piccole (in questo caso) o grandi (nel caso del proemio e dell'episodio di Polifemo) contraddizioni sul tema del destino sono frequenti nell'Odissea e ne testimoniano molto probabilmente la stesura da parte di più autori con concezioni filosofiche diverse da Omero. 

2) Quando Ulisse incontra la madre, le pone tre domande in questo ordine: come è morta, come stanno il padre e il figlio, quali sono i sentimenti di Penelope. La risposta della madre dimostra una sensibilità tutta femminile.

Già, mentre infatti l'ordine delle domande di Ulisse e quindi quello dell'importanza che egli attribuisce agli argomenti posti  è molto diverso da quello delle risposte della madre che evidentemente dimostra di possedere, pur nel rispetto del figlio, una scala di valori abbastanza diversa. L'ultima domanda che Ulisse pone, quella su Penelope, è quella a cui la madre risponde per prima, dimostrando di avere a cuore la condizione della donna di casa ancora prima di quella del nipote o del marito o ancora della sua morte. La seconda risposta della madre di Ulisse riguarda invece proprio la seconda domanda di Ulisse, chiaramente non sarebbe stato onorevole per una donna subordinare la storia del nipote e del marito a quella della propria morte, davanti al figlio. La terza ed ultima risposta riguardante la prima domanda del figlio è quella sulla sua morte e quindi su se stessa.

Il poeta dimostra così di voler dare un grande senso di compostezza e saggezza alla madre di Ulisse, facendola apparire tanto donna da pensare per prima alla moglie del figlio, tanto amorevole e devota da parlare in secondo luogo del nipote e del marito e tanto umile da trattare un argomento come la propria morte solo per ultimo. Sicuramente un bell'espediente comunicativo.

3) Che cosa risponde Achille alla affermazione di Odisseo che egli è fortunato ?

A Ulisse che cerca di offrire consolazione a Achille ricordandogli di essere stato un grandissimo eroe e che il suo onore continua anche dopo la morte, Achille mostra un comportamento molto meno eroico e molto più umano rispetto all'Iliade. Le sue parole sono chiare: "Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Vorrei da bracciate servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba; piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti." Achille conferma la concezione greca di un aldilà fato di rimpianto per la vita terrena nella quale, anche la condizione più umile, è preferibile a quella di un morto illustre. Questo tema che sarà poi ripreso da Virgilio, è frequente nella letteratura greca e ne rispecchia una importante concezione della vita.

Oltre a questo, Achille appare molto più umano anche in un altro senso e ci svela così un'altra consuetudine molto importante, questa volta però non solo più greca, ma anche più diffusa nel mondo antico. L'unico pensiero che veramente interessa a Achille è quello del figlio, il continuatore della sua vita, il mezzo che lui ha per poter pensare di non essere morto del tutto. Ecco perché nel mondo antico e oggi nelle culture più "arretrate" è importante avere figli, non solo perché sono una garanzia per il futuro, ma anche perché è forte il concetto della visione del figlio come una "continuazione" nel tempo di se stessi, un modo per non essere dimenticati.

4) Perché l'uomo ha sempre sentito il bisogno di indagare sul regno dei morti ?

Il regno dei morti è un tema che da sempre affascina l'uomo, a partire dal dubbio stesso della sua esistenza. Il grande mistero della morte e del grande passaggio a... già, a che cosa ? Gli uomini da sempre se lo chiedono e non esiste probabilmente religione o dottrina che non abbia le proprie teorie in proposito. Indagare sul regno dei morti è in primo luogo per l'uomo un modo per esorcizzare la morte stessa e in secondo luogo lo sfogo alla grande curiosità e alla speranza di un'altra vita dopo la morte. Un viaggio nel mondo dei morti ha inevitabilmente ipotetici risvolti affascinanti e, non per niente, trova grandissimi riscontri in letteratura.


Testo di riferimento: Libro undicesimo dell'Odissea


LIBRO UNDICESIMO



Giunti al divino mare, il negro legno

Prima varammo, albero ergemmo e vele,

E prendemmo le vittime, e nel cavo

Legno le introducemmo: indi con molto

Terrore e pianto v'entravam noi stessi.

La dal crin crespo e dal canoro labbro

Dea veneranda un gonfiator di vela

Vento in poppa mandò, che fedelmente

Ci accompagnava per l'ondosa via;

Tal che ozïosi nella ratta nave

Dalla cerulea prua, giacean gli arnesi,

E noi tranquilli sedevam, la cura

Al timonier lasciandone ed al vento.

Quanto il dì risplendé, con vele sparse

Navigavamo. Spento il giorno, e d'ombra

Ricoperte le vie, dell'Oceano

Toccò la nave i gelidi confini,

Là 've la gente de' Cimmerî alberga,

Cui nebbia e buio sempiterno involve.

Monti pel cielo stelleggiato, o scenda

Lo sfavillante d'ôr sole non guarda

Quegl'infelici popoli, che trista

Circonda ognor pernizïosa notte.

