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LA SCUOLA SICILIANA (LE ORIGINI DELLA POESIA CORTESE)

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LA SCUOLA SICILIANA (LE ORIGINI DELLA POESIA CORTESE)


6° scheda:  la scuola siciliana alla corte di federico II


JACOPO MOSTACCI (prima metà XIII secolo)


5° testo: "Sollicitando un poco meo savere"


PIER DELLA VIGNA (1210ca.-1249)


6° testo: "Però ch'amore no si po' vedere..."




GIACOMO DA LENTINI (attivo 1233-1240)


7° testo: "Amore è un[o] desio che ven da core..."


8° testo: "Io m'ag[g]io posto in core a Dio servire..."


7° scheda:  la scuola siciliana, temi e strutture


STEFANO PROTONOTARO (attivo 1250ca.)


9° testo: "Pir meu cori alligrari,"




































SCHEDA N. 6: LA SCUOLA SICILIANA ALLA CORTE DI FEDERICO II


Si può parlare di scuola, di gruppo, in quanto questi poeti gravitano effettivamente intorno alla corte di Federico II, e perché, pur con le loro   differenze, questi poeti hanno contenuti e strutture poetiche in comune. I poeti siciliani sono i primi ad usare uno dei volgari italiani per scrivere liriche.

Anche la scuola siciliana rientra nel progetto di una egemonia culturale ghibellina ed imperiale, laica e scientifica, che Federico II sviluppa, contrapponendosi al potere papale, alla nascente autonomia delle città del nord, ai poteri feudali dell'Italia del sud. Federico II favorisce la ripresa dello studio del latino, lingua utilizzata dal suo notaio Pier della Vigna, nelle relazioni diplomatiche. L'imperatore svevo dà impulso alla Scuola di Capua, erede di Montecassino nell'arte del comporre (ars dictandi), crea l'Università di Napoli e la celebre Scuola di Medicina di Salerno.

La scuola siciliana si sviluppa tra il secondo e il terzo decennio del secolo e prosegue per pochi anni oltre la morte di Federico II, con suo figlio Manfredi. La Magna Curia di Federico II era mobile e non residente, in modo stabile, a Palermo. I poeti della scuola siciliana sono "notai", maestri nell'ars dictandi, funzionari, amministratori, intellettuali che lavorano per l'imperatore. Anche Federico II e i suoi figli Manfredi ed Enzio ci hanno lasciato pregevoli poesie, nello stile della scuola siciliana. Federico II, che ben conosceva latino, tedesco, francese, provenzale, arabo, greco e volgare siciliano, scrisse anche "De arte venandi cum avibus". Questo trattato non è solo un bellissimo manuale illustrato sull'arte della falconeria, ma è anche uno dei primi trattati di ornitologia.


Per temi e per stile la scuola siciliana proviene dalla poesia provenzale, diffusa e conosciuta nel nord Italia (per esempio alla corte di Ezzelino da Romano) e in Germania attraverso i minnisänger (poeti di corte che, in Austria e Baviera, accompagnano le loro canzoni d'amore con strumenti a corda).

Dante, nel De Vulgari eloquentia, I.XII.1-4, scrive: quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur (qualunque cosa scrivano in poesia gli Italiani è detta siciliana).

Petrarca, nel Trionfo d'Amore, IV. 35-36, incontra tutta una serie di poeti e fra questi: i Ciciliani / che fur già primi.


Buona parte dei testi che attribuiamo alla scuola siciliana è nel Codice Vaticano 3793 (sigla V). E' scritto in volgare toscano e risale alla fine del XIII secolo. Questo codice, che fu dell'umanista e filologo Angelo Colocci (1474-1549), appartiene oggi alla Biblioteca Apostolica Romana. E' composto da 188 carte, raccoglie 999 poesie, divise in due sezioni (sonetti e canzoni). Le poesie sono disposte per aree geografiche e per successione cronologica. Si inizia con la scuola siciliana e si prosegue con i Bolognesi, i Toscani, ecc.


Testi dei Siciliani troviamo anche nel Banco Rari 217 (sigla P) e nel Laurenziano Rediano 9 (sigla L). Il primo è forse il più antico (secolo XIII), è nella Biblioteca Nazionale di Firenze, è composto da 78 carte, ha ricche miniature, fu trascritto forse in area lucchese e contiene molte poesie di Bonagiunta Orbicciani. Il secondo è nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, è composto di 144 carte e dedica ampio spazio alle poesie di Guittone d'Arezzo.








