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Gabriele D'Annunzio - La vita come opera d'arte

italiano



Gabriele D'Annunzio


La vita come opera d'arte  La vita di D'Annunzio può essere considerata una delle sue opere più interessanti: secondo i princìpi dell'estetismo bisognava fare della vita un'opera d'arte, e D'Annunzio fu co­stantemente teso alla ricerca di questo obiettivo. Nato nel 1863 a Pescara da agiata famiglia borghese, i Rapagnetta, fu adottato dallo zio D'Annunzio poiché suo padre era un uomo collerico e amante dei vizi e delle donne. Studiò in una delle scuole più aristocratiche dell'Italia del tempo, il collegio Cicognini di Prato.

La vita mondana a Roma    Raggiunta la licenza liceale, a diciotto anni, si trasferì a Roma per frequentare l'università. In realtà abbandonò presto gli studi, preferendo vivere tra salotti mondani e redazioni di giornali. Acquistò subito notorietà, sia attraverso una copiosa produzione di versi, di opere narrati­ve, di articoli giornalistici, che spesso suscitavano scandalo per i loro contenuti erotici, sia at­traverso una vita altrettanto scandalosa, per i princìpi morali dell'epoca, fatta di continue avventure galanti, lusso, duelli. A diciotto anni fugge con la giovane Maria Harduin di Gallese che è costretto a sposare perchè rimasta incinta. Da lei, sua unica moglie, avrà tre figli ma la tradirà sempre.



La maschera dell'esteta D'Annunzio si crea la maschera dell'esteta, dell'individuo superiore, dalla squisita sensibilità, che rifiuta inorridito la mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte, e che disprezza la morale corrente, accettan­do come regola di vita solo il bello.

II mito  del superuomo Dopo aver attraversato una crisi lo scrittore cercò così nuove soluzioni, e le trovò in un nuovo mito, quello del superuomo, ispirato approssimativamente alle teorie del filosofo tedesco Nietzsche, un mito non più soltanto di bellez­za, ma di energia eroica, attivistica.

Il «vivere inimitabile» D'Annunzio puntava a creare l'immagine di una vita eccezionale (il «vivere inimitabile»), sottratta alle norme del vivere co­mune. Colpiva soprattutto la fantasia del pubblico borghese la villa della Capponcina, sui col­li di Fiesole, dove D'Annunzio conduceva una vita da principe rinascimentale, tra oggetti d'arte, stoffe preziose, cavalli e levrieri di razza. A creargli intorno un alone di mito contribuivano an­che i suoi amori, specie quello, lungo e tormentato, che lo legò alla grandissima attrice Eleo­nora Duse ma anche quello con la figlia del ministro Rudini. Le sue numerose storie dimostrano una sua sessualità disturbata, poichè temeva moltissimo l'eterno femminino.

Le esigenze del mercato    In realtà, in questo disprezzo per la vita comune ed in questa ricerca di una vita d'eccezione, D'Annunzio era strettamente legato alle esigenze del sistema economico del suo tempo: con le sue esibizioni clamorose ed i suoi scandali lo scrittore voleva mettersi in primo piano nell'attenzione pubblica, per vendere meglio la sua immagine e i suoi prodotti letterari. Gli editori gli pagavano somme favolose, ma quel fiume di denaro non era mai sufficiente alla sua vita lussuosa. Quindi, paradossalmente, il culto della bellezza ed il «vivere inimitabile»,superomistico, risultavano essere finalizzati al loro contrario, a ciò che D'Annunzio ostentava di disprezzare, il denaro e le esigenze del mercato: proprio lo scrittore più ostile al mondo borghese era in realtà il più legato alle sue leggi; proprio lo scrittore che più spregiava la

massa, era costretto a solleticarla e a lusingarla. E una contraddizione che D'Annunzio non riuscì mai a superare.