Addotto in su l'arena il buon naviglio,

E il monto e la pecora sbarcati,

Alla corrente dell'Oceano in riva

Camminavam; finché venimmo ai lochi

Che la dea c'insegnò. Quivi per mano

Eurìloco teneano e Perimede

Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,

Scavai la fossa cubitale, e mele

Con vino, indi vin puro e lucid'onda

Versàivi, a onor de' trapassati, intorno

E di bianche farine il tutto aspersi.

Poi degli estinti le debili teste

Pregai, promisi lor che nel mio tetto,

Entrato con la nave in porto appena,

Vacca infeconda, dell'armento fiore,

Lor sagrificherei, di doni il rogo

Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,

Immolerei nerissimo arïete,

Che della greggia mia pasca il più bello.

Fatte ai mani le preci, ambo afferrai

Le vittime, e sgozzàile in su la fossa,

Che tutto riceveane il sangue oscuro.

Ed ecco sorger della gente morta

Dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi

Le pallid'ombre: giovanette spose,

Garzoni ignari delle nozze, vecchi

Da nemica fortuna assai versati,

E verginelle tenere, che impressi

Portano i cuori di recente lutto;

E molti dalle acute aste guerrieri

Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia

Sul petto ancor l'insanguinato usbergo.

Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo

Aggiravan la fossa, e con tai grida,

Ch'io ne gelai per subitana tema.

Pure a Eurìloco ingiunsi, e a Periméde

Le già scannate vittime e scoiate

Por su la fiamma, e molti ai dèi far voti,

Al prepotente Pluto e alla tremenda

Proserpina: ma io col brando ignudo

Sedea, né consentia che al vivo sangue,

Pria ch'io Tiresia interrogato avessi,

S'accostasser dell'ombre i vôti capi.

Primo ad offrirsi a me fu il simulacro

D'Elpènore, di cui non rinchiudea

La terra il corpo nel suo grembo ancora.

Lasciato in casa l'avevam di Circe

Non sepolto cadavere e non pianto.

Che incalzavaci allor diversa cura.

Piansi a vederlo, e ne sentii pietade,

E, con alate voci a lui converso:

"Elpènore", diss'io, "come scendesti

Nell'oscura caligine? Venisti

Più ratto a piè, ch'io su la negra nave".

Ed ei, piangendo: "O di Laerte egregia

Prole, sagace Ulisse, un nequitoso

Demone avverso, e il molto vin m'offese.

Stretto dal sonno alla magione in cima,

Men disciolsi ad un tratto: e, per la lunga

Di calar non membrando interna scala

Mossi di punta sovra il tetto, e d'alto

Precipitai: della cervice i nodi

Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto.

Ora io per quelli da cui lunge vivi,

Per la consorte tua, pel vecchio padre,

Che a tanta cura t'allevò bambino,

Pel giovane Telemaco, che dolce

Nella casa lasciasti unico germe,

Ti prego, quando io so, che alla Circea

Isola il legno arriverai di nuovo,

Ti prego che di me, signor mio, vogli

Là ricordarti, onde io non resti, come

Della partenza spiegherai le vele,

Senza lagrime addietro e senza tomba,

E tu venghi per questo ai numi in ira.

Ma con quell'armi, ch'io vestìa, sul foco

Mi poni, e in riva del canuto mare

A un misero guerrier tumulo innalza,

Di cui favelli la ventura etade.

Queste cose m'adempi; ed il buon remo,

Ch'io tra i compagni miei, mentre vivea

Solea trattar, sul mio sepolcro infiggi.

"Sventurato", io risposi, "a pien fornita

Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia".

Così noi sedevam, meste parole

Parlando alternamente, io con la spada

Sul vivo sangue ognora, e a me di contra

La forma lieve del compagno, a cui

Suggerìa molti accenti il suo disastro.

Comparve in questo dell'antica madre

L'ombra sottile, d'Anticlèa, che nacque

Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo

Era tra i vivi ch'io per Troia sciolsi.

La vidi appena, che pietà mi strinse,

E il lagrimar non tenni: ma né a lei,

Quantunque men dolesse, io permettea

Al sangue atro appressar, se il vate prima

Favellar non s'udìa. Levossi al fine

Con l'aureo scettro nella man famosa

L'alma Tebana di Tiresia, e ratto

Mi riconobbe, e disse: "Uomo infelice,

Perché, del sole abbandonati i raggi,

Le dimore inamabili de' morti

Scendesti a visitar? Da questa fossa

Ti scosta, e torci in altra parte il brando,

Sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri".

Il piè ritrassi, e invaginai l'acuto

D'argentee borchie tempestato brando.

Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa

Movea le labbra: "Rinomato Ulisse,

Tu alla dolcezza del ritorno aneli

E un nume invidïoso il ti contende

Come celarti da Nettun, che grave

Contra te concepì sdegno nel petto

Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?

Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,

Sol che te stesso e i tuoi compagni affreni,

Quando, tutti del mar vinti i perigli,

Approderai col ben formato legno

Alla verde Trinacria isola, in cui



Pascon del Sol, che tutto vede ed ode,

I nitidi montoni e i buoi lucenti.