JACOPO MOSTACCI


Della vita di Jacopo Mostacci sappiamo poco o niente. Pensiamo fosse siciliano e che sia vissuto alla corte di Federico II, con un qualche incarico di prestigio. Di questo autore possediamo solo quattro canzoni e il sonetto che segue.


UNA TENZONE SULLA NATURA DELL'AMORE


Imitando la poesia provenzale, Jacopo Mostacci , col suo sonetto "Sollicitando un poco meo savere...", invita Pier della Vigna e Giacomo da Lentini a discutere (tenzone) su cosa sia e come nasca il sentimento d'amore. I Siciliani e poi i poeti del dolce stil novo ben conoscono il trattato De Amore, scritto da Andrea Cappellano, e nel quale erano studiati e descritti tutti i casi e le giustificazioni dell'amore cortese.

I tre sonetti di questa tenzone sull'amore sono scritti intorno al 1241.





SOLLECITANDO UN POCO MEO SAVERE


Sollicitando un poco meo savere

e con lui mi vogliendo dilettare,

un dubïo che mi misi ad avere,

a voi lo mando per determinare. 


Ogn'omo dice ch'amor ha potere

e li coraggi distringe ad amare,

ma eo no [li] lo voglio consentire,

però ch'amore no parse ni pare. 


Ben trova l'om una amorositate

la qual par che nasca di piacere,

e zo vol dire om che sia amore. 


Eo no li saccio altra qualitate;

ma zo che è, da voi [lo] voglio audire:

però ven faccio sentenz[ï]atore




Stimolando un po' il mio desiderio di sapere

e volendomi con lui divertire,

un dubbio che mi son cominciato a porre,

a voi lo mando perché lo risolviate.


Tutti dicono che l'amore ha il potere

ed i cuori costringe ad amare,

ma io non sono d'accordo,

perché l'amore non si vide e non si vede.


Si trova invece un'inclinazione all'amore

la quale sembra nascere dal piacere

e ciò spinge a pensare che l'amore esista .


All'amore non riconosco altra qualità;

ma su questo voglio il vostro parere:

e vi faccio arbitri della questione.




Metrica: sonetto con due quartine e due terzine di endecasillabi. Lo schema metrico è ABAB - ABAB - CDE - CDE. Vi sono due cosiddette rime siciliane:   potere/consentire (potiri/consentiri) e piacere/audire (piaciri/audiri).

SUGGERIMENTI PER L'ANALISI

Per Jacopo Mostacci, promotore della tenzone, l'amore è solo una qualità, un fatto accidentale. Secondo la filosofia del Duecento non ha quindi la dignità di sostanza. Non basta che una sensazione nasca dal piacere per avere consistenza, per esistere, per essere vista.





PIER DELLA VIGNA (fine XI secolo-1249)


Pier della Vigna nacque a Capua, fu giurista e maestro nell'ars dictandi. Non scrisse molto in volgare siciliano e fu protonotaro e logoteta (consigliere personale in politica e in legislazione amministrativa) di Federico II. Accusato di tradimento, fu incarcerato nel 1248 a San Miniato, in Toscana. In carcere venne accecato e morì, forse suicida nel 1249. Pier della Vigna è il protagonista del decimo canto dell'Inferno dantesco, quello dei suicidi. Dante pensava fosse innocente e vittima di invidie di corte, storici contemporanei sono invece di diverso parere.

Pier della Vigna interviene nella tenzone proposta da Jacopo Mostacci, con il sonetto "Però ch'amore no si pò vedere...".



PERO' CH'AMORE NO SI PO' VEDERE...


Però ch'amore no si pò vedere

e no si tratta corporalmente,

manti ne son di sì folle sapere

che credono ch'amore sïa nïente.  


Ma po' ch'amore si face sentire

dentro al cor signoreggiare la gente,



molto maggiore presio de[ve] avere

che se 'l vedessen visibilmente.


Per la vertute de la calamita

come lo ferro at[i]ra no si vede,

ma si lo tira signorevolmente;


e questa cosa a credere mi 'nvita

ch'amore sia ; e dami grande fede

che tuttor sia creduto fra la gente.


VISTO CHE L'AMORE NON SI PUÒ VEDERE


Visto che l'amore non si può vedere

e non si tocca come un corpo,

molti son di così folle idea

che credono che l'amore sia niente.


Ma non appena l'amore si fa sentire

comandare gli uomini dentro il cuore,

molto più pregio deve avere

che lo si vedesse di persona.


Proprio come la forza della calamita

non si vede come attiri il ferro

eppure lo attira con forza irresistibile;


e questo fatto mi spinge a credere

che l'amore esista; e mi dà grande certezza

che sempre la gente a lui obbedisca.




