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Odissea Ver. 148-249 - LIBRO DODICESIMO

greco



Odissea

Ver. 148-249


1) Dopo aver letto l'episodio delle sirene e il commento a pag. 552-553, spiega con parole tue il significato di questa prova e della figura delle sirene.

La prova delle sirene  è la terzultima che Odisseo affronta con i suoi compagni. Odisseo ha combattuto con la forza bruta di Polifemo, vincendola con l'astuzia, si è scontrato con il potere sovrannaturale di Circe, scampando grazie all'aiuto di un Dio, e si trova ora a confronto con un genere di prova se vogliamo diverso da tutte le altre: il confronto con se stesso. Che cosa promettono a Odisseo le Sirene ? In che cosa consiste il loro terribile potere di ammaliare gli uomini attirandoli a sé ? Quando Odisseo decide di turare le orecchie ai suoi compagni con la cera, ma di farsi legare all'albero della nave, senza alcuna protezione contro il canto delle sirene, dimostra una sua caratteristica che lo accompagna per tutto il poema: la voglia di conoscere e di sapere, la voglia di provare cose nuove che nessun altro uomo ha mai provato. E sarà proprio su questo che le Sirene faranno forza per spingere Odisseo a raggiungerle: lo tenteranno pr 828d32i omettendo di rivelargli "...quanto accade sulla terra feconda." Odisseo riesce a resistere solo grazie alla sua proverbiale saggezza che gli aveva consigliato di farsi legare nel caso la sua forza di volontà non fosse bastata da sola a opporsi al canto ammaliatore delle Sirene.



Non è dalle Sirene che Odisseo deve difendersi, ma da se stesso, dai suoi desideri e dalle sue passioni più forti. La prova e la figura delle sirene, che sarà poi ripresa da molte correnti di pensiero per farne allegorie sulla vita e sul mondo, è il simbolo dell'uomo a confronto non con una forza esterna contro cui deve combattere, ma con qualcosa di molto più terribile: è l'uomo che è costretto a controllare e mettere in dubbio il suo stesso modo di essere.

Il detto greco "Gnvqi seauton[S1]  " è alla base di questa prova, è l'arma grazie alla quale Odisseo riesce a superare l'isola delle sirene. Odisseo, consapevole di non poter resistere alle promesse delle Sirene, sapendo fin dove può arrivare con la sua forza di volontà, decide di farsi legare all'albero.

La tremenda forza delle sirene sta proprio in questo: parlare a ogni uomo in modo diverso, scovare i desideri più segreti e forti degli uomini e tentarli su questo piano. A Odisseo le sirene promettono la celebrazione del suo passato eroico e il sapere di tutte le cose del mondo. Solo conoscendo queste debolezze del suo animo, e prevenendole, Odisseo riesce a salvarsi.


Testo di riferimento: Libro dodicesimo dell'odissea


LIBRO DODICESIMO



Poiché la nave uscì dalle correnti

Del gran fiume Oceàno, ed all'Eèa

Isola giunse nell'immenso mare,

Là 've gli alberghi dell'Aurora e i balli

Sono, e del sole i lucidi Levanti,

Noi dalla nave, che fu in secco tratta,

Scesi, e corcati su la muta spiaggia,

Aspettammo dell'alba il sacro lume.

Ma come del mattin la bella figlia

Colorò il ciel con le rosate dita,

Di Circe andaro alla magione alcuni,

Che dell'estinto Elpenore la fredda

Spoglia ne riportassero. Troncammo

Frassini e abeti, e all'infelice amico,

Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio,

L'esequie femmo, ove sporgea più il lido.

Né prima il corpo e le armi ebbe arse il foco,

Che noi, composto un tumulo, ed eretta

SOpravi una colonna, il ben formato

Remo infiggemmo della tomba in cima.

Mentr'eravamo al trist'ufficio intenti,

Circe, che d'Aide ci sapea tornati,

S'adornò e venne in fretta, e con la dea

Venner d'un passo le serventi ninfe,

Forza di carni e pan seco recando,

E rosso vino, che le vene infiamma.