Se pasceranno illesi, e a voi non caglia

Che della patria, il rivederla dato,

Benché a stento, vi fia. Ma dove osiate

Lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi,

E alla nave io predico, ed a te stesso.

E ancor che morte tu schivassi, tardo

Fora, ed infausto, e senza un sol compagno,

E su nave straniera, il tuo ritorno.

Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa:

Protervo stuol di giovani orgogliosi,

Che ti spolpa, ti mangia, e alla divina

Moglie con doni aspira. È ver che a lungo

Non rimarrai senza vendetta. Uccisi

Dunque o per frode, o alla più chiara luce,

Nel tuo palagio i temerarî amanti,

Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti:

Né rattenere il piè, che ad una nuova

Gente non sii, che non conosce il mare,

Né cosperse di sal vivande gusta,

Né delle navi dalle rosse guance,

O de' politi remi, ali di nave,

Notizia vanta. Un manifesto segno

D'esser nella contrada io ti prometto.

Quel dì che un altro pellegrino, a cui

T'abbatterai per via, te quell'arnese

Con che al vento su l'aia il gran si sparge

Portar dirà su la gagliarda spalla,

Tu repente nel suol conficca il remo.

Poi, vittime perfette a re Nettuno

Svenate, un toro, un arïete, un verro,

Riedi, e del cielo agli abitanti tutti

Con l'ordine dovuto offri ecatombe

Nella tua reggia, ove a te fuor del mare,

E a poco a poco da muta vecchiezza

Mollemente consunto, una cortese

Sopravverrà morte tranquilla, mentre

Felici intorno i popoli vivranno.

L'oracol mio, che non t'inganna, è questo.

"Tiresia", io rispondea, "così prescritto

(Chi dubbiar ne potrebbe?) hanno i celesti.

Ma ciò narrami ancora: io della madre

L'anima scorgo, che tacente siede

Appo la cava fossa, e d'uno sguardo,

Non che d'un motto, il suo figliuol non degna.

Che far degg'io, perché mi riconosca?

Ed egli: Troppo bene io nella mente

Io ti porrò. Quai degli spirti al sangue

Non difeso da te giunger potranno,

Sciorran parole non bugiarde: gli altri

Da te si ritrarran taciti indietro".

Svelate a me tai cose, in seno a Dite

Del profetante re l'alma s'immerse.

Ma io di là non mi togliea. La madre

S'accostò intanto, né del negro sangue

Prima bevé, che ravvisommi, e queste

Mi drizzò, lagrimando, alate voci:

"Deh come, figliuol mio, scendéstu vivo

Sotto l'atra caligine? Chi vive,

Difficilmente questi alberghi mira,

Però che vasti fiumi e paurose

Correnti ci dividono, e il temuto

Ocean, cui varcare ad uom non lice,

Se nol trasporta una dedalea nave.

Forse da Troia, e dopo molti errori,

Con la nave e i compagni a questo buio

Tu vieni? Né trovar sapesti ancora

Itaca tua? né della tua consorte

Riveder nel palagio il caro volto? "

"O madre mia, necessità", risposi,

"L'alma indovina a interrogar m'addusse

Del Tebano Tiresia. Il suolo acheo

Non vidi ancor, né i liti nostri attinsi;

Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,

Dappoi che a Troia ne' puledri bella

Seguìi, per disertarla, il primo Atride.

Su via, mi narra, e schiettamente, come

Te la di lunghi sonni apportatrice

Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,

O te Dïana faretrata assalse

Con improvvisa non amara freccia?

Vive l'antico padre, il figlio vive,

Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro

Resta, o passò ad altrui la mia ricchezza,

E ch'io non rieda più, si fa ragione?

E la consorte mia qual cor, qual mente

Serba? Dimora col fanciullo, e tutto

Gelosamente custodisce, o alcuno

Tra i primi degli Achei forse impalmolla? "

Riprese allor la veneranda madre:

"La moglie tua non lasciò mai la soglia

Del tuo palagio; e lentamente a lei

Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.

Stranier nel tuo retaggio, in sin ch'io vissi,

Non entrò: il figlio su i paterni campi

Vigila in pace, e alle più illustri mense,

Cui l'invita ciascuno, e che non dee

Chi nacque al regno dispregiar, s'asside.

Ma in villa i dì passa Laerte, e mai

A cittade non vien: colà non letti,

Non coltri, o strati sontuosi, o manti.

Di vestimenta ignobili coverto

Dorme tra i servi al focolare il verno

Su la pallida cenere: e se torna

L'arida estate, o il verdeggiante autunno,

Lettucci umìli di raccolte foglie,

Stesi a lui qua e là per la feconda

Sua vigna, preme travagliato, e il duolo

Nutre, piangendo la tua sorte: arrogi,

La vecchiezza increscevole che il colse.

