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La vita di Demostene (1) Plutarco

greco



La vita di Demostene (1)  Plutarco

L'autore del panegirico ad Alcibiade, scritto in occasione della vittoria nella corsa dei carri ad Olimpia - e non importa, caro Sosio Senecione, se si trattò di Euripide, come sostengono in molti, 818e49i o di qualcun altro -, afferma che la prima condizione per essere felici è essere nati in una "città illustre"; io invece credo che per chi va alla ricerca del vero benessere, la cui essenza risiede nel carattere e nella disponibilità d'animo, non faccia alcuna differenza essere originari di una patria umile e per nulla famosa, proprio come non lo fa essere figli di una donna brutta e piccola di statura. A questo proposito, sarebbe semplicemente ridicolo se si pensasse che Iulide, una piccola parte della non grande isola di Ceo, o Egina, che un tale in Attica voleva addirittura spazzar via, quasi fosse un bruscolino nell'occhio del Pireo, possano sì dare i natali a bravi attori e poeti, e non, magari, a un uomo responsabile ed onesto, dotato di raziocinio e animo nobile. Certo, è naturale che nei centri piccoli e sconosciuti non fioriscano le attività connesse con gli alti guadagni e il prestigio; ma la virtù, come un robusto sempreverde, mette radici ovunque, purché trovi una natura generosa e un animo capace di sopportare la sofferenza. Allo stesso modo non è corretto attribuire la responsabilità di un comportamento dissoluto e poco razionale al fatto di essere nati in una piccola città: nel caso, i soli colpevoli siamo noi.Ma se si vuole scrivere un'opera di storia, che non sia esclusivamente documentata su testi che si hanno in casa, di facile consultazione, bensì sui numerosi altri libri sparsi un po' ovunque, in paesi stranieri, allora sì che conviene abitare in una "città illustre", amante del bello e ben frequentata: oltre a poter disporre in abbondanza di testi di ogni sorta, ci si potrà avvalere di dati più precisi conducendo inchieste ed ascoltando il racconto della gente, basato sui ricordi, raccogliendo quanto è sfuggito agli scrittori. Nel mio caso, io vivo in una piccola città e vi resto volentieri per non contribuire al suo calo demografico. Quando fui a Roma o qua e là per l'Italia, non trovai mai il tempo di esercitarmi nella lingua romana, sia per impegni politici sia per le lezioni di filosofia che impartivo; e così ho iniziato a leggere libri in latino piuttosto tardi, già avanti con gli anni. E si è verificata una cosa incredibile ma vera: non mi è capitato spesso di prendere coscienza dei fatti leggendo le parole che ne fornivano spiegazione, quanto, invece, il contrario: se, cioè, conoscevo già in qualche modo il fatto in questione, grazie a questo ne capivo meglio anche i vocaboli.  Sono convinto, però, che sarebbe utile e per nulla spiacevole poter cogliere anche la bellezza e il ritmo dello stile latino, le metafore, la disposizione armonica delle parole e gli altri accorgimenti che rendono celebre il discorso; ma lo studio della lingua e gli esercizi ad esso connessi non sono affatto semplici: conviene, quindi, che coltivi simili ambizioni chi ha tempo a disposizione e gode del beneficio dell'età.Perciò, anche nella stesura di questo libro, il quinto delle Vite parallele, che tratta di Demostene e Cicerone, cercherò di esaminare e mettere a confronto la natura e la disposizione d'animo dei suddetti personaggi, fondandomi sulle loro azioni e sulla loro partecipazione alla vita politica dello Stato; tralascerò, invece, di stabilire un paragone tra le loro capacità oratorie, tentando di dimostrare chi fosse più abile con le parole e più piacevole all'ascolto. Ione dice che "la forza del delfino è vana a terra"; ma Cecilio, sempre eccessivo in tutte le sue cose, sembrò ignorare la veridicità del detto e, con la baldanza tipica di un giovane, fu autore di un confronto tra l'arte oratoria di Demostene e quella di Cicerone. D'altra parte, se fosse stato così semplice per chiunque cogliere il messaggio contenuto nel "conosci te stesso", non lo si sarebbe neanche considerato un precetto di origine divina. Sembra che il dio, quando al principio fece di Cicerone un secondo Demostene, ispirò nella sua natura molte delle caratteristiche dell'altro - l'amore per la gloria e per la libertà nell'impegno politico, un atteggiamento codardo nei confronti di pericoli e guerre -, ma volle rendere simili anche parecchi altri casi delle loro vite. Credo, ad esempio, che non si trovino altri due oratori i quali, da sconosciuti ed insignificanti che erano, furono capaci di assurgere a tanta grandezza da opporsi a re e tiranni; due che persero una figlia, vennero scacciati dalla loro patria e vi tornarono a testa alta; due costretti dai loro nemici a fuggire di nuovo e poi catturati e uccisi, mentre anche per i loro concittadini andava morendo la libertà; e così, se si ingaggiasse una gara tra la natura e la sorte, quasi fossero due artisti, risulterebbe difficile stabilire se a rendere più simili Demostene e Cicerone sia stata l'una con le sue qualità o l'altra con le sue circostanze. Ma, anzitutto, bisogna parlare del più antico.









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