L'inclita tra le dee stava nel mezzo,

E così favellava: "O sventurati,

Che in carne viva nel soggiorno entraste

D'Aide, e di cui la sorte è due fiate

Morir, quando d'ogni altro uomo è una sola.

Su via, tra i cibi scorra ed i licori

Tutto a voi questo dì su le mie rive.

Come nel ciel rosseggerà l'Aurora,

Navigherete; ma il cammino, e quanto

Di saper v'è mestieri, udrete in prima,

Sì che non abbia per un mal consiglio

Grave in terra, od in mare, a incorvi danno".

Chi persuaso non sarìasi? Quindi

Tra lanci piene e coronate tazze,

Finché il sol si mostrò, sedemmo a mensa.

Il sol celato ed imbrunito il mondo,

Si colcaro i compagni appo la nave.

Ma Circe me prese per mano, e trasse

Da parte, e a seder pose; indi, seduta

Di contra, interrogommi, ed io su tutto

La satisfeci pienamente. Allora

Tai parole sciogliea l'illustre diva:

"Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,

Ch'io vo' manifestarti, e che al bisogno

Ti torneranno nella mente i numi.

Alle Sirene giungerai da prima,

Che affascìnan chïunque i lidi loro

Con la sua prora veleggiando tocca.

Chïunque i lidi incautamente afferra

Delle Sirene, e n'ode il canto, a lui

Né la sposa fedel, né i cari figli

Verranno incontro su le soglie in festa.

Le Sirene sedendo in un bel prato,

Mandano un canto dalle argute labbra,

Che alletta il passeggier: ma non lontano

D'ossa d'umani putrefatti corpi

E di pelli marcite, un monte s'alza.

Tu veloce oltrepassa, e con mollita

Cera de' tuoi così l'orecchio tura,

Che non vi possa penetrar la voce.

Odila tu, se vuoi; sol che diritto

Te della nave all'albero i compagni

Leghino, e i piedi stringanti, e le mani;

Perché il diletto di sentir la voce

Delle Sirene tu non perda. E dove

Pregassi o comandassi a' tuoi di sciorti,

Le ritorte raddoppino ed i lacci.

Poiché trascorso tu sarai, due vie

Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico,

Qual più giovi pigliar, ma, come d'ambo

Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa.

Vedrai da un lato discoscese rupi

Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba

Dell'azzurra Anfitrite il salso fiotto.

Gl'Iddii beati nella lor favella

Chiàmanle Erranti. Non che ogni altro augello,

Trasvolarle non sanno impunemente

Né le colombe pur, che al padre Giove

Recan l'ambrosia: la polita pietra

Sempre alcuna ne fura, e della spenta

Surroga invece altra colomba il padre.

Nave non iscampò dal periglioso

Varco sin qui: ché de' navigli tutti

Le tavole del pari e i naviganti

Sen porta il vincitor flutto, e la pregna

Di mortifero foco atra procella.

Sola quell'Argo che solcava il mare,

Degli uomini pensiero e degli dèi

Trapassar valse, navigando a Colco:

E se non che Giunon, cui molto a cuore

Giasone stava, di sua man la spinse,

Quella non meno avrìan contra le vaste

Rupi cacciata i tempestosi flutti.

Dall'altra parte havvi due scogli: l'uno

Va sino agli astri, e fosca nube il cinge

Né su l'acuto vertice, l'estate

Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride.

Montarvi non potrebbe altri, o calarne,

Venti mani movesse e venti piedi:

Sì liscio è il sasso e la costa superba.

Nel mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,

S'apre oscura caverna, a cui davanti

Dovrai ratto passar; giovane arciero

Che dalla nave disfrenasse il dardo,

Non toccherebbe l'incavato speco.

Scilla ivi alberga, che moleste grida

Di mandar non ristà. La costei voce

Altro non par che un guaiolar perenne

Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce

Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,

Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.