Non altrimenti de' miei stanchi giorni

Giunse il termine a me, cui non Dïana,

Sagittaria infallibile, di un sordo

Quadrello assalse, o di que' morbi invase,

Che soglion trar delle consunte membra

L'anima fuor con odïosa tabe:

Ma il desìo di vederti, ma l'affanno

Della tua lontananza, ma i gentili

Modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,

La vita un dì sì dolce hannomi tolta".

Io, pensando tra me, l'estinta madre

Volea stringermi al sen: tre volte corsi,

Quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,

E tre volte m'usci fuor delle braccia,

Come nebbia sottile, o lieve sogno.

Cura più acerba mi trafisse e ratto:

"Ahi, madre", le diss'io, "perché mi sfuggi

D'abbracciarti bramoso, onde, anco a Dite,

Le man gittando l'un dell'altro al collo,

Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?

Fantasma vano, acciò più sempre io m'anga,

Forse l'alta Proserpina mandommi?"

"O degli uomini tutti il più infelice",

La veneranda genitrice aggiunse,

"No, l'egregia Proserpina, di Giove

La figlia, non t'inganna. È de' mortali

Tale il destin, dacché non son più in vita,

Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi

Non si congiungan più: tutto consuma

La gran possanza dell'ardente foco,

Come prima le bianche ossa abbandona,

E vagola per l'aere il nudo spirto.

Ma tu d'uscire alla superna luce

Da questo buio affretta: e ciò che udisti,

E porterai nell'anima scolpito,

Penelope da te risappia un giorno".

Mentre così favellavam, sospinte

Dall'inclita Proserpina le figlie

Degli eroi comparïano, e le consorti

E traean della fossa al margo in folla.

Io, come interrogarle ad una ad una

Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.

Stretta la spada, non patïa che tutte

Beessero ad un tempo. Alla sua volta

Così accorrea ciascuna, e l'onorato

Lignaggio ed i suoi casi a me narrava.

Prima s'appresentò l'illustre Tiro,

Che, del gran Salmonèo figlia, e consorte

Di Creteo, un de' figliuoli d'Eolo, sé disse.

Costei d'un fiume nell'amore accesa,

Dell'Enipèo divin, che la più bella

Sovra i più ameni campi onda rivolve,

Spesso e bagnarsi in quegli argenti entrava.

L'azzurro nume che la terra cinge,

Nettuno, in forma di quel dio, corcossi

Delle sue vorticose acque alla foce;

E la porporeggiante onda d'intorno

Gli stette, e in un arco si piegò, qual monte,

Lui celando, e la giovane, cui tosto

Sciols'ei la zona virginale, e un casto

Sopore infuse. Indi per man la prese,

E chiamolla per nome, e tai parole

Le feo: "Di questo amor, donna, t'allegra.

Compiuto non avrà l'anno il suo giro,

Che diverrai di bei fanciulli madre,

Quando vane giammai degl'immortali

Non riescon le nozze. I bei fanciulli

Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,

Ma il sappi sola, che tu in me vedesti

Nettuno, il nume che la terra scuote".

Disse; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.

Ella di Nèleo e Pèlia, ond'era grave,

S'allevïò. Forti del sommo Giove

Ministri, l'un nell'arenosa Pilo,

Nell'ampia l'altro, e di feconde gregge

Ricca Iaolco, ebbe soggiorno e scettro.

Quindi altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro

Domator di cavalli Amitaòne,

Diede a Creteo costei, che delle donne

Reina parve alla sembianza e agli atti.

Poi d'Asòpo la figlia, Antiopa, venne,

Che dell'amor di Giove andò superba,

E due figli creò, Zeto e Anfione.

Tebe costoro dalle sette porte

Primi fondaro, e la munir di torri:

Ché mal potean la spazïosa Tebe

Senza torri guardar, benché gagliardi.

Venne d'Amfitrïon la moglie, Alcmena

Che al Saturnìde l'animoso Alcide,

Cor di leone, partorì. Megàra

Di Creonte magnanimo figliuola

E moglie dell'invitto Ercole, venne.

D'Edipo ancor la genitrice io vidi,

La leggiadra Epicasta, che nefanda

Per cecità di mente opra commise,

L'uom disposando da lei nato. Edìpo

La man, con che avea prima il padre ucciso,

Porse alla madre: né celaro i dèi

Tal misfatto alle genti. Ei per crudele

Voler de' numi nell'amena Tebe

Addolorato su i Cadmei regnava.

Ma la donna, cui vinse il proprio affanno,

L'infame nodo ad un'eccelsa trave

Legato, scese alla magion di Pluto

Dalle porte infrangibili, e tormenti

Lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno

Le ultrici Furie, che una madre invoca.

Vidi colei non men, che ultima nacque

All'Iaside Anfïón, cui l'arenosa

Pilo negli anni andati, e il Minïeo

Orcomeno ubbidìa, l'egregia Clori,

Che Neleo, di lei preso, a sé congiunse,



Poscia ch'egli ebbe di dotali doni

La vergine ricolma. Ed ella il feo

Ricco di vaga e di lui degna prole,

Di Nestore, di Cromio, e dell'eroe

Periclimeno; e poi di quella Pero,

Che maraviglia fu d'ogni mortale.

