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RELAZIONE "IL SEGNO DEI QUATTRO"

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RELAZIONE

"IL SEGNO DEI QUATTRO"



La narrativa poliziesca (in Italia chiamata "giallo" per il colore di copertina della prima collana Mondadori dedicata a tale genere) si compone d'ingredienti assolutamente irrinunciabili: l'episodio delittuoso attorno al quale si snoda l'intera trama, gli indizi da ricomporre in quanto tasselli significativi di un intero mosaico, la forza della giustizia contrapposta a quella del fuorilegge. Questi elementi solitamente vengono accompagnati da determinate caratteristiche tipiche del giallo: la forte aderenza ad una realtà, magari improbabile ma possibile; la suspense che cresce di pari passo con lo svolgimento della storia; una serie d'indizi disparati che finiscono per convergere verso il colpevole; 747c25h una trama che, preferibilmente, si nutre di colpi di scena fino alla risoluzione finale.

Nel "Il segno dei quattro" di Sir Arthur Conan Doyle questi ingredienti sono completamente capovolti: in un ambiente inverosimile di malavitosi onesti e corretti, infatti, gli assassini vengono individuati immediatamente. Al lettore viene così tolto il piacere della scoperta progressiva, ricompensata, però, da uno Sherlock Holmes che sorprende continuamente. Durante la lettura l'attenzione è completamente assorbita non solo della conoscenza del detective in ogni campo del sapere, non solo della sua intuizione sorprendente, ma soprattutto dell'infallibilità di un metodo investigativo basato su ragionamenti logico deduttivi, rigorosi e selettivi.



Il libro, ambientato nell'Inghilterra vittoriana di fine '800, precisamente a Londra, ha inizio al 22° di Baker Street, domicilio di Sherlock Holmes e del dottor Watson. Qui, improvvisamente si presenta una ragazza in lacrime, la signorina Mary Morstan, la quale presenta ai due il proprio, inesplicabile caso, e ne richiede l'aiuto. Essa, figlia di un generale dell'esercito scomparso inspiegabilmente pochi anni prima, racconta di aver ricevuto un messaggio che richiedeva la sua presenza quella sera stessa presso il Liceum Theatre, qualora volesse, accompagnata da due amici; lì avrebbe ricevuto notizie sulla scomparsa di suo padre. I tre, così, vengono accompagnati da un uomo che li attende sul posto presso l'abitazione di Thaddeus Sholto, un bizzarro personaggio che si presenta come figlio del maggiore Sholto, uomo di grande avarizia e grandissimo amico del generale Morstan. Egli racconta di un tesoro del quale i due militari entrarono in possesso, in circostanze poco chiare, ai tempi del soggiorno coloniale inglese in India, e che fu portato, in seguito, in Inghilterra dal maggiore. Successivamente all'occultata morte del generale Morstan a causa di un incidente, il tesoro viene nascosto in un luogo ignoto a tutti, tranne che al maggiore. Trovandosi in punto di morte, egli è costretto a rivelare ai due figli, Bartholomew e Thaddeus, l'ubicazione segreta del tesoro, ma proprio quando è sul punto di farlo, viene colto da un improvviso malore e non riesce a completare la comunicazione. Proprio pochi giorni prima del messaggio alla signorina Morstan il tesoro era stato ritrovato e Sholto riteneva giusto che anche lei ricevesse la sua parte di patrimonio. Insieme, così, si recano in casa di Bartholomew Sholto, momentaneo custode del tesoro. Tuttavia, l'inaspettata morte per omicidio dello stesso e la relativa scomparsa del tesoro complicano ulteriormente la faccenda. Iniziano così le acutissime indagini di Holmes che culmineranno in seguito nell'arresto dell'assassino Jonathan Small, il quale non avendo via di scampo porta luce su ogni singolo dettaglio della vicenda.

Nella narrazione dei fatti emergono quindi i personaggi citati, che, però, rimangono sullo sfondo rispetto alla personalità dominante di Sherlock Holmes. Inoltre vengono descritti quasi come comparse teatrali in funzione di una trama, dove si dubita pure del verosimile. Come si può ritenere che la signorina Morstan decida di affidare una "missione" così delicata a due sconosciuti anche se relativamente famosi? Come è possibile pensare che il signor Sholto ancora prima di entrare in possesso del tesoro, paia disposto a dividerlo con una sconosciuta come la signorina Morstan? Ed andando indietro nella storia è verosimile che quattro delinquenti conosciutisi casualmente stringano un patto tra loro, fidandosi completamente l'uno dell'altro e senza mai tradirsi reciprocamente?

Ma forse sono sbavature nella narrazione volute per valorizzare la figura di Holmes che riesce da particolari apparentemente insignificanti a dedurre elementi preziosi per la ricostruzione dei fatti. In particolare, ne si esalta l'acume investigativo e la capacità di accogliere, davanti un fatto delittuoso tutte le possibili spiegazioni per poi, con un processo d'esclusione, avvalersi dell'unica possibilità rimasta. A questo proposito, il detective si rivolge così all'amico Watson: "Quante volte le ho detto che, eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essera la verità?".

Innanzi ad una mente così raffinata ed intelligente il lettore non può fare a meno di identificarsi nel "povero" dottor Watson, che in ogni occasione è una figura sminuita dalle circostanze, malgrado i tentativi di essere all'altezza dell'amico. I due personaggi sono, infatti, esageratamente contrapposti: l'uno quasi borioso ed in un certo senso pronto ad umiliare Watson (lo si perdona solo per la sua genialità), l'altro remissivo, felicemente umiliato dalla superiorità dell'altro. Dal confronto dei due personaggi si comprende come essi pongano la vicenda su piani diametralmente opposti. Watson, dei fatti coglie maggiormente gli aspetti emotivi, sentimentali ed umani, mentre Holmes appare come assetato d'indizi e di quella speculazione mentale dalla quale non riesce a liberarsi, essendo vittima delle sue stesse elucubrazioni. Tant'è vero che nei momenti d'inattività investigativa si trova costretto ad assumere droghe pesanti, come cocaina e morfina, in modo da creare vissuti mentali stimolanti rispetto ad una realtà che, senza motivi d'indagini, gli appare monotona. "La mia mente", dice all'amico, "si ribella all'inerzia. MI dia dei problemi, mi dia del lavoro, mi dia il crittogramma più astruso o l'analisi più complicata, ed allora mi sento a mio agio. Posso fare a meno di stimolazioni artificiali. Ma aborrisco la monotona routine dell'esistenza." Sotto questo punto di vista Holmes è visto come un personaggio abnorme e non tanto per l'assunzione di droghe pesanti, le quali sembrano essere incompatibili con un personaggio così rigoroso, ma soprattutto perché tratta gli aspetti della vicenda come semplici dati asserviti al conseguimento dell'esplicazione del caso.  Solitamente, nei gialli classici, l'investigatore è mosso da motivazioni personali e sociali, quali la volontà e la ricerca di una giustizia volta esclusivamente al bene collettivo ed alla "sconfitta del male". Holmes, invece, sembra che conduca le indagini soltanto per un puro diletto intellettuale, per nutrire la propria mente, e non per inseguire una morale dello Stato che risulta quasi assente nel romanzo. Di fatti, l'altro rappresentante del "bene", il commissario di polizia Athelney Jones, al quale è lasciata la parte materiale del lavoro, sembra spinto più che altro da una frenetica ricerca di fama e popolarità, e non da alcun ideale di giustizia e legalità.




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