Metrica: sonetto con due quartine e due terzine di endecasillabi. Lo schema metrico è ABAB - ABAB - CDE - CDE. Vi è una cosiddetta rima siciliana palese ed una  nascosta: sentire/avere sentiri/aviri), ma anche vedere/sapere è trascrizione di  vidiri/sapiri.

SUGGERIMENTI PER L'ANALISI

Pier della Vigna prende posizione diametralmente opposta a quella di Jacopo Mostacci: amore esiste davvero, è sostanza e non accidente. Il poeta ripropone inoltre temi e dimostrazioni di origine provenzale: l'amore è signore dispotico, l'amore ha la forza della calamita, attira ma non si vede. Il tema della forza della calamita lo ritoveremo anche nel manifesto del dolce stil novo di Guinizzelli (Al cor gentile rempaira sempre amore).






GIACOMO DA LENTINI


Anche sulla vita di Giacomo da Lentini, non abbiamo molte notizie. Sappiamo che fu funzionario imperiale tra il 1233 e il 1241. Dante (Purgatorio, XXIV, 16) e i Toscani lo chiamano il Notaro, come d'altra parte lui stesso si firmava (Jacobus de Lentino, dominis Imperatori notarius). Il suo canzoniere è oggi composto di 38 testi, canzoni, canzonette e sonetti. E' ritenuto l'inventore del sonetto. Le sue poesie sono le prime del Codice Vaticano Latino 3793 e Dante stesso lo considera il massimo esponente della Scuola Siciliana.



AMORE E' UN[O] DESIO CHE VEN DA CORE...


Amore è un[o] desio che ven da core

per abondanza di gran piacimento;

e li occhi in prima genera[n] l'amore

e lo core li dà nutricamento. 


Ben è alcuna fiata om amatore

senza vedere so 'namoramento,

ma quell'amor che stringe con furore

da la vista de li occhi ha nas[c]imento:


ché li occhi rappresenta[n] a lo core

d'onni cosa che veden bono e rio,

com'è formata natural[e]mente; 


e lo cor, che di zo è concepitore,

imagina, e [li] piace quel desio:

e questo amore regna fra la gente.   


AMORE E' UN DESIDERIO CHE VIEN DAL CUORE


Amore è un desiderio che vien dal cuore

e deriva dall'eccesso di piacere:

e gli occhi per primi generano l'amore

e dopo il cuore gli dà alimento.



Ci potrà essere qualche volta uno che ami

senza vedere l'oggetto del suo amore,

ma quell'amore che lega con passione

nasce dagli occhi che vedono la donna:


poiché gli occhi rappresentano al cuore

ciò che è buono e cattivo in ogni cosa,

così come è sua forma naturale;



e il cuore che ciò accoglie,

immagina la donna e gli piace quel desiderio:

e questo è l'amore che regna tra le genti.



Metrica: sonetto con due quartine e due terzine di endecasillabi. Lo schema metrico è ABAB - ABAB - CDE - CDE.

SUGGERIMENTI PER L'ANALISI

Giacomo da Lentini esce dalla tenzone su cosa sia amore e preferisce analizzare come nasca e come si sviluppi. Ribadisce l'importanza dell'esperienza visiva, già analizzata da Andrea Cappellano. La costruzione occhi-cuore verrà fatta propria anche dai poeti del dolce stil novo. L'ultimo verso del sonetto di Giacomo da Lentini è una ripresa dell'ultimo verso del sonetto di Pier della Vigna.






GIACOMO DA LENTINI


IO M'AG[G]IO POSTO IN CORE A DIO SERVIRE...


Io m'ag[g]io posto in core a Dio servire,

com'io potesse gire in paradiso,

al santo loco ch'ag[g]io audito dire,

u' si manten sollazzo, gioco e riso.


Sanza mia donna non vi vorria gire,

quella c'ha blonda testa e claro viso

ché sanza lei non poteria gaudere,

estando da la mia donna diviso. 8


Ma non lo dico a tale intendimento,

perch'io pec[c]ato ci volesse fare;

se non vedere lo suo bel portamento


e lo bel viso e 'l morbido sguardare:

ché lo mi teria in gran consolamento,

veg[g]endo la mia donna in ghiora stare






MI SON POSTO IN CUORE DI SERVIRE DIO


Mi son posto in cuore di servire Dio,

affinché io potessi andare in paradiso,

al santo luogo dove ho sentito dire

divertimento, gioco e riso siano eterni.


Ma senza la mia donna non vi vorrei andare,

quella che ha biondi capelli e luminoso volto,

poiché senza di lei non potrei essere felice,

stando separato dalla mia donna.