Tutti i vicini la chiedean; ma il padre

Sol concedeala a chi le belle vacche

Dalla lunata spazïosa fronte,

Che appo sé riteneasi il forte Ificle,

Gli rimenasse, non leggiera impresa,

Dai pascoli di Filaca. L'impresa

Melampo assunse, un indovino illustre;

Se non che a lui s'attraversaro i fati,

E pastori salvatichi, da cui

Soffrir dové d'aspre catene il pondo.

Ma non prima, già in sé rivolto l'anno,

I mesi succedettersi ed i giorni,

E compiêr le stagioni il corso usato

Che Ifìcle, a cui gli oracoli de' numi

Svelati avea l'irreprensibil vate,

I suoi vincoli ruppe; e così al tempo

L'alto di Giove s'adempiea consiglio.

Leda comparve, da cui Tindaro ebbe

Due figli alteri, Castore e Pollùce,

L'un di cavalli domatore, e l'altro

Pugile invitto. Benché l'alma terra

Ritengali nel sen, di vita un germe

(Così Giove tra l'Ombre anco gli onora)

Serbano: ciascun giorno, e alternamente,

Rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,

E glorïosi al par van degli eterni.

Dopo costei mi si parò davanti

D'Aloèo la consorte, Ifimidèa;

Cui di dolce d'amor nodo si strinse

Lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,

Oto a un dio pari, e l'inclito Efialte,

Che la luce del sol poco fruîro.

Né di statura ugual, né di beltade,

Altri nodrì la comun madre antica,

Sol che fra tutti d'Orïon si taccia.

Non avean tocco il decim'anno ancora,

Che in largo nove cubiti, e tre volte

Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.

Questi volendo ai sommi dèi su l'etra

Nuova portar sediziosa guerra,

L'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa

L'arborifero Pelio impor tentaro,

Onde il cielo scalar di monte in monte;

E il fean, se i volti pubertà infiorava;

Ma di Giove il figliuolo, e di Latona,

Sterminolli ambo, che del primo pelo

Le guance non ombravano, ed il mento.

Fedra comparve ancor, Procri ed Arianna

Che l'amante Teseo rapì da Creta,

E al suol fecondo della sacra Atene

Condur volea. Vane speranze! In Nasso,

Cui cinge un vasto mar, fu da Dïana,

Per l'indizio di Bacco, aggiunta e morta.

Né restò Mera inosservata indietro,

Né Climene restò, né l'abborrita

Erifile, che il suo diletto sposo

Per un aureo monil vender poteo.

Ma dove io tutte degli eroi le apparse

Figlie nomar volessi, e le consorti,

Pria mancherìami la divina Notte.

E a me par tempo da posar la testa

O in nave o qui, tutta del mio ritorno

Ai celesti lasciando, e a voi la cura.

Tacque. I Feaci per l'oscura sala

Stavansi muti, e nel piacere assorti.

Ruppe il silenzio l'immortal regina

La bracciobianca Arete: "Feacesi,

Che vi par di costui? del suo sembiante?

Della maschia persona? e di quel senno

Che in lui risiede? Ospite è mio, ma tutti

Dell'onor, che io ricevo, a parte siete.

Non congedate in fretta, e senza doni

Chi nulla tien, voi, che di buono in casa

Per favor degli dèi tanto serbate".

Qui favellò Echenèo, che gli altri tutti

Vincea d'etade: "Fuor del segno, amici,

Arete non colpì con la sua voce.

Obbediscasi a lei: se non che prima

Del re l'esempio attenderemo e il detto".

"Ciò sarà ch'ella vuole", Alcinoo disse

"Se vita e scettro a me lascian gli dèi.

Ma, benché tanto di partir gli tardi,

L'ospite indugi sino al nuovo sole,

Sì ch'io tutti i regali insieme accoglia.

Cura esser dee comun che lieto ei parta

E più, che d'altri, mia, s'io qui son primo".

"Alcinoo re, che di grandezza e fama",

Riprese Ulisse, "ogni mortale avanzi,

Sei mesi ancor mi riteneste e sei,

E fida scorta intanto e ricchi doni

M'apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo:

Ché quanto io tornerò con man più piene

A' miei sassi natii, tanto la gente

Con più onore accorrammi e con più affetto".

Ed Alcinoo in risposta: "Allora, Ulisse

Che ti adocchiamo, un impostor fallace,

D'alte menzogne inaspettato fabbro,

Scorger non sospettiam, quali benigna

La terra qua e là molti ne pasce.

Leggiadria di parole i labbri t'orna,

Né prudenza minor t'alberga in petto.

L'opre de' Greci e le tue doglie, quasi

Lo spirto della Musa in te piovesse,

Ci narrasti così, ch'era un vederle.