L'avventura politica    Ma, in obbedienza alla nuova immagine mitica che voleva creare di sé, D'Annunzio non si accontentava più dell'eccezionalità di un vivere puramente estetico: vagheggiava anche sogni di attivismo politico. Per questo, nel 1897, tentò l'avventura parlamentare, come deputa­to dell'estrema destra, in coerenza con le idee affidate ai libri, in cui esponeva con veemenza il suo disprezzo per i princìpi democratici ed egualitari, il suo sogno di una restaurazione della grandezza di Roma e di una missione imperiale dell'Italia, del dominio di una nuova aristo­crazia che ripristinasse il valore della bellezza contaminato dal dominio borghese. Ciò non gli impedì, nel 1900, di passare allo schieramento di sinistra («Vado verso la vita!»): ma non deve meravigliare, perché questa ambigua disponibilità è propria delle posizioni irrazionalistiche, estetizzanti e vitalistiche, che sono sempre attratte dalle manifestazioni di forza ed energia vi­tale, qualunque orientamento ideologico esse seguano.

Il teatro Cercando uno strumento con cui agire più direttamente sulle folle per imporre il suo verbo di "vate", D'Annunzio a partire dal 1898 si rivolse anche al teatro, che poteva raggiunge­re un più vasto pubblico che non i libri.

La fuga in Francia   Nel 1910 D'Annunzio, a causa dei creditori inferociti, fu costretto a fuggire dall'Italia e a rifugiarsi in Francia, ad Archaon.

In guerra   L'occasione tanto attesa per l'azione eroica gli fu offerta dalla prima guerra mondiale. Allo scoppio del conflitto D'Annunzio tornò in Italia ed iniziò un'intensa campagna interventi­sta, che ebbe un peso notevole nello spingere l'Italia in guerra, galvanizzando l'opinione pub­blica. Arruolatosi volontario nonostante l'età non più giovanile (52 anni), attirò nuovamente su di sé l'attenzione con imprese clamorose, la «beffa di Buccari» (un'incursione nel Carnaro con una flotta di motosiluranti, i MAS a cui riconduceva il motto memento ausare semper), il volo su Vienna per lanciare volantini. Anche la guerra di D'Annunzio fu una guerra ec­cezionale, non combattuta nel fango e nella sporcizia delle trincee, ma nei cieli, attraverso la nuovissima arma, l'aereo.

L'impresa fiumana  Nel dopoguerra D'Annunzio si fece interprete dei rancori per la «vittoria mutilata» che fermentavano trai reduci, capeggiando una marcia di volontari su Fiu­me, dove instaurò un dominio personale sfidando lo Stato italiano.

I rapporti col fascismo    Scacciato con le armi nel 1920, sperò di proporsi come «duce» di una «rivoluzione» reazionaria, che riportasse ordine nel caos sociale del dopoguerra, ma fu scalzato da un più abile politico, Benito Mussolini. Il fascismo poi lo esaltò come padre della patria, ma lo guardò anche con sospetto, confinandolo praticamente in una sontuosa villa di Gardone, che D'Annunzio trasformò in un mauso­leo eretto a se stesso ancora vivente, il «Vittoriale degli Italiani».

L'influenza dannunziana sulla cultura e la società  D'Annunzio attraversò oltre un cinquantennio di cultura italiana, influenzandola profondamente in numerose fasi con la sua produzione sovrabbondante; un influsso altrettanto profondo esercitò sulla politica, poiché elaborò ideologie, atteggiamenti, persino slogan che furono fatti propri dal fascismo (il «Mare nostro», le «folle oceaniche»); influenzò anche il cinema, che ai suoi esordi, negli anni Dieci, fu profondamen­te dannunziano (lo scrittore stesso collaborò, per denaro, alle didascalie di un kolossal di ambientazione antica, Cabiria).


La fase della bontà pag 92

Dopo la crisi dell'estetismo, D'Annunzio attraversa quella che egli stesso definisce fase della bontà, anche se questa definizione si adatta più alla intenzioni dell'autore che alla realtà dei testi. In questa fase D'Annunzio scrive l'Innocente in cui esprime un'esigenza di rigenerazione e di purezza, attraverso il recupero del legame coniugale e della vita a contatto con la campagna, ma esplora anche una contorta psicologia omicida. Scrive anche la raccolta poetica del Poema paradisiaco in cui afferma di voler recuperare l'innocenza dell'infanzia e ritornare alle cose semplici, agli affetti familiari. Si tratta però di intenzioni piuttosto superficiali e poco sincere.