Ma non lo dico col proposito

che io voglia con lei peccare;

vorei solo vedere l suo nobile agire



e i suoi occhi e il suo dolce guardare:

sarebbe per me grande consolazione

vedere la mia donna nella gloria del paradiso.




Metrica: sonetto con due quartine e due terzine di endecasillabi. Lo schema metrico è ABAB - ABAB - CDC - DCD. Una rima cosiddetta siciliana: gire/gaudere (gire/gaudire).

SUGGERIMENTI PER L'ANALISI

In questo sonetto Giacomo da Lentini propone un'audace contaminazione: il Paradiso terrestre, dove si serve Dio, corrisponde alla corte di Federico II, dove si serve l'imperatore e quindi, secondo la tradizione provenzale, vi regnano eterni sollazzo, gioco e riso. Ovvio complemento di questa situazione privilegiata sarà quindi la presenza della propria amata, descritta secondo i canoni provenzali (bionda e con lo sguardo dolce). A questo punto il poeta si rende conto di essersi spinto oltre una visione spirituale ed aggrava la contaminazione allontanando da sé il sospetto del peccato. Ma proprio parlando di peccato è chiaro che materializza il paradiso e non rende più etereo il proprio concreto rapporto d'amore. E' iperbole del paradiso che definisce la bellezza cortese della donna e non la spiritualità che la rende degna della gloria del paradiso.








SCHEDA N. 7: LA SCUOLA SICILIANA, TEMI E STRUTTURE.


Di origine provenzale è tema del fino amor. La donna amata è però  sempre meno la Signora di Corte e sempre più una figura ideale, un'interlocutrice eletta. Scompaiono le occasioni reali (la partenza dell'amato, il pianto dell'amata) tipici della poesia provenzale, scompaiono i riferimenti storici e di cronaca, la donna è una realtà astratta e non concreta. Scompare anche ogni tema legato alla cronaca politica, che nella poesia provenzale veniva narrato nei sirventesi. Alla corte imperiale di Federico II non vi è poi un clima di libero dibattito o un vuoto di potere centrale come poteva avvenire in Provenza.


Poesie e canzoni possono essere occasioni di tenzoni o dispute dottrinali, anche se il tema privilegiato sarà la natura dell'amore. La poesia provenzale era accompagnata dalla musica, la poesia dei siciliani è letteraria e non vi è traccia di un uso della musica. Le strutture poetiche preferite dai siciliani sono il sonetto, la cui invenzione è attribuita a Giacomo da Lentini, la canzone e la canzonetta.


La canzone deriva dalla provenzale cansó, è formata da strofe o stanze (coblas). L'edificio della canzone si basa su due parti, la fronte e la sirma (o sirima o coda). La fronte si divide in due piedi, la sirma in due volte. Le misure canoniche sono l'endecasillabo e il settenario, ma i siciliani usano anche altri metri. Frequente è l'uso della ripresa (coblas capfinidas): un termine o un concetto è presente a fine strofa e ad inizio della seguente.Il sonetto (in provenzale il termine sonet significa testo poetico con musica) è composto da due quartine e due terzine di endecasillabi. Come la canzone è costruito con quattro elementi raccolti in due coppie. Di solito la canzone tratta d'amore ed è scritta in lingua colta e raffinata, la canzonetta e il sonetto sono invece  dialogati e lo stile è più colloquiale. Ciò dipende però anche dalle singole scelte stilistiche dei poeti.


La toscanizzazione dei testi siciliani, avvenuta fin dall'inizio della loro diffusione comporta tutta una serie di imperfezioni nelle rime (dagli originali placiri e partiri ai toscani piacere e partire, da usu e amorusu ad uso e amoroso). Questa imperfezione metrica fu chiamata rima siciliana, ed attribuita direttamente ai poeti siciliani e non ai loro traduttori in volgare toscano. Da qui nasce il fatto paradossale che rimatori in volgare toscano imiteranno intenzionalmente questa rima imperfetta, convinti di imitare così la scuola siciliana.


Abbiamo testimonianze indirette della lingua originale dei Siciliani. L'umanista e filologo Giovanni Maria Barbieri (Modena 1519-1574) copiò da un cosiddetto Libro Siciliano una canzone di Stefano Protonotaro (Pir meu cori alligrari) e brani di due canzoni di Re Enzo e di una canzone di Guido delle Colonne. Può darsi che la perdita dei codici della poesia siciliana nei testi originali, sia dovuta al repentino crollo del sistema imperiale ghibellino con la sconfitta di Benevento.