Dodici ha piedi, anterïori tutti,

Sei lunghissimi colli, e su ciascuno

Spaventosa una testa, e nelle bocche



Di spessi denti un triplicato giro,

E la morte più amara in ogni dente.

Con la metà di sé nell'incavato

Speco profondo ella s'attuffa, e fuori

Sporge le teste, riguardando intorno

Se delfini pescar, lupi, o alcun puote

Di que' mostri maggior che a mille a mille

Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.

Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:

Poiché quante apre disoneste bocche,

Tanti dal cavo legno uomini invola.

Men l'altro s'alza contrapposto scoglio

E il dardo tuo ne colpirìa la cima.

Grande verdeggia in questo e d'ampie foglie

Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe

La temuta Cariddi il negro mare.

Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno

L'assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi

Non t'accostar mentre il mar negro inghiotte;

Ché mal saprìa dalla ruina estrema

Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla

Tienti vicino, e rapido trascorri.

Perder sei de' compagni entro la nave

Torna più assai, che perir tutti a un tempo".

Tal ragionava; ed io: "Quando m'avvegna

Schivare, o Circe, la fatal Cariddi,

Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,

Che gli amici a distruggermi s'avventa?"

"O sventurato", rispondea la diva

Dunque le pugne in mente ed i travagli

Rivolgi ancor, né ceder pensi ai numi?

Cosa mortal credi tu Scilla? Eterno

Credila, e duro, e faticoso, e immenso

Male, ed inespugnabile, da cui

Schermo non havvi, e cui fuggir fia ìl meglio

Se indugi, e vesti appo lo scoglio l'armi,

Sbucherà, temo, ad un secondo assalto,

E tanti de' compagni un'altra volta

Ti rapirà, quante spalanca bocche.

Vola dunque sul pelago, e la madre

Cratèi, che al mondo generò tal peste,

E ritenerla, che a novella preda

Non si slanci, potrà, nel corso invoca.

Allora incontro ti verran le belle

Spiagge della Trinacria isola, dove

Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:

Sette branchi di buoi, d'agnello tanti,

E di teste cinquanta i branchi tutti.

Non cresce, o scema, per natale o morte,

Branco; e le Dive sono i lor pastori

Faetusa e Lampezie il crin ricciute

Che partorì d'Iperïone al figlio

Ninfe leggiadre, la immortal Neera.

Come l'augusta madre ambo le ninfe

Dopo il felice parto ebbe nodrite,

A soggiornar lungi da sé mandolle

Nella Trinacria; e le paterne vacche

Dalla fronte lunata, ed i paterni

Monton lucenti a custodir lor diede.

Pascoleranno intatti e a voi soltanto

Calerà del ritorno? il suol nativo,

Non però senza guai, fiavi concesso.

Ma se giovenca molestaste od agna,

Sterminio a te predìco, al legno e a' tuoi

E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,

Riederai tardi, e a gran fatica, e solo".

Disse; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.

Circe, non molto poi, da me rivolse

Per l'isola i suoi passi; ed io, trovata

La nave, a entrarvi e a disnodar la fune

Confortava i compagni; ed i compagni

V'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi

Fean co' remi nel mar spume d'argento.

La dea possente ci spedì un amico

Vento di vela gonfiator, che fido

Per l'ondoso cammin ne accompagnava:

Sì che, deposti nella negra nave

Dalla prora cerulea i lunghi remi,

Sedevamo, di spingerci e guidarci

Lasciando al timonier la cura e al vento.

Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,

Degno mi par che a tutti voi sia conto

Quel che predisse a me l'inclita Circe.

Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,

Non ci sorprenda ignari il nostro fato.

Sfuggire in pria delle Sirene il verde

Prato e la voce dilettosa ingiunge.

Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto

Me della nave all'albero legate

Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;

E dove di slegarmi io vi pregassi

Pur con le ciglia, o comandassi, voi

Le ritorte doppiatemi ed i lacci".

Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,

Che avea da poppa il vento, in picciol tempo

Delle Sirene all'isola pervenne.

Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,

E l'onde assonnò un demone. I compagni

Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,

E nella nave collocarle: quindi

Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde

Co' forti remi di polito abete.

Io la duttile cera, onde una tonda

Tenea gran massa, sminuzzai con destro

Rame affilato; ed i frammenti n'iva

Rivoltando e premendo in fra le dita.

Né a scaldarsi tardò la molle pasta;

Perocché lucidissimi dall'alto

Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.

De' compagni incerai senza dimora

Le orecchie di mia mano; e quei diritto

Me della nave all'albero legaro

Con fune, i piè stringendomi e le mani.

Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi

Batteano il mar, che ne tornava bianco.

Già, vogando di forza, eravam quanto

Corre un grido dell'uomo, alle Sirene

Vicini. Udito il flagellar de' remi,

E non lontana omai vista la nave,

Un dolce canto cominciaro a sciorre:

"O molto illustre Ulisse, o degli Achei

Somma gloria immortal, su via, qua vieni,

Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.

Nessun passò di qua su negro legno,

Che non udisse pria questa che noi

Dalle labbra mandiam, voce soave;

Voce, che innonda di diletto il core,

E di molto saver la mente abbella.

Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia

Per celeste voler Teucri ed Argivi,

Noi conosciam, ma non avvien su tutta

La delle vite serbatrice terra

Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".

Cosi cantaro. Ed io, porger volendo

Più da vicino il dilettato orecchio,

Cenno ai compagni fea, che ogni legame

Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo

Incurvavano il dorso, e Perimede

Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi

Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.

Come trascorsa fu tanto la nave,

Che non potea la perigliosa voce

Delle Sirene aggiungerci, coloro

A sé la cera dall'orecchio tosto,

E dalle membra a me tolsero i lacci.

Già rimanea l'isola indietro; ed ecco

Denso apparirmi un fumo e vasti flutti,

E gli orecchi intronarmi alto fragore.

Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi

Remi di man lor caddero, e la nave,

Che de' fidi suoi remi era tarpata,

Là immantinente s'arrestò. Ma io

Di su, di giù, per la corsìa movendo,

E con blanda favella or questo, or quello

De' compagni abbordando: "O", dissi, "meco

Sin qua passati per cotanti affanni,

Non ci sovrasta un maggior mal, che quando

L'infinito vigor di Polifemo

Nell'antro ci chiudea. Pur quinci ancora

Col valor mio vi trassi, e col mio senno,

E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.

Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti



Facciam: voi, stando sovra i banchi, l'onde

Percotete co' remi, e Giove, io spero,

Concederà dalle correnti scampo.

Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente

Questo, né l'obblïar: guida il naviglio

Fuor del fumo e del fiotto, ed all'opposta

Rupe ognor mira e ad essa tienti, o noi

Getterai nell'orribile vorago".

Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.

Se non ch'io Scilla, immedicabil piaga,

Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,

L'un sovra l'altro per soverchia tema

Della nave cacciassersi nel fondo.

E qui, di Circe, che vietommi l'arme,

Negletto il disamabile comando,

Io dell'arme vestìami, e con due lunghe

Nell'impavida mano aste lucenti

Salìa sul palco della nave in prua,

Attendendo colà, che l'efferata

Abitatrice dell'infame scoglio

Indi, gli amici a m'involar, sbalzasse:

Né, perché del ficcarli in tutto il bruno

Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,

Da parte alcuna rimirarla io valsi.

Navigavamo addolorati intanto

Per l'angusto sentier: Scilla da un lato,

Dall'altro era l'orribile Cariddi,

Che del mare inghiottia l'onde spumose.

Sempre che rigettavale, siccome

Caldaia in molto rilucente foco,

Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,

Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo

Gli scogli ricadevano. Ma quando

I salsi flutti ringhiottiva, tutta

Commovéasi di dentro, ed alla rupe

Terribilmente rimbombava intorno,

E, l'onda il seno aprendo, un'azzurrigna

Sabbia parea nell'imo fondo: verdi

Le guance di paura a tutti io scôrsi.

Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,

Una morte temendone vicina,

Sei de' compagni, i più di man gagliardi,

Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi

Torsi, e li vidi che levati in alto

Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse

Chiamavan, lassi!, per l'estrema volta.

Qual pescatore che su pendente rupe

Tuffa di bue silvestre in mare il corno

Con lunghissima canna, un'infedele

Esca ai minuti abitatori offrendo,

E fuor li trae dall'onda, e palpitanti

Scagliali sul terren: non altrimenti

Scilla i compagni dal naviglio alzava

E innanzi divoravali allo speco,

Che dolenti mettean grida, e le mani

Nel gran disastro mi stendeano indarno.

Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni,

Solcando il mar, la vista, oggetto mai

Di cotanta pietà non mi s'offerse.

Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia

La feconda ci apparve isola amena,

Ove il gregge del Sol pasce e l'armento;

E ne giungean dall'ampie stalle a noi

I belati su l'aure ed i muggiti.

Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente

Del Teban vate e della maga Circe,

Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi,

Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

Ond'io: "Compagni, lor dicea, per quanto

Siate angosciati, la sentenza udite

Del Teban vate e della maga Circe,

Ch'io l'isola schivar debba del Sole,

Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

Circe affermava che il maggior de' guai

Quivi c'incoglieria. Lasciarla indietro

Ci convien dunque con la negra nave".

Colpo tai detti fûr quasi mortale.

Né a molestarmi Euriloco in tal guisa

Tardava: "Ulisse, un barbaro io ti chiamo,

Perché di forze abbondi, e mai non cedi,

Né fibra è in te che non sia ferro, a' tuoi

Contendi il toccar terra, e di non parca

Cena sul lido ristorarsi. Esigi

Che in mezzo le notturne ombre su questo

Pelago a caso erriam, benché la notte

Gravi produca disastrosi venti.

Or chi fuggir potrà l'ultimo danno

Dove repente un procelloso fiato

Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente,

Che de' numi anco ad onta, il legno sperda?

S'obbedisca oggi alla divina notte,

E la cena nell'isola s'appresti.

Come il dì spunti, salirem di nuovo

La nave, e nell'immensa onda entreremo".

Questa favella con applauso accolta

Fu dai compagni ad una; ed io ben m'avvidi

Che mali un genio prepotente ordìa:

"Euriloco", io risposi, "oggimai troppa,

Tutti contra ad un sol, forza mi fate.

Giurate almeno, e col più saldo giuro,

Che, se greggi troviam, troviamo armenti,

Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,

Giovenca uccida, o pecorella offenda:

Ma tranquilli di ciò pasteggerete,

Che in don vi porse la benigna Circe".

Quelli giuraro, e non sì tosto a fine

L'invïolabil giuro ebber condotto,

Che la nave nel porto appo una fonte

Fermâro, e ne smontaro, e lauta cena

Solertemente apparecchiâr sul lido.

Paga delle vivande e de' licori

La naturale avidità pungente,

Risovvenìansi di color che Scilla

Dalla misera nave alto rapiti

Vorossi, e li piangean, finché discese

Su gli occhi lagrimosi il dolce sonno.

Già corsi avea del suo cammin due terzi

La notte e dechinavano le stelle,

Quando il cinto di nembi Olimpio Giove

Destò un gagliardo, turbinoso vento,

Che la terra coverse, e il mar di nubi,

E la notte di cielo a piombo cadde.

Ma come poi l'orocrinita Aurora

Colorò il ciel con le rosate dita,

Tirammo a terra il legno, e in cavo speco

De' seggi ornato delle ninfe, ch'ivi

I lor balli tessean, l'introducemmo.

Subito io tutti mi raccolsi intorno

E: "Compagni", diss'io, "cibo e bevanda

Restanci ancor nella veloce nave.

Se non vogliam perir, lungi, vedete,

La man dal gregge e dall'armento; al Sole,

Terribil dio, che tutto vede ed ode,

Pascono i monton pingui e i bianchi tori".