L'Innocente    il romanzo illustra un'altro personaggio decadente: quello del mostro, l'uomo sposato con una bella donna che lo ama, ma è portato continuamente a tradirla a causa di un disturbo celebrale, di un impulso irrefrenabile (ispirato alle opere mediche di Lombroso). Stanca dei continui tradimenti la moglie lo tradisce a sua volta ma, mentre si fa bella cantando L'Orfeo di Gruck, il marito intuisce il tradimento. La donna da alla luce il figlio avuto dall'amante, "l'innocente", e il marito, volendo riavvicinarsi a lei ma vedendo il bambino come ostacolo, decide di uccidere il piccolo esponendolo al gelo (l'autore dimostra una forte vena di crudeltà e di sadismo nelle descrizioni). La coppia è riconciliata, ma fortemente turbata, da questo orribile segreto.

Il trionfo della morte pag 93

La malattia interiore e 1a ricerca di un senso alla vita  L'eroe, Giorgio Aurispa, è un esteta, non dissimile da Andrea Sperelli. Travagliato da un'oscura malattia interiore, che lo svuota delle energie vitali, Giorgio va alla ricerca di un nuovo senso della vita, che permetta di attingere all'equilibrio e alla pienezza. Un breve rientro nella sua famiglia acuisce la crisi dell'eroe perché reimmergersi nel groviglio di nevrosi della vita familiare, e soprattutto rivivere il conflitto col padre, fi­gura dominatrice ma anche ignobile e ripugnante, contribuisce a minare le sue energie vitali: per questo è indotto a identificarsi con un'altra figura paterna, quella dello zio Demetrio, a lui simile nella sensibilità e morto suicida. La ricerca porta Giorgio a tentare di riscoprire le ra­dici della sua stirpe: insieme con la donna amata, Ippolita Sanzio, si ritira in un villaggio abruz­zese sulle rive dell'Adriatico, e qui riscopre il volto primordiale della sua gente, i suoi arcaici costumi, le credenze magico-superstiziose, il fanatismo religioso esaltato. Da quel mondo bar­barico e primitivo il raffinato esteta è però disgustato e respinto, soprattutto dopo aver assi­stito agli orrori anche fisici del pellegrinaggio degli ammalati al santuario di Casalbordino, scene violente e ricche del furore del culto popolare: in quella direzione la sua ricerca fallisce. Fallisce egualmente la via del misticismo religioso.

La soluzione nietzschiana   La soluzione gli si affaccia nel messaggio di Nietzsche, in un'immersione nella vita in tutta la sua pienezza, ma l'eroe non è ancora in grado di realizzare il progetto; si oppongono le forze oscure della sua psiche, che si oggettivano nelle sembianze della donna, Ippolita. Questa è brutta, scura, dai capelli crespi, ma dotata di un grande fascino, quello dell'eterno femminino. La lussuria consuma le forze di Giorgio, gli impedisce di attingere all'ideale superumano a cui aspira.

La «Nemica. e il prevalere della morte  Prevalgono in lui, sull'aspirazione alla «vita» piena e gioiosa, le forze negative della «morte», come suggerisce il titolo; ed egli al termine del romanzo si uccide, trascinando con sé nel precipizio la donna amata definita «Nemica».


Le vergini delle rocce pag 94

Sdegno antiborghese e disegni imperiali   L'eroe, Claudio Cantelmo, sdegnoso della realtà borghese contemporanea, del liberalismo politico e dell'affarismo dell'Italia postunitaria, vuole portare a compimento in sé «l'ideal tipo latino» e generare il superuomo, il futuro re di Roma che guiderà l'Italia a de­stini imperiali.. In questo scenario di decaden­za, disfacimento e morte l'eroe cerca colei che dovrà essere la sua compagna fra le tre figlie del principe Montaga.