Deh siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno

Di tanti eroi che veleggiâro a Troia

Teco, e spenti rimaservi. La notte

Con lenti passi or per lo ciel cammina,

E finché ci esporrai stupende cose,

Non fia chi del dormir qui si rammenti.

Quando parlar di te sino all'aurora

Ti consentisse il duol sino all'aurora

Io penderei dalle tue labbra immoto".

"V'ha un tempo Alcinoo, di racconti ed havvi",

Ulisse ripigliò, "di sonni un tempo;

Che se udir vuoi più avanti, io non ricuso

La sorte di color molto più dura

Rappresentarti, che scampâr dai rischi

D'una terribil guerra, e nel ritorno,

Colpa d'una rea donna, ohimé! periro.

Poiché le femminili Ombre famose

La casta Proserpìna ebbe disperse,

Mesto, e cinto da quei che fato uguale

Trovâr d'Egisto negl'infidi alberghi,

Si levò d'Agamennone il fantasma.

Assaggiò appena dell'oscuro sangue,

Che ravvisommi; e dalle tristi ciglia

Versava in copia lagrime, e le mani

Mi stendea, di toccarmi invan bramose;

Ché quel vigor, quella possanza, ch'era

Nelle sue membra ubbidïenti ed atte,

Derelitto l'avea. Lagrime anch'io

Sparsi a vederlo, e intenerìi nell'alma,

E tai voci, nomandolo, gli volsi:

"O inclito d'Atrèo figlio, o de' prodi

re, Agamennòne, qual destin ti vinse,

E i lunghi t'arrecò sonni di morte?

Nettuno in mar ti domò forse, i fieri

Spirti eccitando de' crudeli venti?

O t'offesero in terra uomini ostili,

Che armenti depredavi e pingui greggi.

O delle patrie mura, e delle caste

Donne a difesa, roteavi il brando? "

"Laerziade preclaro, accorto Ulisse"

Ratto rispose dell'Atride l'ombra

Me non domò Nettuno all'onde sopra,

Né m'offesero in terra uomini ostili.

Egisto, ordita con la mia perversa

Donna una frode, a sé invitommi, e a mensa

Come alle greppie inconsapevol bue,

L'empio mi trucidò. Così morìi

Di morte infelicissima; e non lunge

Gli amici mi cadean, quai per illustri

Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta

A dispendio comun mensa imbandita,

Cadono i verri dalle bianche sanne.

Benché molti a' tuoi giorni o in folta pugna;

Vedessi estinti, o in singolar certame,

Non solita pietà tocco t'avrebbe,

Noi mirando, che stesi all'ospitali

Coppe intorno eravam, mentre correa

Purpureo sangue il pavimento tutto.

La dolente io sentìi voce pietosa

Della figlia di Priamo, di Cassandra,

Cui Clitennestra m'uccidea da presso,

La moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,

Con moribonda man cercava il brando:

Ma la sfrontata si rivolse altrove,

Né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre

Chiudere, né compor degnò le labbra.

No: più rea peste, più crudel non dassi

Di donna, che sì atroci opre commetta,

Come questa infedel, che il danno estremo

Tramò, cui s'era vergine congiunta.

Lasso! dove io credea che, ritornando,

Figliuoli e servi m'accorrìan con festa,

Costei, che tutta del peccar sa l'arte,

Si ricoprì d'infamia, e quante al mondo

Verranno, e le più oneste anco, ne asperse".

"Oh quanta", io ripigliai, "sovra gli Atridi

Le femmine attirâro ira di Giove!

Fu di molti de' Greci Elena strage!

E a te, cogliendo l'assenza il tempo,

Funesta rete Clitennestra tese".

"Quindi troppa tu stesso", ei rispondea,

"Con la tua donna non usar dolcezza,

Né il tutto a lei svelar, ma parte narra

De' tuoi secreti a lei, parte ne taci,

Benché a te dalla tua venir disastro

Non debba: ché Penelope, la saggia

Figlia d'Icario, altri consigli ha in core.

Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo,

Che dalla mamma le pendea contento,

Tu la lasciavi, navigando a Troia:

Ed oggi il tuo Telemaco felice

Già s'asside uom tra gli uomini, e il diletto

Padre lui vedrà, un giorno, ed egli al padre

Giusti baci porrà sovra la fronte.

Ma la consorte mia né questo almeno

Mi consentì, ch'io satollassi gli occhi

Nel volto del mio figlio, e pria mi spense.

Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo

Serba del petto: le native spiagge

Secretamente afferra, e a tutti ignoto,

Quando fidar più non si puote in donna.

Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti,

Dove questo mio figlio i giorni tragga?

In Orcomeno forse? O forse tienlo

Pilo arenosa, o la capace Sparta

Presso re Menelao? Certo non venne

Finor sotterra il mio gentil Oreste".

Ed io: "Perché di ciò domandi, Atride,

Me, cui né conto è pur se Oreste spira

Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?

Lode non merta il favellare al vento".