Dissi; e acchetârsi i generosi petti.

Per un intero mese Austro giammai

Di spirar non restava, e poscia fiato

Non sorgea mai, che di Levante o d'Austro.

Finché il pan non fallì loro ed il vino,

Ubbidïenti e della vita avari,

Rispettavan l'armento. E già la nave

Nulla contenea più. Gìvano adunque,

Come il bisogno li pungea, dispersi

Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia,

Con archi ed ami, o di quale altra preda

Lor venisse alle man; però che forte

Rodeali dentro l'importuna fame.

Io, dai compagni scevro, una remota

Cercai del piede solitaria piaggia,

Gli eterni a Supplicar, se alcun la via

Mi dimostrasse del ritorno, e in parte

Giunto, che d'aura non sentìasi colpo,

Sparsi di limpid'onda, e a tutti alzai

Gli abitanti del cielo ambo le palme.

Né guari andò, che d'un tranquillo sonno

Gli occhi ed il petto rïempièrmi i numi.

Eurìloco frattanto un mal consiglio

Pose innanzi ai compagni: "O da sì acerbe

Sciagure oppressi, la mia voce udite.

Tutte odïose certo ad uom le morti;

Ma nulla tanto, che il perir di fame.

Che più si tarda? Meniam via le belle

Giovenche, e sagrifici ai numi offriamo.



Ché se afferrar ci sarà dato i lidi

Nativi, al Sole Iperïone un ricco

Tempio illustre alzeremo, appenderemo

Molti alle mura prezïosi doni.

E dov'ei, per li buoi dalla superba

Testa crucciato, sperder voglia il legno,

Né alcun dio gli contrasti, io tolgo l'alma

Pria tra i flutti esalar, che, su deserta

Isola stando, intisichir più a lungo".

Disse: e tutti assentìano. Incontanente

Del Sol cacciate le più belle vacche

Di fronte larga e con le corna in arco,

Che dalla nave non pascean lontane,

Stavano ad esse intorno, e, côlte prima,

Per difetto che avean di candid'orzo,

Tenere foglie di sublime quercia,

Voti féano agli dèi. Compiuti i voti,

Le vittime sgozzaro e le scoiaro,

E, le cosce tagliatene, di zirbo

Le copriro doppiate, e i crudi brani

Sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso

Vino scusasse, onde patìan disagio,

Versavan poi su i sagrifici ardenti,

E abbrostìan tutti gl'intestini. Quindi,

Le cosce omai combuste, ed assaggiate

Le interïora, tutto l'altro in pezzi

Fu messo, e infitto negli acuti spiedi;

E a me uscì delle ciglia il dolce sonno.

Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.

Ma vicina del tutto ancor non m'era,

Ch'io mi sentii dall'avvampate carni

Muovere incontro un odoroso vento,

E gridai, lamentando, ai numi eterni:

"O Giove padre, e voi, dèi sempre stanti,

Certo in un crudo e fatal sonno voi

Mi seppelliste, se doveasi intanto

Compier da cotestoro un tal misfatto".

Nunzia non tarda dell'ucciso armento,

Lampezie al Sole andò, di lungo peplo

Coperta. Il Sole, in grande ira montato,

Si volse ai numi e: "Giove", disse, e voi

Tutti, immortali dèi, paghino il fio

Del Laerzìade Ulisse i rei compagni,

Che le giovenche trucidarmi osaro,

Della cui vista, o ch'io per la stellata

Volta salissi, o discendessi, nuovo

Diletto ciascun dì prendea il mio core.

Colpa e pena in lor sia d'una misura:

O calerò nella magion di Pluto,

E al popol morto porterò mia luce".

E il nimbifero Giove a lui rispose:

"Tra gl'Immortali, o Sole, ed i mortali

Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi.

Io senza indugio d'un sol tocco lieve

Del fulmine affocato il lor naviglio

Sfracellerò del negro mar nel seno".

Queste cose Calipso un giorno udìa

Dal messaggier Mercurio; e a me narrolle

La ricciuta il bel crin ninfa Calipso.