L'attrazione per la putredine e la morte    Ma questa scelta è profondamente ambigua: dietro i propositi vitalistici, eroici, trionfali pare celare una segreta e più autentica attrazione proprio per la «putredine», la decadenza e la morte. Il vitalismo esasperato, l'attivismo eroico sembrano solo essere tentativi per esorcizzare l'immagine della morte che ossessiona e affascina inesorabilmente lo scrittore. L'eroe scende in questo inferno della decadenza, spirituale e fisica, sicuro di trarne vi­gore per la sua impresa, e invece finisce per restarne prigioniero. Ciò è rivelato dall'allusiva con­clusione del romanzo. Si ripete abitualmente che Cantelmo non riesce a scegliere fra le tre prin­cipesse, e che il romanzo si chiude sulla sua perplessità. In realtà l'eroe sceglie la sua compa­gna: è Anatolia, quella delle tre sorelle che ha la maestà e la forza interiore di una regina. Ma questa non può seguire l'eroe nel suo cammino di gloria, perché è legata al triste destino della famiglia, deve accudire la madre demente, i fratelli deboli e malati, il vecchio padre.

II fascino della donna fatale    L'eroe sog­giace quindi al fascino della bellezza di Violante, colei che si sta uccidendo lentamente coi profumi, inconfondibile incarnazione della cupa donna fatale: che è immagine non di fecondità creatrice, ma di un Eros perverso, distruttivo e crudele, un'immagine, in definitiva, di morte, affine a quella della «Nemica» nel Trionfo della morte. Ad onta delle loro velleità attivistiche ed eroiche i protagonisti dannunziani restano sempre deboli e sconfitti, incapaci di tradurre le loro aspirazioni in azione. La decadenza, il disfacimento, la morte esercitano sempre su di es­si, che dovrebbero essere gli eroi della vita e della forza, un'irresistibile attrazione.

Il ciclo "del giglio" È vero che Le vergini delle rocce doveva essere solo il primo romanzo di un ciclo «del giglio», e che nei due romanzi successivi l'eroe avrebbe dovuto raggiungere le sue mete: ma è significativo che questi romanzi non furono mai scritti.


Le Laudi pag 97

Nel campo della lirica D'Annunzio si propone di esprimere la sua visione totale della realtà a sette libri di Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. Nel 1903 pubblica i primi tre, Maia, Elettra, Alcyone; il quarto libro, Merope, viene messo insieme raccogliendo le Canzoni della gesta d'oltremare, dedicate all'impresa in Libia; postumo fu aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende poesie ispirate alla prima guerra mondiale. I titoli dei libri derivano dai nomi delle Pleiadi.

Maia il primo libro è un lungo poema unitario in versi liberi. Il suo sottotitolo è Laus vitae, lode della vita. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D'Annunzio. L'"io" protagonista si presenta come eroe "ulisside" proteso verso tutte le esperienze. Il poeta inneggia poi ad aspetti tipici della modernità quali il capitale, la finanza internazionale, i capitani d'industria, le macchine, poichè esse racchiudono in sé possenti energie, che possono essere indirizzate a fini eroici e imperiali.

Elettra nel secondo libro vi è la celebrazione della romanità in chiave eroica, che si fonde con quella del risorgimento. Cantando questo passato glorioso il poeta si propone esplicitamente come vate di futuri destini imperiali, coloniali e guerreschi d'Italia.

Alcyone il tema del libro è la fusione panica con la natura: si presenta infatti come diario ideale di una vacanza estiva, dai colli fiesolani alle coste tirreniche tra Marina di Pisa e la Versilia. La poetica dell'Alcyone è stata vista da molti come pura, sgombra dall'ideologia del superuomo e dalla retorica, rispondente solo all'ispirazione del rapporto sensuale con la natura.


La sera fiesolana pag 151

v. 1-14

Il poeta si augura che le sue parole siano fresche come il fruscio delle foglie del gelso che un contadino silenzioso raccoglie quando il fusto dell'albero sembra argentato per il riflesso della luna che è prossima ad emergere dalle soglie cerule del cielo. Il poeta e la sua donna contemplano il paesaggio della sera immersi in un sogno estatico. Il chiarore emanato dalla luna, ancora dietro l'orizzonte, si distende come un velo sulla campagna che si sente già sommersa dal fresco notturno, refrigerio e ristoro dopo gli ardori del giorno.

v. 15-17

Sia lodata la sera dal viso di perla, dai grandi occhi umidi dove tace l'acqua del cielo(sinestesia).