Così parlando alternamente, e il volto

Di lagrime rigando, e il suol di Dite,



Ce ne stavam disconsolati: ed ecco

Sorger lo spirto del Pelìade Achille,

Di Patroclo, d'Antìloco e d'Aiace,

Che gli Achei tutti, se il Pelìde togli,

Di corpo superava e di sembiante.

Mi riconobbe del veloce al corso

Eacide l'imago; e, lamentando:

O, disse, di Laerte inclita prole,

Qual nuova in mente, sciagurato, volgi

Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?

Come osasti calar ne' foschi regni,

Degli estinti magion, che altro non sono

Che aeree forme e simulacri ignudi? "

"Di Peleo", io rispondea, "figlio, da cui

Tanto spazio rimase ogni altro Greco,

Tiresia io scesi a interrogar, che l'arte

Di prender m'insegnasse Itaca alpestre

Sempre involto ne' guai, l'Acaica terra

Non vidi ancor, né il patrio lido attinsi.

Ma di te, forte Achille, uom più beato

Non fu, né giammai fia. Vivo d'un nume

T'onoravamo al pari, ed or tu regni

Sovra i defunti. Puoi tristarti morto?"

"Non consolarmi della morte", a Ulisse

Replicava il Pelìde. "Io pria torrei

Servir bifolco per mercede, a cui

Scarso e vil cibo difendesse i giorni,

Che del Mondo defunto aver l'impero.

Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre

Parlami in vece. Nelle ardenti pugne

Corre tra i primi avanti? E di Pelèo

Del mio gran genitor, nulla sapesti?

Sieguon fedeli a reverirlo i molti

Mirmìdoni, o nell'Ellada ed in Ftia

Spregiato vive per la troppa etade,

Che le membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo

Sotto i raggi del Sol più non mi lice:

Ché passò il tempo che la Troica sabbia

D'esanimi io covrìa corpi famosi,

Proteggendo gli Achei. S'io con la forza

Che a que' giorni era in me, toccar potessi

Per un istante la paterna soglia,

A chïunque oltraggiarlo, e degli onori

Fraudarlo ardisse, questa invitta mano

Metterebbe nel core alto spavento.

Nulla, io risposi, di Pelèo, ma tutto

Del figliuol posso, e fedelmente, dirti,

Di Neottolemo tuo, che all'oste Achiva

Io stesso sopra cava e d'uguai fianchi

Munita nave rimenai da Sciro.

Sempre che ad Ilio tenevam consulte,

Primo egli a favellar s'alzava in piedi,

Né mai dal punto devïava; soli

Gareggiavam con lui Nestore ed io.

Ma dove l'armi si prendean, confuso

Già non restava in fra la turba, e ignoto:

Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere

Le falangi struggea. Quant'ei mandasse

Propugnacol de' Greci, anime all'Orco,

Da me non t'aspettare. Abbiti solo,

Che il Telefìde Eurìpilo trafisse

Fra i suoi Cetèi, che gli morìano intorno;

Euripilo di Troia ai sacri muri

Per la impromessa man d'una del rege

Figlia venuto, ed in quell'oste intera,

Dopo il deiforme Mènnone, il più bello.

Che del giorno dirò, che il fior de' Greci

Nel costrutto da Epèo cavallo salse,

Che in cura ebb'io, poiché a mia voglia solo

Aprìasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato?

Tergeansi capi e condottier con mano

Le umide ciglia, e le ginocchia sotto

Tremavano a ciascun; né bagnare una

Lagrima a lui, né di pallore un'ombra

Tingere io vidi la leggiadra guancia.

Bensì prieghi porgeami onde calarsi

Giù del cavallo, e della lunga spada

Palpeggiava il grand'else, e l'asta grave

Crollava, mali divisando a Troia

Poi la cittade incenerita, in nave

Delle spoglie più belle adorno e carco

Montava, e illeso: quando lunge, o presso,

Di spada, o stral, non fu giammai chi vanto

Del ferito Neottòlemo si desse".

Dissi, e d'Achille alle veloci piante

Per li prati d'asfodelo vestiti

L'alma da me sen giva a lunghi passi,

Lieta, che udì del figliuol suo la lode.

D'altri guerrieri le sembianze tristi

Compariano; e ciascun suoi guai narrava.

Sol dello spento Telamonio Aiace

Stava in disparte il disdegnoso spirto

Perché vinto da me nella contesa

Dell'armi del Pelide appo le navi.

Teti, la madre veneranda, in mezzo

Le pose, e giudicaro i Teucri e Palla.

Oh côlta mai non avess'io tal palma,

Se l'alma terra nel suo vasto grembo

Celar dovea sì glorïosa testa,

Aiace, a cui d'aspetto e d'opre illustri,

Salvo l'irreprensibile Pelìde

Non fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!

Io con blande parole: "Aiace", dissi,

"Figlio del sommo Telamon, gli sdegni

Per quelle maledette arme concetti

Dunque né morto spoglierai? Fatali

Certo reser gli dèi quell'arme ai Greci,

Che in te perdero una sì ferma torre.