STEFANO PROTONOTARO


Poco o niente sappiamo di Stefano Protonotaro. E' probabile che sia Stefano da Messina che tradusse dal greco in latino due testi arabi di astronomia: "Liber Revolutionum",  "Flores Astronomiae" (dedicandoli a Manfredi, figlio naturale di Federico II). E' uno scrittore attivo verso la metà del XIII secolo.

Sono a lui attribuite 4 canzoni (una però è dubbia). Manca il manoscritto originale o coevo, ne abbiamo una trascrizione in un testo del Cinquecento di Gian Maria Barbieri.



PIR MEU CORI ALLIGRARI


Pir meu cori alligrari,

chi multu longiamenti

senza alligranza e joi d'amuri è statu,

mi ritornu in cantari

ca forsi levimenti

da dimuranza turniria in usatu

di lu troppu taciri;

e quandu l'omu ha rasuni di diri

ben di' cantari e mustrari aligranza

ca senza dimustranza

joi siria sempri di pocu valuri:

dunca ben di' cantar onni amaduri.


E si ben amari

cantau jujisamenti

omu chi avisii in alcun tempu amatu,

ben lu diviria fari

plui dilittusamenti

eu, chi son di tal donna inamuratu,

dundi è dulci placiri,

preju e valenza e jujusi pariri

e di billizzi cutant'abundanza

chi illu m'è pir simblanza,

quandu eu la guardu, sintir la dulzuri

chi fa la tigra in illu miraturi





Per rallegrare il mio cuore,

che molto a lungo

senza allegria e gioie d'amore è stato,

me ne ritorno a scivere canzoni,

perché forse facilmente

il restare in un lungo tacere potrebbe

trasformarsi in abitudine;

e quando l'uomo ha motivi per poetare,

giustamente deve cantare e mostrar gioia,

perché senza manifestarla

la gioia sarebbe sempre di poco valore:

perciò deve davvero cantare ogni amante.



E se per ben amare

cantò gioiosamente l'uomo

che avesse in un qualche tempo amato,

ben lo dovrei fare

e con più diletto

io, che son di tal donna innamorato,

nella quale è dolce piacere,

pregio e valore e gioioso apparire

e di bellezze così grande abbondanza

che mi sembra,

quando la guardo, sentir la dolcezza

che sente la tigre nel guardarsi allo specchio.



Metrica: Canzone composta da cinque stanze (ne riportiamo solo le prime due) più un congedo o tornada. Ogni stanza ha identico schema metrico (unissonans) abC abC dDEeFF. E' presente anche la tecnica della ripresa o capfinidas (legame tra verso finale e verso iniziale delle strofe): amaduri/amari (vv.12-13).




SUGGERIMENTI PER L'ANALISI

Se dobbiamo prestare fede, e non c'è motivo per non farlo, a quanto scrive l'umanista Gian Maria Barbieri, che afferma aver copiato questo testo, nel Cinquecento,  da un manoscritto del Duecento, ci troviamo di fronte all'unico caso di poesia in volgare siciliano non tradotta in volgare toscano.

Si notano subito quanto stretti siano i legami con la tradizione provenzale, sia per la struttura metrica, sia per il lessico. La similitudine con la tigre è tratta da una canzone del trovatore francese Rigaut de Berbezilh.

Stefano Protonotaro delinea un concezione della donna che ritroveremo poi anche nei poeti del dolce stil novo: la bellezza della donna non è solo fonte d'amore ma anche fonte di gioia e di poesia.   




Ogn'omo dice: si dice che. E' una forma impersonale (omo corrisponde all'impersonale on francese).
coraggi: cuori (dal provenzale).
amorositate: inclinazione ad amare.
sentenziatore: arbitro.
manti: molti (dal francese maint).
signoreggiare: un potere irresistibile e dispotico.
presio: pregio.
ch'amore sia: che l'amore esista davvero e sia sostanza e non accidente.
sia creduto: la gente obbedisca.
alcuna fiata: talvolta.
zo: ciò.
gire: andare.
u': dove.
claro viso: ci si riferisce al visus, cioè allo sguardo.
portamento = secondo la tradizione provenzale e cortese va inteso in senso morale e non fisico, quindi agire pieno di dignità.
ghiora: gloria. E' molto probabilmente una trascrizione dialettale toscana.
longiamenti: molto a lungo (provenzale).
cantari: scrivere canzoni.
levimenti: facilmente.
usatu: abitudine.
diri: scrivere poesie.
aligranza: allegria (provenzale).
dundi: dalla quale proviene...

miratu: specchio.






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