v. 18-31

Le parole del poeta siano dolci nella sera come la pioggia che bruiva(verbo ripreso da Verlaine), accomiato della primavera che lascia posto all'estate. La pioggia cadeva su ogni cosa: sui gelsi, sugli olmi, sulle viti, sui pini le cui pigne novelle sembrano dita che giocano con il vento, sul grano non ancora maturo, sul fieno tagliato, sugli ulivi che danno ai clivi un 'aura di santità.

v. 32-34

Sia lodata la sera per le sue vesti aulenti(profumate) e per l'orizzonte che la cinge come il ramo del salice cinge il fieno.

v. 35-48

Il poeta descriverà come la voce del fiume risuoni di inviti d'amore, le cui fonti parlano di un mistero sacro, e dirà per quale segreto le colline si incurvino come labbra che vogliano parlare ma siano chiuse da un divieto. Il loro desiderio di parlare le rende bellissime e consolatrici, per cui ogni sera l'anima le ama sempre di più.

v. 49-51

Sia lodata la sera per la sua pura morte nella notte e per l'attesa che fa palpitare le prime stelle.


Note: la poesia è costituita da tre strofe intercalate da laudi. Ciò richiama le laudi francescane, ma d'altronde l'attrazione morbosa e un po' blasfema per il misticismo e il francescanesimo è una nota tipica decadente, richiama al compiacimento nella ricerca della purezza. Il sogno ed il velo citati nella prima strofa alludono alla dimensione misteriosa della natura in cui l'uomo e la donna sono inseriti. L'amore è infatti il mistero più elevato quasi sacro. Il divieto di conoscere il segreto della natura è la condizione umana stessa. Accanto alle citazione mistiche e francescane si citano personaggi mitici pagani (le personificazioni di Sera e Luna, figure femminili fuggenti e misteriose) nell'intento di cogliere la spiritualità in ogni suo aspetto.


Nella belletta pag 166

v. 1-8

Nella fanghiglia delle paludi i giunchi hanno l'odore di pesche troppo mature, quasi fradice, e delle rose appassite, del miele andato a male, della morte. Ad agosto il sole sembra cuocere tutta la palude, che sembra un fiore di fango, con una indescrivibile afa di morte. La rana tace se ci si avvicina, le bolle d'aria, dovute alla putrefazione del fondo, emergono in superficie silenziosamente.


Note: nella prima strofa emergono odori corrotti, amati dai decadenti. Nella seconda l'ineffabile, che Dante aveva provato per definire l'Altissimo, è sentito da D'Annunzio per l'infima palude. La poesia descrive la putredine dell'estate, argomento amato dai decadenti come il contrasto salute-malattia.


Stabat nuda aestas

v. 1-8

Anzitutto vidi il piede sottile sfiorare il suolo coperto di aghi di pino secchi,dove l'aria ardeva e sembrava tremare come una fiamma che si spande. Le cicale tacquero e i ruscelli si fecero più rochi. La resina scese più abbondante dai fusti. Dall'odore sentii la presenza della biscia.

v. 9-16

La raggiunsi nel bosco degli ulivi. Vidi l'ombra degli alberi sulla bella schiena, i capelli fulvi svolazzare senza suono in mezzo alle piante di ulivo. Più lontano nel campo pieno di stoppie l'allodola balzò per chiamarla. Anche io la chiamai per nome.

v. 17-24

Ella attraversò gli oleandri, e il falasco(pianta palustre) bronzeo che si richiudeva con strepitii dopo il passaggio della dea. Più lontano verso il lido cadde distesa tra la sabbia e l'acqua, con il vento di ponente che portava schiuma nei suoi capelli. Appare l'immensa nudità.


Note: il titolo del componimento è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio: "stabat nuda aestas et spicea serta tenebat" (nuda l'estate stava e portava ghirlande di spighe.). La poesia descrive l'inseguimento da parte del poeta dell'estate, donna bellissima, difesa dalla natura che si schiera contro il poeta ma invano. Intuiamo infatti che il poeta riuscirà nel suo stupro dell'estate, che come avviene secondo il principio del panismo, permette al poeta di godere tutto della natura.




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