Giunto alla nave, io rampognavo or questo

De' compagni, ed or quel: ma vïolato

L'armento fu, né avea compenso il male.

Strani prodigi intanto agl'infelici

Mostravano gl'iddii: le fresche pelli

Strisciavan sul terren, muggian le incotte

Carni e le crude, agli schidoni intorno,

E de' buoi lor sembrava udir la voce.

Pur del fior dell'armento ancor sei giorni

Si cibaro i colpevoli. Comparsa

La settim'alba, il turbinoso vento

Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato

L'albero prontamente, e dispiegate

Le bianche vele, ci mettemmo in mare.

Di vista già della Trinacria usciti,

Altro non ci apparìa che il cielo e l'onda,

Quando il Saturnio sul veloce legno

Sospese in alto una cerulea nube,

Sotto cui tutte intenebrârsi l'acque.

La nave non correa che un tempo breve;

Poiché ratto uno stridulo Ponente,

Infurïando, imperversando, venne

Di contra e ruppe con tremenda buffa

Le due funi dell'albero, che a poppa

Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte

Nella sentina scesero. Percosse

L'alber, cadendo, al timoniere in capo,

E l'ossa fracassògli; ed ei da poppa

Saltò nel mar, di palombaro in guisa,

E cacciata volò dal corpo l'alma.

Ma Giove che tonato avea più volte,

Scagliò il fulmine suo contra la nave,

Che si girò, dal fulmine colpita

Del Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta.

Tutti fuor ne cascarono i compagni,

E ad essa intorno l'ondeggiante sale,

Quai corvi, li portava; e così Giove

Il ritorno togliea loro, e la vita.

Io pel naviglio su e giù movea,

Finché gli sciolse la tempesta i fianchi

Dalla carena, che rimase inerme.

Poi la base dell'albero l'irata

Onda schiantò: ma di taurino cuoio

Rivestìalo una striscia, ed io con questa

L'albero e la carena in un legai,

E sopra mi v'assisi; e tale i venti

Esizïali mi spingean su l'onde.

Zefiro a un tratto rallentò la rabbia:

Se non che sopraggiunse un Austro in fretta,

Che, noiandomi forte in ver Cariddi

Ricondur mi volea. L'intera notte

Scorsi su i flutti; e col novello Sole

Tra la grotta di Scilla, e la corrente

Mi ritrovai della fatal vorago,

Che in quel punto inghiottia le salse spume

Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio

M'aggrappai fico eccelso, e mi v'attenni,

Qual vipistrello: ché né dove i piedi

Fermar, né come ascendere, io sapea,

Tanto eran lungi le radici, e tanto

Remoti dalla mano i lunghi, immensi

Rami, che d'ombra ricoprìan Cariddi.

Là dunque io m'attenea bramando sempre,

Che rigettati dall'orrendo abisso

Fosser gli avanzi della nave. Al fine

Dopo un lungo desìo vennero a galla.

Nella stagion che il giudicante, sciolte

Varie di caldi giovani contese,

Sorge dal foro, e per cenar s'avvìa,

Dell'onde usciro i sospirati avanzi.

Le braccia apersi allora, e mi lasciai

Giù piombar con gran tonfo all'onde in mezzo,

Non lunge da que' legni, a cui m'assisi

Di sopra, e delle man remi io mi feci.

Ma degli uomini il padre e de' Celesti

Di rivedermi non permise a Scilla;

Ché toccata sarìami orrida morte.

Per nove dì mi trabalzava il fiotto,

E la decima notte i dèi sul lido

Mi gettâr dell'Ogigia isola, dove

Calipso alberga, la divina ninfa,

Che raccoglieami amica, e in molte guise

Mi confortava. Perché ciò ti narro?

Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,

Le udìa con teco la tua casta donna,

E ciò ridir, ch'io dissi, a me non torna".




Parole incise sul frontone del santuario di Apollo a Menfi, significano "conosci te stesso".


 [S1]






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