Noi per te nulla men, che per Achille,

Dolenti andiam; né alcuno n'è in colpa, il credi:

Ma Giove, che infinito ai bellicosi

Danai odio porta, la tua morte volle.

Su via, t'accosta, o re, porgi cortese

L'orecchio alle mie voci, e la soverchia

Forza del generoso animo doma".

Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,

Fra l'altre degli estinti Ombre si mise:

Pur, seguendolo io quivi, una risposta

Forse data ei m'avrìa; se non che voglia

Altro di rimirar m'ardea nel petto.

Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro

Figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro

Stringendo in man, tenea ragione all'ombre

Che tutte, qual seduta e quale in piedi,

Conti di sé rendeangli entro l'oscura

Di Pluto casa dalle larghe porte.

Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,

Che uccise un dì sovra i boscosi monti,

Or gli spettri seguìa de' prati inferni

Per l'asfodelo in caccia; e maneggiava

Perpetua mazza d'infrangibil rame.

Ecco poi Tizio, della Terra figlio,

Che sforzar non temé l'alma di Giove

Sposa, Latona, che volgeasi a Pito

Per le ridenti Panopèe campagne.

Sul terren distendevasi, e ingombrava

Quando in dì nove ara di tauri un giogo:

E due avvoltoi, l'un quinci, e l'altro quindi,

Ch'ei con mano scacciar tentava indarno

rodeangli il cor, sempre ficcando addentro

Nelle fibre rinate il curvo rostro.

Stava là presso con acerba pena

Tantalo in piedi entro un argenteo lago,

La cui bell'onda gli toccava il mento.

Sitibondo mostravasi, e una stilla

Non ne potea gustar: ché quante volte

Chinava il veglio le bramose labbra,

Tante l'onda fuggìa dal fondo assorta,

Sì che apparìagli ai piè solo una bruna

Da un Genio avverso inaridita terra.

Piante superbe, il melagrano, il pero,

E di lucide poma il melo adorno,

E il dolce fico, e la canuta oliva,

Gli piegavan sul capo i carchi rami;

E in quel ch'egli stendea dritto la destra

Vêr le nubi lanciava i rami il vento.

Sìsifo altrove smisurato sasso

Tra l'una e l'altra man portava, e doglia

Pungealo inenarrabile. Costui

La gran pietra alla cima alta d'un monte,

Urtando con le man, coi piè pontando,

Spingea: ma giunto in sul ciglion non era,

Che, risospinta da un poter supremo,

Rotolavasi rapida pel chino

Sino alla valle la pesante massa.

Ei nuovamente di tutta sua forza

Su la cacciava: dalle membra a gronde

Il sudore colavagli, e perenne

Dal capo gli salìa di polve un nembo.

D'Ercole mi s'offerse al fin la possa,

Anzi il fantasma: però ch'ei de' numi

Giocondasi alla mensa e cara sposa

Gli siede accanto la dal piè leggiadro

Ebe, di Giove figlia e di Giunone,

Che muta il passo, coturnata d'oro.

Schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno,

Come volanti augei da subitana

Tema compresi; ed ei fosco, qual notte,

Con l'arco in mano, e con lo stral sul nervo,

Ed in atto ad ognor di chi saetta,

Orrendamente qua e là guatava.

Ma il petto attraversavagli una larga

D'ôr cintura terribile, su cui

Storïate vedeansi opre ammirande,

Orsi, cinghiai feroci e leon torvi,

E pugne, e stragi, e sanguinose morti;

Cintura, a cui l'eguale, o prima o dopo,

Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.

Mi sguardò, riconobbemi, e con voce

Lugubre: "O", disse, "di Laerte figlio,

Ulisse accorto, ed infelice a un'ora,

Certo un crudo t'opprime avverso fato,

Qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni.

Figliuol quantunque dell'Egìoco Giove,

Pur, soggetto vivendo ad uom che tanto

Valea manco di me, molto io soffersi.

Fatiche gravi ei m'addossava, e un tratto

Spedimmi a quinci trarre il can trifauce,

Che la prova di tutte a me più dura

Sembravagli; ed io venni, e quinci il cane

Trifauce trassi ripugnante indarno,

D'Ermete col favore e di Minerva".

Tacque, e nel più profondo Erebo scese.

Di loco io non moveami, altri aspettando

De' prodi, che spariro, è omai gran tempo.

E que' due forse mi sarien comparsi,

Ch'io più veder bramava, eroi primieri,

Teseo e Piritoo, glorïosa prole

Degl'immortali dèi. Ma un infinito

Popol di spirti con frastuono immenso

Si ragunava; e in quella un improvviso

Timor m'assalse, non l'orribil testa

Della tremenda Gòrgone la diva

Proserpina invïasse a me dall'Orco.

Dunque senza dimora al cavo legno

Mossi, e ai compagni comandai salirlo,

E liberar le funi; ed i compagni

Ratto il salìano, e s'assidean su i banchi.

Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno

Mandava innanzi d'Ocean su l'onde:

Poscia quel, che levossi, ottimo vento.






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